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Posts Tagged ‘sesso’

16fd68e1cc1b848bd17297130ae08541Questo mondo banale ruota intorno a momenti e gesti banali in cui le persone si mostrano e si nascondono. Niente e diverso come nulla è normale. Tutti come intorno ad un tavolo a recitare la propria parte. Nuotando nel tentativo di non affogare nel niente. E i giornali non dicono quello che succede per non disturbare la digestione di chi ha ancora qualcosa da mangiare. E allora, se non lo dicono loro, i giornali, le televisioni, non succede niente. Non c’è nessuna guerra, nessuna epidemia, nessuna carestia. La crisi non esiste. C’è solo la stessa politica di sempre. L’uomo col sorriso che si mangia il gelato. Il prossimo film all’ennesimo festival. Il varietà del sabato. Il pomeriggio dalla parrucchiera, con la tinta e la messa in piega. Il gioco del lotto. L’ultimo sogno.
Lui non era così. Aveva risparmiato sui regali mandando un bigliettino e con quei soldi aveva provveduto ad una adozione a distanza. Lui era uno che si informava anche se l’informazione gli dava dolore. Non era tipo da nascondere la faccia sotto la sabbia. Ed era tipo da tornare sulle cose, da interrogarsi, da tenersi un dubbio e frugare in cerca di una risposta. Per lui era una consuetudine di lasciar passare almeno qualche giorno prima di tornare su di un fatto che lo avesse colpito particolarmente, anche questa volta è stato per questo. Il mondo stava esplodendo e nessuno sembrava rendersene conto. Se sfuggiva qualcosa al muto sopore allora era cosa che non riguardava solo gli altri. È stato per quel bisogno di metabolizzare le cose, di capire, anche se non sempre ci riusciva, che non ne aveva parlato prima. Sono le cose insolite quelle che ti lasciano maggiormente in preda dei dubbi, e quella, insolita, lo era per davvero.
Così lo aveva voluto un Natale diverso. Con i pacchetti ma con piccole cose dentro. Probabilmente lei non ne aveva saputo niente. Non era tra gli invitati. Non poteva dirsi era nemmeno tra gli amici. Era venuta con Bruno. Da quando si era separato l’amico arrivava sempre con una compagna nuova. A volte belle o carine come lei, a volte meno belle e persino talvolta volgari. Era convinto che rimorchiasse quello che capitava. Solitamente all’ultimo minuto. Non riusciva a tenersene una. Si stava anche un po’ lasciando andare. E lui aveva avuto bisogno di fare non poca fatica, ma in un tempo relativamente breve, per riconoscerla. Forse perché non era facile scordare una come lei, e non se l’era scordata. Anche se non era certo che il nome che credeva di ricordare fosse proprio il suo: Alberta. Così mentre tutti erano di là, e se ne sentivano le grida e il baccano, lui l’aveva ritrovata sotto l’albero: “Lui, cioè Bruno, è solo un amico, mi ha detto che lei, cioè te, si occupa di volontariato. Che è un uomo che legge e si informa. Che fa tante cose. Ho sempre avuto rispetto per le persone colte”.
Gli sembrava così giovane e solare. Intanto lei continuava a tenere il gatto sulle ginocchia e ad accarezzarlo. Solitamente quell’animale, che per la verità era femmina e sterilizzata, era un po’ scontroso, ma con lei se ne stava buono e la lasciava fare. Certo quella ragazza, che forse si chiamava Alberta, aveva gambe lunghe; e tacchi alti. E occhi che si scioglievano in quel sorriso. E tante domande e tante curiosità dipinte in viso: “Credo che sei stata informata male. Che almeno chi te l’ha detto sia stato un po’ troppo generoso. Non faccio nulla di speciale”.
Quell’anno praticamente l’estate non c’era stato, e l’inverno era arrivato pieno di interrogativi, nessuno avrebbe saputo dire se sarebbe continuato mite o rabbioso e rigido. Se i ghiacciai continuavano a sciogliersi e se il globo avrebbe continuato inesorabilmente a desertificarsi in fretta. Era passato anche l’ultimo appuntamento per avere rimorsi. Era arrivata con una pelliccia ecologica dal pelo lungo. Anche quella aveva fatto buona impressione ai suoi occhi. Ora, al caldo della casa, non faceva strano vederla con quel vestiario. A lui piaceva il suo abbigliamento informale, quella camicetta dorata senza maniche e un po’ scollata e quella gonna corta in jeans.
Non aveva bisogno certamente di molto trucco per essere bella. Le bastava sorridere: “E apprezzo ancora di più la modestia. Eppure lei potrebbe vivere bene. Non è certo quello che le manca. Ma lei… scusa posso darti del tu? con il lei finisco per inciampare e faccio spesso delle figure, dicevo, fammi capire, ma tu sei proprio tu, cioè quello che nascondeva la faccia sotto quella orribile sciarpa vinaccia? Scusa, ma te lo dovevo proprio chiedere. Un regalo? Ti sta proprio bene, cioè questa, cioè ti faceva proprio un cattivo servizio, l’altra, perché, adesso che ti posso vedere debbo dire che non sei proprio male. Era ora che te la togliessi. Quella di prima, intendo”.
Non capiva se era proprio un complimento e in parte doveva esserlo. Ricordava anche lui quella sciarpa, l’aveva portata tanto, per anni. Con quella si sentiva un po’ artista, ma non ricordava quando lei potesse averlo visto con quella addosso. Si era perso e disorientato a metà per il numero e la velocità in cui si era sentito versare addosso quel commento. Ma anche per la sua congenita mania di ragionare sopra ogni cosa, anche sulle quisquiglie. A volte avrebbe voluto essere più disinteressato, meno pignolo. Aveva molte domande che avrebbe voluto farle, ma, intanto che se le rigirava in testa, passava l’attimo e non sarebbe stato né gentile né rispettoso. C’era in quella giovane donna qualcosa di magnetico: “Di là, senti come si divertono. Sei sicura di volertene restare qui, da sola”?
Non riusciva a capire perché nella sua voce fosse entrato quel tono di rammarico: “M’è capitato tra le mani un libro bellissimo. Vetro di un tale Giuseppe Furno. L’hai letto? Dovresti. Parla di Venezia. Credo sia il primo che ha scritto. Venezia resta sempre una città incantevole. E la sua scrittura l’ho trovata affascinante e avvincente. Esattamente in vibrazione con l’ingranaggio. Forse non mi spiego bene. Perché te lo dico? Ecco, quello sarebbe stato un regalo appropriato per un tipo come te. Invece”…
Scusami Irene. Va tutto bene. Sono contento che sei venuta. Che ci siamo ritrovati”.
Agnese. Come quella che va a morire. Non fa niente. Non ti devi scusare. Un nome è solo un nome. Non potevo pretendere. Ero solo una ragazzina. Non mi hai regalato nemmeno uno sguardo. Comunque bella storia quella. Quella di quella Agnese, non la mia. Lei sì che era una donna. Una donna e importante. Credo che il babbo mi abbia chiamata così per quello. Mamma ha fatto le bizze ma lui non ha ceduto. Per lui la Resistenza era un vero valore. Loro andavano con le tette fuori, non certo mamma. Bei tempi. Io non avrei avuto molto da mostrare; a quell’età. Per quello nemmeno oggi. Non prendermi per svergognata. Basterebbe ascoltare per udire l’urlo delle bombe. Dove c’erano case non sono rimaste che rovine. Viviamo come nel ventre di una balena. Vorrei poter fare qualcosa, ma non sono brava come te. Comunque… Torniamo a noi. Non è una sciarpa che fa un artista. Non mi piaceva nemmeno molto la gente che allora frequentavi. Che ti stava intorno. Un giorno credo di averti fermato e di avertelo detto. O forse volevo farlo. Ma non credo di averlo fatto. O forse? Ma tu non hai capito. Forse per loro eri importante, ma erano una banda di sfigati. Non so cosa ci trovassi? Uno rischia di perdersi. Parla di mare e di avventure, il libro. Non lasciartelo scappare. Poi mi dici. Ora studio lingue orientali: il cinese. Ma non ti voglio annoiare. Non sono certo un tipo interessante; io. Possiamo restare qui ancora un po’? Non mi piace la confusione. Ora che ti ho ritrovato voglio conoscerti. Credevo non ti ricordassi di me. Allora stavo con Claudio e scopavo con Francesco. Non so perché ti dico queste cose. È passato così tanto tempo. È finita con uno e non mi importava abbastanza dell’altro. Sai perché te l’ho detto? Quando l’ho saputo era ormai troppo tardi. Lui non mi dice mai le cose per tempo. Ora mi sento ancora imbarazzata. È tuo il gatto? Così non ho fatto proprio a tempo. E sono arrivata senza nemmeno un regalo. Nemmeno piccolo. Spero che mi potrai scusare. Solitamente non sono così sbadata. Non è colpa mia”.
Avevo pregato tutti di non sprecare i soldi, di non buttarli. Di usarli in un modo migliore”.
Tutti vorrebbero un microfono. Anche quelli che non hanno nulla da dire. Anche i muti. E poi fanno la benzina ecologica col pane di interi popoli. Nell’altra mano aveva l’ulivo. Nell’altra mano aveva il kalashnikov; un AK-47. Non ne fanno più uomini così. Scusa. Vorrei che i miei soldi non andassero persi per strada. Che raggiungessero una di quelle scuole. Quelle fatte di sabbia, sogni e fantasia. Non sono insensibile come sembro. Non è la faccia che fa la donna. Nemmeno tu potevi essere quello che sembravi. Oppure a Emergency. Che ne pensi? Forse ti faccio anche troppe domande. E tutte assieme. È troppo facile stare dalla parte dei più forti. Troppo comodo. Non so se mi andrebbe una bibita. Non ti disturbare. Non sono sempre così loquace. È che va così. È che… lasciamo stare. Vorrei una figlia di nome Leila. Non mi fraintendere. Per favore. Ho il terrore che tu interpreti male ogni parola. Come in un esame. Ogni cosa a suo tempo. Non sono pronta. Piuttosto mi faccio monaca. Posso farti una confidenza: degli uomini mi piace il culo. Sì! glielo guardo. Tu… Scusa non mi dovevo… Il culo e gli occhi. Ti sto annoiando? Io adoro Chagall. Non chiedermi perché. E la Canterbury scene. Credo si dica così. Correggimi se sbaglio. E stendermi a prendere il sole nuda, dove nessuno mi può vedere. Ora che posso. Magari in riva al mare. Al mare trasparente. Tra gli scogli. E ascoltarne il respiro. Sai perché te l’ho detto? La storia con Claudio e Francesco. Lo so che non è importante. Cose da ragazzi. Lo sei stato anche tu. E poi, come ho detto, è finita subito. Ecco. È che mi sono ricordata di quella sciarpa. Del suo colore orribile. Per me è sempre stato un mistero. Non sapevo cosa pensare. Nemmeno se eri bello o interessante. Insomma… son cose che si pensano. Non riuscivo a farmi un’idea. Ci credi? E questo mi è rimasto in testa. Certo non pensavo di ritrovarti. È stata una sorpresa. Non ho collegato il nome quando… Dirai che sarebbe stato facile. Mi sarebbe sembrato inopportuno. Avevo trovato anche il tuo numero. Già! penserai che sono proprio una stupida. E io pensavo fosse solo un capriccio. Quasi volevo rinunciare. A venire, intendo. Però vedo che di pacchetti ne hai abbastanza. Poi ci ho pensato un po’ su. Anche se io non credo al natale e a tutte queste feste; soprattutto ai santi. Sono un po’ agnostica e un po’ atea. Qualcuno pensa che se una è carina non avrebbe bisogno di usare il cervello. Così ho pensato che proprio senza niente non potevo venire. Così ho pensato di regalarti qualcosa di personale: le… le mutandine. Certo, se non ti dispiace. Avrei voluto metterle in una carta dorata. Portarle con un bel fiocco blu. Non c’è stato tempo proprio per niente. Le ho portate addosso. Le ho messe pulite. Tanto ho i collant. È per le gonne. Non che siano troppe corte, ma preferisco sentirmi sicura. Solo che… solo che le ho messe sotto. Mi devo spogliare tutta. C’è un posto dove ti posso regalare il mio regalo”?
Se vuoi saliamo un attimo”.
Anche due”.

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728_1000Io mi siedo sempre al solito posto. Naturalmente non per un diritto. È solo che arrivo presto, prima del pullman. È che lo prendo al capolinea. Salgo per primo o con i primi. Se serve lavoro di gomito. Spingo un po’. Con furbizia e senza troppa arroganza. Salvo rarissime occasioni il sedile è ancora libero. Così mi metto vicino alla porta della discesa. Questo tutte le mattine da quando lavoro all’erario, salvo naturalmente le feste. Mattina dopo mattina, puntuale alla stessa ora. Certi gesti si fanno abitudini, anche a nostro dispetto. Mi siedo e frugo in borsa. Prendo il libro e mi sprofondo nella lettura.
Sì! sono abitudinario. Non è un gran vizio. Mi piacciono le certezze. Sapere cosa trovo quando scendo. Quando giro l’angolo. A una festa o una serata. Prendere il caffè allo stesso bar, sempre macchiato con una lacrima di latte e mezzo cucchiaino di zucchero. Porto ancora la fede al dito. Prima di andarsene Marilena mi ha dato del noioso. Credo di essere solo preciso. E non ho la pretesa di capire tutto. Infatti Marilena non l’ho ancora capita. Se n’è andata lasciandomi pieno di domande e di misteri. Già è una fortuna che non mi ha cacciato. S’è presa solo le sue cose e le lenzuola ricamate. È sempre stata convinta che non ci sia casa senza di quelle.
Da alcuni giorni lo prende anche lei, voglio dire lo stesso pullman. L’ho notata subito, o quasi. Da allora mi sento distratto. Non posso dire che non disturba la mia lettura. Qualche volta è al cellulare, anzi spesso. Non riesco a sentire quello che si dicono. Penso che nella maggior parte dei casi parli con un’amica. Non è lei, è che da quando facciamo il viaggio assieme sono deconcentrato. I miei occhi scappano dalle pagine, perdo il segno. Rileggo più volte le stesse righe e poi rinuncio. Così mi arrendo e non ascolto le sue telefonate, ma la guardo telefonare. Forse se n’è accorta e i miei occhi la distolgono. È una ragazza attenta, e garbata. Solitamente lo fa guardando fuori dal finestrino o, come ora, abbassando gli occhi. Così la posso spiare anche meglio. Sì! perché non la osservo ma la studio. Non sono mai invadente. Non mi soffermo mai a lungo o con insistenza. Distraggo gli occhi velocemente. È solo che faccio sempre più fatica a non pensare a lei.
Un po’ mi sento un guardone, ma non posso non guardarla. Ormai nei miei pensieri la chiamo: la mia ragazza. La sogno da sveglio e mentre dormo. Niente di sconveniente, non ne sarei capace, ma è una presenza gentile, un rifugio, un pensiero delicato. Sento il suo profumo educato. Mi è capitato passandole vicino. Prima di scendere cerco di memorizzare bene com’è vestita, per trattenerla con me ancora per un po’. Per ricordarla bene. È solo un gioco, un vezzo. Mi nego la verità, non mi è mai successo, credo di esserne affascinato. E, anche se sono stato sempre molto attento, non sono certo che non si sia accorta di me.
Quando riesco a non distrarmi sono un buon osservatore. Le notizie al cellulare non devono essere molto buone. Ha gli occhi abbassati e sembra molto attenta. Adoro quella sua espressione tra il concentrato e l’imbronciato. Oggi ha una maglietta a righine sottili. Sotto indossa un reggiseno azzurro; lo riempie bene. Porta sandali con il tacco basso, è abbastanza alta, un po’ più di me. Ha due vere enormi ai lobi. Non ha mai bisogno di molto trucco. Dev’essere carina anche quando si alza dal letto; come si dice acqua e sapone. Si porta dietro una sporta e la borsetta enorme beige. Ha un paio di pantaloncini corti bianchi. Anche le gambe sono belle è affusolate. È caldo. Forse sono un po’ troppo corti. Forse frequenta qualche piscina. Non so dove può lavorare per andarci vestita così, in modo un po’… informale. Sembra più preparata per andare al mare anche se non è poi così caldo. L’acqua dev’essere ancora freddina.
Trovo il coraggio che non ho mai avuto. Aspetto la sua fermata. Raggiungo la porta subito dopo lei. Annuso il suo profumo, scendo e discretamente la seguo. Cammina come in punta di piedi; ritta e sicura. Entra in un’agenzia di viaggi. Mi siedo ad un bar proprio dirimpetto e continuo a guardare la mia bella. Nel frattempo telefono in ufficio per avvertire che tarderò oppure che mi prendo una giornata di ferie. Erminia si mostra sorpresa ma non fa commenti, si limita a dire che va bene. Non ho tolto gli occhi da lei nemmeno per un momento, nemmeno mentre parlavo al telefonino. Sta rispondendo a un cliente. Lei mi vede attraverso la vetrina. Mi sorride e mi saluta, mi fa proprio ciao con la manina. Mi guardo intorno; mi sembra impossibile. Sono solo col mio caffe macchiato freddo. Mi indica che si rivolgeva proprio a me. Le scappa da ridere. È deliziosa e le si illuminano gli occhi. Mi soffia un bacino e fa cenno di aspettare. E io aspetto e non lo devo fare per molto, si libera presto dell’intruso. Viene alla porta e mi dice che le dispiace ma, non può finire prima dell’una. Si scusa ma se voglio… Senza permetterle di finire le dico che sarò lì puntuale e così faccio.
Alle tredici sono già lì e lei mi ha visto arrivare. Mi regala un altro saluto e si mette fretta. Chiude la porta dell’agenzia con due giri di chiavi e mi raggiunge velocemente. È sbrigativa; mi chiede dove voglio che andiamo. Le propongo un ristorantino poco lontano; non è caro e si mangia bene. Accetta subito e sembra contenta. La faccio passare e ci accomodiamo. Preferisce quella gasata ma non disdegna anche un goccio di bianco. Cerchiamo di parlare del più e del meno, ma abbiamo ancora pochi argomenti in comune per sostenere una conversazione sufficiente. Sembra avere appetito. Ogni tanto nasconde i denti, le labbra e una breve risata dietro le dita. Si accorge del mio imbarazzo. Si scusa. Mi chiede se può parlare liberamente. Ha una voce cantilenante che cade come gocce di pioggia su una coppa di cristallo. Mi comincia a confessare che ha avuto una storia ma è finita, e finita male. Si versa un altro bicchiere di vino. Mi dice di scusarla e che è meglio lasciarsi dietro le malinconie. Che bisognerebbe sempre parlare solo di cose allegre. Di cose positive. Che in fondo la vita…
Insiste per pagare la sua parte, alla romana. Oggi è libera. Ha deciso di non riaprire l’agenzia. Ammette di non averne voglia. Andiamo verso il parco, ha ritrovato il suo buonumore. Il suono della sua voce è diventato ancora più squillante. A tratti sembra saltellare dalla gioia. Mi prende sottobraccio. Ha rubato un pezzo di pane per le anatre. Se ha un solo difetto non glielo riesco proprio a trovare. Mi confida che si sente libera, che sta proprio bene con me, come con uno zio saggio. Vorrei dirle mille cose ma non ci riesco. E temo che tra noi… sia ancora troppo presto. Preferisco la prudenza. Confesso solo di trovarla carina. Ma mentre proseguiamo sento la sua mano sfiorarmi il fondo schiena e questo le mette allegria. Non ho mai trovato una ragazza come lei, che non si fa cautele a esprimere il proprio parere.

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Un giro di chiaveDo sempre un giro di chiave alla porta. Anche quando non c’è nessuno e siamo soli. Figuriamoci quando c’è Nicoletta in giro. Per chi non mi conosce Nicoletta è la nostra collaboratrice domestica. Per loro spiegherò che è una donnetta come tante. Niente di particolare. Bassina e un po’ robusta. Con i capelli come le donne di una volta. Una figura che sembra schiacciata al suolo. Sempre in jeans e maglietta. Estate e inverno. Unica differenza è che d’inverno si cambia quando arriva. Utilizzando l’altro bagno. Mai avuto delle fantasie su di lei. Non sono uno di grandi stravaganze.
Come dicevo è una mattina come tutte le altre. Me ne sto tranquillo seduto sul trono. Certo sento i rumori del suo gran d’affare. La scopa che sbatte contro il battiscopa. Le porte che si aprono e si richiudono. Anche quelle degli armadi. Come dicevo ero appartato con il giornale in mano. Faccio un sobbalzo. Senza bussare lei apre l’uscio e mette dentro la testa Scusa, non sapevo che fossi qua. Naturalmente lei fa per andarsene e richiudere quella maledetta porta. Mi si blocca tutto: Tranquilla, non è nulla, e ho quasi finito. Forse non lo dovevo dire. Non si sa mai cosa dire quando si è sopresi con le brache calate. Ci ripensa ed entra ridendo e si mette a pulire, senza far caso a me. A me che a quel punto sono pieno di vergogna. E appoggio il giornale. Comunque non riuscirei a leggere. Ho la testa altrove. Vorrei vedere un altro.
Non ho mai visto una donna delle pulizie a ore tanto principessa quanto Nicoletta. Maestra nel brontolare e con qualche parola volgare che le scappa talvolta dalle labbra. Cioè è spiccia con quella lingua. Innamoratissima del suo Alfredo. Il suo Edo è un pezzo d’uomo. E deve avere una pazienza infinita. Ormai è con noi da una vita, Letta. Ci raccontiamo tutto. Soprattutto lei ama metterci al corrente delle vicissitudini e delle sue disgrazie. E per quelle è sempre pronta. Ne ha sempre una di nuova. Mentre imperterrita continua nelle sue incombenze mi chiede se ho già preso il caffè. Mi dice che dopo me lo prepara. Ma dopo. Preferirei che andasse a mettere la moka sul fuoco subito. Non ho il coraggio di chiederlo. Solitamente lei lascia i bagni per ultimi. Cos’è questa novità?
Mi ragguaglia sulle ultime e su come hanno passato il fine settimana. Con gli amici. Sulle solite peripezie che deve attraversare ogni mattina per arrivare puntuale. Storie sempre uguali, leggende da pullman di linea. Capisco che quel darmi le spalle risoluta e testarda molesta anche lei. Lo capisco da come alza gli occhi al cielo e si sistema una ciocca. Non so proprio che fare. Le chiedo la prima cosa che mi viene: Dov’è Giacinta? È al telefono con mammina. Sempre per chi non ci conosce, Giacinta è la mia dolce metà. La mia consorte. Insomma mia moglie, anche se non ci siamo mai sposati. So che quando è al telefono con mamma le telefonate non finiscono mai. Lo sappiamo entrambi.
Non è che me ne stia lì a guardarla. Non riesco ad alzarmi. Non lo posso fare, con lei presente. Lei lucida la batteria di miscelatori dandomi le spalle. Forse potrei approfittare del momento, della distrazione. Non ci riesco proprio. Sono gli occhi che continuano a fissarlo, il suo culo basso di jeans. Più che robusto. Imprigionato. Anche se ride di nuovo e mi dice Fai finta che io non ci sia. non è possibile perché lei c’è. È lì e prende a raccontarmi le bizze del vecchio padre. È avanti con gli anni, suo padre. Non è mai stato quello che si può definire un brav’uomo. Ora non c’è più con la testa. Vive da solo, ma ha bisogno di tutto. Intanto sistema il bicchiere con gli spazzolini e il tubetto del dentifricio. Passa lo straccio sul portasapone. Pulisce il grande specchio. La guardo in viso su quello specchio e scopro che sta ancora ridendo. Per fortuna non mi sono alzato.
Se la posso fissare allo specchio è perché ci possiamo vedere. Il suo tempo corre veloce. Mi guarda in viso. Si volta e ride. Ride del mio imbarazzo. Controllo che non mi si veda niente. Anche se la mia posizione non può essere certo delle più eleganti. Lei non abbassa gli occhi. Semplicemente è come se tutto fosse normale. O non ci fossi: Scusami, ma ora dovrei fare il water; o preferisci che inizi dal bidet?
Mi chiedo se è una domanda trabocchetto. Del resto sarebbe solo dilungare la seccatura. Non mi scappa più, è passato. Non colgo la differenza. Vorrei dirle che se esce un attimo la lascio libera di fare. Invece le dico: Fai come vuoi.
Sai come sono fatta, ho il mio ordine, sono metodica. Preferisco fare come ogni giorno. Meglio che comincio dal water. E allora alzati. Che sarà mai?
Ma
So com’è fatta; e non so del tutto com’è fatta. Ride. Ride che sembra sfidarmi. L’ho sempre vista così, in quei panni. China sui pavimenti o davanti al lavello. Nemmeno mai in camera a rifare i letti. Cerco sempre di evitare di esserle d’intralcio. Se lei è in una stanza vedo di essere in un’altra. Stamattina sembra tutto cospirare. Sembra che tutto sia diverso e insolito. Vorrei tanto sapere cosa è cambiato. Come ha passato la notte. Non sono mai stato invadente. Me ne sto zitto. Io sì ma lei no: Dai che sai che pulisco bene. Stamattina, vorrà dire, che mi tocca… pulire anche te.
Non posso far altro che fare come dice. Mi alzo con i pantaloni abbassati, alla caviglia. Pieno ancora di quella vergogna. Penso di essere sufficientemente ridicolo. Ma, tra la distrazione degli occhi e il suo parlare, sono anche orgoglioso; almeno un pochino. Oltre quello che sarebbe lecito e che vorrei. A lei sfugge un Cazzo! e un Perbacco. L’ho spiegato prima che ha la lingua libera e veloce. Dovevo ancora scoprire quanto. Si congratula e mi dice che ha sempre saputo che sono Un vero signore.
I veri signori non si trovano mai in simili situazioni. Credo. Cerco farfugliando di scusarmene. Mi chiede Di che? Mi dice anche Fai il bravo. Vorrei fare da me, ma lei non me lo permette. Da una lucidatina anche al mio rubinetto. Dimostra che, quando vuole, ha una pazienza pari se non superiore al suo amatissimo Edo. E poi mi dice soddisfatta che anche a lei piace il caffè con il latte, ma con Il latte a parte. Questa non la capisco proprio. Lei dà sempre il meglio di sé in tutto quello che fa.
Non posso negare che la mia vita è un po’ cambiata. La mattina prendo ancora prima il caffè. Poi vado a fare i miei bisogni. Ma ho imparato a non chiudermi a chiave. Lei mi raggiunge sempre, o quasi. Con il suo solito Scusami, posso? Salvo non sia il suo giorno libero. O non ci sia proprio Giacinta nei paraggi. A volte lo scordo. Sembra sia diventato uno dei suoi doveri. Nemmeno quello che le costa più sacrificio. E devo ammetterlo, la brava Betta, è proprio una vera maestra nel lucidare tutto.

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La grande ladraNon so proprio a chi raccontarlo e allora lo racconto a te. E allora lo racconto proprio a te. Sai cosa ha fatto quella disgraziata? No! Aspetta e lo sai. Sono così incazzata da farmi confusione. Le cose stavano andando berne. Non che fossimo proprio contenti. Non siamo abituati ad avere ospiti in casa. E poi una così. Praticamente s’è invitata da sola. Lo spazio c’è.
Me la trovo davanti così. Con quel sorriso furbastro. Tutta in nero. Tutta stivali alti e tutina aderente e puttanesca in vinile. E frustino compreso. Completo Bondage… BDSM. Che ne so? Ne so niente di quelle cose lì. Io sono alla vecchia. Mi sembrava una di quelle. Ma per quello mi era sembrata fin dal primo minuto. Una maiala. Una vera porca. Quando ti trovi una tipa simile per casa devi sempre cominciare a preoccuparti. Solo che… Sembrava che Giogiò non potesse proprio dirle di no.
Si cena, quattro cose alla buona. Poi vado a dare ordine di riordinare. Torno e non lo vedo. Mi comincio a preoccupare. Non ci crederai. Ma lui non c’era. Sembrava sparito. Volatilizzato. Cavolo non lo trovo più, dove si sarà cacciato? Chi? Il mio tenero Giogiò. Chi è Giogiò? Non mi interrompere, poi te lo spiego; fammi finire. E allora sbrigati. Non mettermi fretta. Ero furibonda e lei si faceva la furba, si vedeva. So che era qui. Cosa vuoi che ne sappia? Dillo, sei stata tu? No! Sì! No! Giuralo! Dove vuoi che l’abbia messo, in tasca? Che ne so? Allora giura.
Va bene, confesso, me le sono preso io. Me lo dice con un’aria innocente. Come niente fosse. E dove lo hai messo? Fossi matta, me lo sono preso lì; naturalmente. Lì dove? Non fare la scema. Tu non fare la stupida. Vuoi dirmelo? Dove avresti voluto prendertelo tu. Non ci credo. Sì che devi credermi. Ma tutto? Tutto. Non posso crederci.
Sai cosa mi ha risposto la sfacciata? No! Così impari and invitare in casa la figlia di un gigante, e per di più ladra. Incredibile; ma chi è questo Giogiò, il gatto? No! magari. Non me la sarei tanto presa. E allora? È, cioè era, il mio nuovo amico, c’eravamo conosciuti e fidanzati solo due giorni prima. Davvero? Ti sembra giusto?
Sai cosa ha aggiunto quella grandissima figlia di… sfacciata? No! dai racconta; mi metti curiosa. Dice: non è nemmeno tanto grosso e robusto; e nemmeno abbastanza maiale, per i miei gusti. E tu? Ma come? avrei dovuto fartelo conoscere; era un pezzo d’uomo d’un metro e ottanta, quasi, e un gran pezzo pregiato da per tutto; lo giuro. E ti assicuro che anche come maiale non era proprio per niente male.
Son cose che succedono solo al castello di Valdifuori.

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Non chiamatemi JasmineStorie mediorientali come questa forse se ne son sentite fin troppe. Tanto vale non dilungarsi oltre il necessario. Era stata sverginata e s’era fatta riverginare. Era una condizione imprescindibile essere intatta per una donna araba. Era stata violentata a tredici anni da un cugino di trentatré, ma aveva taciuto. Sua sorella aveva subito la stessa sorte alla stessa età dallo stesso cugino, ma si era saputo ed era stata lapidata. Il suo silenzio l’aveva salvata, e il fatto che fosse fuggita. In Norvegia non si usano le pietre a quello scopo. In Norvegia si trova sempre un modo per farle ricucire, le donne.
Erano le disgrazie di una donna mussulmana. La sua unica colpa era di essere nata bella e di averle già grosse in tenera età. Ma in Norvegia era tutto diverso. Era un paese ricco. C’erano opportunità per tutti. Tranne, maledetti jihadisti, per gli arabi; e naturalmente le arabe. Era stata presa sotto la protezione da uno zio. Era stata cacciata dalla zia. Lui, lo zio, aveva mani che non stavano mai ferme. E non solo quelle. Non riusciva a stare dentro i pantaloni. Nemmeno se ci fosse stato lavoro anche per lei avrebbe potuto trovarlo. Non poteva lavorare di giorno e stare sveglia di notte. Ma, come detto, dopo solo tredici giorni era di nuovo per strada a cercare la sua fortuna. Forse aveva come sola colpa di essere nata dalla parte sbagliata del mondo.
Un tunisino emancipato e illuminato le aveva dato un impiego in cambio solo di qualche gentilezza. Il bagno turco non era certo il massimo, ma, quando la fame batte i primi colpi, anche le briciole possono dare un piccolo primo sollievo. Fatima odiava quel mondo a disegni. Non voleva tornare a far smorfie stupide nel regno di Disney. Conobbe in quelle stanze un vecchio basso e grassoccio. Lei non sapeva chi era, ma lui ne restò folgorato. Si fece ricucire per la quattordicesima volta. A quattordici anni la comprò l’emiro per farne la quattordicesima moglie. E per pagarla la pagò anche parecchio. Così si trovò bambina a vivere in un magnifico palazzo per scoprire che il sultano era nemmeno poco un tantino checca. Né aveva uno tutto d’oro, imponente, per far fronte alle necessità del ruolo, e uno piccolo da cimice dentro i calzoni modello harem.
Per dirla tutta un po’ se ne vergognava. Era sempre stata una donna riservata. Era la vita e i mascalzoni che l’avevano un poco cambiata. E quel marito che le faceva da sorella, doveva mantenere le apparenze. E nel palazzo di uomini non ce n’eran tanti. E lui, tra i pochi, aveva incontrato in un mattino che doveva uscire. E i suoi occhi l’avevano stregata. Si era innamorata di Farouk il cammelliere, anche se era un bel po’ zotico, e erano stati visti. E Farouk era diventato il 17mo eunuco. Ma lei, Fatima, era una donna giovane e piena di energia. E si sentiva disperata. In quel momento sarebbe stata curiosa anche di Genio il genio. Se solo quello sventato di Aladino, il suo figlioccio, si fosse ricordato dove cazzo si era infilata quella cazzo di lampada. Le contrarietà e quella merda di situazione la rendevano nervosa e anche un tantino volgare.
Jafar era tutto fumo e niente salsiccia. Tutti sono consapevoli come in quei paesi sia disprezzata la carne di maiale. Ma un po’ di porco, e, naturalmente, di porcate, ogni tanto sarebbe quello che ci vuole, soprattutto per certe occasioni. Invece Razoul era un sadico perverso e convinto, e un devoto molto osservante. Era disperata. E si vedeva scappare la vita come il fumo su per il camino. La delusione dà sempre la stura ai più strani pensieri. Si sarebbe abbassata a tutto. Anche a Rajah la tigre, che era un gran bel tigrotto, non fosse stato che era irascibile alquanto. Fatima era preda ai sogni più sfrenati. Non trovava pace il giorno, e nemmeno nella notte. Aveva diciott’anni, l’età più bella, e l’argento vivo addosso. Si sarebbe fatta anche tutti i settanta cammelli di quel castrato di Razoul. In segreto, con uno, di notte, l’aveva fatto. China come una cammella. Ma è una bestia stupida e senza sentimento. In compenso, per quel momento, per quello che serviva, era abbastanza. Anche se di lungo aveva solo la lingua. Certo che nemmeno quella è poca cosa, in momenti di carestia. Ma non gli aveva concesso l’entrata principale. Alla brava mansueta bestia era andata bene lo steso anche l’altra.
Ma, cazzo, in segreto, con lo stesso, aveva scoperto che anche suo caro maritino marajà era solito farlo. Proprio come lei quel dannato porco effemminato e depravato godeva a prenderlo dietro. Non c’era più decoro tra quelle stanze e in quelle stalle. La notte seguente, mentre cercava di insuperbire il suo montone di cammello, si accorse di essere spiata proprio dal becco frocio del consorte sultano. E che quel mezzo uomo godeva nel guardarla in azione proprio mentre lo faceva. L’anziano ringalluzzito andò via di testa completamente per quella donna che era già sua moglie. La sua quattordicesima moglie che, se fosse stato per lui, sarebbe stata ancora illibata da parte di maschio. La vita di Fatima si trasformò completamente. Il vecchio prese il vizio di apprezzare nel vederla farlo con gli altri, con i suoi ospiti, nascosto, senza alcun segreto, dietro una tenda. E il palazzo si animò di feste e di visite, alcune anche illustri.
Il vecchio vizioso era sempre più esigente, e li cercava anche robusti. Immaginava di essere lui al posto della sua giovane moglie. La invidiava e la amava nell’unico modo che conosceva, ricoprendola di attenzioni e gioielli. Per lei comprò uno stallone bianco come la neve. Per lei invitò un marcantonio che spaccio per l’ambasciatore del Brunei o di un altro paese simile, perso nel culo dell’Africa. Quell’uomo era enorme, una statua tutta nera scolpita nell’ebano. E aveva un vero enorme cannone dove gli altri nascondono quello che sembra il fodero di una pistola. Ma il vecchio satiro, sempre nascosto, più ancora provava piacere nel vederla accoppiarsi ai servi, propri o al seguito. Anche in incontri multipli. Il suo era ormai un segreto a conoscenza del mondo intero. E lei era diventata la sua moglie preferita, e regina e maestra di tutte le lussurie.
Alla fine, stanca di essere così angustiata, di dover essere continuamente spiata, era scappata con un giovane petroliere nel Texas. Per le nozze si era fatta ricucire per l’ennesima volta. Voleva fare al novello sposo anche quel regalo. Lui, l’americano, era uomo di gusti raffinati. Dal quel momento lei rimase vergine per sempre. Mentre il povero miliardario cedeva sotto i colpi della sua stessa passione, lei, ormai vedova, aveva imparato che tutti i maschi non disdegnano entrare per la porta di servizio. Per quella cosiddetta della servitù.
Fatima ha deciso di scrivere, assieme ad un giornalista noto, le sue memorie. Naturalmente ha scelto di farlo in modo anonimo, usando lo stesso nome, Fatima, usato in queste righe. E ha deciso di titolarle: Memorie di una vergine libertina. Il titolo l’ha suggerito quel collaboratore scribacchino, ma fa lo stesso. Un titolo vale l’altro per una storia vera.

N.B. per non incorrere nelle ire di Facebook è stata sostituita la foto come da racconto.

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Il tempo è inesorabileTu ci credi? Io non ci credo più. Tutti lo declamano tanto. Io comincio a sospettare che ben pochi l’abbiano trovano. Come l’araba fenice.
Il grande amore è l’ultima frontiera dei sogni. Ne ho passate talmente tante che non riesco nemmeno più a illudermi. Con Carmela è finita com’è finita. A grida e schiaffi, naturalmente si fa per dire. Mai alzato le mani su una signora. E lei signora non lo è mai stata molto. Sempre lì a brontolare. A sbottare. E come moglie era proprio un disastro. Le altre, poche, erano solo interessate ai miei quattrini. O si accontentavano solo di quello; più disperate di me. Poi incontro lei. Disposto a ricredermi.
È lei che mi fa il caffè ogni mattina. Sempre molto gentile. E io qualche volta le lascio il resto. Le prime volte fingendo di scordarmi le monetine. Poi palesemente, ormai l’avevamo capito entrambi. E lei mi ringrazia. Il nome non è una promessa: si chiama Maria. Lo trovo un po’ ordinario. Pazienza. Non è l’abito… insomma, quella cosa lì. A volte Maria il caffè me lo porta al tavolo. Poi una volta l’ho pregata di sedersi e lei l’ha fatto. Poi l’ho invitata anche altre volte. Lei accetta spesso volentieri, se non ha da fare. Ma siamo quasi sempre soli nel locale. Non c’è la coda.
Insomma, un po’ alla volta credo di essermene un poco innamorato. O almeno ho cominciato a provare qualcosa per lei. Non la trovo né bella né brutta. È un tipo. Bionda. Sembra interessante. E forse interessata. Curiosa e intelligente. Una con cui viene voglia anche di fare due chiacchiere. Questo venerdì ho trovato finalmente il coraggio. Le ho chiesto se potevamo vederci, magari dopo la chiusura. Lei mi ha detto distratta: Forse sì, forse no, prova a passare. Poi è entrato un tizio che ha preso una grappa, di mattina. Passando ha sussurrato, sogghignando con la mano che le nascondeva le labbra: Finisco alle sei. Sono tornato ed ero lì con una buona mezzora di anticipo. Avevo conservato un poco di quel coraggio e l’ho invitata a casa mia. Mi ha guardato stupita, le è venuto da ridere, ha fatto spallucce e ha accettato dicendo: Perché no?
Eccoci qui. È sciocco da dire, lo so, ma la prima cosa che mi viene in mente è di prepararle un caffè. Lei accetta con garbo. Le chiedo se è comoda. Se non ha troppo caldo. Se vuole che apra la finestra. Se non trova che il tempo non sia più lo stesso. Se ha sentito dell’attentato. Non deve avere molta voglia di parlare, mi risponde a monosillabi. Però non mi nega mai un sorriso. Io domando e lei sorride gentile. È arrivata con un abito nero. Forse un pochino elegante. Sta proprio bene. Guarda l’ora. Porco di quel porco. Non vorrei che avesse fretta. Che dovesse andare in qualche posto, dopo. Ho fatto tutta la spesa pensando di chiederle di fermarsi a cena.
Intanto tiro fuori i pasticcini. Preparò un tè. Le chiedo se non staremmo più comodi di là, in salotto. Mi risponde rifacendo le spallucce. Le fa in quel suo modo molto carino. Ci prendiamo le tazze e andiamo. Lei scansa i leghi di mio nipote e popola il divano. Mia sorella è passata ieri con la belva, la peste. Naturalmente non s’è data la fatica di riordinare quel disastro. Maria si sfila le scarpe. Le chiedo se sta comoda. Mi risponde appena irritata di sì. Almeno così mi sembra. Forse sono un filino curioso. Sono fatto così. Sono uno gentile. Le chiedo se vuole vedere qualcosa. Ascoltare un po’ di musica. Io sono un appassionato di classica, ma ho anche qualche pezzo leggero, certo di quella buona. Le metto vicino, sul tavolino, i telecomandi. Lei non ha voglia di nulla. Sembra le basti la mia compagnia. Starsene un attimo tranquilla. Parla poco, a monosillabi, ma sorride d’incanto.
Resto a guardarla. A coccolarmela con gli occhi. Torno a chiederle se sta comoda. Che mi dica lei se posso fare qualcosa. Mi informo del suo lavoro. Tanto per essere gentile. Se le pesa tanto; a me sembra pesante. Se è sodisfatta degli orari e del salario. Se la trattano bene. Mi racconta che con le mance se la cava, ma che quelli sono sempre appena sufficienti. A questo punto è lei a chiedermi se è tanto che vivo solo. Se non mi manca una compagna. Certo che mi manca, ma ho imparato a cavarmela anche così. Lei sbuffa e torna ad aspettare e pendere dalle mie labbra. Le ripeto che se vuole guardare la televisione può guardare quello che vuole. Ho anche la parabola. Mi ripete che non ama molto quell’affare.
Gli argomenti si stanno esaurendo. Le accendo una sigaretta. È la terza. Devo frugare febbrilmente per inventarmi altre cose. Altre curiosità da chiederle. Sposata non è sposata, questo lo so, o almeno credo. Gli anni mi guardo bene dal chiederli. Ecco… le chiedo dove abita. Se la casa è grande. Se è in affitto. Se si trova bene in quel quartiere. Se non la conoscessi direi che mi manda a fare in culo. Per la faccia che fa. Forse è solo colpa di una folata di puzza entrata dalla finestra aperta anche per far uscire l’odore di fumo. La chiudo. Le porto la copertina azzurra, se mai dovesse venirle freddo. La sera è sempre malandrina e qualche volta anche un poco umida. Tradisce. Mentre le davo le spalle lei si è messa comoda. Si è stravaccata.
Guarda il soffitto. Sembra una madonna che prega. Non vorrei sembrare inopportuno. Il solito cafone. Che pensasse che sono di quelli che si divertono a guardare. Le gambe le si sono scoperte. Direi che le ha belle. Quel vestito era corto anche quand’eravamo in cucina. Le calze sono tenute da un reggicalze con i gancetti rosa. Mi si mozza il fiato. Non vorrei metterla in imbarazzo, ma, per quanto faccia, un po’ gli occhi mi cadono là. E cerco di non darlo a vedere. Non vorrei metterla in imbarazzo. Sarei contento se si sentisse a proprio agio. Proprio come a casa sua. Ora viene il bello, o la va o la spacca. Sto per chiederle se si ferma a cena. Prima di farlo decido di assentarmi giusto il tempo per mettere in frigo una di limoncello. Forse indugio troppo nello scegliere le parole e la forma per chiederglielo.
Ho cercato di essere carino. L’ho trattata con massimo rispetto. Forse ho esagerato? Quando torno ho l’impressione di aver domandato troppo alla sua pazienza. S’è alzata e ricomposta. Ha spento il suo sorriso. Smania. Le chiedo se dopo vuole fermarsi a cena. Mi dice che non può, che ormai è già anche troppo tardi. Sembra infastidita; e quel fanculo me lo dice proprio. Io le donne non le capirò mai. Uscendo sbatte la porta con energia. Mi accendo la tele. M’è già passata la voglia. E da domani cambio bar, è deciso.

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La curiosità è donnaSecondo me è moldava. Parla un italiano terribile; a stento comprensibile. Probabilmente suda dietro a qualche povero vecchio. Non sono tipo da farsi fantasie. Nemmeno troppo curioso da chiedere. Magari è un pensionato bavoso. Mezzo invalido. Magari no. Non devo sbagliarmi di troppo. Non deve avere una vita bella. Lei non le è molto. E anche quando sorride ha un viso triste. Se posso dirlo: sembra alla disperata ricerca di sistemarsi.
È al bar con delle amiche. Quelle se ne stanno sempre tra loro. Parlano e bisbigliano e ridono nella loro lingua. Ha dietro la borsa della spesa. Mi notano, si fanno un cenno e ridono. Ormai noi italiani restiamo in pochi. Pochi, ma ci distinguiamo subito. Solo che se chiedi un’indicazione per strada rischi di sentirti rispondere in armeno. Ma in alcuni casi, per fortuna, che ci sono. Come, per esempio, come detto, per accudire quei poveri vecchi. Le nostre donne non hanno più quella pazienza. Quella umiltà. Lo spirito di sacrificio. Non vogliono rovinarsi le unghie. E poi anche perché loro sono molto meno esigenti. Più spicce. Si accontentano subito e di meno.
Me ne sto con il mio bianchetto e le guardo distratto. Non ho altro da fare. Nessuno mi aspetta. La pensione l’ho già ritirata. Sono stato uno degli ultimi fortunati. Non sono così vecchio. E ho ancora il fuoco dentro. Insomma, provo ancora qualcosa vicino ad una donna. Mi vien ancora voglia di togliermi qualche sfizio. So apprezzare. E, a volte, mi so anche accontentare. Non ho niente di meglio e le sorrido. Lei volta di scatto la testa dall’altra parte. Torna ad occuparsi della sua compagnia. Solo la vicina se la gode a lanciarmi, di sbieco, sguardi furtivi. Si gira per sganasciarsi dandomi le spalle; anzi le alza le spalle. Fa spallucce. Come se mi compatisse e mi lanciasse un messaggio definitivo. Non le do retta e continuo a guardare con insistenza la mia preda. Forse non l’ho detto ma so essere caparbio. Ne va del mio orgoglio. Se ne dovrà pentire. Lei si gira e, quando torno a sorriderle, lei mi ricambia con un sorriso. Resto ad aspettare continuando a fissarla.
Lei resiste un paio di minuti, forse un quartino. Il tempo di altri due bicchieri. Poi dice qualcosa alle amiche in quella loro lingua incomprensibile. Si alza e mi raggiunge mentre le amiche ridono ormai senza ritegno. Mi guarda in piedi. La invito ad accomodarsi. Mi chiede cosa mi serve, almeno credo. Le spiego che non mi serve niente. Mi guarda perplessa e riflette. Prende posto sula sedia, davanti a me. Un po’ rigida e passabilmente imbarazzata. La invito a prendere qualcosa. Guarda il mio bicchiere e si prende anche lei un bianchino, dicendo che sono gentile. Non lo sono mai stato. In certi momenti anche un po’ cafone. Preferisco chiamare il pane col suo nome. Più che una donna sembra una zia. Mi devo essere impazzito. Davanti a tutti. Ma la carne è carne. Comincia a tradirmi la memoria. L’ultima doveva essere con le guerre puniche. Non è il caso di procurarsi troppi pudore. Fanculo e tutti, e poi, tranne le amiche, non siamo praticamente che noi due nel locale.
La prego di aspettare e vado fino al cesso a controllarmi, approfitto e la faccio. In tasca mi son portato un paio di cinquantini. Non credo, ma non si sa mai. Dovrebbero bastare, se si fa pagare. Son certo che non è così. Anzi farebbe meglio a non provare nemmeno ad approfittarsi di me. Quando torno le amiche sono andate e lei s’è ripresa la sua borsa. Resto io stavolta in piedi. C’è un attimo di silenzio ingombrante. Ha occhi e mani mansueti. Le dico se… sì! insomma… vogliamo andare. Lei non batte ciglio e si alza, e mi segue dopo aver aspettato che paghi le consumazioni. L’oste mi allerta che restano anche quelle delle amiche. Pazienza! Faccio. Dentro metto nella lista tutto per dopo. Quando si impone so essere un signore. Mi sistemo i pantaloni. E non mi faccio altri riguardi, con un sorriso malandrino la invito a casa: Va bene da me?
Mi riempie di domande. Chiede se la macchina è mia, le piace. Quanti cavalli ha. Quanti anni ha. La trova comoda. Che velocità, raggiunge. Se il portabagagli e abbastanza capiente. Da quanto ho la patente. Non sembra del tutto convinta. Cerca di non farsi impicciare dal silenzio. Intanto si tiene la borsa tra le gambe. Poi mi chiede il nome. Dove abito. Se è lontano. Quanti anni ho, me ne sottraggo e perdono sette. Solo per fare conto tondo. Mi indica il super dove fa la spesa. Mi dice che lei sarebbe vegetariana, ma non sempre. Sorride silenziosamente e in un modo un po’ vergognato e un po’ ambiguo. Forse era una battuta. La lingua non aiuta e non ha linguaggio del corpo. Se ne sta ferma e irrigidita. Non posso vederla che con la cosa dell’occhio. Già non è facile no lasciarmi distrarre. Odio guidare soprattutto con qualcuno a fianco. Soprattutto se il qualcuno è una donna; finalmente. In verità odio guidare.
Quando siamo a casa è un poco in imbarazzo. Sta sulla porta e si guarda intorno. Non manifesta un eccesso di delusione. Forse ha già attraversato tutti i territori di quel sentimento. Alla fine, alza le spalle e appoggia la borsa della spesa a terra e resta ad aspettare. Non deve essere una che corre dietro al primo che incontra. Tona a guardarsi intorno, ansiosa. Non mostra che le piace. Ricomincia con le domande. Si fa mansueta e gli occhi mi sfuggono. Mi chiede se è mia, proprio mia. Quante stanze ci sono. Le prometto che dopo gliele faccio vedere tutte. Anche la camera da letto. Intanto le verso un bicchierino e ne verso uno per me, per carburare. Mi chiede nuovamente l’età. Mi chiede dov’è mia moglie. Dovrei spiegarle che sono vedovo, da cinque anni. Le dico che siamo separati. Mi chiede se abbiamo avuto figli. Due, e vorrei averli annegati appena nati. Non ho più tanta voglia di conversare. Le dico che mia moglie non ne poteva avere. Che se era per me… Mi dice che un uomo così giovane può ancora averne. Nasconde le labbra del suo sorriso dietro il palmo della mano. Gli occhi si sprofondano in un altro cenno di vergogna.
Forse è la prima volta che accetta un invito come questo. Non le chiedo niente, ma lei mi avvisa che ha un marito, che è rimasto là, a casa. Mi dice che là la vita è proprio dura. Le riempio di nuovo il bicchiere. Mi fa cenno di non insistere. Dice che non vorrebbe che cercassi… Lascia la frase a metà. Aggiunge che non vorrebbe rischiare di ritrovarsi ubriaca. Che sono un bel tipo. Un furbacchiotto. Che forse non dovrebbe fidarsi. Ma mi spiega che lei non è più una ragazzina. A dire il vero me ne ero accorto dal primo sguardo. Comunque, di disgrazie ne ho già tante, ho già le mie. Per fortuna torna la sua curiosità. Mi domanda dove lavoro. Le mento che sono ingegnere. Manca solo che mi chieda qual è il mio santo preferito. Ho tutta un’enciclopedia di bestemmie a mia disposizione.
La cosa è ben avviata. Sembra già fatta. Solo che non so da dove cominciare. Mi scappa di nuovo. Torno ed è in piedi davanti al divano. Il vestito l’ha tolto, ma è ancora sui tacchi.
Lei è solo curiosa e me lo chiede: Cosa ne pensi? Io sarò anche all’antica, ma non sono un coglione. Non glielo dico.

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article-2225093-15c07f25000005dc-590_634x903Tutto è cominciato con quella foto ricordo. Anzi quelle maledette foto. È stato lui a fare il primo scatto. Anzi i primi scatti. Poi mio marito, il solito cretino, dice che vuole farla a noi. Che senso ha? Va dietro alla macchina. Nemmeno la conosce. Chiede aiuto. Guarda nell’obiettivo. Dice: “Sono pronto”. Dice: “Fate un sorriso”. Ci mettiamo in posa. Ne approfitta subito, impertinente. Mi passa la mano dietro la schiena. Per farlo mi sfiora con disinvolta attenzione le chiappe.
Io… cosa potevo dire? Nemmeno ci avrei fatto caso. È sempre stato come se non ce l’avessi, io, quel culo. Certo che qualche apprezzamento … Non dico nemmeno che mi dispiaccia. Ma una donna… Si guarda in faccia. Si guarda allo specchio. Insomma… sono come sono. Tu mi conosci. Un po’ vanitosa; come tutte. Ma non ho gli occhi dietro. Non me lo dire. Forse… Anche senza tanti forse. E senza preamboli. Certo, me la sarei dovuto aspettare. Perché lui una mano al culo non la nega a nessuna. È fatto così. L’hai conosciuto anche tu. Ma… con mio marito là. Lo stupido. Sono anche amici. Bell’amico. E che cavolo. Col rischio che mi debba vergognare per tuta la vita. Mi è rimasta nel gozzo.
Lo guardo. Fa cenno a Claudio. Mi lascio ad un sorriso. A denti stretti. Interpreto perfettamente la parte di quella che non sa cosa succede. Di quella che ha il cervello da un’altra parte. E la coda a casa. E mio marito, sempre lui, a darci le indicazioni: “Più vicini”. Un vero idiota. Mi avvicino a lui. Mi fa anche un po’ di tenerezza. Ma molta rabbia. Gli sussurro se hai bisogno di questi mezzucci. Mi sussurra che ho un gran bel culo. Piacere farà anche piacere, sentirselo dire, non così, non in un momento simile. In effetti… chissà? Forse. Per quello che so mi fa un po’ di essere un tantino ossuto. Claudio scatta le foto. Il posto non è un granché bello, anche se nelle foto non si vede. Gli scatti non serviranno a ricordarlo. Troppo primi piani. È il parcheggio del ristorante. Avevamo appena pranzato. Avevo ancora l’amatriciana sullo stomaco. Forse si vede un po’ di pancetta.
È vero che avevo quel vestitino che è un amore. Che mi piace tanto. Lo sai. Lo vedi. È una tutina, arancio. Cos’ha che non va? È solo un po’ corta. Cioè mi lascia le gambe scoperte. Forse mi disegna un poco. Ma ero tutta accollata. Col caldo di quei giorni. Non credo sia stato per quello. Insomma… Una non più pensare… Mi sembrava potesse andare. E poi, insomma, una non può mettersi sempre un abito antiscippo. Per un boccone tra noi. Non so come mi vengono queste idee. Nemmeno so come è fatto. E il fotografo disgraziato sembrava farlo apposta. Troppi sorrisi fin troppo consigliati. Poteva starsene almeno zitto. Non avevo certo voglia di sorridere. Ma lo dovevo fare. Non volevo uno scandalo lì davanti. E io così imbarazzata. Poteva arrivare qualcuno. Trovarci a non essere soli. Altri che venivano a prendere la macchina. Per farsi una sigaretta. Per il caldo. Che ne so? Troppe mani troppo curiose. Non ci resta che avviarci verso casa.
Io non sono abituata a dare confidenza. A nessuno. Nemmeno agli estranei. Tanto meno a un amico. A quell’amico. È stata una liberazione. Voglio dire… Quando siamo saliti in macchina. Non dico che non mi sia sentita lusingata. Forse un pochino. Forse… Se non fossimo stati là. In quella situazione. E davanti all’occhio di mio marito, e della macchina fotografica. Forse poteva essere diverso. Non dico che ci sarei stata. Questo no. Ma gli avrei detto io quello che si meritava. E gliel’avrei tolta, quella mano, stupita, stronza e sfrontata. Cosa? il linguaggio? ma ho ancora un diavolo per capello. Per farla breve torniamo a casa. Claudio si accomoda dietro; comodo. Guida lui. Gli sussurro all’orecchio: “Soddisfatto”? Mi risponde, che debbo leggergli la risposta sulle labbra: “Mi sono dovuto accontentare”. Gli sibilo: “Sei una merda”! E tutto spero finisca lì.
A quale donna non è mai successo. Magari per strada. Salendo in autobus. Che ne so? Un idiota lo trovi sempre. Anche in ufficio. Quelli trovano sempre l’occasione. Perché sono idioti e perché la cercano. Invece non è finito un bel niente. A sera stiamo per metterci a cena. Claudio ha fretta perché c’è la partita. Giuro, non ci pensavo più. Io sono una buona di carattere. Avevo scordato tutto. Non sono cose da portarsi dietro tutta la vita. Succedono e poi ti scivolano dietro, cioè addosso. Qual è quella… Sembrava preoccupato solo per quei tipi che in mutande corrono dietro a quella stronza di palla. Non me ne sarei ricordata se non mi avesse affrontata: “Guarda che ho visto”.
Proprio non mi passava più per la testa: “Cosa avresti visto”?
Che ti toccava”.
Penso che è una cosa stupida. Che Vittorio è stato uno stupido. Lui. Con me. E penso che sarà mai? Si è preso una libertà che non doveva. Che non gli ho dato. L’ultima cosa che penso e di dovermi anche scusare: per il suo amico. Ma poi… non è che una palpatina. Quasi nemmeno quella. Non so che gli abbia preso. Non sono stata certo io a provocare. Inutile farne un dramma. Non sarà quello… È stato villano e imprudente. Certo. Cosa dovevo fare? Uno scandalo?
Solo che Claudio è sempre stato così geloso: “Sei tu che sei toccato. Il solito. Spiritoso. Se fosse? È un amico. Mica un estraneo. Lui almeno apprezza. Sei tu che nemmeno mi guardi. Sei un cafone. Sempre il solito. Lì a pensare quello che non c’è. È amico tuo. Mi ha messo una mano sul fianco. E glielo hai dato tu il permesso. Anzi, l’hai invitato a farlo. Se era per me… Non so dove trovi tutta quella malizia”.
Mi ha chiesto subito scusa. Sai che io so come raccontarle. Comunque non ne avevo la minima colpa. E non c’era stato niente. Solo quello. Non che ci sia rimpianto. Lo senti anche dalla mia voce. Solo rabbia. E Claudio me l’aveva fatta tornare. Non ne avessimo parlato era tutto bell’è che finito: “Ecco. Ora sì che sei ragionevole. Come hai potuto pensare che io possa dare tanta confidenza proprio a lui”.
No! non è finita, ancora. È l’intervallo tra il primo e il secondo tempo. Almeno credo. Mi suona il cellulare. Vado in cucina. Quando lo sento al telefono gli dico subito che è un cafone. Gli spiego che Claudio ha avuto dei sospetti. Che ci ha visti, ma che son riuscita a raccontargliela. Intanto lui ride. E che non è il modo di comportarsi. Che non me lo sarei mai aspettata da lui; da un amico. Non si scusa. Dice solo che non ci aveva mai fatto caso. Che non ha saputo resistere. Lo conosco anche troppo bene. Dovrei sentirmene offesa. Un poco lo sono. Non riesco a essere del tutto adirata. Mi era già passata.
Gli domando un paio di cose. Le prime che mi vengono in testa. Ormai siamo al telefono. Tanto vale… Sono una stupida. Sai come sono fatta. Non riuscirei a dormire senza chiederglielo. Con quel dubbio: “Cosa ti è sembrato”?
Lo sento ridere, il coglione: “Dovrei controllare ancora. Troppa fretta. Direi non male. Proprio non male. Direi che… Grazia, hai proprio un gran bel culo”.
Questo lo sapevo, ma non è male sentirselo dire. Il cretino ormai ha dimenticato ogni galanteria. Non ha mai una parola gentile. Sembra nemmeno accorgersi di me. Come fossi diventata invisibile. Una cosa dell’arredamento. Poi però protesta se qualcuno mi guarda. Se si azzarda a dire quello che dovrebbe uscire dalla sua bocca. Se cerca di fare quello che dovrebbe fare lui e che non fa più. Temo che Vittorio mi abbia capita: “Dì la verità. T’è piaciuto”?
Sono stanca. Non ho voglia di restare al telefono. Non ci penso e glielo dico. Anzi non so se l’ha proposto lui oppure io: “Che ne dici se torniamo domani e finiamo il servizio? Però senza il marito”.
Torno in salotto e non ci penso più. Devo essere onesta: la cosa mi ha un po’ stuzzicata. Non so se le foto o la telefonata. Insomma… Sono eccitata. Mi sbottono e ma la sfilo, la tutina. Lì, sul divano. Sotto ho quasi solo tutta Grazia. Tutta questa Grazia di Dio. Tu non ci crederesti. Claudio non stacca gli occhi dallo schermo. Ma ci credi? L’avrei ammazzato. Con le mie stesse mani. Seduta stante. Non l’ho fatto. Naturalmente. Per farla breve ho dovuto aspettare che l’arbitro fischiasse. Con il rischio che volesse vedere anche i risultati delle altre partite. Anche la mia pazienza ha un limite. Poi… a te lo posso anche confidare. E poi è mio marito. Cazzo! Me lo sono trascinata a letto. Dopo che gli avevo dato un primo assaggino sul divano. Ed è stato una favola.
Non essere stupida. Non pensavo a Vittorio. Pensavo solo a noi due. Pensavo solo… Ne avevo solo voglia. Non me ne vergogno affatto. E ho passato una notte tranquilla. Insomma… Quelle poche ore. Cosa dici? Sì, ormai… Ti racconto anche il resto. Certo. Tu non lo conosci il vero Vittorio. Il mattino dopo mi ero già scordata di tutto. Ma lui no. C’è stato bisogno me lo ricordasse Vittorio. Lo sai come sono fatta. Io sono una di parola. Ormai lo avevo promesso. E lui s’era preso un permesso. Il fannullone. Lo screanzato. È sempre stato troppo sicuro di sé.
Per fartela breve… Siamo tornati allo stesso posto. Ma se n’è ricordato quando siamo stati lì. Se ne era del tutto dimenticato. E non aveva nemmeno l’autoscatto. Ha dovuto chiedere la cortesia a uno seduto ad un altro tavolo. Ad un perfetto sconosciuto. Gli ha raccontato la favola che eravamo marito e moglie. Non so se gli ha creduto. E che dovevamo fare uno scherzo. Insomma… quello è stato gentile. E Vittorio gli ha messo quella maledetta macchina fotografica in mano. Il risultato si può anche vedere, ma non ditelo in giro.
Mi chiedi E dopo? Cosa vai a pensare? Non sono mica una di quelle. Dopo niente. Vittorio è tutto solo lì. È solo quella mano. Gli basta farsi bello. Si accontenta di toccare. Quel grandissimo figlio di buona donna. Anzi proprio di puttana. Avevamo tutto il pomeriggio davanti. Ma io non glielo avrei lasciato fare. Non c’è stato nessun dopo. Mi ha accompagnata a casa e mi ha lasciata davanti alla porta. Sono ancora tutta indignata. Quello che m’incazza ancor di più è che Claudio non si accorgerebbe di nulla nemmeno se lo facessi sotto il suo naso.

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news_50690_donna-morta-spiaggiaI giornali d’agosto dicono. I giornali d’agosto commentano. Cosa c’è di meglio di una bella morte? Di una bella ragazza morta ammazzata? In spiaggia? In un posto turistico rinomato? Cosa può fare aumentare di più la curiosità e le vendite? E allora le iene si avventano sulla preda. Fiumi di inchiostro. Niente di peggio per far confusione e intralciare un’indagine ben avviata. Il maggior sospettato inoltre è una persona che si dedica alla politica. Una specie di presidente di quartiere o qualcosa di simile.
L’indagato sostiene con veemenza che se non c’è colpa non c’è reato. Che lui dormiva. Che si era coricato alle undici, quando i ragazzi stavano uscendo. Che bisogna tutelare la gente seria. Quelli locali. Che bisogna fare qualcosa per questi immigrati. Che è uno scempio. Che sicuramente è stato uno di loro? Così lontani dalle famiglie e da tutto. Quelli con quella religione. Chiede perché non se ne stanno a casa loro. Quei miserabili.
La vittima risulta nata in Emilia da famiglia emiliana. Lui insinua il dubbio che abbia un po’ di sangue russo o ucraino. Con quel nome. Anche se riconosce che si trattava di una bella ragazza. Piacente. Formosa. Molto attraente. Che parlava perfettamente un italiano fluido e corretto. Anzi sembrava avesse studiato. Ed era piena di risorse. Con un reggiseno bello pieno. Traboccante. E dice tutte queste cose con enfasi e tutto d’un fiato. Con quella sorta di tipico orgoglio da corteggiatore da spiaggia. Poi chiede di essere tutelato da un avvocato. E si zittisce, completamente. Non così la di lui moglie.
Ma chi può più fermarla la Cesira Antonia Taradassi in Gasparello, già vedova Ansaldi. La donna sostiene che il marito, nella notte in questione, le dormiva accanto. Senza nulla addosso; nemmeno le mutande. Perché lui è così. Come sarebbe potuto uscire? E comunque non avrebbe potuto perché quella stessa sera… Cerchi di capire. –dice. Anche se si può capire lei preferisce essere chiara e precisare invitando che la sua testimonianza venga messa per esteso: Quasi due. Rafforza la propria dichiarazione anche con gesti delle dita e della mano: Era da un po’. –per questo lo ricordava bene– Non che lui… anzi. Non mi ha mai fatto mancare niente. Ha sempre fatto il suo dovere. E poi che non va mai in giro mai da solo. Che soffre di sonnambulismo.
Certo che non può essere del tutto sicura. Che le sembra di averlo visto che si alzava. Pensa per un semplice bicchiere d’acqua. Ma sicuramente il suo non era uomo da fare quelle cose. Lo escludeva. Poi lei s’era addormentata. Aveva faticato tutto il giorno. Ma quella ragazza no. Era una che si divertiva. Che non aveva amore per la casa. Nemmeno un briciolo di niente. Come tutte le ragazze. Niente. Non che… Questo no, lei non era gelosa. E di una sciacquetta simile. Non mi faccia ridere. Era solo una ragazzina. E lei conosceva il suo uomo. Poteva mettere una mano sul fuoco. Anzi anche tutt’e due. Se lì ci fosse del fuoco, certamente, ne avrebbe dato una subitanea dimostrazione. E in mezzo dice anche tante altre cose e tutte una contro l’altra, contradittorie.
Certo era che, oltre ogni ragionevole dubbio, a conferma delle prove raccolte, quella ragazza aveva trovato su quella spiaggia la morte per mano di autore ancora ignoto; da identificare. Certo era che la morte l’aveva colta nuda. Altrettanto certo era che c’era stata violenza. Non era stato accertato che la ragazza non fosse stata consenziente. E a carico del Giovanni Gasparello le prove e le testimonianze erano numerose, ma non ancora schiaccianti. Lui, in qualità di pubblico ufficiale, nonché di incaricato alle indagini, era sicuro che non si sarebbe potuto trovare davanti a spiacevoli quanto impreviste sorprese. La vita non è un film. Non c’era spazio per un finale con colpo di scena. Solo che l’ultima pagina del verbale non era ancora stata scritta.
Una cosa emergeva: quella ragazza sembrava una folla. Ora era una, ora era un’altra. Ora era così e ora era colà. Unica cosa provata era il nome, e che fosse proprietaria di un seno notevole, che non passava inosservato. Che avrebbe abbisognato di una descrizione dettagliata, se non proprio di una foto dello stesso quando la proprietaria poteva ancora portarlo a vanto. Certo era che, anche a trascrivere, non era comunque facile da tradurre quell’ammasso di testimonianze sconnesse in verbalese. Avevano un assassino praticamente certo, quel signor Giovanni Gasparello di anni 61, quasi autodenunciatosi, tranne che per alcune palesi contraddizioni. Dormiva o gironzolava per spiagge, magari in stato di sonnambulismo? E avevano molti altri presunti, quasi rei-confessi o ignoti. E in mezzo c’era una zona grigia.
Poteva anche essere che la moglie, Cesira Antonia Taradassi in Gasparello, tendesse a scusare e giustificare e scagionare il marito. Allo stesso modo si poteva sospettare che inversamente fosse l’uomo che tentasse sbadatamente e goffamente di coprire la moglie gelosa di quel seno. Potrebbero entrambi nascondere un segreto per non tirare in ballo il figlio, tale Amilcare Gasparello di anni 33: perché con quella Graziella proprio non ce lo vedevano. Quella sciacquetta, a detta un po’ di tutti, non aveva niente di niente, né culo, né tette, né testa. Non era nemmeno che fosse un filino spiritosa e andasse simpatica. Il citato signor Giovanni si era lasciato sfuggire bofonchiando qualcosa sulla suddetta Graziella Vendramini di anni… circa, che non aveva voluto rilasciare formali dichiarazioni asserendosi estranea ai fatti, con un sorriso triste nei confronti della legge.
Poteva, perché no? anche essere il branco, cioè il gruppo di ragazzi, che cercava di confondere le acque per allontanare i sospetti in una sorta di autodifesa della combriccola. In effetti quel Maicol Seibezzi di anni 33, fidanzatino di Greta Veronelli, vittima, gli era sembrato reticente e non certo quello che si direbbe «un bravo giovane», nemmeno troppo afflitto dalla dolorosa perdita. Ma si sa che i giovani d’oggi sono privi di carattere e leggermente carenti di ideali ed emozioni.
E forse la Greta Veronelli, con quei seni, se l’era un poco andata a cercare. Era bella, in vita, da poter essere considerata quasi una attrazione. Certo il turismo né pativa. Detto anche che, seppur la nota rivesta relativa importanza, che in quelle località era interdetto anche il topless, cioè l’esibizione di qualsiasi nudità. Allo stesso modo, magari, poteva essere stato un maniaco turista di passaggio, uno zingaro, o uno dei tanti immigrati, più o meno di colore. Ovvero qualcuno che aveva lasciato gli affetti lontani e ne pativa. Allo stesso modo il turismo ne rimaneva penalizzato. Per quanto bella non è un bel vedere una bella ragazza in spiaggia se questa è morta. Anche il PM era confuso.
La signora Cesira, ormai incontrollabile, alzava la voce: “Sapete cosa vi dico? Credete tutti di sapere, ma non sapete un cazzo”.
Il signor Giovanni, sembrava mosso da un ultimo scatto d’orgoglio mascolino e da una ribellione davanti ad una vita noiosa ed una moglie bisbetica nonché isterica. Cercare una qualsiasi via attraverso la quale fuggire: “Vedermela lì con tutte quelle poppe al vento, e anche la farfallina, Boh! Non ci ho visto più. M’è salito il fumo agli occhi”.
Il comportamento della più volte citata Cesira, rendeva quanto meno comprensibile qualsiasi gesto o reazione di quella povera vittima di quel povero marito: “Lui è solo un gentile imbecille. Certo un instancabile imbecille”.
Incredibile era che su quella spiaggia, inerme, non fosse stato rinvenuto il corpo decadente della irrefrenabile Taradassi, in luogo di quello della bella Greta Veronelli, che era ancora un fiore, e che fiore. In quel caso marito e figlio della Taradassi avrebbero sicuramente potuto usufruire di tutte le attenuanti.

 

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Non mi aspettavo di vederla arrivare. Invece è venuta spesso a trovarmi in ospedale; preoccupata. Inizialmente con circospezione. Mi ha portato anche i saluti di Giangi. Una scatola di biscotti secchi. Da allora non mi ha più abbandonato. Si è presa cura di me. Non mi ha lasciato mai da solo. Mi ha seguito in tutto e per tutto. Mi ha fatto da infermiera. Mi ha riempito di attenzioni. Anche e soprattutto quando mi ha riportato a casa. Un poco si sentiva anche in colpa. Un poco era preoccupata. Ho cercato di rassicurarla. Di tranquillizzarla. Consapevole dei sacrifici che faceva. La prima parola che son riuscito a dire chiaramente ancora ricoverato, senza incespicare e sputacchiare, è stata Marisa. Mette sempre poco trucco. Non è questo che la fa bella. Mette sempre una maglietta e i jeans, o quasi sempre. A volte indossa la gonna ma mai troppo corta. Dice che non si sente sicura. Che non si sente bene. Libera. Che non si piace. Che così è più pratico, anche e soprattutto per badare a me.
Non mi fa mancare niente e nemmeno io lo faccio. In realtà è una vera ghiottona, anche in fatto d’amore. In un certo senso la mia disgrazia è stata anche la mia fortuna. La nostra fortuna. Le cose vanno a meraviglia. Non potevo e non potrei chiedere di più; di meglio. Mi spinge con la carrozzina in salotto. Mi si china davanti per fissarmi negli occhi. Mi invita a indovinare. Non riesco ad immaginare cosa possa avere per la testa. Si ricorda e mi ricorda che poi non siamo mai arrivati alla casa al mare. Lo ricordo bene anch’io, con un tuffo al cuore. Non mi aspettavo certo che me lo chiedesse. Dev’essere in un disordine incredibile. In completo abbandono. Le dico che non è più stagione. Alza le spalle. Dice che non fa niente. Perché no? Che è curiosa. Che gliel’ho promesso. Che magari possiamo fare solo due passi sulla sabbia anche se il mare è cupo. Starcene lì buoni e tranquilli a goderci la pace. Con malizia: “A godercela tutta”.
Per lei non mi sento mai stanco. Stavolta prende su un po’ meno bagagli e sembra avere meno fretta. Le ricordo del telo mare. Mi ricorda che non abbiamo poi perso molto. Ci siamo semplicemente risparmiati la pioggia. E ride. Anche se era piena estate. Forse sarebbe stata la mia grande occasione. Di occasioni ce ne sono state altre. Senza che nemmeno dovessi cercarle. Mi ha riportato a casa e si è stabilita con me. Poi la frequenza, la presenza, tutto ha fatto il resto. Ricordo come ora il nostro primo bacio. È stato casto. Era ancora solo una ragazza. Si era abbassata per pulirmi le labbra col tovagliolo perché avevo un po’ sbavato. Dopo un secondo ne ho approfittato e lei ha chiuso gli occhi e spento la televisione. Avrebbe dovuto aspettarselo. Avevo resistito anche troppo avendola così vicina. Certo forse aiutato dalla malattia. L’innocente morigeratezza è durata un attimo. Mi sono accorto che ne avevo voglia e subito che quella voglia era destinata a non estinguersi mai. A non darmi tregua. A non trovare pace. Incredibile. Non posso certo lagnarmi. Il tempo è passato e con lei è volato via. Come potrei rifiutarle qualcosa. Sta sacrificando l’intera vita per me, ma quando lo dice lo dice senza rimpianti: “Ormai siamo una coppia”.
Voglio guidare io la macchina. Non ho ancora smesso la carrozzina e non so se potrò mai farlo, ma posso mettermi al volante. Alla fine cede. Fa fatica a sistemarla nel bagagliaio. Infila la cyclette nel sedile dietro. Amo troppo essere coccolato. Le sue attenzioni. La sua passione. Tutto di lei. In verità col bastone potrei camminare e muovermi indipendente, almeno per casa, però sono troppo legato alla mia dipendenza. Per leggermi al mare si è portata: Il caso Malaussène-Mi hanno mentito[1] appena uscito. Ha preso anche un altro paio di libri che non ho fatto a tempo a vedere. Non so quanto si voglia fermare. Non me l’ha comunicato. Spero mi abbia portato tutte le medicine.
Come prende posto alla mia destra qualcosa cancella gli ultimi tempi, tutti i brutti momenti, la sofferenza, il ricovero, le cure, le menomazioni. Lei ridiventa la ragazzina di allora. Sembra impossibile. La stessa e con la stessa spensieratezza. Io ritrovo energie perse. Tutto il resto è semplicemente cancellato. Non è poi cambiato così tanto. Continuo a pensare che ha un sorriso fresco. Ma è anche carina. Penso meno che sia fin troppo giovane. Però non è tutto. È come se fossero passati solo quindici giorni in più. Forse nemmeno quelli. Dovrei essere prudente, e guido prudente, per il resto lei è più forte di qualsiasi mio proponimento.
Ti ricordi di quella volta? Sai, è stato buffo. A parte il finale. Non me lo sarei aspettata. Ce l’hai ancora quella fotografia nel cellulare? Hai visto, ho messo gli stessi abiti. Stessa maglietta. Stessi jeans. Credevo di averli buttati. Uguale anche tutto il resto. L’ho deciso mentre ti preparavo l’iniezione. Sai, penso di tenerle come sono. Di non farle ridurre. In fondo non mi dispiace. Ci sono abituata. Ho capito e non mi da più fastidio se non fanno altro che guardarmele; anzi. Che poi che male c’è. Non è un peccato distribuire un poca di gioia. Di fantasia. Non mi costa quasi niente. Forse è solo perché so quanto piacciono anche a te. Proprio per questo. Vorrei farle vedere solo a te. Ancora e ancora. Ora come stai? Come ti senti? Un po’ d’aria non può farti che bene. Farci bene. Ho già appetito. L’odore del mare. Vediamo. Subito. Non farmi ancora qualche scherzo. Avvertimi se… Ma il medico ha detto che ti sei ripreso del tutto. Che posso stare tranquilla. Non che gli abbia… Insomma è fiducioso”.
Stavolta non mi chiede di fermare la macchina. Se per un attimo non fosse insolitamente silenziosa rischierei di non accorgermene. I gesti sono gli stessi. Ride. Ha sempre quei due lapislazzuli. Tira su la maglietta e le estrae dal reggiseno. Tutto come la prima volta. Non alza gli occhi, anzi si guarda compiaciuta, mentre quelli di quei due enormi meloni guardano ognuno dalla parte opposta; dondolanti. Sembra anch’essa affascinata da quelle meraviglie. Forse non ha ancora vinto un ultimo residuo di imbarazzo. Certo non sono più una novità. Da allora li ho visti spesso. E mi hanno riempito le ore. Rallegrato e sostenuto. Sono stati una consolazione nei momenti bui. Comunque sono sempre un’emozione. Anche stavolta resto senza parole e senza fiato. Non ci farò mai l’abitudine alla sua disinvolta monelleria: “Però così mi fa un po’ di pancetta; non trovi”?
Resta così a parlarmi mentre continuo a guidare. Si è riproposta di portarmi a visitare una mostra su Max Ernst e le avanguardie del novecento. È una minaccia? Io povero invalido. Quando torniamo. Se ne avremo tempo. Sono un sempliciotto. Amo il realismo. Vorrei vivere dentro un quadro di cui capisco quello ch’è ritratto. Ne “L’origine del mondo”. Se lo dico mi chiede se non riesco a pensare ad altro. Stavolta sta leggendo “L’amica geniale[2]”. Crede sia il primo di Elena Ferrante. Come se potessi non essere estremamente attento a tutto quello che fa. Che ha sopra il comodino. Anche questo non sa se è adatto ad un uomo. Mi parla di un film dei Coen, ma forse è un serial televisivo. Ora sa che sono della vergine. Non so che dire. Vorrei che si riempisse la bocca solo di me. Meglio che faccia attenzione solo alla strada. Mi suona il cellulare. Guardo: è Enza. Non mi va di risponderle. Le avevo detto di non chiamare. Che ero in una clinica, credo di essermi inventato Bosconuovo, se ricordo bene, per degli esami di controllo. Che sarei stato irraggiungibile. Forse le dovrei delle spiegazioni. Quasi quasi lo spengo quel maledetto telefonino. Suona anche il suo e lei risponde civettando. Poi si scatta un selfie e lo invia. Intanto un paio di macchine ci sorpassano. I guidatori non restano indifferenti quando sorpasso io. Gli altri non possono vedere e nemmeno immaginare. Me ne rendo conto.
Sempre impaziente? Avrei potuto almeno lasciarmi il tempo di toglierlo il reggiseno. Lo so. Volevo rivedere quella faccia. Coglierti di sorpresa. Ti spiace? Sei contento? Allora ha funzionato. Mi sento com’ero. Come se riavessi i miei diciott’anni. Avvertimi però subito se qualcosa non va. Non farmi stare in pena. Voglio essere tranquilla. Mi viene da ridere. Mi ero fatta una strana idea di te. Ti credevo… si insomma… Ti credevo uno a cui piace la gnocca. Ma non così… Così. Scusa. Che mi avessi invitata al mare solo per quello. Ero decisa a dirti di no. Forse. È buffo, abbiamo avuto così tanti ricordi e nessuna concretezza. Quel mare l’ho visto solo in cartolina. Posso dire che il nostro è stato un incontro molto casto. Anche se non abbiamo deciso solo noi. Se ci ha messo lo zampino il destino”.
Non vorrai farti vedere da tutti? Che tutti ci guardino”?
E perché no”?
Ride e sembra divertita dall’idea. So che è mia. Si toglie il reggiseno. Lo stesso a fiori. Senza acrobazie, le basta slacciarlo dietro. S’è ricordata proprio di tutto. Del minimo dettaglio. Rimette la maglietta. Peccato. Le sue due giganteschi montagne di delizie, quelle due meravigliose meraviglie, dondolano in libertà sotto la leggera stoffa. E dondolano dolcemente ma nervose e molto dinamicamente, con una certa energia. Sobbalzano. Sbatacchiano. I suoi gonfi sorprendenti airbag. Dovrei non pensarci ma come posso farlo? Se me li sbatte sotto il naso? Io non ne sono insensibile. Spero solo non provi freddo. Lo so che lo fa solo per me. Forse dovrei dirle che è bella. Che non si deve preoccupare. Credo sia del tutto inutile. Naturalmente viaggia senza cintura. Spero non ci fermino per quello. Diversamente non si potrebbe muovere con quella disinvoltura. Anzi starsene così ferma e così comoda. Appoggiata alla portiera e con le braccia allargate. Non sarebbe riuscita a rispondere.
Alla radio danno un bel programma di musica anni ottanta. Lei preferisce Rachmaninov. Pazienza. Mi chiedo ancora, come allora, se è soda e morbida allo stesso tempo. Allora non abbiamo avuto il tempo per niente. E forse nemmeno lo avremmo mai avuto. Sono stato lì lì per morire per cominciare a vivere. Per fortuna. Ora è tutto uguale e tutto diverso. Ora ci conosciamo. Ora conosco tutto di lei. Non conosco quei suoi diciott’anni. Quest’età come per miracolo ritrovata. Ho tutta l’intenzione di conoscerli tutti. Bene. Senza rimpianti. Senza fretta. Non capita tutti i giorni di avere una seconda occasione. I jeans sono bassi; pieni. La corda è tesa. La prego di slacciarla: “Voglio vedere”…
Se ho gli stessi slip? Ho fatto una fatica infernale per infilarli. Non so se ci riesco di nuovo. E poi non lo potresti sapere. Allora non hai fatto a tempo a vederli. Però… perciò… Non li ho messi. Se vuoi lo slaccio, però non vedi che cose che hai già visto. Però allora”…
Non c’è un allora. C’è solo un’ora. Un adesso.

2. Ancora una volta mi trovo a continuare io, ma stavolta nessuna tragedia. Per fortuna nell’occasione non è stato il male a togliere la parola a Niero. Era meglio che si limitasse a fare solo quello che stava facendo. Che non si distraesse troppo. Ero in ansia. Stavolta semplicemente perché era meglio che pensasse solo a guidare. E poi è di là finalmente che dorme il giusto riposo del guerriero dopo l’aspra battaglia. Perché, testardo, ha voluto guidare lui. Non che mi fidi troppo. Preferisco avere in mano pienamente il governo delle cose, come per la casa. È stato irremovibile. O guido io o mi riporti in camera. È stata una scelta difficile, dolorosa, ma poi ho scelto il mare. Ma andiamo con ordine, perché è certo che chi legge vorrebbe anche sapere. Ma non so se il pudore mi consente di ammettere che averlo sempre lì così… entusiasta è una cosa entusiasmante. Che non avrei mai creduto possibile. E forse avevo ragione. Ma lui non è come gli altri. Ero curiosa. Mi ha spiegato che lo è stato, come gli altri. Fin prima di restare invalido. Ma gliel’ho chiesto con il dovuto tatto. Con quel minimo di pudica delicatezza che si addice ad una ragazza, ad una donna.
Eravamo rimasti in viaggio. Voleva che li togliessi. Ho fatto una fatica di Sisifo, il figlio di Eolo e di Enarete, per infilarmi in quei jeans come un’anguilla. Sarei dovuta sbroccare per farlo, in piena autostrada. Che poi è solo una semplice provinciale. Col rischio di dover scendere e raggiungere casa svestita. Ma un uomo come lui avrà anche dei limiti ma ha anche dei pregi, e molti. In più a una donna da sicurezza: lei sa che comunque lui è lì, sempre lì per lei. Non può scappare. Se ne sta buono in casa anche davanti alla televisione. Oppure dietro ad un giornale. Mentre io fatico. Se gli serve chiama. A mia completa disposizione. Però questa cosa straordinaria di essere tornata quella di un tempo non so ancora come la saprò gestire. Gli dico che dovrà avere pazienza. Che se mi vuole così ragazzina dovremmo ricominciare tutto da capo e mi dovrà insegnare nuovamente tutto: “Scorda tutto. Sarà la nostra vera prima volta”.
Orami lo conosco bene. A volte fatico ma non mi sta ad ascoltare. Anche quando parlo solo per il suo bene. O con la “p” che sostituisce la “b”. So bene che avrebbe voluto che mi riempissi la bocca solo di lui. Che lo riempissi di cose gentili. Che lo lusingassi. A volte non mi va proprio di farlo. Anch’io ho i miei momenti no. Non sono una macchina. Posso avere dei pensieri e dei grattacapi. Delle preoccupazioni. Già lui me ne ha date, fin dal nostro inizio, sempre tante. Anche senza volerlo e non per colpa sua. Debbo stare sempre all’erta. So anche com’è lui quando si annoia ed è nervoso. Quando è irrequieto e impaziente. Non sta più sulla pelle. Come al chilometro ventisette.
Riesco a trattenerlo fino all’autogrill, dovrò pure fare la spesa se vogliamo metterci qualcosa nello stomaco quando arriviamo, e per riassettare un po’. Ingerire. Potevo usare quella invece di mettere. Ingurgitare. Mi mette in testa una buffa idea. Perché no? Spero non gli faccia male. Faccio gli acquisti in fretta per tornare da lui che aspetta. La sa bene che non mi piace il turpiloquio, le sconcezze. Devo rimproverarlo spesso. Qualcuna gliela perdono. So che non lo fa per cattiveria, che non le pensa veramente, gli vengono dal cuore; spontaneamente. A volte persino come veri complimenti.
Per farlo stare buono gli prometto la più meravigliosa irrumazione della sua vita. Dalla buffa faccia che fa capisco al volo che non ha capito. Gli dico che sarò la sua Linda Susan Boreman, ovvero la sua Linda Lovelace e che gli interpreterò tutte le scene del film fino al nostro arrivo. Sono praticamente certa che non sa nemmeno chi sia. Eppure dovrebbe essere una pellicola dei suo tempi. Si è fatta fotografare anche con i Kiss. Eppure lui è appassionato di quel cinema e quella musica. Anche lei ne aveva tante, se ben ricordo, ma non così tante. Non so se sono brava come lei ma ho tanta voglia di imparare. E ho proprio tutto quello che aveva lei; come lei. Lo metto buono. Sono una che mantiene le premesse e le promesse. Forse di questo sarei più assennata a non parlarne. Spero non gli faccia male. Continuo il resto del viaggio accovacciata senza vedere la strada. Sto scomoda, con una pazienza penelopea, da madre di Poliporte eccetera. Non sono una che se la tira e si da arie: “Però stai tranquillo”.
Smetto solo quando lui frena. Spero che stia bene e non sia troppo stanco. Lo sistemo nella sua carrozzina e un po’ un po’ alla volta porto lui e poi tutto il resto fin dentro casa; cyclette compresa. Sono proprio affaticata e avrei bisogno di una bella doccia e dal tanto parlare ho le mascelle indolenzite. La casa è un vero macello. Lo so che potrebbe tranquillamente deambulare, magari aiutandosi a un bastone. Gliel’ho preso. Gli ho preparato il regalo per il nostro ritorno. Ormai ha ritrovato quasi completamente anche la sua forza nella muscolatura dei suoi organi inferiori. Me l’ha confermato anche il suo medico e la fisioterapista che lo segue. A quella certe volte vorrei strapparle gli occhi. Per lui ho lasciato gli studi e tutto il resto. Studi e studenti. Anche se l’anatomia è sempre stata la mia passione. L’eterno immortale turgore del suo organo erettile, come dire? quella fantastica tumescenza, che in primis mi ha lasciata senza fiato, mi ha ripagata di tutto. È la conclusione dei miei studi. Mi rende felice. Non mi lascia spazio per nessun rimpianto. Anche se a volte sono quasi stoltamente tentata di pensare ad una pausa, di prendere fiato.
Lui non s’è ancora acquetato, non trova pace. Lui non trova mai pace. Vado su e giù a fare un minimo d’ordine e di pulizia e devo fare attenzione quando sono costretta a passargli vicino perché debbo continuamente scansare le sue mani rapide ad afferrarmi e trascinarmi a distrarmi dalle mie incombenze. Cerca di muovermi a pietà. Mi ricordo che debbo aver dimenticato il reggiseno in macchina. Mi implora ricordandomi che sono stata io a tirarle fuori. I miei maestosi airbag tornati come nuovi. Lo sa che li esibisco così solo per lui. Sarei una scimunita se lo facessi per altro. Spero non gli faccia male. Non lo volevo provocare. Non era nelle mie più recondite intenzioni. Non ne ha sicuramente bisogno. Mettono allegria ad entrambi. L’ho fatto per quello. In modo puramente innocente. Senza alcuna malizia. Volevo rendere leggero e allegro il viaggio. E rivedere quella faccia. La faccia di quella sua maschera. Ma appena entrati li vuole provare. Tolgo la maglietta perché ormai è tutta sudata. Pazienza, finirò più tardi.
Non c’è più molto da spiegare. Tutti sanno come funzione. Si accoccola e immerge nel mio abbraccio cercando di non soffocare, subito estasiato e sognante. Bofonchia alcune parole dai suoni gutturali e le ingoia subito per non farmi adirare. Mi incita come se ne avessi bisogno. Sono quella ragazzina ma certe cose vengono naturali anche a diciott’anni. Una donna le sa da sempre. Le sue dimensioni non sono proprio del tutto trascurabili, tutt’altro, ma in questo caso e in ogni caso non sono proprio un problema. Sono una risorsa. Sono una grazia. Spero che si metta finalmente tranquillo per un po’. Spero che mi chiederà finalmente di sposarlo. So che lo vuole. Forse si fa riguardo. Forse non ha trovato ancora il coraggio. Forse pensa alla sua condizione e crede che non potrei sopportare il sacrificio ancora per molto, in eterno. Ma lui mi da tutto quello che una donna può desiderare.

[1] Il caso Malaussène di Daniel Pennac. Narratori Feltrinelli, Milano – 2017
[2] L’amica geniale di Elena Ferrante. Edizioni e/o, Roma – 2011

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