In un certo senso la storia delle baracche e la storia di Spinola sono una stessa storia. Almeno negli ultimi trentanni e qualcosa di più. Ma il Forte c’era da prima. C’era dalla prima guerra. Quella che poi hanno chiamato grande. Mai servito a niente perché lo stavano finendo quando l’uso dei mortai l’hanno reso inutile. Insomma sto creando confusione a chi legge ed è meglio rimandare ogni spiegazione. Perché qui il tema è un altro. E poi il Forte è venuto dopo. Dopo una serie di altre avventure. Certo prima di una serie di altre ancora. Ma prima? Beh! C’è un inizio che viene prima delle Baracche. Qualcuno potrebbe dire che non c’entra un fico con loro. L’hanno detto. Forse è vero. Non per me.
Non cercate Spinola in nessuna mappa perché Spinola non c’è. Questo forse l’ho già detto. D’altra parte nemmeno io sono una persona reale. Nemmeno i fatti che racconto. Tutto questo appartiene solo ad un mondo che vorrei o ad un mondo che non è stato. In qualche caso per stupidità. Sempre perché divorato dal passato. Non esiste proprio nella misura in cui ognuno quel passato lo scrive come vuole. E nella vita non c’è mai un vero inizio. Ma io credo valga la pena cercare di dare un ordine alle cose. E credo che a volte ci sia anche bisogno di ricordare. Qualsiasi ragione adducessi sarebbe una di molte, o improbabile, o quella che mi viene al momento. Quella sera ero solo, come mi succede spesso, inquieto. Forse un po’ nevrotico. E’ quello che mi ha spinto ad uscire dalla quiete domestica. Margherita mi aveva chiesto dove stavo andando; Margherita è, cioè era allora, mia moglie. Se ricordo non mi ero dato pena di risponderle se non bofonchiando. Non avevo niente in mente.
Era una sera qualunque di un giorno qualunque di un anno qualunque. Ad essere pignoli possono essere passati una quindicina d’anni; mese più, mese meno. Se questo corrisponde al vero ne dovevo avere allora circa quarantasette; anche omettendo la mia età. Ora mi sembrano pochi ma allora erano molti per un’ impresa come quella. Insomma in culo alla notte mi fermo a parlare con alcuni ragazzi del quartiere. I loro vent’anni creavano un abisso tra noi. Diffidavano come si diffida a vent’anni di qualsiasi futuro. Delle regole che vengono imposte. Un po’ di tutto perché, come sostiene qualcuno, è quella un’età grama. Ma quasi tutti avevano negli occhi una opacità persa. La verità è che si nascondevano nella notte. Uno gettò lo spino appena feci cenno di avvicinarmi. Li chiamano ragazzi a disagio. Spesso è solo il disagio di quell’età. Spesso sono comunque i soldati di questa parte della guerra delle generazioni. Hanno la valigia pronta e nessuna destinazione. Non so perché ma mi sembrava che qualcosa non andasse in loro. Che si stessero distruggendo inutilmente. Non che sia solito intromettermi nei cazzi degli altri. Era quell’ inutilmente che mi infastidiva.
A pensarci bene anche questo può aver influito in quella fine, cioè nell’altra fine, quella del mio rapporto con Margherita. Solo che a pensarci oggi mi viene da dire che è stupido faticare tanto per trasformarsi in un ex quando si può, con più facilità, tornare allo stadio di amici. Ma ancora una volta mi perdo in altre storia, nei rivoli. Parlando con loro mi ero distratto. Mi trovai ad avere la loro stessa età, mi ritrovai ventenne. E loro principiarono a vedermi come se quell’età ce l’avessi veramente. Ne rimasi sorpreso e quasi incredulo. Parlavamo la stessa lingua. Avrei dovuto forse morderla, quella lingua. Invece mi uscì d’impeto e senza ragione: “Perché invece di farci del male non consumiamo le nostre ore a costruire qualcosa”? Spesso era Matteo il primo a rispondere: “E cosa”? Al momento mica ci avevo pensato: “Un posto per noi. Una specie di centro sociale. Anzi, non per noi ma per tutti”. Bocca taci. Di cose del genere ne sapevo quasi nulla. E quel nulla solo per averlo letto o per sentito dire. Ma me lo immaginai a modo mio. Non un centro sociale come quelli che ci sono; anche nei dintorni della stessa Spinola. Non amo le riserve. Amo ragionare con la mia di testa e a fare cazzate basto io. “Credi ce lo lasceranno fare”?
Avrei preferito la domanda di riserva. Stavo lasciando andare le parole. Mica ci avevo pensato bene a quello che stavo facendo. Non ci avevo pensato per niente. Non ero sceso con un programma. Non avevo dietro un progettino. Ero solo uscito perché mi sentivo soffocare. O solo per cercarli e dirgli di smetterla. Sarei un antiproibizionista, ma quelle che chiamano pesanti non mi piacciono e mi fanno un po’ di paura. Trovo stupido farsi del male così. Come diceva quella scritta: “La droga uccide lentamente ma io non ho fretta”. Che poi qualche volta invece ha persino fretta a presentarti il conto. Ed è sempre un conto salato. Insomma sono fatto così. Faccio prima di pensarci. Mi presento in un modo e mi scopro un altro. E dire che sarei taciturno. Almeno lo ero. Un ragazzetto chiuso; ma prima. E non ho mai voluto fare il condottiero. Né il leader. Non si annoverano eroi nella mia famiglia. Forse qualche caso sporadico di diserzione. Ho sempre cercato di nascondermi nella folla. Di fare solo il militante di base. Mica per paura. E’ che non so fare la prima donna. Non la voglio fare. Nemmeno la donna. Non avevo altra risposta: “Insomma… non resta che provarci”.
E’ così che sarebbe nato quello che poi avremmo chiamato, non a caso, Marcos.
Archive for 4 agosto 2010
Quel Marcos
Posted in baracche, tagged Articolo 31, breve, centro sociale, diario, disagio, Gianfranco Manfredi, giovani, Ma non è una malattia, Marcos, Maria Maria, racconto, ricordi on 4 agosto 2010| 8 Comments »
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