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Posts Tagged ‘ludico’

playlist-del-risveglio-770x470E’ proprio vero che il mattino ha l’oro in bocca. Chiedetelo a lei. Non potrà che confermarlo: è stata proprio lei stessa, ridendo, a ricordarmi il proverbio. Sentirglielo raccontare mi mette ancora quel brivido. Perché a lei fa piacere dirle le cose. Naturalmente nel modo e nel momento opportuno. Io nemmeno avevo fatto caso a che tempo faceva fuori. Le imposte erano ancora chiuse. Ero ancora sospeso in quel dormiveglia. Non certo di essere uscito dal sonno. Non certo che non fosse più sogno. Impegnato ad ascoltare quel piacere che mi risaliva dalle viscere, liquido e tiepido.
Non me ne sono reso conto all’istante, naturalmente; come potevo? Certo che era incredibile ed era impossibile immaginare che lì ci fosse Luigina. Avrei dovuto riconoscerla, dopo dieci anni. Non era mai stata così… così… delicata. Così appassionata da… Eppure stavo già per sospirare: “Luigina”! Ma quelle non potevano essere le sue di labbra. Solo che al mattino, trascinato così fuori violentemente dalla notte, in quel dolce tepore; non era mai successo. Ancora penso che mia moglie… incredulo. Mentre la mia mano le sfiora i capelli. Sono capelli lunghi e sottili. Molto sottili. Guardo giù e non ci credo: sono biondi. E la testa è la testa di Egle. Questa è Egle.
Sta da noi da dieci giorni. A dire il vero neanche le tette sono quelle di Luigina. E’ ospite. Niente è di Luigina e tutto è di Egle. E’ carina. Luigina mi aveva avvertito “Non ho potuto dirle di no. Non aveva ancora visto Pisa. E poi vedrai che non darà fastidio. Voglio che la conosci”. E aveva ragione lei. E’ una donna solare. Spiritosa. S’è fatto subito amicizia. E’ stato facile stabilire quella confidenza. E lei a raccontare le sue cose senza parsimonia; con naturalezza. Già avevo avuto modo di chiedermi come aveva fatto quel Fantasma. C’è proprio gente che della vita non è mai contenta. Che qualsiasi fortuna gli capiti non la sa riconoscere. Ma è più la sua curiosità di conoscere me. Svegliarsi tra le labbra di Egle è un’esperienza indescrivibile. Sicuramente degna di essere vissuta e ripetuta.
Amiche da sempre. La credevo gentile per l’amica. Niente di più. Non posso che esserne enormemente sorpreso. Niente che potesse farlo anche solo lontanamente sospettare. Le dico “Ma?…” e fatico a dire anche quello. Avrò tempo per imparare che lei, Egle, sa leggere nel pensiero. Capisce al volo. Si libera di me solo per quel tempo e già rimpiango di aver avuto quella curiosità; ma ero allibito. Sa la mia domanda e mi spiega: “Le ho detto che volevo farti uno scherzo, spero non ti dispiaccia”. Il suo sorriso è furbo, ma non ho nemmeno il tempo di vederlo. Torno a accarezzarle il capo. Il contatto della mano sui capelli è leggero ma deciso. E’ come sfiorare seta. Nella carezza voglio spiegarle la mia gratitudine, e impedirle di fermarsi ovvero interrompersi. C’è la preghiera disperata di continuare. Credo non ce ne fosse bisogno; che non avesse nessuna intenzione lasciarsi distrarre. Egle è paziente e ostinata.
Per raccontare certe cose basterebbero due parole. E non ne basterebbero mille. Se ci fosse. La luce entra senza pudore. Mi va di guardarla. Cantami la tua canzone d’amore. A lei non crea nessun imbarazzo. Alza anzi gli occhi per interrogarmi. Credo che i miei si perdano ad ascoltare le parole che la sua bocca mi sussurra. Dettagliatamente. Credo che sia completamente soddisfatta della mia risposta. Almeno lo spero. Cerca di mettersi comoda e io tengo le coperte sollevate. Non ha bisogno di altre conferme. Sono completamente estasiato, abbagliato da quello che vedo. Come a guardare un altro ed essere io quell’altro. E lei è l’altra e questo fa tutto ancora più bello. Torno a convincermi che è solo tutto un sogno. Mi lascio sognare, sognante.
Fa un sospiro che sembra dover finire dopo il giudizio universale e mi fa scorrere la mano sul petto, senza distrarsi minimamente. Le lunghe unghie curate mi graffiano e mi solleticano. Poi mi arruffa il pelo. Per un attimo percepisco la presenza dei denti. Piccoli morsi appena udibili. Decido che è questa la vita che voglio, per sempre. Ho voglia di vederla; tutta. Ho voglia di tutto. E’ comunque diverso. E’ facile distrarsi, in un momento simile. Scordarsi di tutto. Improvvisamente mi viene in mente. Non è più curiosità ma un leggero timore. Conosco le cose: “E se torna”?
Non ho pronunciato un suono ma ancora una volta lei ha capito. Sembra quasi rimproverarmi. “Ha detto che doveva scendere per prendere il latte”.
La sentiamo aprire la porta. Grida appena entrata: “Ti sei svegliato”?
Sospetto che creda di essere spiritosa quando ci invita a ricomporci che è tornata. Egle l’ha già fatto con una velocità incredibile. Io mi limito a rintanarmi sotto le coperte. Desolatamente sconsolato. Fortuna perché Luigina, naturalmente, non vedendo nessuno, ci raggiunge in camera e si ferma sulla porta, la borsa ancora in mano, senza aspettare risposta. In fondo è casa sua. Guarda me e guarda Egle in piedi: “Me lo dovete proprio raccontare, il vostro scherzo”.
Meglio di no. L’ospite ride sotto i baffi, ma non mi toglie dall’impaccio. Se ne sta buona a godersi la scena. E’ pur vero che tra moglie e marito… Ammicca e si strofina gli occhi in uno sbadiglio. Sa fingere come una professionista. Forse il suo pigiama era già stropicciato della notte prima che entrasse. E’ delizioso; di un grigio perla che trasluce proprio come una perla. Più bella non potrebbe essere. Si sistema un ciuffo e torna a ridere.
Vedo la tazza sul comodino. “Egle è stata molto carina. Mi ha portato il caffè. Fingendo di essere te. Per poco non mi trovavo a dovermi vergognare. L’ho anche chiamata Luigina”.
Le avevo detto che tu dormi così”.
Ti ho detto che gli portavo il caffè. Che avrei finto di essere te per svegliarlo. E’ stato buffo. Tienitelo stretto. Non era ancora sveglio e già chiamava il suo amore: Luigina”.
Lei aveva appoggiato a terra le borse che dovevano essere pesanti. Si è vestita di un sorriso benevolo e si sfila le scarpe per infilarsi le ciabatte: “Ho detto che avrei fatto presto. Che mi sarei sbrigata subito. Per quelle quattro cose… E tu ora vestiti. Aspetta che usciamo. Vieni”.
Stavo per sospirare: “Fin troppo presto”. Invece le spiego che il caffè s’è freddato pregando Egle se me ne può portare cortesemente un altro.
Luigina riprende le borse decisa a raggiungere la cucina: “Non fare il pigro. Vieni a prendertelo in cucina. E non essere egoista. Egle deve uscire altrimenti, se se ne sta sempre in casa, non vedrà mai Pisa. Non credi? Che il caffè te lo aveva già portato. E’ stata gentile. Anche troppo. Rischiando uno spettacolo non proprio edificante. Di rimanere scandalizzata di te che hai sempre caldo e ora ti vergogni e ti rintani lì sotto le coperte come stessi per morire. Per fortuna. Tutto sudato”.
Egle impertinente sorride e mi strizza d’occhio: “Non ci sarebbe stato nessun problema. Non sarebbe stato il primo che vedo; non credi? Meglio così. Ma era buffo con quegli occhi. Scusa se ho riso. Ma s’è accorto subito che io non ero te. Prima ancora che aprissi la porta. Peccato. Non ti preoccupare, non te lo tocco il tuo bello. Poi mi sono fermata a parlare mentre ti aspettavamo. Ti spiace? Stavamo giusto parlando di te. Poi lui è stato gentile. Tienitelo stretto. Mi ha chiesto com’era finita. Gli stavo giusto spiegando cosa faceva quello stronzo e lui è rimasto senza fiato. S’è pure scordato del caffè, ma mi aveva già ringraziata”.
Le guardo andarsene. Sospiro. Mattino di merda. Mi infilo il pigiama. Prendo il caffè e lo porto al microonde. In piedi aspetto che si riscaldi. Ci aggiungo due cucchiaini di zucchero, ma di canna. Luigina ingozza il frigo e mi da di spalle. Egle è andata a vestirsi. Allungo una mano. Cerco di ritrovare il sogno. Luigina mi redarguisce immediatamente, spazientita e irritata: “Stai fermo con quelle mani. Non fare il cretino che Egle può tornare da un momento all’altro. Non hai altro per la testa”? Aggiungo un po’ di latte. Intingo un paio di biscotti nella tazza. Mi pulisco le dita sulla tovaglia. Vorrei tornarmene a letto, ma ho paura di svegliarmi. E scoprire che il sogno era tutto un sogno. Egle vestita in modo pratico saluta dalla porta e se ve va a scoprire la maledetta Pisa: “Ci vediamo stasera”.
Faccio un ultimo tentativo: “Vuoi che ti accompagni”?
Fa niente. Non ti devi disturbare. Grazie lo stesso”.
Ora siamo soli. Torno ad allungare la mano. Non lo farei, non ci penserei, se non fossi stato svegliato in quel modo. Invece: “Non vedi che ho da fare? Possibile che tu non le capisco proprio le cose. E poi non è il momento”.
Ho un ultima residua speranza: “Esco a prendere il giornale”. Mi metto le prime cose che trovo. Imbocco la porta in tutta fretta. Mi precipito già dalle scale. La donna delle pulizie mi da il suo buongiorno. Esco in strada ancora tutto spettinato. Con le scarpe slacciate. Con gli occhi scruto intorno, ma lei naturalmente è già sparita. Non c’è traccia di Egle. Ingoiata da questa città matrigna. Prendo i giornali e me ne torno sui miei passi Mogio. Rassegnato. Pazienza. Meglio pensare che è stato tutto solo uno stupido ma meraviglioso scherzo. E in casa leggo ogni riga cercando di non pensare a lei. E’ un maledetto sabato. La sera non arriva mai aspettando l’anticipo.
E’ ora di cena quando Egle rientra tutta allegra. Ha preso una copia della torre in finto avorio e una borsetta e la mostra a Luigina. La borsa è brutta, ma mia moglie si complimenta dell’acquisto. Ceniamo ma non trovo molto da dire. Guardo l’orologio a muro, non voglio perdere il fischio d’inizio. Egle disinvolta racconta che il centro è un vero labirinto. Che ha rischiato di perdersi. Mangia con appetito. Fisso ogni boccone che porta alle labbra. E quando sorseggia il chianti. Continuo a guardare Egle ma lei non mi degna di uno sguardo. Le lascio da sole a chiacchierare tra donne. Me ne vado in salotto. Nell’intervallo mi rubano il divano e vado a guardare il secondo tempo su quella piccola in cucina. Alla fine ne abbiamo presi tre. Proprio un sabato di merda. Per non farci mancare nulla fuori comincia anche a piovere e tira forte il vento.
Spedisco due mail, mi spoglio e mi infilo a letto. Ripenso al mattino e non resto indifferente. Spengo la luce e cerco di dormire. Dopo un po’ Luigina mi raggiunge. Cerco di essere gentile: “Com’era il film”? “Boh! Non un granché. Niente di eccezionale. Niente da non perdere. Però ce la siamo raccontata. Attento a Egle, credo che tu, almeno un po’, le piaccia. Non ti sembra un po’ sfacciata? Viene e va come fosse proprio di casa”. Lei spegne la luce. Allungo una mano: “Non ora. Sono stanca e ho un gran sonno. Mi si chiudono gli occhi. Fai il bravino”. Non mi resta altro che cercare di prendere sonno anch’io. Lo cerco e non lo trovo. Cerco di distrarmi. Era sbagliata anche la formazione.
Sento un fruscio e un alito di aria. Vedo un filo di luce. Deve essere pazza. Entra Egle di soppiatto. Dentro lo stesso pigiama. Mi sorride. Guardo a sinistra e Luigina continua a dormire. Faccio per alzarmi ma lei mi spinge giù. Con la mano mi invita a rimanere al mio posto. Incredibile. Cosa vorrà fare? Sembra che il mio imbarazzo e tutto la diverta. Come una ragazzina: “Mi sono ricordata che avevamo un… un discorsetto in sospeso; io e te? Non credi”. Faccio sì con la testa e mi immobilizzo per il panico. Torno a guardare verso mia moglie; tragicamente impacciato. E’ completamente pazza. Prima ancora che glielo chieda mi tranquillizza: “Le ho riempito il vino di valeriana”.
Non sono del tutto tranquillo. Diversamente lei accende anche l’abat-jour: “Non mi dire che non mi volevi vedere proprio tutta. Tanto lo so che non sarebbe vero. Me lo hanno raccontato i tuoi occhi. Non ti ricordi? Sei un gran maiale. Tutti uguali voi… Senza nessuna fantasia. Invece così è”… Certo che lo volevo e lo ricordo bene. E lei mi fa contento. Se ne esce da quel pigiama e mi lascia guardare per un lunghissimo istante, soddisfatta di sé: “Ti piace guardare? Non vorrai solo guardare? Fammi un po’ di posto”. Io eseguo. Mi faccio un po’ più in là. Luigina ha l’abitudine di dormine in bilico sul bordo. E lei non chiede molto spazio. Si allunga vicino a me. Mi sussurra all’orecchio: “Luigina è una cara amica”. “Non vorrai fer”… “Proprio perché è un’amica. Con le vere amiche si deve dividere tutto”. “Vieni qui”. “Lascia che finisca di raccontarti quella storia”. E ricomincia da dove eravamo stati interrotti. E lascia che io la guardi darsi da fare.
Aspetta un istante e mi interroga: “Non vorrai?”… Le accarezzo la testa e i capelli. Quei capelli così sottili e lunghi. Molto sottili e biondi. Che riflettono una luce dorata. Le cerco un seno. E’ gentilmente sodo. Me ne riempio la mano. Lei mi lascia fare. Soddisfatta. Attenta. Poi resto solo a guardare. Estasiato. Lei mi arruffa il pelo sul petto. Lo liscia. Balbetto confuso: “Ver… veram… vorrei”. Troppo tardi per aggiungere altro. Aggiungo solo “Egle!” –in un sospiro. Poi ancora colpevole: “Ma tu?”… Lei si libera le labbra e se le lecca. Ritrova la parola con la stessa tranquillità di sempre: “Io… non fa niente. Non ti preoccupare. Per me. Era solo per conoscerci. E ho ancora un bel po’ di gocce di valeriana”. “Non te ne andrai già martedì”? “Fossi matta. Al martedì fanno la mia serie preferita: Sex in the city. Non me la perderei per niente al mondo. La mia non è così bella grande. Cioè è bella e piccolina. La televisione”. E scoppia a ridere: “Resterei, ma ora devo proprio andare. Sì! è meglio che vada”.
So che ha ragione. La vorrei trattenere, ma non posso. Non sarebbe giusto. E’ stato bello. Fin troppo. Non ne ho le forze. E’ proprio vero che il mattino ha l’oro in bocca, ma anche la notte ha le sue meraviglie e i suoi tesori. E l’amicizia è il bene più prezioso in cui un uomo possa sperare. Se ne va ridendo, ma proprio sulla porta aggiunge a voce bassa: “Sai che anche lei… Non fa niente. Meglio che tu non sappia”. Io di rimando, senza pensarci un attimo, soddisfatto: “Svegliamoci ancora così, bambina”. Spengo la luce e mi addormento all’istante. Invece al mattino trovo un biglietto: “Non penserai mica che dormissi. Mi credi stupida fino a quel punto. Prendi le tue cose e vattene. Accompagno Egle un po’ in giro. Non farti trovare al nostro ritorno”. Dovrò ricredermi e rivedere tutti quegli stupidi e inutili modi di dire. Non so più cosa pensare. So solo che Egle è un vero vampiro. E che certe mattine sono solo un pessimo preludio ad un pessimo giorno.

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Dice: “Io sono Franco. Ah! sì. Scusa, Lei invece è Tina”.
Sono una coppia in età. Cristiana li ha conosciuti ad una conferenza su ambiente e benessere. Non so perché li abbia invitati. Non ne aveva mai parlato fino all’altro ieri. Poi mi ha detto che le hanno telefonato. E che sono una coppia gentile e carina. Non ha potuto dire di no. Certo la nostra casa al mare sarebbe una lusinga per tutti. Le hanno detto che non avevano mai visitato queste parti. Così mi trovo ad averli tra i piedi. Un paio di giorni. Poi mi ha lasciato solo ad aspettarli. Aveva da fare. Ha sempre da fare. Maledetto ufficio. Come se io non avessi le mie cose da fare. E poi io non so che dire, con persone che non conosco. Dovevo insistere.
Gli faccio vedere la loro stanza. I letti sono ancora da fare. Loro depositano le loro valigie e poi mi seguono a vedere le altre stanze. Mi fanno i complimenti; per la casa. Gli chiedo se vogliono un caffè; è il minimo. Mi rispondono che non vogliono disturbare. Che lo hanno già preso. Che si scusano, non sapevano, e che aspettano mia moglie. Gli spiego che dovranno pazientare perché ne avrà fino a sera. Si sorridono carini. Gli dico che magari tra un po’ ci prepariamo e andiamo a pranzo. Ripetono che non mi devo preoccupare. In cucina sono peggio di una frana. E’ lei soprattutto a parlare. Lui per lo più tace e sembra osservarmi. Le da sempre ragione e conferma quello che dice lei. Mi dice che se non mi spiace poi, magari dopo, può fare lei qualcosa da mangiare; mentre aspettiamo. La guardo come la mia salvatrice, ma non le dico nulla; né sì né no. Mi sorride. Insisto almeno per un caffè. E’ l’unica cosa che so fare. Loro mi dicono che se proprio insisto, che lo prenderebbero volentieri per cortesia. Lui aggiunge se magari dopo ci possiamo fare anche una grappa ma dopo. Apro la dispensa e non abbiamo nemmeno un biscottino. Devo ricordarmi di dire a Cristiana di ricordarsi di comprarli tornando a casa.
Lei ride e le ballonzolano, le sussultano i seni pesanti e un po’ rilassati, perché sotto non porta reggiseno. Non manderei mai mia moglie in giro conciata così. L’abito controluce mostra anche qualche trasparenza, al primo momento non ci avevo fatto caso, e lei non ha molte cose belle da mostrare. Non che… è solo che dovrebbe ricordarsi dell’età che ha. Però siamo al mare e sono venuti per andare al mane. Al mare tutti ci fanno meno caso. Spero sia una che il costume se lo tiene addosso. Qui tutti ci conoscono. Nessuna lo toglie. Quando lo fa qualche turista, intendo il pezzo sopra, già la guardano male con occhi che la vorrebbero incenerire. In fondo è una piccola isola e gli isolani sono una comunità ancora un poco chiusa. Per dire la verità anche noi che siamo nati in città e abbiamo sempre abitato in città non è che amiamo molto farci vedere. Cristiana lo toglie solo quando è sicura che siamo soli e lontani da occhi indiscreti. E si fa ancora più riguardi da quando abbiamo scoperto quello che ci spiava nascosto dietro una duna, cioè la spiava. In fondo lei è ancora una cosa bella da guardare e anche lo capisco. Dovevamo noi essere più prudenti. Quella volta si è rivestita subito e normalmente si accontenta malvolentieri anche se le resta il segno sulla tintarella. Che poi quest’anno l’estate non è mai arrivata. Il venti dovrebbe essere piena stagione. E’ arrivato l’autunno prima che il sole, e non se n’è mai andato.
Mi vede che la guardo e alza le spalle e non se ne cura. Si alza dalla sedia. Va un po’ qua e un po’ là per la cucina come si sentisse in gabbia. La seguo con lo sguardo. Si prende da sola un bicchiere d’acqua. Si inumidisce le labbra e lo poggia sul lavello. Davanti alla finestra, con quello straccio addosso, è proprio quasi nuda. Un paio di tacchi salverebbero un po’ dell’apparenza. In fondo sotto il vestito… il vestito mente. Non le fa un cattivo servizio. Non fosse perché nei fianchi le stringono quel po’ di ciccia sembrerebbe non portarle. Nemmeno Cristiana ne metterebbe di così sottili. Mia moglie è una persona molto attenta. Ci tiene molto all’eleganza e al buon gusto. Loro sono un po’ più alla buona. Genuini. Spontanei. Almeno sembra. Eppure mi sembra che mi abbia detto che lui è un funzionario di banca.
Mi chiede all’improvviso: “Dove hai il pc. Possono andare a vedere se mi sono arrivate mails”?
Dico: “E’ di là. Fai pure”.
Se ne scappa dalla cucina come avesse un bisogno urgente. Nemmeno il tempo di avvertirla che se le serve l’altra porta nella stanza conduce al bagno. Glielo dico dietro e mi ringrazia. Lo chiedo anche a lui che mi risponde che non gli serve, grazie. Gli spiego che nel caso ce n’è un altro al piano di sopra. Torna a ringraziarmi e a spiegarmi che si sono fermati per strada. Solo con lui trovo ancora meno argomenti. Lui mi guarda e si guarda intorno come spaurito. Arrotola la salvietta di carta che ha davanti. Gioca con quella tra le dita. Al polso porta un orologio pacchiano. Forse ha bisogno di dimostrare che lui è un uomo arrivato. Torna a farmi i complimenti per la casa. Torna a chiedermi a che ora penso che tornerà Fabiana. Gli preciso che si chiama Cristiana. Non aggiunge nulla, pare che la cosa non abbia importanza. Guarda verso la caffettiera. Mi accorgo che mi ero scordato di accendere la fiamma. Mi alzo per farlo e porto anche tre tazze sulla tavola, poi lo zucchero e i cucchiaini. La sento chiamarmi: “Qual è la password di rete”?
Non mi ha mai dato problemi. Sto per risponderle, poi decido di raggiungerla, mi sembra più gentile. Mi scuso con lui se lo lascio per un attimo da solo. Lo prego di far attenzione al caffè. Sorride gentile. Mi rassicura di non preoccuparmi mentre vado da lei. Entro e resto attonito, immobilizzato sulla porta. Lei è china sul computer. Prima che si accorga della mia presenza scatto una foto col telefonino. Cerco di cambiare discorso: “Novità? La connessione dovrebbe”…
Solo dopo un po’ si gira ridendo e il vestito ricade al suo posto: “Non riuscivo proprio ad aprire la mia casella. Che stupida. Comunque nessuna nuova buona nuova. Niente di… importante. E poi non era importante la posta. Forse potevo aspettare anche più tardi. Non mi andava di star lì a parlare cercando qualcosa da dire. E poi… Scusa, non so… cosa hai visto”?
C’è una solo parola per dirlo ma non vorrei doverla pronunciare. In fondo è una situazione imbarazzante. Nemmeno ci conosciamo. E non è certo il mio tipo. A me piacciono più giovani; della nostra età. Meglio qualche anno in meno che in più. E… insomma… mi piace mia moglie. Non sono mai stato un tipo… Una scappatella può succedere… E’ una situazione complicata, ingarbugliata. Lui è di là. Lei si comporta come se non ci fosse. Col suo vestitino leopardato. Come fosse una ragazzina, o una fatalona. Cosa si è messa in testa? E’ la prima volta che mi vede. Non sono uomo da fare questo effetto. Non me la dà a bere. Mi sento preso in giro. Non so come uscirne. Non so che dire e allora parlo del niente: “Mi sembrava strano. Dovrebbe connettersi sempre”…
Non cambiare discorso. Cosa credi di aver visto”?
Mi ha messo in un angolo. Insiste. Non so cosa vuole farmi dire. Si sta divertendo. Ride alle mie spalle. Col solo gusto di mettermi in imbarazzo. E le righe di espressione sotto gli occhi. E quella bocca rossa di rossetto. Forse vuole far ingelosire il vecchio marito. Forse vuole illudersi di avere ancora quell’età. Abbasso la voce. Ho paura che lui entri o ci senta. Anche se ora si è… ricomposta: “Veramente non è che volessi… E’ solo che mi hai… Mi sembrava. Forse sono stato anche fin troppo veloce. Non ti preoccupare. Fai come se non fossi entrato. Resta tra noi. E poi”…
Guarda che hai visto quello che io ho voluto farti vedere. Non sei più un bambino. Nemmeno tu. E poi siamo al mare. E’ così caldo, qui. O devo fartelo rivedere? Devo farti un disegnino per farti capire”?
Grazie non è necessario”.
Non vuoi”?
Se ci tieni. Temo stia borbottando la caffettiera”.
Lascia fare a lui”.
Non è che”…
Conosci il linguaggio del corpo? Siamo una coppia… aperta. Quello era un culo. E’ un culo. E lui è un gran cornuto. Sa di esserlo. E gli piace esserlo”.
E tu seri una gran… una gran puttana”.
Me lo chiedeva e io ho cercato ma mi è uscito spontaneo. Non fa una piega; anzi sembra se ne senta soddisfatta: “Nemmeno questa è una grande novità. Volevo fartelo vedere fin da quando siamo arrivati. Da prima di partire. Puoi toccarlo, se vuoi. Non sarà… è sempre un culo. E allora, cosa aspetti”?
E Cristiana”?
Mica glielo dobbiamo per forza dire. Ma se vuoi, chiamala. Non mi dispiacerebbe vedere anche il suo. Sarebbe anche più divertente. Ma non hai mai visto tua moglie con un altro”?
Non credo si possa liberare”.
Sono brava anche con una donna”.
Non ne dubito”.
Se la ride di gusto: “Non fare lo schizzinoso, ho visto che ti interessa… –e con la mano indiscreta, sfrontata, controlla sopra i miei pantaloni– …la merce. Visto? D’altronde hai una bella signora”.
Faccio salire lentamente la mano e le riscopro le natiche. Me l’ha chiesto lei esplicitamente e sarebbe da cialtrone maleducato non farlo. Sarebbe un’offesa troppo grande per qualsiasi donna. Non che mi senta ancora sicuro; per nulla. Lei si gira leggermente per facilitare il mio gesto ed è divertita. Credo esclami anche un finalmente. Io nel gesto la spingo un po’ verso il tavolinetto. Voglio rivederla come l’ho sorpresa; cioè come ha voluto farsi sorprendere. Vorrei accontentarla in quella posizione. E in fondo nel preciso momento darebbe piacere anche a me. Intanto quella mano che mi ha conosciuto torna a cercarmi. Passa sicura tra i bottoni slacciandoli con maestria come fosse la cosa più semplice del mondo. Cerco di ricordare il suo nome e glielo sospiro sul collo: “Antonia”…
Ormai ha finito di trafficare con l’abbottonatura dei mie calzoni. Sbircia e pare soddisfatta. ! Mi precisa: “Solo Tina. Vedo che ti piace fare il padrone. Cioè sento. Lo immaginavo. Sei uno che prende l’iniziativa; deciso”.
Le afferro quelle minuscole mutandine ma torno a trattenere il vestito raggrumandolo sui suoi fianchi. Ormai non penso più ad altro. Con l’altra mano cerco di trascinarla verso me; di stringerla. Con mia grande sorpresa mi ferma afferrandomi per il polso, e con quel gesto mi impedisce di accostarmi ancora di più a lei: “Non avere fretta. Se vuoi entrare per quella porta… E’ solo che a me piace farmi fotografare. E a lui piace fotografare. Deciditi. Sbrigati”.
Non è quella che si può definire una bellezza. Il suo corpo non è certo statuario, e mostra la sua età. In ogni centimetro della sua pelle. Mi domando in che tempi sto vivendo. Il mondo sta andando proprio a rotoli. Non sono certo io l’unica persona adatta a salvarlo. E poi è un po’ tardi per tornare indietro. Intanto mi abbasso i calzoni e le dico che può chiamare anche lui. Non è che mi piaccia ma… E vada per le foto. Almeno sarà un’esperienza nuova. E’ lei quella che ha tutto da rimetterci. Purché non arrivino a Cristiana; non sono certo che apprezzerebbe. Nemmeno a lei piacciano le foto, in generale. Di foto simili nemmeno ne abbiamo mai parlato. Mentre me ne sto lì a pensare lei alza il tono della voce e le parole in gola le si fanno più concitate: “Sbrigati. Sbrigati a togliermi le mutandine. Ugo!!! Ora puoi venire. Sbrigati anche tu”.

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Era un mattino di un giorno indefinito di giugno. Decido di chiamarla a casa: “Gianna”.
Sono Juliana”.
Cercavo Gianna”.
Gianna non c’è”.
Quando la posso trovare”?
Non so se torna”.
Ci penso e mi sembra scortese: “Un caffè”?
Un breve silenzio: “Hai da fare”?
Penso che tutto possa aspettare. In fondo sarà una cosa veloce. Sbrigativa: “Non molto”.
Perché non andiamo a prenderlo un po’ fuori”.
Non ci rifletto, passo io: “Passo io”.
Sapevo che stava da lei. Non me la ricordavo. Forse era bionda. Mi sembrava solo fosse sudamericana. O qualcosa di simile. Forse nemmeno l’avevo mai vista. Forse me ne aveva solo parlato Gianna. Non ricordavo nemmeno in che modo. Forse era Gianna a stare da lei. Ultimamente la ascolto poco. Non si fa aspettare molto. Sale e si mette comoda. Anche troppo comoda. E sorride divertita: “Dove si va”?
Non so. Fai tu”.
Dove vorresti andare”.
Per me possiamo essere anche già arrivati”.
Allora… anche per me.” –e sorride compiaciuta.
Cosa ti va”?
Non essere impertinente”.
La guardo, è senza pregi e senza difetti; e senza vergogna. Ci penso un attimo. Vestita è vestita come fosse la zia di Gianna. Se così si può dire vestita. Cioè è vestita anche della fretta di mostrarmi cosa nasconde sotto i vestiti, cioè sotto la gonna. Non so guardare altro. Lei se ne accorge: “Qualcosa non va”?
Le sorrido e controllo il traffico: “Potresti anche metterti più… più… composta”.
Ho dimenticato qualcosa”?
Potrei dirle di sì. Ne avrei il diritto. Non è proprio quello che voglio. Mi va anche di guardare ma vorrei farlo da solo: “No! è solo… lasciamo andare. Va bene così”.
Bene”.
Torniamo su da te”?
E perché? E poi c’è ancora lui”.
Da me”?
Non vorrei averti fatto guidare per nulla. E non ho molto tempo”.
E…”?
La guardo allibito e lei mi spiega: “In fondo… è anche comoda”.
Mi guardo torno: “Ma”…
Aspetta, tolgo la cintura”.
Alzo le spalle: “Aspetta, abbasso il sedile”.
Mi sorride e dice: “In fondo non mi dispiace farglielo sotto il naso; anzi farlo sotto il naso a tutti. Anzi mi da un po’ di… di… emozione in più. Mi stavo annoiando quando… Non ti dispiace, vero”?
Non posso mostrarle tutti i miei timori: “Figurati”.
In fondo… quasi quasi… forse è stata proprio una fortuna che mi si sia rotta la macchina. E tu sei stato proprio gentile ad offrirti di venirmi a prendere”.
Ricordami il nome”.
Juliana”.
Credo di doverle almeno un complimento: “Sei.. sei gentile e… e sei un gran bel pezzo di… di Juliana”.
Lo so”.
Poi mi chiede: “Vuoi che la tolga”.
Fa niente. Non vorrei farti fare tardi”.
Me ne frego del rumore delle altre macchine e delle macchine stesse. Le sfilo la copia del contratto da sotto il culo, ma ormai è tutta stropicciata; dovremo rifarla. Intanto penso alla storia che mi dovrò inventare con il cliente.

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linguacciaAll’inizio la guardo e non la vedo. E’ mattina e me ne sto ancora confuso in cucina. Sono rincasato tardi. Martina era tutta di fretta. Entra ed esce. Si spoglia e si veste. Cerco di abbracciarla. Non riesco a prenderla. Mi scivola tra le dita e ride divertita. Mi dice: “Debbo andare in ufficio. Devo proprio scappare”. La imploro ma non ha nemmeno un attimo. “Mi aspettano”. Ho un po’ di mal di testa. Forse ieri ho esagerato un po’. Si sa come vanno queste cose. Alzo le spalle. In fondo il mio era solo un gioco. Un gioco e un po’ no. Sono ancora intorpidito. A vederla è ancora bella. Insomma stiamo insieme e non ci siamo ancora stancati l’uno dell’altra. Prende la borsa e quand’è sulla porta mi dice all’improvviso: “Ti ricordi Flaviana. Devi. Te ne ho parlato. Quella mia amica. Forse me ne sono scordata. Scusa. Insomma, quella. Ieri sera è arrivata. Spero non ti dispiaccia. Non starà molto. L’ho accomodata nella stanza degli ospiti. Non ti darà fastidio. Io torno presto. Appena posso. Bacio. Cerca di essere gentile”.
Mi saluta e scappa. Il mattino ho bisogno di un po’ per connettermi. No! non ricordo me ne abbia mai parlato. Mi verso un altro caffè. Lo prendo sempre amaro. Martina dice che quando racconto una cosa mi perdo sempre in tante parole inutili. Non mi sembra. E’ che mi disturba non capire. E che ho sempre tante domande da pormi. Nel frattempo mi sono già scordato il nome della nostra ospite; dell’amica. Ho sempre il timore di trovarmi a disagio. Lei riesce a mantenere costantemente tanti contatti. Gli amici e le amiche del ginnasio, dell’università, quelli nuovi, i clienti del lavoro, un mondo intero. Non sono bravo come lei. Non amo stare al telefono. Rimando sempre troppe cose. Annego nel mio caffè. Mi immergo nei pensieri. Mi accendo la prima. E non riesco a ricordare tutto il suo mondo. Sento dei rumori. Dev’essere… lei, l’amica, che si sta alzando. Butto la cenere nel lavello e torno a sedermi. Provo ad accendere la tele; un telegiornale. Spengo quasi subito. Le notizie che danno non mettono in sintonia con un mondo che va alla deriva. Penso di tornare a letto. Fuori la mattina è più pigra del sottoscritto. A questo non ci posso fare nulla.
Quella di ieri sera è stata proprio una pessima serata. All’improvviso si sono aperte le cateratte del cielo. E’ precipitata acqua a catinelle. Non ricordo nulla di simile. Sono rientrato tardi, cercando di fare meno disastri possibili; ero bagnato fradicio, fino al midollo. E lei già dormiva. Cioè tutta la casa dormiva. E nella mia vita entra… Flaviana. Cioè entra come un tornado. Decisa. Già allegra di prima mattina. Uscita così dal letto. O forse dalla doccia. Già sveglia. Non fa caso a me. Sembra quasi non vedermi. Come non ci fossi. Fossi parte del mobilio. E non si guarda molto attorno. Come conoscesse già la casa. Controlla il mattino alla finestra; distrattamente. Ne pare delusa. Nemmeno ho il tempo di guardala come poi avrei voluto. Dopo mi dirà che è bella. Arredata con molto buon gusto. Ricordo il suo nome perché me lo dice: “Flaviana”. Insomma: “Ciao”! “Ciao”! E va diritta verso la macchinetta. Se ne versa una tazzona dal bricco. Anche lei amaro. Amaro e senza latte. Mi chiede se mi spiace: “Ne prendo una tazza anch’io”.
Guarda in tralice la mia tazza dove il mio caffè si sta freddando triste e stanco sulla tavola. Non ero stato preparato. A volte Martina è fin troppo laconica. Soprattutto quando va di fretta. Mi ero fatta un’idea diversa. Non mi ero fatta un’idea. Pensavo sarebbe stata una giornata come tante. Non so se la dovremo accompagnare in giro per la città. Certo non è pronta per uscire. Non so come comportarmi. Non ho nulla da dire. Sono solo sconcertato. Scosso da lei. Forse non la dovevo accogliere in cucina. Forse se fossi rimasto in salotto tutto sarebbe stato diverso. Fossi stato in studio; davanti al computer. Eppure sembra completamente a proprio agio, in casa sua. Neanche farlo apposta sono libero da ogni impegno. Potrei fare qualche telefonata. Non c’è nulla di urgente. Il postino suona e infila la posta in cassetta. Per un secondo penso a come mi avrebbe accolto se glielo avessi portato a letto, quel caffè. Per quel secondo mi sento furbo. Libero la mia grande fantasia. Poi rimetto i piedi per terra. E’ stata solo una riflessione stupida; me ne rendo conto. E’ lei che ispira certe fantasie. Il suo atteggiamento. Le sue parole. La sua voce. Quel sorriso. “Lo prendo amaro anch’io”.
Martina le deve Aver parlato di me. Io di lei non so proprio nulla. Tranne quello che vedo, e che mi lascia vedere. Abbastanza per farmi confusione. Sicuramente non sono amiche dalla scuola. Non mi tornano gli anni. Lei, Flaviana, ne ha qualcuno in più. Cosa volevo dire? Ah! sì. Ha quella specie di giacca chimono. Corta. Ho il sospetto che non abbia che quella. Intendo… addosso. Scaccio quel pensiero. Non so cos’ho questa mattina. Pensare non fa certo onore. La nostra ospite sembra più a suo agio, in casa mia, di me. “Alfredo, vero”? Stavo dicendo… forse l’ha messa uscendo dal letto. O dopo la doccia. Deve averla trovata in armadio. Non la ricordo. Direi che non l’ho mai vista addosso a Martina. Forse mi sbaglio. Non so se è per il colore: nero; lucente. Però le ciabatte sono sicuramente sue. Mi chiede di mia moglie. “Sì! Martina è già uscita”. Martina ha riempito tutta la mia vita. E’ una donna che non lascia un angolo vuoto. Una di quelle. Sempre in movimento; attiva. Attenta anche alle cose più minute. Sempre curiosa. Sempre sul pezzo. Con l’argento vivo addosso. E io resto lì muto a guardare quella sorta di amica. In verità sono pochi attimi ma mi sembrano una eternità. Il tempo è sempre stato un valore relativo. Quando sei in ritardo corre. Altre volte va come vuole. Se aspetti qualcuno o qualcosa pare non passare mai. Cerco di convincermi che quella relazione può aspettare. Intanto la guardo in silenzio.
Lei si lascia guardare. Forse sente i miei occhi addosso: “Volevi dirmi qualcosa”?
Cosa? Questo non lo doveva dire. Cioè non lo doveva fare. Si appoggia al piano cottura e si gira verso di me; sorridendo. Il chimono si apre perché non può diversamente, la stoffa si schiude poco trattenuta dalla ciocca, inventa una scollatura vertiginosa. Sembra non accorgersene. All’improvviso non ho più nessun dubbio. Fuori ha ricominciato a piovere. E non ho proprio parole. Non so che dire. Ripeto come un cretino: “Sì! Martina è già uscita”. Mi dice che non fa nulla. Che quello che le doveva dire lo può fare anche più tardi. Che può aspettare. Mi chiede se lo posso fare anch’io; aspettare. Che è stata gentile. Credo intenda ad invitarla. Perché se non era per Martina non avrebbe proprio saputo dove andare. Mi confessa che è contenta finalmente di conoscermi. Mi chiede che me ne sembra. Non so a cosa si riferisca. I miei occhi sono incollati là. Quasi in una attesa febbricitante. Anche se lo so che non è carino da parte mia. Dice che la sua è una visita. Un paio di giorni. Non è nemmeno una vacanza. Deve vedere un avvocato. Ma anche per quello c’è tempo. Non s’è messa fretta. Non credo di seguire il filo che segue.
Chiede qualcosa di me aggiungendo domande alle altre domande. Rispondo per cortesia quando ne afferrò qualcuna. Quando trovo uno spazio tra una domanda e l’altra. Qualcuna è anche un po’ indiscreta. Intanto la guardo, incerto se la sto vedendo. Scuoto la testa. Si dice contenta che fra noi vada bene. Mi dice che mi trova silenzioso, riflessivo. Che di questo Martina non gliene aveva parlato. Mi chiede se c’è qualcosa che non va. Si guarda. Guarda il suo abbigliamento. Ride: “Non sarai mica turbato”? Taccio. Taccio perché non ho il tempo di pensare. Tanto meno di trovare una risposta adeguata. Una giustificazione. Qualcosa che abbia un senso e, in qualche modo, mi giustifichi. Vorrei dirle di no. Non mi crederei da solo. Ho il sospetto che la sappia la risposta. Mi limito ad osservarla. A controllarla. Sì! di anni ne ha più di qualcuno più di noi. Questo non conta. Ride: “Scusa. Ho messo la prima cosa… E’ che mi sono subito sentita come a casa. A mio agio. Qui. Avete proprio una bella casa. E Martina è un amore. Una vera amica. Ti dispiace”? Non so se mi dispiace. Non direi che mi dispiace. Di questo credo di esserne certo. Ha una voce affascinante; e le sue parole diventano progressivamente suadenti. Cerco di spiegarle: “Aveva un impegno che non poteva rimandare.” –non so perché sento di dovermi giustificarmi, e intanto ride.
Continua a tenere la sua tazza in mano. Non sembra molto interessata al caffè. Non ne ha preso che un piccolo sorso. Semplicemente sembra che con quella fra le dita si senta più sicura. Una cosa così. Forse si sente i miei occhi addosso. Le serve a sostenerli? Non posso fare altro. La prego nella mia testa di stare ferma. Di non muoversi. Di rimanere così. Guardarla è affascinante. Qualsiasi movimento non potrebbe che peggiorare la situazione; farla precipitare. Fuori ha smesso di piovere. Mi ripete la domanda: “C’è qualcosa che mi volevi dire”? No! Non ho nulla da dire. O almeno quello che vorrei dire non è carino. Non è da dire. Meglio tacere. Mi manca la saliva. Non sto più in me. La sedia è diventata scomoda. Non so perché ma sono eccitato. Forse la novità. Forse la sorpresa. Forse semplicemente c’è qualcosa in lei. Forse solo la sua presenza. L’unico problema è che se ne accorge; e ride divertita. Prima che abbia il tempo di alzarmi da quella sedia mi confida quello che le sembra un segreto: “Scusami, non farei mai un torto a Martina”.
Cerco di giustificarmi; di scusarmi. Sono un idiota. Le sue parole mi ributtano sulla sedia. E come spesso mi accade credo di non aver capito niente. Non che… insomma… intendo in altre circostanze, naturalmente. La mia vita non è così abitata da… da donne nude. Anche se non dovrei dire che è nuda. E’ nuda sotto. Il chimono la copre quel poco. E brava indubbiamente a mostrare senza fare vedere. In verità ha visto molto e non mi ha mostrato niente. Non mi ha mostrato ancora niente. Mi spiega che lei non vuole complicazioni. Che esce da una storia difficile; incasinata. Mi chiede se è meglio… se preferisco… se si deve andare a vestire. Credo mi legga la risposta nel viso e ne è divertita e soddisfatta. Dice che la sua vita è sempre stata così. Credo monotona; tortuosa; complicata. Non so cosa credere. Lei è immobile. Io sono una statua, solo che la sua postura è morbida ed io sono rigido, teso. Completamente. Comincia a raccontarmi di come si sono conosciute. Due parole e cambia subito discorso. Dice che quello non era importante che forse non mi interessava. Mi spiega che è arrivata stanca. Che viaggiare la stanca. Ma che questo era ieri, perché ha riposato bene. Mi dice di non aver fretta. Sembra si stia prendendo gioco di me. Anche questo non lo capisco. Riprovo ad alzarmi da questa maledetta sedia ma ancora una volta lei mi blocca: “Per quanto credi ne avrà Martina”?
Torno a non capire. Non so se faccio bene ma chiamo mia moglie. Le chiedo come sta. Poi entro in argomento. La nostra ospite è attenta alle mie parole. Quando chiudo la comunicazione la metto al corrente che Martina purtroppo dovrà fermarsi fuori a pranzo. Che ci dovremo arrangiare. Se vuole possiamo scendere fino all’angolo. Non è poi così male. Come cuoco semplicemente non so cucinare. Lei ci pensa. Ci pensa ancora un po’. Come se non capisse completamente le mie parole. Poi dice che le spiace. Che le spiace per lei. E anche per me; forse. Che non sa come rimediare. Che non vorrebbe essere un problema. Che sono fin troppo gentile; anche a starla ad ascoltare. Se voglio che se ne vada. Per la prima volta sento il suo nome nella mia voce. Lei si diverte del mio imbarazzo: “Flaviana… ecco… io… non vorrei cioè vorrei… non fraintendere”…
Lei mi guarda stupita. Penso che anche lei fatichi a capire. Me lo dice con gli occhi. Poi anche con parole senza pause: “Non vorrei dovermi sentire in colpa. Puoi anche dirmelo. Non è certo un dramma. Ti capirei. Non prendertela così. Anch’io le voglio bene. Ma, come si dice… se è quello che vuoi, che anche tu vuoi, allora potrei volerlo anch’io: «occhio non vede, cuore non duole». O qualcosa di simile. Non facciamo male a nessuno. Non è quello che volevo. Scusami. E’ successo. Così. Senza intenzione. Credimi. Senza malizia. A proposito di vedere… –ride e ammicca a sé, a quella sua presenza, più orgogliosa, quasi arrogante; ancora più certa di sé– Pensavo… se non ti spiace… certo… Sai cosa penso? Io credo di no. Allora… Se lei si ferma a pranzo, possiamo pranzare anche noi. Non è come pensi ma… sempre, se non ti spiace, vorrei pranzare di te. Ora. Adesso. Il tempo non è mai abbastanza da poterlo lasciare scappare. Non credi”?
E’ in questo preciso istante che mi mostra spudoratamente un capezzolo con la ferma intenzione di farmelo proprio vedere. Di confessarmi un segreto. Scostando la stoffa. Ha ancora quella maledetta tazza in mano. Non sono mai stato schiavo del tempo. Né delle ore né dei minuti. Non metto mai la sveglia se non ho un appuntamento. Il mio orologio biologico è sempre stato sballato. Martina dice che sono un ritardatario nato. Non so perché pensare a lei non mi sembra argomento giusto. Sto per dire qualcosa di cui mi potrei pentire. Sono bravo a non dirla. E quando sono in casa non lo tengo al polso, l’orologio. Infatti guardo l’ora ma non lo indosso. E’ quello che si può chiamare un riflesso condizionato. Eppure so che, come mi ha assicurato, non torna. Che siamo completamente soli. Fino a sera. E lei appoggia finalmente la tazza. Per avere le mani libere. Per omaggiare i miei occhi. Per farne mostra di entrambi sostenendosi i seni. Per mandarmi un messaggio definitivo, indiscutibile. Insomma è troppo tardi per qualsiasi considerazione.
Non danzasse con i miei sentimenti, non fosse così intenta a rubare tutta la mia attenzione, a riempirmi gli occhi di lei, così… nuda, potrebbe sembrare una tranquilla donna di casa; forse. Corro fugacemente il rischio di informarmi sulla sua età. Intanto in silenzio mi dice tutto di sé. Tutti i suoi segreti. I segreti del suo regno. Del suo corpo. Il resto sembra una galleria fotografica. Assume pose come se la dovessi ritrarre. Non vuole mettermi fretta. Me lo ripete e ribadisce. Il suo è un invito esplicito. Allo stesso tempo vuole provocarmi. La sua espressione mi chiede se sono soddisfatto. Se mi piace quello che vedo. E’ certa di sé. Sembra intenzionata a restare in cucina. Non so cosa pensare. Non so se ho altre preferenze. Credo che preferirei andare di là. C’è anche troppa luce. Ha un ramo di pesco nel basso ventre. O qualcosa del genere. Ma questo dice che non lo devo andare a raccontare a nessuno. Tanto meno a Martina. Assolutamente. Non sono il tipo. E’ una cosa che deve restare tra noi. Mi trova d’accordo. Mi sembra di sentirla aggiungere che deve restare una cosa senza importanza. Non ne sono sicuro. Non la sto più ad ascoltare molto. Sono distratto. Le sue parole sono ormai solo rumore. E confusione. Confusione nella confusione. Non ricordo nemmeno più cosa dicevamo del tempo. O solo pochi istanti fa.
Oramai mi ha fatto vedere tutto quello che c’era da vedere, che ha da offrire. Si corica sulla tavola. Il suo invito è esplicito. I suoi occhi sembrano gridare finalmente e ora. Non ho il tempo di afferrarla, di spostare la mia tazza, nemmeno di toccarla, solo il tempo di alzarmi, che all’improvviso nella stanza irrompe Martina. Sarebbe stupido e banale che cercassi di giustificarmi dicendole che non è successo niente. Non ancora. Devo essere sufficientemente ridicolo con in pantaloni abbassati. Mi guarda e mi fulmina. Si dipinge in volto un’esclamazione di sorpresa. E di disapprovazione. Mi dice che sono uno stronzo. Che non se lo sarebbe mai aspettata. Sembro l’unico responsabile, e colpevole. Non riuscirò mai a togliermi il dubbio che quelle due fossero d’accordo. Forse persino che l’amica non fosse tanto amica, o persino che fosse una professionista. Se non proprio una professionista nemmeno una novellina. Una che indubbiamente ci sa fare, e sa come farlo. Mi continueranno sempre a rimbombare nella testa le parole della traditrice: “Ti sei fatta attendere. Non sapevo più… Se tardavi ancora un po’”… Per me era già tardi.

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Mi sento come se fossi di legno. Chiedo immobile: “Che fai”?
Mi risponde: “Niente.” –non è né sicuro di sé né di me né di quelle parole. Tantomeno pare disinvolto.
Per quel niente… non mi sembra. Sento anzi la sua mano immobile su di me. Non riesco a guardarlo.
Mi domando se non sia colpa mia. Non mi sembra. Aveva parlato di francobolli, gli avevo detto che non mi interessano i francobolli e non credo alle farfalle. Che studio chimica lui lo sapeva. Avevamo detto solo un caffè. Un caffè e due chiacchiere. Da amici. Da buoni amici. Da compagni di sede. Mi aveva convinto perché aveva quel libro. E io devo ancora dare l’esame. Poi lui lo aveva preso corretto, quel caffè. Io senza zucchero. In punta di sedia. Mi aveva indicato dov’era il bagno.
Mi aveva chiesto del mio colore preferito. Che lui sapeva che ero una ragazza seria ma… Dove avevo preso quella collana che a lui pareva bella. Mi aveva spiegato che mi aveva guardata. Aveva continuato con una serie di quelle sue osservazioni argutamente banali. Poi mi aveva detto che mi voleva far vedere la casa. Voleva un parere non mi ricordo più per cosa. Mi ha mostrato la poltrona che usava suo padre. Le tazzine della mamma. Il letto del gatto che era morto la precedente estate. Oltre l’ultima porta ci siamo trovati in camera. La sua non me l’aveva ancora fatta vedere. Non ne ero curiosa. Mi ha mostrato il quadro elogiando il pittore, ma non lo avevo mai sentito nominare. Mi ha detto che per capirlo pienamente bisognava vederlo con la luce giusta. Aveva spalancato la finestra. Si era seduto ai piedi del letto, davanti all’opera d’arte. “Solo così si può ammirare nel suo meraviglioso splendore. Guarda i colori; i toni”. Mi aveva pregato di sedere vicino a lui. Di non temere. Che non c’era niente da aver paura. Mi aveva promesso che non mi avrebbe mangiata. Solo dopo tutte quelle raccomandazioni avevo trovato il coraggio e avevo accettato di sedermi. “Vedi anche tu come lo vedo io”? Per dire il vero era lo stesso, identico, pessimo, nulla era cambiato. Mi sembrava cosa dozzinale, incerta, di poco conto. Mai l’avrei appeso nella mia stanza. Solo che quella stanza non era la mia stanza. Era quella dei suoi in viaggio. Non gli ho chiesto dov’erano. Conosco così poco di lui. Cristina me ne aveva accennato e non era stato certo in modo entusiasmante, né elogiativo. Non ci siamo fermati più di due volte a parlare e un paio in mensa. Forse abbiamo preso un panino. Tutto qui.
C’è anche la trapunta sul letto, nonostante ormai sia abbastanza caldo. Sembrava comunque un tipo per bene. Non so come dirlo e allora lo dico così come mi viene, senza perifrasi; rischiando di apparire volgare: “Lo sai che mi stai toccando una tetta”?
Cosa”?
La mia tetta”.
Credo di sì”.
Ci pensò. E’ un cafone. Dico indispettita: “Come ti sembra”?
Non si accorge del tono nella mia voce e credo che nemmeno ricordi più la mia domanda: “Così”.
Dico: “C’è troppa luce”.
E’ ancora fintamente baldanzoso: “Se vuoi posso abbassare”.
Dico: “Guarda che la maglietta è bianca”.
Faccio attenzione”.
Dico: “Potrei anche toglierla”.
Se vuoi”.
Dico: “però sotto ho la canotta”.
Lo so”.
Dico: “Potrei togliere anche quella ma ho anche il reggiseno”.
Ho pensato erroneamente che sapesse tutto: “Lo sento”.
Dico: “Però potrei togliere anche quello”.
Come vuoi”.
Dico: “Mi sentirei più libera”.
Anch’io”.
Al sorriso che lo anima e che lo mostra entusiasta e impavido dico: “L’ho messo… non mi immaginavo”…
Neanch’io”.
Dico: “E non vorresti toccare anche l’altra”?
Magari”.
Prima che passi ai fatti dico: “E magari mi vorresti anche baciare”.
Magari”.
Dico: “E che mi stendessi a letto”?
Magari”.
Stai pensando che potrei togliere anche il resto”.
Mi aspetto un nuovo magari e invece… “Mai mi sarei”…
Faccio la spavalda e dico: “Non ho mai perso così tanto tempo per così poco. Ora fammi un piacere: togli quella mano del cazzo. Mettiti tranquillo e vai a fare in culo mentre io me ne torno a casa. Se non sai come fare tieni le mani a posto o infilale nei tuoi pantaloni. Se mi va con qualcuno non ho bisogno di tante balle che non ho tempo da buttare. Se non studio per quell’esame finisce che i miei mi menano. Fallo da solo e grazie per il caffè”.

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Mia moglie mi dice spesso che sono distratto. Distratto e insicuro. Che sono indeciso, come fosse una colpa ancora più grave. Che quando c’è da scegliere finisco col non scegliere o al massimo a dare un parere inutile a tempo scaduto. Perfino quando c’è da scegliere il canale alla televisione; tranne, naturalmente, che per il calcio. Cosa mi andrebbe per cena. Il colore della cravatta o dei calzini. Dice che il mio discorso più profondo e complesso non va oltre a quel “Fai tu”. Ma le mogli servono a quello, a ricordarti continuamente quelli che a loro sembrano difetti.
Dopo una giornata di lavoro eravamo stanchi di fare analisi e proiezioni che non avrebbero potuto cambiare il mercato. Avevamo fatto veramente tardi. Avevo avvertito Clarissa che non avrei tardato ancora per molto. Avevo cercato di mettere un po’ d’ordine in quel caos. Intanto fuori aveva smesso di piovere. Avevo spento i computers e la calcolatrice. Controllato i cassetti. Lei aveva avvertito Giordano che non si preoccupasse del ritardo; che l’avrei riaccompagnata io. Abbiamo inserito l’allarme e preso la strada di casa. Io alla guida e lei in silenzio. Il tempo di pensare che avevo scelto bene: era un’ottima socia, sempre attenta e piena di iniziative anche se i risultati erano quelli che erano. Eppure glielo avevo chiesto prima di mettere in moto: “Un aperitivo? Una bibita? Un niente da sbocconcellare? Tanto per mandare indietro l’appetito. Un salto al bagno”? E le avevo ricordato della raccomandata per il giorno dopo. Pareva avere fretta e l’avrei capita.
Qualche difficoltà da uscire da parcheggio. Un paio di buche e un lampione spento e prendo la provinciale. Sono attento alla guida. Borbotto qualcosa sul tempo e altre banalità tanto per dire. Lei resta in silenzio. Pare non avere fretta. Che non l’aspettino. Resta silenziosa per gran parte della strada, come avesse un pensiero. In tutto mi ha chiesto vagamente e poco interessata di mia moglie; cose che si potevano dire, ci eravamo visti la sera prima. Se non mi sembrava che le sue gonne fossero un po’ troppo corte. Se pensavo che il Di Vincenzo avrebbe pagato. Qual era il mio dopobarba. Per il resto era stata la musica dell’autoradio. Faccio benzina. Non mi andava di fermarmi anche se ero quasi a secco. In un’altra situazione avrei tirato diritto, anzi lo stavo per fare, ma lei sembrava avere quel bisognino. Sì sa come sono le donne. Non mi sembrava il caso di insistere.
Così al primo distributore mi ero buttato dentro anche se eravamo quasi arrivati. Fermo e mi dice che non le scappa più. Non ha voglia di scendere, semplicemente non ha voglia di nulla. “Prendo le sigarette e torno”. In realtà prendo anche un caffè e pago. Ho notato tornando la portiera aperta. Ho fatto il giro intorno alla machina e ho fatto per chiuderla. Lei si era assentata. Fissava davanti a sé come avesse notato qualcosa. Qualcosa nel buio che le rubava tutta la sua attenzione. Che non vedevo. E’ stato un attimo. Forse due. Non me ne sono accorto subito. Cosa c’era di diverso? A volte certi dettagli sfuggono. In altri momenti colpiscono l’attenzione. Come lampi accecanti. Improvvisamente restò immobile allibito e smarrito davanti alla portiera. Un aggettivo in più sarebbe stato superfluo se non esagerato.
Ho un attimo di perplessità pensando a cosa non va quando ho visto le mutandine per terra… Quel filo nero di niente con quella rosellina rossa proprio lì, sul davanti. Magari e sul fianco. E’ stato allora… proprio allora… che ho cominciato a preoccuparmi, a chiedermi… a sospettare… cioè che mi sono sorti dei dubbi, anche se non volevo certo correre il rischio di fraintendere; di offenderla. Mi ero solo offerto di accompagnarla a casa dopo l’ufficio. Una cosa banale. Non sono certo nella confusione successiva di ricordare bene. Ricordo solo bene i fatti. Il precipitare delle cose. Credo le sue parole.
Però ho la certezza che la musica era stata spenta. Se le mutandine sono sul pavimento questo forse vuol pure dire qualcosa… vuol dire… dire che lei non le ha addosso. Che… sotto è senza. Anche se addosso ha ancora le calze. E tutto il resto. Cioè è vestita di tutto punto, come quando si è seduta. Cioè quasi. Sì! la posizione non è tra le più… comode, cioè tra le più composte… cioè… insomma… La trovo… sconveniente. Mi guardo intorno. Non c’è nessuno. Nessuno che possa badare a noi. Non che siamo soli. L’autogrill manda le sue luci colorate di neon. La pompa segna ancora i litri e il prezzo. E qualcuno potrebbe arrivare e aver bisogno di far il pieno.
I due camion degli autisti che mangiavano dentro sono immobili e silenziosi come due pachidermi giganteschi. Un’aria fina viene dai campi portando odore di erba umida. E brevemente torno a chiedermi di quel perché. Le gambe non sono male e le scarpe… sono due… sì, naturalmente due… ma due strumenti di tortura. Con quei tacchi che trapanano il cervello. E la fantasia. La gonna non c’è più, cioè si è tutta arrotolata in cintura. Certo altrimenti non sarebbe riuscita a sfilarle. Certo avrebbe potuto ricoprirsi. Mi chiede che aspetto e di sbrigarmi continuando in quell’atteggiamento che sembra ignorarmi. Senza guardarmi. Ho la sensazione di essere sudato. Cosa vorrà dire?
Faccio il giro e salgo. Mi sistemo i pantaloni; li tiro su sulle ginocchia. L’automobile sembra stata fatta per farli sgualcire. Frugo alla ricerca della cintura. Guardo lo specchietto retrovisore. Sembra annoiarsi. Aspetto solo un attimo prima di mettere in moto. Poi lo faccio: avvio il motore. Mi dice, anzi mi ordina: “spegni”! Senza capire eseguo il suo ordine. Senza capire la sento chiedermi: “Sei scemo”? Non credo che la sua domanda desideri una risposta. Forse mi ha chiesto anche se qualcosa non va. Non posso esserne certo. Abbassa le gambe ma la posa non è più composta: “Che aspetti”? Raccolgo quelle minuscole mutandine e per un momento non so che farne. Mi sembra persino di sentire l’odore di lei. Ci penso un attimo. Me le toglie di mano indispettita e le butta dietro: “Ora… non mi servono”. Frugo per sganciare la cintura. Serra le labbra come se trattenesse un sogghigno o qualcosa che non vuole dire, forse un’imprecazione spazientita. Guarda l’ora. Il tempo è un’entità imperfetta. Spero capisca che… Non so come dirlo e lo dice lei: “Qui e ora”!
Qui”?
Prima che ci ripensi”.
Faccio per osservare che ma Graziana… non vorrei… che lei mi fa capire che non c’è più nulla da dire né il tempo per pensare. Ha già ribaltato il mio schienale. Lo deve fare lei e mi aiuta a liberarmi della cintura. Mi spiega in silenzio che è bionda naturale. Mi cade il cellulare dalla tasca. Mi ricordo che siamo ancora in folle. Al diavolo, se qualcuno ha bisogno può servirsi ad un altro erogatore. Oppure, fanculo, tirare diritto fino alla prossima stazione di servizio. Sperando che a nessuno venga in mente di pulirci il vetro e gli specchietti.

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Minerale”?
Naturale”.
Cazzo, spero nessuno si sia accorto. Nella fretta ho scordato di metterle. Così mi sento anche più libera. Certo, quando siamo scesi non credevo di dover fare anche questo. Giornata di merda. Certo non sei stato carino”.
Preferivo guardare”.
Capisco, ma almeno una mano me la potevi dare. Comunque soddisfatto della… vista”?
Non mi posso lagnare”.
Cafone. Almeno la mia sbadataggine è servita a qualcosa. Mi hai preso a tradimento”.
Veramente non ho preso nemmeno le sigarette”.
Che vuoi dire”?
Voglio dire che possiamo dire che il volo ha tardato”.
Ma cosa credi di averti messo in testa”?
Veramente hai fatto tutto tu”.
Vero. Un po’, lo ammetto; anche se non era tutto voluto. Ma è fatto. Ormai hai visto tutto quello che dovevi vedere, o quasi. Ma hai guardato”?
Non sono sicuro. Meglio ricontrollare”.
Essere tanta non vuol dire che non si può essere santa”.
Vuoi proprio deludermi; ora”?
Dove”?
Tu cosa dici”?
Parcheggiata è parcheggiata. Strisciata ormai è strisciata. Perché muoverla? Chiamerò più tardi il carrozziere. Conosco io qui vicino. Non serve nemmeno fare tanta strada”.
Ci vai spesso”?
Impertinente. Che ti credi”?
Non credo nulla”.
Fai male. Vediamo se sei bravo come con le parole”.
Guarda che tutte mi considerano un taciturno”.
E allora sbrigati che mi prendo freddo”.
E’ subito qui dietro”.
Puoi togliere la mano di lì, per cortesia”.
Me l’avevi chiesta tu una mano”.
Non lì, ed era prima, e non ora”.
Comunque… complimenti”.
E’ tutta roba mia. Non mi sono costata un solo centesimo”.
Un attimo”.
Non ti ho chiesto io di farmi foto. Almeno aspetta”.
Aspettar cosa”?
Abbi pazienza che sono ancora vestita”.

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Quando le giornate cominciano così uno lo dovrebbe sapere e tornarsene a letto. Anche il mio oroscopo mi aveva messo in preavviso. La sveglia non aveva suonato. Radendomi nella fretta mi ero tagliato. Scendo in garage e la macchina non parte. Avrei già dovuto portarla dal meccanico. Speravo non mi tradisse così presto. Alzo il cofano. Non ci capisco niente. Lo sbatto giù. Mi metto in strada e rimando il primo appuntamento. Il cliente si mostra seccato. Il caffè lo prendo al bar. Accendo una sigaretta e mi avvio. Un po’ distratto e un po’ senza più alcuna fretta. Suona il cellulare. E’ lo stesso cliente del secondo appuntamento a dirmi che non può per sopraggiunto impegno; a disdirlo. Non ne posso essere certo ma credo gli sia piombata la finanza in negozio. Mi trovo a vagare senza una precisa meta. Costeggio i giardini. Guardo una ragazza che aspetta che il suo cane la faccio. Guardo l’ora, è tardi per tornare e presto per qualsiasi cosa. Guardo in cielo e nello stesso istante scoppia un vero nubifragio.
Per un po’ corro. Non risolvo molto. In un attimo sono zuppo. Oltre a mancarmi il fiato. Non so proprio dove ripararmi: Rivoli mi scendono come fiumi dai capelli, dalla fronte. Mi bruciano negl’occhi. Mi infilo in una pozzanghera e mi concio in un modo impresentabile. Faccio fatica a guadare quello che è diventato un vero fiume. Sono solo in mezzo alla burrasca. Le strade sono vuote. A stento riconosco il posto. Mi ricordo che Livia deve stare da quelle parti. Una volta siamo saliti da lei. Eravamo tutt’e due mezzo ubriachi. Non ricordo molto altro di quella sera. Torno a correre cercando di tenere il giornale sopra la testa. Lo getto inutile e suono alla sua porta.
Viene ad aprirmi direttamente da letto. Mi guardo come se non capisse. Poi esplode e mi dice: “Cazzo”! Mi osserva meglio, poi si riprende: “Ma sei tutto bagnato, come un pulcino. Vieni dentro, dai, mica puoi startene così. Mica posso lasciarti lì fuori. Ti prenderai qualcosa”.
Non è stata una buona idea. Non volevo disturbare. Solo non avevo alternative. Pensavo di farmi prestare un ombrello. Qualcosa di simile. Di chiederle il tempo per riprendermi un attimo. Non ricordo una pioggia simile. Resto sullo zerbino: “Stai attento. Aspettami qui che bagni da per tutto. –si prende ancora un attimo per pensare– E fai piano che lui è ancora a letto.” –E mi lascia in entrata.
Non ricordo molto della casa. Ho gli occhi pieni di pioggia. E anche gli occhiali. Torna con un paio di ciabatte: “Infilati queste. Almeno non lascerai le orme in tutta la casa”. Poi mi prende la mano e mi porta con lei in bagno: “Ti cerco qualcosa”. Si chiude la porta dietro le spalle: “Mettiti questi che ti prendi un accidente. Sono di lui”. Ci pensa ancora su: “Torno subito”. Se ne va per pochi attimi. Faccio a tempo solo a sfilarmi la maglia. Torna e si richiude la porta dietro: “Dorme”. Sussurra che debbo leggere le sue parole dalle labbra: “Vieni qui, stupido, che ti asciugo. Se aspettiamo ancora è malanno sicuro”. Prende un grande asciugamano e mi è subito vicina. Mi sfila gli occhiali. Li poggia sulla mensola. Mi friziona i capelli con energia. Li spettina divertita. Si sfila la sottoveste dalla testa e ho la conferma che non aveva che quella. Ride: “Chi si vede. Certo potevi trovare un’occasione migliore”. Non so se il momento e dei migliori. Non è una visita di cortesia. So che non era necessario togliersi tutto per quello che deve fare. Macchine ne passano poche. Fuori un tuono sconquassa gli equilibri e i lievi rumori del mattino. Tutto sembra tremare. La sua mano si ferma. I suoi sussurri e il mio silenzio diventano un unico groppo in gola. Ci guardiamo. Ascoltiamo. Rimbomba un altro tuono, meno fragoroso. Per un po’ il tempo si ferma nel silenzio. Mi accorgo ancora di più che è nuda. Anche lei si rende conto che ho davanti agli occhi la sua nudità. Sostiene il mio sguardo. E’ confusa. Sconcertata. E’ compiaciuta. Guarda soddisfatta il suo lavoro: “Non lo svegliano nemmeno le cannonate”. La guardo, comincio a riconoscerla. Mi passa le dita tra i capelli. Ride; forse di me, della mia faccia: “C’è mancato poco. Cosa dici”? Inizia a passarmi energicamente l’asciugamano sul collo. Sulle spalle. Sotto le ascelle. Lungo le braccia. Ne è soddisfatta. Friziona accuratamente sul busto, togliendo ogni goccia. Con testarda meticolosità. Con soddisfatta esasperata attenzione. Sui fianchi. Sul ventre: “Che aspetti? Toglile”! ma fa da sé. Mi abbassa con un gesto solo pantaloni e mutande: “Ora sì che ci siamo. Libero”! Ride. Sembra divertita e soddisfatta. Non si sofferma che un attimo. Ride divertita. Mi fa sfilare completamente quei panni trascinandoli giù nervosamente e li butta, senza guardare, in un angolo. Perdo l’equilibrio e rischio di cadere. Torna a ridere. Poi si fa seria e ricomincia ad asciugarmi: “Non devi vergognarti. Non sono più una ragazzina”. Però le sue dita sono altrettanto attente ma più nervose. Vanno e ritornano più volte. Il suo viso è arrossato. Ride di un riso isterico: “Permetti?” –e si inginocchia davanti a me. Non ho ancora avuto modo di dire una sola parola. Mi lascio guidare, e mi fido di lei.
Niente è facile in una stanzetta come quella, in un bagno. Soprattutto tra le braccia di una donna con tutte le sue fantasie. Mi spinge lei contro il muro. Le metto una mano dietro. Nemmeno il tempo di apprezzare; la toglie. Cerco di baciarla. Mi respinge: “Non ora”. Sembra decisa delle proprie idee. Mi trascina dentro la vasca. Mi ricorda di fare silenzio. Picchio il ginocchio contro il rubinetto. Ingoio il rantolo di dolore e la debita imprecazione. Mi ritrovo con le sue gambe intorno al collo: “Ora fai il bravo”. Mi sento soffocare: “Sii gentile”. Provo a farlo con la migliore volontà: “E’ bello essere svegliata così”. Non penso ad altro. Ascolto solo i rumori gutturali che gorgogliano dalla sua gola. Mi scordo di dove siamo. Sono solo suo. E lei è selvaggia. Solo che il rubinetto gocciola. Si scorda di tutto. Grida. Mi guarda. Alza e spalle e sorride. Poi mi precipita in un abbraccio infiacchito, ma dura poco. Mi esplode spontaneo un sussurro dal profondo: “Livia”. Bisbiglia: “Piccolo sbadato. Non c’è nessuna Livia. Dovrei essere offesa. Sono Benedetta. Non ti ricordi”? Nemmeno il tempo di pentirmi e per delle scuse che esplodono due colpi alla porta. Inutile dire che mi sento morire. Imbarazzato. Mi mette una mano sulla bocca: “Sono in bagno”. Di là una voce da uomo borbotta qualcosa di incomprensibile: “Andrà nell’altro. Tranquillo, poi torna nel suo letargo”. Sorride e il suo sorriso serafico e malizioso mi tranquillizza: “Ora fai piano e non avere fretta. Non so chi è quella Livia, non te lo dovrei perdonare, non si chiama mai una con il nome di un’altra, ma… sono fatta così. Io prendo quello che viene. La vita è fatta per essere vissuta. Anche se è quella di Livia”.
Ha quell’espressione dispettosa. Alla fine mi sento un po’ stronzo e un po’ stupido. Fuori il cielo e di piombo ma almeno la pioggia ha dato una tregua. Guardo l’orologio. Cerco di inventarmi qualcosa, qualcosa di carino da dirle, ma è ancora lei ad interrompermi: “Sì! forse è meglio se ora ti rimetti in ordine. Credo proprio che tu debba andare”. Torna dentro la sua vestaglia e mi porge quei panni. Li infilo. Almeno sono asciutti. Solo che debbo rimettermi le mie scarpe, e senza calze, e dentro a quelle c’è ancora tutto il nubifragio. Apre, scruta nel corridoio. Si gira a guardarmi tranquilla e contenta, come volesse ripetere: “Hai visto? te l’avevo detto”. Mi accompagna fino alla porta tenendomi per mano. Se ne accorge lei: “Forse era meglio se ti davi una pettinata”. Ride e controlla intorno, poi mi saluta sul pianerottolo con un bacio: “444.696969. Non scriverlo nel vento. Al prossimo temporale”. Le dico: “Lucio.” –e ripeto a me stesso– “Sì! sono Lucio.” –davanti alla porta che ha già richiuso. Mi guardo intorno, tutto è così confuso. Gli occhiali sono rimasti sopra quella mensola. Presto o tardi sarò costretto a tornare per farmeli ridare. Sperando che non le creino problemi. Avevo avuto ragione fin dall’inizio: ho solo voglia di tornarmene a letto. Quella sera dovevo essere proprio molto ubriaco; e forse Benedetta è sempre stata astemia.

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Tutti hanno o hanno avuto una storia con la propria segretaria; io no. Non certo per una questione di bigottismo. Né un eccesso di moralismo. Ancor meno per timore. Certo amo la vita semplice, senza complicazioni. La verità è che sono sostanzialmente fedele, ma forse anch’io, come ogni uomo, non mi saprei opporre ad una allettante tentazione. Pazienza per Euterpe, a lui non piacciono le donne. Ognuno i suoi gusti. E pensare che fa le consegne. Voglio dire… col camion. A me invece le donne piacciono. E nemmeno voglio passare per uno che se la tira. Che si da arie. L’avventura è sempre democratica. Ma è più forte di me. Poi sono abitudinario e amo le mie comodità. Infine ammetto che con mia moglie va tutto bene e lei soddisfa tutti i miei bisogni.
Insomma non disprezzo ma nemmeno ne sono schiavo. Guardo e tiro avanti. Non che non mi faccia fantasie, ma sono solo piccole fantasie. E poi vorrei vedere un altro al mio posto. A tutto c’è un limite. Con rischio di muoversi e risvegliare un vespaio. Tutte le segretarie sono innamorate del loro capo. Magari segretamente. Probabilmente anche Susanna lo è. Vedo come sorride, e come a volte arrossisce, anche al più piccolo complimento. Riconosco i suoi pregi, che non sono pochi. Lei, Silvana, mi è indispensabile. E’ molto efficiente e mi segna tutti gli appuntamenti e anche il resto. Capisce le cose a volo. Forse anche questa. Anzi sì! penso se ne sia fatta una ragione. Sa stare al suo posto. E le gambe non sono poi male. Soprattutto coi tacchi. Lei è quella mora seduta davanti alla finestra.
E’ sempre così pronta, gentile, in modo fin troppo grazioso. Ma Sabrina non è proprio il mio tipo. Cioè non si può proprio dire che sia bella. Ha cura di sé, ma la bellezza non è tra le sue virtù. Ha lo stesso fascino di una risma di carta da fotocopiatrice. E’ più forte di me. E’ parte della mia vita, ma come una cosa pratica, un oggetto di arredamento. E poi nel tempo è sopravvenuto quell’affetto che spegnerebbe comunque ogni entusiasmo. Anche nel mezzo della peggiore delle crisi di depressione, di autodistruzione. E anche del rispetto. E’ una di casa. E poi ha quell’aria da vecchia. Da zitella. Inoltre è anche vegetariana. Le vedo come donne e non le vedo come donne. Ma forse ho sempre creduto che con la segretaria, sì! insomma, fosse banale.
E’ persino inutile tornarci sopra. E poi dicono se le tradisci. Lei dice che non mi ricordo le cose; lei è mia moglie. Ma si sa come sono le mogli. Sempre pronte a criticare. A cercare il pelo. E spesso questo le fa gioco. Così può ricordare le cose come vuole lei. O dirmi quel ti avevo avvertito. Non è stata una volta sola che l’ho colta in fallo. A spiegarmi com’era andata una cosa che ricordavo bene. Lei dice che dovrei farmi vedere da qualcuno. Che se la ditta non portasse il mio nome non ricorderei nemmeno quello. Fa dell’ironia. Niente di più falso perché io sono quel «& figli». Certo non te la aspetti; voglio dire l’ironia. Non sono poi così distratto, sono solo riflessivo e ho mille cose in testa.
E poi mi chiedo come può un uomo tenersi tutto a memoria, numeri di telefono, di bancomat e carte di credito, indirizzi, compleanni, e tutti i gadget di una vita in comune? Accorgersi che è fresca di parrucchiere. Notare proprio quel vestito. Ricordarsi se le piacciono le rose o le piante in vaso. A quale donna non piacciono le rose? Fino a ricordarmi dove ha messo le cose. Se non lo sa lei… Farle il muso se un uomo le fa una cortesia in più; a una cena. Chi non è geloso non ama. Non ho mai creduto ai luoghi comuni E poi con tutto quello che ho da fare. Se potessi ricordare tutto non avrei bisogno di pagare delle segretarie.
Forse sono, questo lo posso ammettere, un po’ sbadato. Ecco, al massimo si può dire che ho la testa da un’altra parte. Non proprio tra le nuvole; sul lavoro. Che mi perdo nei miei pensieri. Che seguo e sono troppo impegnato in quelle che sono le cose per me importanti. Che bado poco alle chiacchiere e al superfluo, cercando di limitarmi al sodo. Comunque, per non sbagliare, mi appunto tutto. Per l’ufficio ci sono loro e la mia agenda, per il resto ricorro al primo frammento cartaceo che mi capita in mano. Credo, cioè credevo, che così non mi potesse più rinfacciare niente. Ma tanto lo so che ogni buona moglie trova comunque sempre qualcosa di cui rimproverarti. Cosa stavo dicendo? Già! Mi sono frugato in tasca ma non ho trovato il bigliettino. Mi sono salvato con un: “Buon giorno cara”.
Mi dice: “Ciao!” anzi lo squilla e sembra felice di vedermi. Forse il vestito che indossa lo ha preso mentre ero al lavoro. Forse vuole che guardi quello. Me ne dovrei accorgere? Anche perché è vestita di tutto punto per stare in casa. O forse sono le scarpe. Non credo di averla mai vista sopra tacchi tanto alti. O è… ecco forse è il colore. A vederla così… sembra meno lei. Non so. E’ diversa. Ha qualcosa che… non so. Insomma non pare nemmeno quella di ieri.
E’ piena di gentilezze. Di sorrisi e gridolini. Di ammiccamenti. Gli occhi velati di provocazione. Forse è quello, forse è passata dall’estetista. Mi scodinzola davanti. Direi che lo fa apposta. Non mi ricordavo che avesse un culo così. Già, ma io sono smemorato. E distratto. O forse è che il tempo passa più in fretta di quanto me ne possa accorgere. Lo sa che è sabato. Che il sabato finisco all’ora di pranzo. Il pranzo non è in tavola. Non c’è dubbio che si sia preparata per me. Avrei bisogno di quella maledetta agenda. Non voglio farmi vedere da lei. Forse è l’anniversario di un qualche cosa. Trascurando ogni altra conclusione lo debbo ammettere. Non dimostra i suoi anni. Ed è ancora bella. Non ho mai smesso di amarla. E di esserne attratto. Anche se dopo tanti anni di matrimonio. Credo proprio che non mi si possa rimproverare di nulla.
Apro il frigo e mi prendo una birra. Cerco di riflettere. Non trovo nessuna spiegazione. Accende il condizionatore. Dice che è caldo. Anche lei si prende una bottiglia. Viene a sedersi davanti a me. La succhia avidamente. Accavalla le gambe. Il vestito si apre. Le si vedono tutte le gambe. Le si vedono anche le mutandine. In fondo siamo tra noi, tra marito e moglie. Mi sorride disinvolta. Non fosse lei direi che mi provoca. Lo so come sono fatto. «Posso resistere a tutto tranne le tentazioni». Lei lo sa. Lo fa apposta. Ne sono quasi certo. Ci stiamo comportando come due stupidi. Cosa ci facciamo ancora in cucina? Lei si china e mi accorgo che non ha messo il reggiseno. Sono ancora sode. Ammicca per essere certa che le abbia viste bene e tutte. Sarei un imbecille anche dopo tanti anni: “Perché non andiamo di là”?
Tutto questo prima. Poi la mia vita è cambiata. In quel preciso istante. Non se l’è fatto ripetere. Sembra lo volesse anche lei. Almeno quanto me. Non aspettasse altro. Mi sentivo colpevole di averla trascurata. E i suoi occhi sorpresi si sono subito trasformati in occhi entusiasti. Aveva più fretta di me. Quel vecchio entusiasmo come un entusiasmo nuovo. Ma non ero interessato a pormi troppe domande. Ormai avevo fretta. C’erano cose più importanti. Lei che mi si muoveva davanti. Quel suo fare provocatorio oltre ogni limite. Lei. Lei che si sfilava il vestito mentre cercavo di raggiungerla. Che fingeva di fuggirmi. Di sottarsi ai miei abbracci. Che mi allontanava le mani. Che si offriva alle mie mani. Che rideva cinguettando. Come una ragazzina. Lei che si nascondeva. Lei che si mostrava. Lei che mi voleva senza niente addosso. Lei che aveva fretta. Che mi aiutava. Lei piena di passione. Che mi incitava. Lei appassionata. Lei disperata. Lei che liberava un grido che pareva essere stato imprigionato e soffocato dal tempo dei tempi.
E poi lei che si accende una sigaretta. Non ricordavo che fumasse. E lei che mi dice: “Ricordami che dopo devo aprire. Non voglio che resti l’odore di tabacco”. Mi sfiora un sospetto ma è solo il battito d’ali di un attimo. Nemmeno il tempo per afferrarlo. E poi la sua presenza è ancora così invadente. E’ ancora lì nuda e la luce che entra dalla finestra si riflette sulla sua pelle liscia. Liscia e morbida. Sorride. Non ci siamo dati nemmeno il tempo per accostare le tende. Sto per dirlo; per soddisfazione. Qualsiasi uomo ha quei piccoli bisogni, di poter indulgere sul proprio orgoglio. Non avrei bisogno di farle alcuna domanda. Quello che vorrei sentirmi dire lo so. Invece è lei che. Appoggiata su un gomito, guardando dentro i miei occhi, vuole spontaneamente testimoniarmelo: “Certo che sei un vero porco. –e me lo dice fissandomi con una grande soddisfazione, come si esprime un sincero e grande complimento– Meglio di quanto mi potessi immaginare”.
Dovrebbe ricordarsi che il fumo mi da fastidio. Me lo sussurra addosso. Vorrei dirle qualcosa. Credo che non ci sia un momento migliore per tacere. I miei occhi vogliono ancora per un po’ riempirsi di lei. Del suo corpo. Del fascino della sua carne e dei suoi segreti. Ma lei sembra aver bisogni di liberarsi dei suoi pensieri. Si sistema i capelli, si loda il seno e cerca il tono più distaccato che il momento le permette: “Non so cosa t’è preso. Proprio oggi. Dopo tanto tempo. Potrei dire che non so cosa mi è preso. Non lo dirò. Sai che non sono brava con le bugie. E poi vorrei risparmiarle. Non è solo colpa tua. E non voglio certo fare la santarellina. Dopo questo. E’ da tanto che ci pensavo. Che speravo. Vedevo come mi guardavi. Mi sono accorta sai. Non sono mica cieca. Non capivo perché. Per tanto tempo ho sperato che succedesse. Ora te lo posso dire. Inutile mentire. Ma forse è meglio che ci alziamo. Tiziana potrebbe tornare da un momento all’altro. Ed è meglio se non ci trovi così; non credi”?
“Tiziana”?
“Tua moglie, stupido. Mia sorella. A volte mi viene quasi da crederti. Lo fai così serio”.
Cazzo mi ero fatto mia cognata. Avevo scopato con la sorella di mia moglie. Però… devo dire che è stato bello. Non è proprio male, la mia cognatina. Proprio un gran pezzo di cognata. E lei a dirmi che sua sorella è proprio stupida. Che non può tenere tutta per sé una cosa così. Ed è stata proprio lei a dirmi: “Spero non ti sei pentito”. Mentiva sapendo di mentire. Sicura di sé. Mi è proprio piaciuto. E, senza falsa modestia, è piaciuto anche a lei. Ci devono aver sentiti tutti i vicini.

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Ambrogio”.
Prego signora”?
Mi son svegliata di buon’umore”.
Buon segno, signora”.
E… Ho voglia di scopare”.
Le sembra opportuno”?
Perché”?
Il signore”.
La voglia ce l’ho io, mica lui”.
Non vorrei”…
Dov’è”?
Nel suo studio”.
Ecco! Vedi! Ne avrà almeno per un altro paio di ore”.
Posso prendermi la libertà”?
Fai pure. Anzi… devi”.
Il cornuto ha lasciato le sigarette sul comodino”.
Il solito. Hai chiuso la porta”?
Non era necessario”.
Dovevi pensarci”.
Posso farlo ora”?
Dovevi pensarci il momento di pensarci”.
Come desidera”.
Ambrogio è sempre pronto a soddisfare ogni mio desiderio, e bisogno. Sempre così attento ed efficiente. Ma è così impettito. Così ligio e rispettoso dell’etichetta. Anche troppo. E poi odio quando mi contraddice. Se è vero che il letto ha due piazze ne consegue che una piazza è rimasta libera. Deserta. Capita anche a noi donne di svegliarsi con una lusinga. Non che io sia una di quelle. Non che per me sia come una ossessione. O che tragga piacere al solo tradire. E’ solo che ho fatto un sogno. Non lo ricordo, ma mi sono svegliata con una smania dentro. Forse è questa mia abitudine di coricarmi nuda. E’ che mi sento libera. E lui, Ambrogio, mi porta il caffè a letto. Così mi vede. Anche senza volerlo. Non che mi serva provocare. Non è certo la prima volta che mi vede spogliata. Anche senza cercarlo, né volerlo. Vive sotto il nostro stesso tetto. E’ come uno di famiglia. E poi Luigi è sempre la stessa cosa; ieri, oggi e domani. E mi son svegliata con questa strana filastrocca improvvisata: “Ho fatto, o fotto”. No! nemmeno frequento spesso la volgarità. Solo che quando è necessario dire una cosa non ci sono parole altre. Non c’è un altro modo di dirla. Di principio rifiuto le regole e le imposizioni: “Comunque… è meglio se la chiudi quella maledetta porta. Anzi no, che vada fino dal tabaccaio se proprio ne ha voglia. E che non rompa le balle. Se bussa glielo dico”.
Come desidera”.
Facciamo presto”.
Come vuole”.
Una cosa svelta”.
Come preferisce”.
Non decidiamo ora. Ci pensiamo durante”.
Grazie signora”.
A volte mi infastidisce sentire troppe volte quel signora. C’è il limite anche al rispetto. A letto è il rispetto che è un limite. Ci sta come i cavoli. “Scusi, signora”. “Permette, signora”. “E’ troppo… gentile, signora”. “Grazie, signora”. Fanculo alla signora. Chi è questa signora? Primo: non mi va che mi venga ricordato sempre. In continuazione. Secondo: non si tratta di gentilezza. Io non sono gentile, sono bona, sono appassionata, posso essere tante altre cose ma gentile no. Almeno finché non usciamo da questa stanza. Mi fa perdere le staffe. Alla decima sbotto. In fine gliene do il permesso, è quasi un ordine: “chiamami topa, chiamami guapa, puta, baldracca, zoccola… chiamami come ti pare. Con gli epiteti più volgari e azzardati, insomma «chiamami» e basta; trova qualcosa di più appropriato che signora, quando sei senza braghe. Oppure stai in silenzio. E rimetti al suo posto quell’affare che non è un complimento per una signora. Sei volgare e impertinente”.
Subito signora”.
Non ti sarai mica offeso”?
Assolutamente no, signora”.
Sii gentile: accendimi una sigaretta”.
Certo, signora”.
Mi fai una cortesia? Mi andrebbe un altro caffè”.
Tutto quello che vuole, signora”.
E mi andrebbe… un altro… ancora, ma dopo. Brutta cosa la fretta”.
Certo, signora. Tutto, pur di farle cosa gradita”.

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