Il ragazzo di San Boldo. Lo guardi, il cielo, là all’orizzonte, le scruti, lo leggi, non puoi mai sapere. Il mare è così. Michele ne aveva rispetto e il mare lo aveva rispettato. Per anni era stato la sua casa e ne portava l’odore nella pelle. Ne aveva viste di burrasche e le più pericolose erano state quelle che s’erano affacciate all’improvviso, senza farsi annunciare. Quando s’era rabbuiato d’un tratto il cielo, come d’una rabbia improvvisa; solo uno scatto d’ira. Nate dal nulla e dal silenzio. Con onde che si alzavano come cattedrali con bianche barbe ad ornare le guglie come marmi. Ma lui era nato uomo d’acqua anche se non s’era mai permesso di darle del tu. Meglio diffidare perché quando la sorte distribuisce le carte non guarda in faccia a nessuno.
Ormai viveva di ricordi, ricordi senza rimpianti. La città che aveva ritrovato non era più la stessa; allo stesso modo lo era. Venezia è una città che non ha mai voluto cambiare. Erano solo i volti che non gli parevano quelli di allora. La lingua che faticava a ritrovare eppure aveva un suono gradevole, lo stesso dei pensieri che lo avevano sempre accompagnato. Che gli avevano fatto compagnia in mare. Eppure le calli, quelle, dovevano essere le stesse. Quella lingua da cui doveva tradurre le sue lettere. Perché, di lettere, ne aveva lasciata almeno una in ogni porto. Non sempre le aveva spedite. Alcune le aveva conservate. Le più preziose. Quelle che gli facevano più male. Le più faticate. E il tempo non era passato solo su di lui ma anche su quella carta.
Non ricordava più cosa lo aveva spinto a partire. Non lo voleva ricordare. Certo lo spirito dell’avventura. Certo quel bisogno di sentirsi uomo. Alcune letture; si crede troppo, da ragazzi, a ciò che si legge. Come se la vita fosse romanzo e il romanzo vita. E aveva preferito rinunciare ad una camicia, a due paia di calzini, ma aveva lasciato posto per i suoi libri. I suoi libri e quella fiasca di vino rosso. Non gli era servita granché, per molte sera aveva pianto. E’ stupido capire le cose solo dopo che sono successe. E’ come guardare negli occhi un annegato. Non è più uomo, non ha più anima, è solo orrore. Dopo è un’altra cosa. E nemmeno sai se sono vere o se sono solo memoria. Eccole lì le sue parole difficile. Legate con un nastro rosso. Sembravano molte, troppe, forse non bastavano dopo più di 40 anni di avventura. Giovanni gli aveva detto, appena visto: “Ancora rosso, vero”? Giovanni accennava al vino e aveva versato un bicchiere per sé e due per l’amico ritrovato. Senza aspettare risposta. “E’ ancora bella, forse non come allora”. Ma questo era successo solo dopo. Forse era stato per lei. Che confusione. Appena passate le cose si accalcano e non rispettano nulla, tanto meno i tempi sul calendario.
In realtà gironzolava. Ne aveva avuto abbastanza di viaggi. Era tornato. Si ripeteva la parola in testa. Qualcosa cercava di convincerlo. Non era sicuro che non sarebbe ripartito, ancora una volta, una volta ancora. Si sentiva come quei turisti e loro non potevano riconoscerlo. Non sapevano niente di lui. Ormai nessuno poteva riconoscerlo. E guardava i posti che gli erano stati famigliari e allo stesso tempo li riscopriva come una vecchia prima volta. Li riscopriva incontrandoli. Quel maledetto fascino di già detto che ti assale all’improvviso, senza preavviso alcuno. Proprio come era successo tante volte in mare. A seguire le scie bianche tracciare da delfini che squittivano. Allora perché aveva guardato con tremore al lungo planare di gabbiani e alle loro grida? Perché se tutto doveva rimanere così uguale e così incerto? Ne aveva messo di tempo per rendersi conto d’essere tornato uomo di terra. Per troppo s’era ritrovato come un cucciolo impaurito, braccato, ormai incapace di camminare. Forse doveva essere così, quando si respira salsedine per lungo tempo sembra che all’aria manchi l’aria, se non ne conserva l’odore trattenendolo a sé.
All’angolo avevano sventrato la pietra, lo ricordava ancora. Ne era uscito un vecchio convento di suore. Qualcosa del genere. Così gliel’avevano raccontata. Cataste e cataste di teschi e di ossa accatastate. Le aveva viste con i suoi occhi. A lui bambino erano sembrate venire da un posto che gli era sconosciuto. La morte continuava a fargli paura, ma solo quella degli altri. Quella che poteva vedere. Le aveva guardate e aveva imparato subito che le avrebbe ricordate. Su quel posto era stato aperto un negozio di cornici. Poi il campo si allungava regolare, sempre fronteggiato da case squadrate come scatole; caseggiati severi e senza fronzoli. Nel mezzo la vera da pozzo, bianca del marmo di cui era fatta. Due gradini scorrevano intorno al cilindro. No! non era mai stato un ragazzo di Sant’Agostin. Si cresce e si resta gelosi dei posti che hanno visto il bambino farsi ragazzino, difendere quello spazio, creargli confini, inventarsi una identità. Lui era di San Boldo. Era silenzioso e pigro. Giovanni no, con lui s’erano incontrati già ragazzi. Non c’era stata alcuna difficoltà ma si vedeva ad occhio nudo che erano nati in luoghi diversi. Eppure non avevano nemmeno bisogno di parole per parlarsi. Forse era stato per lei; per lei che era partito. Non c’era niente di razionale in quel pensiero che lo riportava a pensare a lei; ancora a lei. Quarant’anni dopo. E solo dopo quarant’anni scoprire che avevano tutto in comune, lui e Giovanni, persino l’amore per quella donna. Ma Giovanni era rimasto; non era mai partito, Giovanni. Lui no. Non l’avevano mai confidato l’uno all’altro, quell’amore. Non era ancora abbastanza per sentirsi tornato a casa.
Lì, a Sant’Agostin, aveva imparato ad andarci quando era già più grande. Quando aveva imparato che l’importante è difendersi. Che strane cose ricordano i ricordi. Si sentiva stanco. Un bambino giocava e giocando cavalcava un destriero immaginario, che solo lui vedeva. Doveva averlo fatto anche lui quel gioco. Probabilmente quel bambino era figlio, forse nipote, di chi quel gioco l’aveva fatto con lui. Ma era grasso, quel bambino, come lo sono certi bambini di oggi, gonfiati di schifezze e di rimorsi. Il suo viso non gli ricordava nessun altro viso. I suoi capelli avevano una stupida posa da parrucchiere. E Michele si sentiva stanco; molto stanco. Aveva la testa confusa e gli occhi pieni di troppe cose. Chissà se Matteo abitava ancora là? Avevano sostituito quella porta, ora non portava più i segni delle frecce, fatte coi ferri degli ombrelli. I bozzi da colpi di fionda. Non ricordava se aveva una buona mira. Un sapore gradevole gli era salito in gola. Gli occhi riconoscevano un leggero umidore. Aveva deglutito la saliva. Aveva sete. S’era acceso una sigaretta. L’altra fumava ancora a terra. Era tornato a guardarsi torno ma i suoi occhi passavano sulle cose senza riuscire a vederle davvero. Le sfioravano appena. Il mondo era cambiato e lui non era riuscito a farlo con la stessa fretta; forse non gli era riuscito e punto. Forse nemmeno l’aveva voluto, né desiderato. In fondo che bisogno c’era?
Aveva troppe cose da ricordare. A Costanza aveva imparato a barare, era stato il suo stomaco ad andare incontro a quel coltello, ma non aveva mai imparato a rubare. Su quei gradini, come allora, s’era seduto. Aveva frugato nella sacca. L’aveva trovato quello che cercava e s’era immerso nelle pagine del libro senza riuscire a concentrarsi. «E sento che i suoi occhi mi odono pensare. Non ho mai visto uno sguardo così attento».
Si sentiva guardato. «E sento che i suoi occhi». Quella strana sensazione che si può avere. Alzò gli occhi. Una donna lo osservava e poi abbassava lo sguardo sulle pagine del suo libro. Come potesse leggere anche lei quello che lui leggeva. Tornò sulle parole. «Non ho mai visto uno sguardo così attento». Era inutile. Non sarebbe più stato in grado di afferrarle. Aveva anche perso il segno. Inserì un biglietto, come segnalibro, nella pagina. Chiuse il libro.
Per John o’Groats c’era passato con solo due anni di ritardo. Che ne sapeva? Ma anche questo lo avrebbe scoperto in seguito. La vita è spesso una gran puttana, generosa di tette e di sorprese. Se ne dicono sui marinai e sui porti. Di sicuro ci sono solo le osterie. Si era morso la lingua; a parlare non era più così disinvolto. Anche il silenzio si impara. Ascolti il mare e quello parla anche per te. Dice le cose che vorresti dire. A volte anche quelle che non vorresti sentire. Parla di malinconia. Porta con sé l’odore della pioggia. Mille suoni sottili. La osservò lentamente. Era una donna rossa. Non gli ricordava nessuno. Una donna di una certa età; invecchiata. Eppure quello avrebbe dovuto farlo riflettere. Fu solo questione di attimi. Poi incrociò i suoi occhi. Quegli occhi lui li conosceva. Non poteva non riconoscerli. Erano i suoi occhi. Erano gli occhi di Rossana (non aveva mai faticato a ricordare il nome). Le era sbocciato un sorriso, non aveva fatto alcuna fatica a riconoscere anche quello. Era bello tornare a chiamare quel nome nella mente.
“Cosa stai leggendo”?
“Ciao. No! non è “Sulla strada”. Pennac.” – lo rileggeva ogni volta che provava fatica a ritrovarsi.
“Lo amo da morire”.
“Anch’io e, a proposito, non ho mai smesso di farlo”.
Quante cose stupide vengono in mente in certi momenti. Si guardò i sandali che calzava ai piedi. Le unghie tagliate male. Aveva perso quella sua sicurezza. Aveva timore dei suoi occhi. Era tornato ad averne paura. Ma fu solo un momento. Lei era cambiata ed era la stessa. Era caldo il suo sorriso. Ricordò, all’improvviso, come fosse il quel momento, la mano di lei che sfiorava la sua barba saggiandola in una carezza. Si vergognava per non averla riconosciuta subito. Ma anche quello fu solo l’imbarazzo di un attimo. Tutto correva veloce. Già! se ne dicono troppe sui marinai. Aveva voglia di sentire e sentire ancora la sua voce senza emozioni eppure così famigliare. Sentì i suoni intorno tornare a farsi nitidi. Il sole discreto che lo scaldava. Erano giorni e giorni che non dormiva in un vero letto.
A Michele venne spontaneo, dal cuore: “Cazzo vogliono questi fasci? Venezia non li vuole. E “sulla strada” era una gran pizza”. Era la prima cosa che gli era venuta. Scoppiarono entrambi a ridere. L’emozione era stata più forte di quanto si potesse dire. Cazzo se ne aveva cose da raccontare. Nessuna gli sembrava adatta. Lasciò scivolare i suoi occhi su quel volto e quel corpo invecchiato; invecchiato fin troppo. Credette di sentirne la stessa fatica. Gli fu grato di non cercare disperatamente di schernirsi. Quella che aveva davanti non era quella che vedeva. Il suo sguardo mentiva e sapeva mentire molto bene. Non poteva tradirlo e non c’era ragione. Eppure è vero che le persone, nei ricordi, si conservano come le hai lasciate. Restano le stesse per sempre. Cosa importa? Ecco la ragione del suo viaggiare. Il prezzo. Ecco dove aveva sempre voluto tornare.
“Mi sembrava ma non ne ero sicura. Scusami se t’ho fatto aspettare”.
Lui si alzò per prenderle la mano. Le consegnò le lettere; tutte tranne quella, l’avrebbero letta assieme. Che bisogno c’era di aspettare ancora luna? Non aveva più pudore né paura di un bacio¹ .
1] Il breve brano è tratto da La fata carabina di Daniel Pennac.
pennac? lo amo da morire! e non è il solo…
Stenterai a crederci ma anch’io adoro Pennac! e non è il solo…
ma che differenza fa tra S.Boldo e S.Agostin ? Eravate tutti ragazzi speciali e ….carini
Sei talmente preso a scrivere caro mio, che non riesci a fare altro, io questo post lo leggo, credimi, troverò il tempo, ma tu mi pare ti stia esiliando un pò troppo. Un abbraccio. 😉
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