Mi sento come se fossi di legno. Chiedo immobile: “Che fai”?
Mi risponde: “Niente.” –non è né sicuro di sé né di me né di quelle parole. Tantomeno pare disinvolto.
Per quel niente… non mi sembra. Sento anzi la sua mano immobile su di me. Non riesco a guardarlo.
Mi domando se non sia colpa mia. Non mi sembra. Aveva parlato di francobolli, gli avevo detto che non mi interessano i francobolli e non credo alle farfalle. Che studio chimica lui lo sapeva. Avevamo detto solo un caffè. Un caffè e due chiacchiere. Da amici. Da buoni amici. Da compagni di sede. Mi aveva convinto perché aveva quel libro. E io devo ancora dare l’esame. Poi lui lo aveva preso corretto, quel caffè. Io senza zucchero. In punta di sedia. Mi aveva indicato dov’era il bagno.
Mi aveva chiesto del mio colore preferito. Che lui sapeva che ero una ragazza seria ma… Dove avevo preso quella collana che a lui pareva bella. Mi aveva spiegato che mi aveva guardata. Aveva continuato con una serie di quelle sue osservazioni argutamente banali. Poi mi aveva detto che mi voleva far vedere la casa. Voleva un parere non mi ricordo più per cosa. Mi ha mostrato la poltrona che usava suo padre. Le tazzine della mamma. Il letto del gatto che era morto la precedente estate. Oltre l’ultima porta ci siamo trovati in camera. La sua non me l’aveva ancora fatta vedere. Non ne ero curiosa. Mi ha mostrato il quadro elogiando il pittore, ma non lo avevo mai sentito nominare. Mi ha detto che per capirlo pienamente bisognava vederlo con la luce giusta. Aveva spalancato la finestra. Si era seduto ai piedi del letto, davanti all’opera d’arte. “Solo così si può ammirare nel suo meraviglioso splendore. Guarda i colori; i toni”. Mi aveva pregato di sedere vicino a lui. Di non temere. Che non c’era niente da aver paura. Mi aveva promesso che non mi avrebbe mangiata. Solo dopo tutte quelle raccomandazioni avevo trovato il coraggio e avevo accettato di sedermi. “Vedi anche tu come lo vedo io”? Per dire il vero era lo stesso, identico, pessimo, nulla era cambiato. Mi sembrava cosa dozzinale, incerta, di poco conto. Mai l’avrei appeso nella mia stanza. Solo che quella stanza non era la mia stanza. Era quella dei suoi in viaggio. Non gli ho chiesto dov’erano. Conosco così poco di lui. Cristina me ne aveva accennato e non era stato certo in modo entusiasmante, né elogiativo. Non ci siamo fermati più di due volte a parlare e un paio in mensa. Forse abbiamo preso un panino. Tutto qui.
C’è anche la trapunta sul letto, nonostante ormai sia abbastanza caldo. Sembrava comunque un tipo per bene. Non so come dirlo e allora lo dico così come mi viene, senza perifrasi; rischiando di apparire volgare: “Lo sai che mi stai toccando una tetta”?
“Cosa”?
“La mia tetta”.
“Credo di sì”.
Ci pensò. E’ un cafone. Dico indispettita: “Come ti sembra”?
Non si accorge del tono nella mia voce e credo che nemmeno ricordi più la mia domanda: “Così”.
Dico: “C’è troppa luce”.
E’ ancora fintamente baldanzoso: “Se vuoi posso abbassare”.
Dico: “Guarda che la maglietta è bianca”.
“Faccio attenzione”.
Dico: “Potrei anche toglierla”.
“Se vuoi”.
Dico: “però sotto ho la canotta”.
“Lo so”.
Dico: “Potrei togliere anche quella ma ho anche il reggiseno”.
Ho pensato erroneamente che sapesse tutto: “Lo sento”.
Dico: “Però potrei togliere anche quello”.
“Come vuoi”.
Dico: “Mi sentirei più libera”.
“Anch’io”.
Al sorriso che lo anima e che lo mostra entusiasta e impavido dico: “L’ho messo… non mi immaginavo”…
“Neanch’io”.
Dico: “E non vorresti toccare anche l’altra”?
“Magari”.
Prima che passi ai fatti dico: “E magari mi vorresti anche baciare”.
“Magari”.
Dico: “E che mi stendessi a letto”?
“Magari”.
“Stai pensando che potrei togliere anche il resto”.
Mi aspetto un nuovo magari e invece… “Mai mi sarei”…
Faccio la spavalda e dico: “Non ho mai perso così tanto tempo per così poco. Ora fammi un piacere: togli quella mano del cazzo. Mettiti tranquillo e vai a fare in culo mentre io me ne torno a casa. Se non sai come fare tieni le mani a posto o infilale nei tuoi pantaloni. Se mi va con qualcuno non ho bisogno di tante balle che non ho tempo da buttare. Se non studio per quell’esame finisce che i miei mi menano. Fallo da solo e grazie per il caffè”.
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Argutamente banale
Posted in Lo scatto (erotico), tagged amore, avventura, carnale, comportamento, confessioni, corteggiamento, Donne, eccitazione, emozioni, impudicizia, ironia, lascivia, letteratura, lettura, libidine, licenzioso, ludico, lusinga, lussuria, malizia, narrativa, parole, prosa, provocazione, pudore, racconto breve, scrittura, sensuale, sesso, sessuale, timidezza, uomini on 13 ottobre 2014| Leave a Comment »
Tutta colpa dell’inverno
Posted in Profili, tagged abbraccio, aderenza, banalità, caffè, calore, coccole, coppia, fatti, freddo, grammatica, Lei, lettera, letteratura, letto, lui, malinconia, missiva, narrativa, pettegolezzo, pigiama, prosa, pudore, racconto breve, scrittura, stile, tradimento on 15 luglio 2011| Leave a Comment »
Egregio signor autore. Con questa mia la prego umilmente di limitarsi e tenere a freno le sue fantasie stilistiche attenendosi il più scrupolosamente possibile ad una costruzione corretta delle frasi (soggetto, predicato verbale, complemento oggetto, eventuali altri complementi), il che renderebbe di più semplice lettura i periodi e l’intero testo, ma soprattutto di essere più aderente ai fatti. Io non so se spedirò mai questa mia. Fatti, appunto: quel mattino era un freddo particolare e stava finendo la legna. Io me ne stavo sotto le coperte impigrita in quel tepore e con nessuna voglia di alzarmi per accendere la stufa. Anche, perché no, salvaguardando la sua semplice banalità. La giornata fuori metteva malinconia. Sono andata al bagno perché non ne potevo fare a meno e il freddo mi era entrato dentro. Così, tornando, sono scivolata sotto le coperte semplicemente alla ricerca di quel calore. (Le cose vanno perché debbono andare). Era come uno scherzo anche nei reciproci sorrisi. Erano solo coccole, innocenti coccole, ma si fa presto a scaldarsi in due e anche il pigiama faceva caldo. Il mio pigiama di pile con gli orsetti. Senza pensarci l’ho tolto e sono tornata a rifugiarmi in quel tenero abbraccio. Il pudore mi vieta di andare oltre come farebbe certamente il suo amore per il pettegolezzo ma non c’era nessuna malizia; almeno nelle mie intenzioni. Il male, semmai, viene dopo. Forse fu il suo troppo entusiasmo a svegliare Gianferdinando. Ora come ora non saprei proprio cosa dire. Se non si fosse destato non sarebbe successo niente e invece, ormai, è successo. Ora che hanno portato la legna mi sento più sicura e non succede tutti i giorni di svegliarsi in un mattino in cui fa un freddo così particolare. Dico solo che non è una buona ragione per andarsene e che non è nemmeno una scusa sufficiente per portarmi il caffè a letto.
Il noioso (musica per una canzone)
Posted in Profili, Racconti, tagged breve, noioso, precisione, pudore, racconto, suicidio on 8 dicembre 2009| Leave a Comment »
Era talmente preciso che non avrebbe certo accettato quel granello nell’ingranaggio. Cercò il centro ideale del tavolo per il vaso. Dopo aver annoiato anche sé stesso cercò una ragione alla sua presenza. Controllò più volte che la temperatura della vasca fosse esattamente di trentasette virgola due gradi. Vi si immerse. Si aprì i polsi con due incisioni perfettamente uguali per lunghezza e profondità. Lo colse una sorta di sonnolenza mentre si svuotava di vita. Aveva tenuto le mutande per pudore.
La ragazza di Bucarest
Posted in Lettere, tagged amore, distanze, epistola, lettera, lontananza, parole, pudore, riservatezza, timidezza, treno, viaggio on 3 ottobre 2008| 2 Comments »
19 settembre 1972 2008
Cara amica che guardi il mondo con l’anima e con l’anima lo mostri.
Stasera ti sentirò stasera e sarà già ieri o ancora prima. Stasera ti sentirò con altre parole che non queste che non danno voce. Non danno suono. Perché non potrei mai dirti, mentre mi ascolti, altrettanto; e le parole stesse che mi suggerisce il cuore. Per quella strana ragione. Così stupida. Per quel pudore. Per riservatezza? Solo perché non potrei sostenere i tuoi occhi. La luce dei tuoi occhi. La violenza dei tuoi occhi che mi guardano. E ancora solo perché non potrei nemmeno sostenere la tua presenza. Nemmeno il suono delle mie stesse parole. Nemmeno il secondo. Goffo, mi sentirei morire. Temo il balbettio indistinto. Temo quell’errore che è il parlare. L’amore ha bisogno di lettere d’amore e di tacere ed occhi socchiusi. L’amore ha bisogno di sognare e lasciarsi andare. L’amore ha bisogno di farsi amore. E allora aspetto di ritrovarti qui. In questo qui fuori dal tempo. Dove sembra eppure impossibile, farlo oggi così, in questo mondo che corre, in questo mondo senza spazio e senza pazienze, parlare d’amore con parole che arrivano dopo.
Eppure non v’è un posto, nemmeno qui, dove parole possano dire, di più e solo quello che, dicono i silenzi mentre ti tengo la mano, mentre appoggi la testa sulla mia spalla, al biondo dei tuoi capelli, un biondo che abbaglia. Ma già mentre ti vedo arrivare o quando mi preparo a tornare – qualsiasi treno correrebbe troppo piano. E il tempo e lo spazio che ci divide, immobile, diventa ogni istante più dilatato. Non stiamo fermi, è il tempo che non basta più. Il tempo che ci viene rubato. Il tempo di cui sono sempre più goloso. Il tuo tempo per me. Le tue braccia che mi offrono un abbraccio. E non ho parole lusinga ne parole ruffiane. Non ho nulla di tutto ciò tranne il mio disarmato e disarmante perdere il fiato davanti al tuo sguardo. E queste sillabe che vincono il pudore e stendo all’aria come i panni di un figlio, come fiori avvizziti in una mano che non li sa dare, come un promemoria gridato a me stesso, come una promessa. E in tutte queste parole e in mille altre mi manchi.
Io. Quell’io che sogna dove gli altri sporcano. Ma anche l’altro io, quello che sporca le lenzuola. Quello che non si libera del sogno e anche nel sogno vive. Quello che ti dorme accanto e ti ascolta respirare. Quello che teme ad ogni tuo cenno. Quello che trepida per ogni tuo cenno. Interprete avaro di una favola tanto grande. E ancor più violento diventa il bacio che mi manca. Diventa l’assente presenza di te tra le mie braccia. E i tuoi occhi chini, la prima volta – ricordo che mi lancina il cuore. Ricordo indelebile che di te mi resta. E tutto quello che ci siamo detti senza dire parola. E ogni mia ripartenza. E ogni volta che vedevi, in amarezza, quel mio viaggio dal quale non mi potevo arrendere. Quando i tuoi occhi tacevano risoluti lacrime secche che avrebbero voluto gridare. I tuoi occhi, quei tuoi occhi velati di tristezza. Quei tuoi occhi mansueti. E mi dicevi che era solo per pochi giorni. Passeranno in fretta. E lo dicevi per convincere te stessa. Quando anche un minuto era troppo. Ed eri già al telefono ed ero già lì a cercarti. E il mio treno era ancora alla stazione. E già mi cantavo la nostra canzone.
Non c’è un posto, non uno, che possa essere il nostro posto. Per tutto quello trovo questo coraggio. Ma un altro treno è pronto. E ora Brasov ci fa ancora più lontani. E quel treno scalda i muscoli. E poi l’aereo fragile. E poi ancora strada (polvere e sassi) e pulman (e ancora polvere e sassi). E io qui a contare i minuti. E a contare i metri; anche la misura più minuta. Pronto a guardare fuori anche i paesaggi che non posso riconoscere. E a cercarti anche dove so che non ci sei. Che ore sono lì, dove sei tu, fin troppo distante? Il mio orologio s’è fermato; fa sempre l’ora dell’impazienza. Ho già il biglietto in tasca. E la valigia sempre pronta. E l’abito che ho preso per vedertelo indossare. Per poterlo togliere. Per vederti uscire – come dalla spuma di mare. E sentire uscire l’odore del tuo corpo. Il profumo della tua pelle. Il fascino di te che mi fa impazzire. Ma resterei per sempre anche solo a guardarti. E’ bello guardati. E’ bello solo quando ci sei.
Se fossi la mia morte desidererei morire.
Firmato con un nick