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Archive for marzo 2018

BoeraÈ bastato un attimo, vedere Boera e perdere la testa. Non notarla non era possibile. Era entrata da sola. Era entrata sicura di sé, come una soubrette, e si era presa il palco. Troppi occhi si sono voltati a guardarla. Con quella spanna di tacchi. Con le spalle scoperte. I capelli come una nuvola profumata. Con quel sorriso a diecimila watt. È così che l’ho invitata a ballare.
Un gran gesto audace il mio. Era già la mia regina. In quell’istante. Ero certo che le sua labbra avrebbero trovato una scusa. Un modo gentile per un diniego. In un certo modo restai favorevolmente sorpreso del suo Sì. La musica era lenta e le luci soffuse. L’ho abbracciata stretta e ho cominciato a sognare. Galleggiavo nell’aria immerso nel suo profumo dolciastro. Quella musica suonava soltanto per me, per noi. Le ho spiegato quanto era bella, e mi ha permesso di baciarla prima ancora che le chiedessi il suo nome. Avevo trovato un coraggio che non avevo mai avuto; che non era mio. Mi ha guardato con orgoglioso rimprovero quando le mie mani hanno provato a farsi audaci.
Poi hanno acceso le luci senza che lei si staccasse da me. Ero prigioniero dell’indagine dei suo occhi. Tra le labbra le era sfrigolata una risatina di biasimo e di orgoglioso consenso. Almeno così io interpretai il suo vocabolario facciale. Feci per accompagnarla a tavolo, non si mosse. Le chiesi se potevo andare a prenderle da bere, mi disse, con una voce dolcissima e suadente, che non aveva ancora sete. “Magari dopo”. Queste sono state, lo ricordo bene, le sue prime parole. Le tenevo la mano. Poi aggiunse che preferiva restassimo lì, nel mezzo di quell’arena. Nascosti dagli altri in quella folla.
Tutto e cominciato lì, quella sera, come d’incanto. Ricominciammo a ballare e non ci saremmo stancati mai. I suoi occhi non trovarono più rimprovero per la sfrontatezza delle mie mani. Mi assolvevano e mi lusingavano invece con la luminosità serena di un tacito gradimento e un soddisfatto orgoglio. Non diceva null’altro per non Interrompere il momento, quella malia. Con il cuore e le mani gonfie mi comunicò che forse era ormai il momento di andare. Temetti ed ebbi un tuffo al cuore, ma la sua mano riprese la mia, si intrecciarono le dita e mi trascinò con sé. Quando gli confessai quell’attimo di incertezza mi diede dello sciocco e del povero stupido e mi sfiorò dolcissimamente le palpebre con le labbra.
Di tutto quello che successe in seguito, quella stessa sera, preferirei non parlare. Ero curioso di tutto di lei. Come mi ha spiegato in seguito l’origine dell’insolito nome non è stata una questione di colore o di terra. Molto più semplicemente suo padre aveva preso uno di quei cioccolatini ed era stato la sua fortuna. L’aveva offerto a sua moglie ed era scoppiato l’amore, cioè a quella che non era ancora sua moglie e che ancora non sapeva che lo sarebbe presto diventata. Lei aveva vinto e scartato un altro bacio e trovato il bigliettino che le spiegava che quella era la sua giornata fortunata, in cui avrebbe trovato l’amore. Era tutto vero. La madre era una tipa decisa, che sapeva quello che voleva. E non era più una ragazzina. E tutto questo era successo esattamente vent’anni fa.
Poi era stato il caso perché era come se il nome fosse diventato una specie di marchio. Era stato quasi come se lo avessero sempre saputo, anche se all’anagrafe non ne potevano essere che inconsapevoli. Non potevano immaginare. Trovava che per lei, probabilmente, non sarebbe mai esistito un nome più appropriato. Boera, ogni volta che vuole, sa essere dolcissima. Boera ha un deciso sapore d’avventura e di arance. Boera è una donna ad alto tasso alcolico. Come la assaggi ti fa girare la testa. Era stato subito così, dopo quel nostro primo bacio. È così in ogni bacio. Mi perdo in lei e mi ritrovo affogato nei suoi umori.
Non mi ha mai lasciato il tempo di pentirmi di quel mio gesto precipitoso. Mi ha dato subito una ragione e un posto, anche se sono sempre stato un tipo un po’ nomade. Però Boera non è mai la stessa, e lo è sempre. È sempre nuova e sempre una certezza. Non so come spiegarlo. Basta vederla e vederci. Non sempre le cose si spiegano con le parole. Quando non è qui mi sento in ansia e non faccio altro che aspettarla. Ha dita lunghe a mani rapide. Ha sempre le unghie curate e lo smalto colore del sangue appena sprizzato, o di un ottimo cabernet. Anche nelle mie serate sfortunate quando scarto Boera vinco sempre il primo premio.

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Piccoli gialli italiani6. Ma chi è lo stronzo che ha detto che per le strade del crimine vola piombo e pupe. Di piombo, per fortuna, non ne vola un grammo. Di pupe… ancora meno. Devo essere io. Non si batte chiodo, punto. È una lagna. È più facile imbattersi in una discoteca nel deserto del Maghreb, che trovare una tipa prodiga e altruista. Ho anch’io le mie esigenze. Da quell’orecchio Beatrice non ci sente. Persino i baci sembrano annoiati. Sempre avara; e munifica quando me ne concede uno. Come osare chiedere un tè in una tazza di porcellana di Limoges. Sono certamente io.
La prima volta che ci ho provato ho vinto un ceffone. Poi, le poche volte, si è limitata a togliermi le mani. Non ci provo quasi più. Magari sotto il vestito non c’è una ragazza. Nessuna ragazza. Non come si intende una ragazza. Magari nemmeno è viva. Magari è solo gonfio d’aria, quel vestito. Magari ha l’interno di sola vera piuma d’oca. O forse è fatta tutta di puro cristallo di Murano. Magari sotto si nasconde un robot da cucina. Il fantasma di Belfagor. Le piaghe d’Egitto; già è più probabile. La mummia di Nefertiti. Che cazzo ne so?
Ma queste sono pene mie e private. Poi c’è la sfiga e altri pretesti per bestemmiare. Tutti i giorni. Ogni giorno un’occasione diversa. In questa ricerca di capire e spiegare. Forse non diventerò mai un vero giornalista, preferibilmente di nera, ma scrivere mi dà gusto. E poi mi sembra di non saper fare molto di meglio. Chi delinque è tra noi. E non ci sono solo i grandi delitti. È pieno di piccola delinquenza. In un paese senza futuro. Di vecchiette che ormai, per tirare avanti, rubano il pane. Come diceva lui: “è un delitto il non rubare quando si ha fame[1]”. Dei poveri più poveri del mondo che vengono in questo paese povero pensando di scappare dalla povertà. Illusi. Poi ci sono io che ci metto del mio. Una volta che vado in dipartimento rubano i libri. E si rubano proprio i miei. Il tempo di girare la testa. Spariti. Dovrò rimandare ancora l’esame. E stavolta non per colpa mia. Non ho bisogno di un pretesto. Ora come glielo dico? Finisce che mi tocca finire alla banca del seme.
Non so dove andare a sbattere la testa. In piena crisi di identità, e scoraggiato, chiamo Beatrice. Ho bisogno di dirle che ho proprio bisogno di vederla. Mi spiega sinteticamente che non può proprio. Che deve studiare un esame. Lo sapevo prima di cominciare. Lei mi avrebbe già detto ciao. Provo a insistere comunque. Mi prega di non insistere. Non ci riesco proprio e allora glielo dico. Sono incazzato: “Ma come? A me picche! Poi vai alla festa del quinto anno”. Lo so perché lo so. Non lo può negare. “Non potevo rinunciare. Mi hanno invitata. E sono stati così carini”. Per lei il discorso potrebbe essere già chiuso. Non le ho mai mentito di essere un santo: “Carini un piffero”. Non c’è abbastanza camomilla in tutta Alessandria. “Non essere volgare. Non fare il padrone”.
Si è sempre rifiutata in attesa dell’altare. Col cavolo. Non ho fiato per altri vent’anni. Nemmeno da Penelope si poteva esigere tanta paziente abnegazione: “Spiegami perché non l’hai nemmeno fatta annusare, e Biagio se ne va in giro col tuo slippino pieno di fiori”? La sua voce è indignata: “È un millantatore, lo sai”. Lo so, ma mi gioca sfogarmi: “Dimmi come te le ha sfilate”? “Non me le ha… Che cavolo ne so. Di chi sono. Chiedi a lui. Certamente non sono le mie. Sai che non me le faccio togliere. Nemmeno da te”. “Da me, lo so. Dagli altri… dobbiamo parlare. Ci sono alcune cosette che mi devi spiegare”. Finisce subito il tempo che mi è concesso. Decisa mi dà buca e mi scarica: “È meglio che per un po’ non ci vediamo”. Mi invita di utilizzare quel tempo per calmarmi. Calmarmi un cazzo. Vorrei dirgli che… ma ha già messo giù. Mi sento di merda.
Intanto chiedo in giro se qualcuno ha visto i miei libri. So dove li avevo appoggiati. So che è inutile. Non posso averli semplicemente dimenticati. Li ho sempre tenuti in mano. Li ho appoggiati un attimo. Spariti. Non faccio questo cazzo di pseudo-giornalista per vivere. Non porto a casa un centesimo. Studio per avere il pretesto per campare. La mia economia è sostenuta essenzialmente dai miei. Se smetto con l’università dovrei cercare quel lavoro che nessuno trova. Che nessuno sa dove si è nascosto. Oppure devo tornare ad aiutare papà ad affilare coltelli. Mi servono quei libri.
Intanto non ho nemmeno il tempo di pensare a come contattare Matilde che me la ritrovo davanti. Ha una gonna un poco troppo corta. Non so cosa faccia da queste parti. Non so dove sta, ma so che questi non dovrebbero essere i suoi posti. Non so come sia possibile che ci incrociamo ogni volta che la penso. Forse chiedo troppo alla mia intelligenza: “Ciao Tilde”! Mi saluta, sorride e si ferma: “Ciao Nardo”. Sono uno che ricorda le cose: “Ti va uno spritz”? “Veramente andrei di fretta. Ma tu non ci pensi mai? Se è per fare, un po’ ne trovo”. Stavolta la stanza ce l’ho. Da Jacopo. Più che una stanza è un buco. Una stanza da studente. Jago è stato gentile a darmi le chiavi. Pensavo di portarci Bice. Vorrà dire… Gli ho dato una mezza mesata. Glielo dico trionfante: “So dove andare”. È come non aspettasse altro. Non si dà un attimo per pensare: “Cosa aspettiamo”?
Siamo soli in tutto l’appartamento. Forse no. Mi sembra di sentire dei rumori nell’altra stanza. Cosa le dico se mi chiede del bagno? Ci sono venuto solo per un sopraluogo. Nella stanza c’è solo un piccolo letto. Ho fatto caso solo a quello. Un piccolo letto, singolo, e una sedia. Non si fa pregare, ci si siede sopra soddisfatta. Sul letto, intendo. Non mi sembra a suo agio come pensavo. Vuole tempo per pensare. Poi i suoi occhi mi dicono: che aspetti? Non so da dove cominciare. Mi butto. La costringo subito in un angolo e l’abbraccio. “Ti ho pensata, sai”? Suona falso come reclamare una sua verginità. Chiudo gli occhi. Ci diamo un bacio che dura un secolo. Un secolo che non dura quanto avrei voluto. Comunque mi ha lasciato senza fiato. Mi guarda con un rimprovero: “Ma tu le mani proprio non ce l’hai, o nessuna ti ha spiegato a cosa servono”? Come la mettevo se trovavo il padrone di casa? Dovremmo sbrigarci. Per farla contenta gliele infilo dà per tutto, e la faccio contenta. Intanto torniamo a baciarci. Mi mette la lingua fino in gola. La sua lingua conosce dei giochini stupendi. Guizza rapida e scivola.
La stropiccio tutta. Con entusiasmo. La cerco sotto la maglietta. Un po’ impacciato. Non lo ha addosso. Sono libere. Ci giocherei per tutta l’eternità, –Hai un gran bel paio di tette, Tilde; massicce ed elastiche. Sono due ragazzine birichine. Carne fresca. Finalmente. Soda. Ne avevo proprio bisogno. Una rimpatriata di donna. Mi lascia fare, soddisfatta. Imparo presto. In poche dispense. La cerco dà per tutto cioè, le tasto il sedere. Cioè… proprio il culo. Sopra la gonna. Mi faccio proprio ardito. Sopra le mutandine, –Hai un gran culo, Tilde. Mi lascia quasi fare, e la sua lingua continua a zampillare nella mia bocca. Non posso credere che anche lei… Mi blocca la mano. È una sensazione già provata. Ne resto però stupito. Poi si stacca. Mi mordicchia un lobo. Mi ci infila dentro la lingua che mi sento impazzire. Poi mi ci infila dentro un paio di vocaboli sussurrati: “Quello no”.
Ho fretta. Ha fretta. Smanio. Smania. Cerco di fare io. Riflette. Si arrangia da sola. Mi fruga. Resta vestita, ma mette a nudo me. Mi colpisce. Quando si china, e capisco di finire nel silenzio delle sue parole mute, è già quasi troppo tardi. Che non potrò resistere molto. Cerco disperatamente di trattenermi. Lei ha ancora gli occhi chiusi. Non c’è gusto né vizio se non mi guarda. Poi li alza e mi pone la domanda. Con lo sguardo la ringrazio. Con gli occhi fisso il soffitto e sento gli angeli cantare litanie concitate. Alzo le spalle per farmi perdonare: “Scusa”. Ormai sono già tornato a precipitare rapidamente nella realtà. Per me è già tutto finito. So che per tornare presente non mi basteranno pochi minuti. Mordo l’aria per ritrovare un respiro. Lei continua a guardarmi e ha un’aria serena e appagata: “Non ti preoccupare, è bello anche così”. Vorrei dirle tante cose ma non so da dove cominciare. E poi mi è di conforto nascondermi nel silenzio.
Non sono ancora completamente rinvenuto quando lei torna a parlarmi, tranquilla: “Hai pensato a quello”? “Cosa”? “Ti è dispiaciuto”? Spero mi stia chiedendo di me: “No di certo”. Si finge stizzita: “Allora sei uno stronzo”. Sono veramente colto di sorpresa: “Perché”? Torna a quella faccia benevola: “Vuoi essere il mio ragazzo”? Rispondo senza rispondere, con la prima cosa, cercando di essere convincente e credibile: “Credevo di esserlo”. Riflette per un poco nella sua testa: “Non serve dirlo a Bice”. Comincio a preoccuparmi: “Come vuoi”. Forse è troppo per me. Forse è già troppo tardi.
Per il momento non ho che quei libri in mente. Lei se ne accorge: “Ho fatto qualcosa che non va”? E ora?… Precipito dalle stelle, e da altre fantasie che non saprei soddisfare. Non ho più la forza nemmeno per alzarmi dal letto: “Scherzi, perché”? Mi passa le dita tra i capelli: “Te ne sei già scappato. Sembri preoccupato”. Una dote tutta femminile. Sono brevemente e parzialmente sollevato. Non sapevo cosa aspettarmi: “Niente. È che vengo dal dipartimento”… Sembra leggermi dentro: “E ti sei fatto fregare i testi”. Come fa? “Già! Come fai sa saperlo”? Non è una che si lascia abbindolare: “Sai che novità”. Mi seno di merda. Sembra leggermi dentro. “Costano una cifra”. “Quei mattoni hanno mercato solo dentro”. “Cosa vuoi dire”? “Cretino! Che non sono usciti di là. Dove vuoi siano volati”? Non sono certo, ma forse potrei capire: “Sei la mia salvezza”. “Non ero la tua ganza”? Ora che ci penso, è riuscita a tenersi le mutandine: “Anche. Certo”. “Ora… però… mi devi proprio scusare”.
Lei va un attimo al bagno, trova l’indirizzo da sola. Dovrei darmi una pulita anch’io. Finisco i fazzolettini e sono accora tutto appiccicaticcio. Tiro su la zip e mi sento orgoglioso. E un gran coglione. L’appuntamento è in cucina. Per farci un caffè. Lì sbattiamo addosso a una. È lì con la stessa intenzione. Ha già messo la moka sul fuoco. Si presenta come Una; sono solo di passaggio. Lo versa anche per noi. Non c’è una tazzina simile a un’altra. Per come ha assassinato il caffè dovremmo denunciarla. Non so come ci sia riuscita. Forse è di ieri. Comunque sarei un pessimo testimone, non ho la minima idea di come si chiami. Temo che Una non sia il suo vero nome. Non sappiamo che dirci, e non scambiamo molte parole. Tilde la guarda male. In cagnesco.
Lei mi guarda come si guarda dalla finestra, il tempo. Poi la lasciamo lì e torniamo in camera. Io per prendere lo zaino vuoto. Lei per sistemarsi un attimo: “Guarda che tu non mi avevi degnata di uno sguardo. Io sapevo esattamente chi eri”. Non sono certo di capirla. Vorrei avere il tempo, tutto il tempo: “Credo che ogni cosa sia importate quando è”. Non so cosa volevo dire, forse, ma suonava bene. Forse nemmeno è mia. Lei mi spettina e mi sorride dolce: “Stupido”. E ci diamo un altro bacio prima di uscire. Tanto per ricordare. E anche perché se c’è l’occasione è meglio prenderla. Mi spiega divertita che doveva proprio farla. E che ha dovuto usare il primo spazzolino che ha trovato. Me ne ricordo io: “Ma non avevi un appuntamento”? “Avevo. Non ci sono più appuntamenti”. “Bene”. “C’è il tempo per cercare, ma quando trovi non c’è più nessun altro cavolo di cazzo di tempo che quello di vivere. Devi azzannare il momento. E non fartelo scappare”. Non ci ho capito niente: “Bene”. “Ma basta qui. Troppo squallido. La prossima volta da me”. “Bene”. “Prenditi il numero. Ti faccio uno squillo”. Squilla: “Eccolo”. “Scrivi: Matilde virgola la mia ragazza. Oppure solo Tilde. O Matilde virgola l’altra. Insomma… Come vuoi”. Mi basta Matilde, ma non glielo dico. Lei non controlla. Non corro il rischio di fare casino. E poi non è prudente scrivere quello che mi verrebbe da scrivere.
Vado da quello che una volta chiamavano bidello. Fingo di cercare quei libri per comprarli. Ha un’intera biblioteca. Me li offre a un quarto del prezzo. Non mi spingo ad accusarlo. Gli dico che sembrano proprio quelli che ho scordato il mattino. Proprio quelli. Li sfoglio. Cito gli appunti che mi ricordo di aver preso. Lo faccio prima di raggiungere la pagina dove li ho presi. Gli dimostro che sono proprio i miei. Non ha coraggio di ribattere. Con voce bassa si scusa e si giustifica, per averli trovati abbandonati, sopra un tavolo in sala lettura. So che ho fatto solo a tempo ad andare alla macchina delle merendine. Che in quella sala non ci sono mai arrivato. Mi prendo i libri senza dire altro. Anzi lo ringrazio. Mi sento salvo.
Appena a casa provo a scrivere il pezzo. Inizio con un ringraziamento, che solo io so ironico, al signor Luigi. Proseguo con un elogio alla premurosa attenzione che mette nelle sue mansioni, e alle proprietà che gli smemorati studenti possono scordare nel loro girovagare per le aule dell’immenso complesso universitario. Concludo con un invito ai colleghi studenti di rivolgersi allo stesso signor Luigi per ogni smarrimento e per ogni bisogno o chiarimento. Come post-scriptum segnalo a tutti quelli che potessero aver bisogno di materiale didattico che lo possono trovare rivolgendosi all’ufficio di segreteria. Lì chiedendo del succitato zelante e scrupoloso custode. «Firmato Bernardo Carafa, giornalista». Diventa subito carta da cestino.

[1] Fabrizio De André: Nella mia ora di libertà

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La saetta nera.jpgIo mi preparo sempre per tempo quando devo viaggiare. Con il giornale e tutto il resto. Ho già sistemato la valigia, ma mi muovo leggero, quando lei sale affannata, anche se manca quasi mezzora, e sceglie il posto davanti. Saluta educatamente e naturalmente attacca il cellulare a ricaricare. È carina. Sistema il sacchetto e prende sulle ginocchia la borsetta, quindi si mette comoda. Subito penso a un viaggio tranquillo in buona compagnia. Guardo fuori la stazione e guardo lei. Potrò ammirare un paesaggio migliore e più interessante di quello offerto solitamente dalle ferrovie italiane. Uno dei tanti paesaggi gradevoli che la fortuna a volte concede a noi poveri che dobbiamo usare il treno. Magari forse capiterà di fare due chiacchiere e anche, perché no, una fugace amicizia. A volte succede.
La osservo intensamente e poi distraggo lo sguardo. Lei sembra nervosa. Guarda l’ora, guarda il cellulare, torna a guardare l’ora e poi decide di chiamare. I giovani si assomigliano un po’ tutti. Forse parla con un amico, forse col fidanzato. Credo più alla seconda ipotesi perché alla fine gli manda bacini, bacini. Durante la conversazione le ho sentito dire che se il dio dei viaggiatori la assiste lo richiamerà appena arrivata, tra un’oretta. Ripenso a quanto mi ero detto: sarà un incontro di breve durata. Intanto, senza essere invadente, mi lustro gli occhi della sua compagnia. La guardo e non la guarda, con aria distratta, allontanando gli occhi prima di correre il rischio di metterle imbarazzo. Appoggia il mento sulla mano e si appisola. Non mi resta che continuare a fissare la mia bella addormentata. Perfino se non volessi c’è anche il fascino delle cose rubate.
Il treno parte e lascia sulla banchina un paio di ritardatari. Ma ne compiaccio. Così imparano. Cerco, senza riuscirci, di tornare a leggere. Sono alla pagina dell’economia. Lei si sveglia, si guarda le gambe, mi guarda, cerca di coprirsi inutilmente e poi alza le spalle. Il jeans è corto, non la può esaudire. Si accontenta di prendere lo specchio e di controllare il trucco. Si accontenta di lasciarmi vedere tutto quello che moralmente è possibile di lei. Tutto ciò che è umanamente ragionevole concedere a un dirimpettaio. Schiava della stagione calda e dello scompartimento spartano. Le saette nere promettono un tragitto comodo e il rispetto degli orari. Le saette nere, in tutta la loro storia, non hanno mai mantenuto nessuna promessa. Lei guarda fuori e sembra ridestarsi all’improvviso. Scuote i lunghi capelli e il dialogo che ne segue ha un’andatura convulsa. Abbiamo già superato Marghera?
Da un po’.
E Mestre?
Da un po’.
Manca molto a Padova?
Non co come dirglielo. Forse per lei è importante, ma che senso ha scandire stazione per stazione? Anche quelle perse nel nulla. La sua famosa oretta della promessa telefonica con tanto di bacini è già passata. Cosa dovrei fare? Ha quell’aria così distratta e simpatica. È così giovane e fresca. Non so perché ma la situazione mi appare come surreale: Veramente abbiamo appena lasciato Bologna Centrale. Siamo quasi a Bologna S. Vitale.
Lei sgrana gli occhi: Ma come? Io dovevo scendete a Terme Euganee-Abano-Montegrotto. E adesso cosa faccio?
Vorrei farle notare che i treni rapidi non hanno mai fermato a quella stazione. E pure un altro paio di cosette. Sono troppo gentile per infierire. Mi scappa da ridere. Mi trattengo: Non le so che dire.
Devo essermi assopita.
Credo di sì!
Perché non mi ha svegliata?
Vorrei solo farle presente che io non potevo sapere
Bella scusa. Sì, lo so, forse non ne ha tutte le colpe, però poteva chiedere. Io sono così distratta. Non viaggio spesso in treno. È un dramma. Mi si è rotta la macchina. Proprio ieri. A un semaforo. È vero che era rosso, ma quello davanti ha frenato così all’improvviso. E adesso cosa faccio?
Certo che continuo a trattenere a stento quella risata che spinge per esplodere. Lei sembra talmente preoccupata che non mi pare il caso di infierire ulteriormente con uno scatto di ilarità. Cerco di mantenere un contegno serio. Mi spiace. Non ferma più fino a Firenze Santa Maria Novella.
Non è possibile. È ora che faccio? Era un appuntamento di lavoro.
Credo che… che non le resti che chiamare e spostarlo.
Nel frattempo il nostro viaggio si è lasciato dietro anche Rastignano, senza nemmeno rallentare. Non posso. L’ho già fatto. L’ho già spostato. È stato carino ma ha detto che questa sarebbe stata l’ultima volta. Fine. Che non possono più accettare posticipi. Che hanno altri che aspettano di essere convocati. È una selezione lunga e laboriosa. Di lavoro non ce n’è mai abbastanza. E di pretendenti sempre troppi. Già, ma a lei cosa importa. Nemmeno so perché sto a parlare. Magari nemmeno mi sta ad ascoltare. Ma lei dove deve andare?
Io scendo a Roma Termini.
La sua faccia mostra tutta la sua preoccupazione: Ma lei è un pazzo?
Anch’io viaggio per lavoro.
È probabile che il dio dei viaggiatori sia un dio distratto. Almeno per questo venerdì. La saetta nera supera sbadata e senza tentennamenti anche Musiano-Pian di Macina. Senza appesantire ulteriormente il suo ritardo. Lei ha una voce cantilenante che le guizza tra le labbra con note acute e appuntite. Mi scruta indispettita: Guardi pure, sa. Beh! se la smette per un attimo, di guardami tra le gambe, le mutandine, potrebbe aiutarmi. Faccia qualcosa. Insomma. Non posso mica passare tutta la giornata in treno. È in ballo il mio futuro. Forse la mia vita stessa. Non ha proprio idea di come posso fare?
La guardo attonito. Non so che dire e taccio. Mi sembra tutto una pazzia. Il resto deve ancora venire. Fruga nella borsetta. Ne estrae una banana di ragguardevoli dimensioni, ma non troppo matura. La impugna come una berretta e me la punta contro fissandomi minacciosa: Mi scusi, non lo vorrei fare, ma ne sono costretta. Questo è un dirottamento. Dobbiamo farlo tornare indietro. Sono già in ritardo e devo proprio essere a Terme Euganee-Abano-Montegrotto. Dovrei dire che già dovevo esserci. Ha idea di dov’è? Ce lo siamo lasciato dietro le spalle. Cavolo. Che palle. Va a finire che poi è colpa mia.
Mi sembra tutto così ridicolo e irreale. Vorrei farle capire la situazione con calma. Un treno mica può fare un’inversione a u e tornare sui suoi passi. È un limite propriamente tecnico. E comunque non lo farebbe mai, anche se potesse, per una sola cliente distratta, e… anche… un po’ fuori di testa. E non sono io a guidare questa bestia. Ma il piglio della sua faccia è così pieno d’irritazione, così determinato e così deciso che resto senza fiato. Non riesco a dirle nemmeno che quella è solo una banana. Che la sua è una ben strana minaccia. Credo di essere testimone dell’unico dirottamento della storia delle ferrovie italiane. Per il momento non vedo alternative che assecondarla. Fingo di essere in preda al panico. Non saprei proprio, anche volendo, come aiutarla.
Come anche volendo? Faccia qualcosa. Fermi questo maledetto arnese del diavolo. Ci sarà pure un modo. Che ne so? Cerchi di farsi venire un’idea. Chiami il capotreno. Chiami qualcuno. Mi faccia scendere. Sarebbe già tardi. Devo assolutamente tornare indietro.
Rasentiamo l’assurdo. Continuo a interpretare la mia rappresentazione sotto la minaccia di quel frutto. Cercando di essere il più convincente possibile. Non posso però che dirle la verità, quello che non vorrebbe sentirsi dire. E cerco comunque di uscire dall’equivoco e dal suo incubo farneticante. Credo che nemmeno lui… Però non ho idea dove sia. Dovrei andarlo a cercare.
Non la convinco. Lei cerca di essere molto persuasiva. Temo che la prima, e unica, che ha convinto sia se stessa. Non mi sono mai trovato sotto la minaccia di un’arma, e per giunta un’arma simile. Speravo in un viaggio tranquillo. Non chiedevo molto. Erto contento pensandola una gradevole compagnia. Non si muova. Stia dov’è. Guardi che non scherzo. Se si deve andare, allora andiamo assieme. Lei non mi sembra molto pratico di treni. Cavolo d’un cavolo. È proprio imbranato. Non immagina cosa mi verrebbe da dire. Le faccio vedere io come si fa.
Mi strattona per il braccio. Mi lascio sollevare e mi spinge davanti a lei sotto la minaccia del frutto. Me lo preme contro la schiena. Per fortuna non è abbastanza maturo. E lei non preme troppo. Lo appoggia solo. Non faccia gesti inconsulti. Di cui ci potremmo pentire entrambi. Sono decisa. Se fa il bravo non sarà necessario che tra i viaggiatori si diffonda il panico. La cosa potrebbe rivelarsi veramente pericolosa. Se fa come le dico la cosa potrebbe restare circoscritta.
Mi indica in fianco alla porta di discesa, a destra, un piccolo panello bucherellato. Non ci avevo mai fatto caso. Non ne avevo mai avuto bisogno. Mi spiega che se premo il bottone, quello rosso che è giusto sotto, mi mette proprio in comunicazione con il personale addetto. Mi faccio passare il capotreno e brevemente accenno che si tratta di una situazione veramente di pericolo. Che sono sotto la minaccia di un’arma. Che si tratta di un dirottamento e che c’è la possibilità che la pazza si spinga fino ad azionare il freno di emergenza. L’altra mi dice di darle un minuto e che arriverà in un lampo. Spero non sia nero anche il lampo, oltre la saetta. Pensieri stupidi, lo so.
Come avevo intuito dalla voce il capotreno è una donna, ma la divisa conferma che è lei quella che dovrebbe risolvere i problemi. Pare gentile fin dal primo sguardo. Accenno alla banana, le strizzo d’occhio e con la mimica facciale le suggerisco di assecondarmi. Lei prega la passeggera che mi minaccia di stare calma: Parliamo. Cerca di tranquillizzarla e rassicurarla. La invita a evitare di far allarmare anche il resto dei viaggiatori. Di evitare il caos. Le illustra i pericoli che potrebbe comportare il ricorso al freno a mano. Afferma di aver già parlato con il macchinista. Che per un caso come il suo non c’è modo di intervenire. Perché il treno può andare in una sola direzione; quel treno.
La dirottatrice la guarda con sospetto. Teme che sia un tentativo per raggirarla; è evidente. Non si fida. Le si legge in volto. Mi guarda cercando il mio appoggio. Ma i treni vanno e vengono. Perché non potremmo tornare?
L’altra sbuffa e cerca di raccattare tutta la propria pazienza: Perché i treni corrono su un binario. E dietro c’è un altro treno. E dietro ancora un altro. Tornare significherebbe solo una collisione terribile. Morti e feriti. È questo che vuole? Non arriverebbe comunque a destinazione. Sarebbe una catastrofe epocale.
Lei, la mia decisa e indomita pirata, la guarda stranita e poi guarda me. Forse attende conferma. I miei occhi e il gesto delle mie spalle non la convincono. Non del tutto. Non ancora. Poi controlla l’orologio e sembra rendersi conto di essere già comunque in un ritardo irrimediabile per il suo appuntamento, a… a, se non mi sbaglio, Terme Euganee, eccetera. Posso dire una cosa? non sono mai passato per quei posti. Ma che ci va a fare una bella ragazza da quelle parti? Le cadono le braccia. Termo stia per piangere. E adesso cosa faccio?
L’altra cerca di impostare tutta la tranquillità possibile nel tono delle proprie parole. L’unica cosa che possiamo fare e fornirle gratuitamente il biglietto di ritorno. Solo per lei, in via del tutto eccezionale. Noi delle saette nere. Lei può scendere alla prossima, Firenze Santa Maria Novella. Lì prende il primo che parte. Per Venezia. Per Padova. Per dove vuole lei. Guardi però che per Terme Euganee-Abano-Montegrotto deve cambiare e prendere un regionale. Mi raccomando: faccia attenzione.
Lei si fa finalmente docilmente convinta. La donna in divisa se ne va tranquillizzata e ci lascia soli. La invito nella cabina ristorante per un caffè e lui rassegnata accetta. Un caffè è proprio quello che ci vuole. Un caffè funziona in tutte le occasioni. Spero che la caffeina non me la agiti ancora di più. Chiede se può, per cortesia, avere anche un bicchiere d’acqua. Mi chiede se sono così gentile e può prendere anche un cornetto. Lo ha già stretto tra i denti quando le dico di sì. Ormai si avvicina anche Sesto Fiorentino. Dove ha detto che deve scendere?
Io scendo a Roma Termini. Che importanza ha?
Non è che per caso le serve una segretaria? Qualcuno che l’aiuti? Sono proprio disperata. Guardi che sono brava. Non sono una stupida qualsiasi. Ho anche una laurea. Lasciamo perdere quella. Non mi ha dato che noie. E parlo quasi perfettamente anche l’inglese. Dicevo… Allora, se non le spiace, scenderei con lei. Dove ha detto? Ah sì! Roma Tiburtina.
Termini.
È lo stesso. Non essere pignolo. Una Roma vale l’altra. –se la ride– Non è forse vero che tutte le strade menano qui?
La osservo bene. Mi soffermo su quella specie di stivali rosa all’uncinetto. Sulla canotta a righe orizzontali. Sulla borsa di pelle, con le cuciture a rombi, che tiene stretta come un amante. Poi gli occhi risalgono lungo le lunghe gambe. A parte tutto carina è carina. Mi dico Perché no? Se non altro per un po’ di gradevole compagnia. E poi si presenta bene, nonostante com’è vestita. E poi, in fondo, è così giovane. Le si può anche perdonare qualcosa. Credo che, con un po’ di maquillage, e forse anche così come si trova, mi potrebbe aiutare ad aprire qualche porta. Averla a fianco, un aiuto mi potrebbe anche fare comodo. E glielo dico. Perché no?
Lei la prendo con un grande sospiro di liberazione. L’ho fatta felice. Mi ringrazia. Fa per darmi la mano come per stringere un patto. Si ricorda che non è libera. Se la guarda, ormai è abbandonata lungo il fianco, e sembra rinsavire. Sorride e sbuccia la banana. Ride: Non ci avrai mica creduto veramente? Inizia a mangiarla lentamente con una grazia indicibile. Assieme a un bel po’ di malizia e di sensualità. Resto ammagliato dalla sua recitazione e dallo stretto rapporto che stabilisce tra lei e il frutto. I suoi occhi mi sono così grati che vorrebbe che quel momento durasse all’infinito. Segretamente, ma non troppo, è esattamente quello che vorrei anch’io. Ripete il suo Grazie! Poi, con uno scatto improvviso e impulsivo, decide di ringraziarmi con un bacio schioccate sulla guancia.
Giunti a destinazione mi chiede il permesso di allontanarsi per prendere qualche libro. Se avremo qualche ora libera, per non doversi annoiare. Lei non sa stare con le mani in mano. Si ricorda che non è partita per restare fuori a lungo. Poi le serve ancora un attimo per farla. L’aspetto con una birra davanti. Ne prende una anche lei e mi mostra le sue prede; gli acquisti letterari. Non credo che avremmo delle ore libere o tempo per annoiarci. In fondo nemmeno io mi sento un tipo del tutto convenzionale. È vero che ero solo un ragazzino, ma la mia prima impresa è stata trasformare il mio cavallo a dondolo in un cavalluccio marino. In verità ha imparato subito a galleggiare, ma non dondolava come prima, e si rovesciava continuamente. Senza contare che i canali sono sempre infidi e pieni di batteri. La seconda nemmeno la dico perché ancora più singolare.
Il primo appuntamento ce l’abbiamo per domani. In fondo io ammiro Svampirella, è proprio questo il suo nome, ci eravamo presentati passando per Montevarchi-Terranuova, ma lei mi ha pregato di chiamarla semplicemente Lella o Svampa; come preferisco. Io quando sono salito sul volo per Berlino, e mi sono accorto di aver preso l’aereo per Giacarta, non ho avuto il coraggio di protestare né di chiedere il rimborso del biglietto. L’avvocato poi mi ha convinto che non era il caso di procedere contro la compagnia di linea. Troppo forti loro, troppo debole la mia rivendicazione. Lei invece è un tipo che sa farsi valere. Non disposta a fare un passo indietro.

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Piccoli gialli italiani5. Non è più un gioco da ragazzi. È la terza rapina a una succursale Coop. Sono stati rapidi, e sono usciti con trecento euro e sporte con dodici chili di merce varia. Questa è roba grossa. Ci potrei ricavare un po’ di buoni pezzi. La mia carriera di giornalista non sta decollando. Cerco di avere notizie ufficiali. È inutile. Ancora una volta devo fare una mia indagine. Devo raccogliere le briciole intorno. Come fanno i piccioni. Munirmi di orecchie attente e di quell’aria distratta d’altro.
Non perché sono bravo. Solo perché alla gente piace parlare. E non hanno molto altro da fare. Forse perché so tacere ed ascoltare. Continuo a pensarci. Penso a quella ragazza strana, a Matilde. A quella nostra storia breve. Iniziata e già finita. Penso a quanto sono cretino. Cerco di capire e capisco che non ci ho capito un cazzo. E tra un pensiero a l’altro, tutti dedicati a lei, penso anche all’affare delle rapine. Entrambi mi sembrano così assurdi. Come se uno non fosse capitato a me. Come se l’altro non riguardasse veramente la città. Se fosse per me avrei già perso la voglia di uscire. D’altro canto non sto bene nemmeno in casa.
Inutile passare al Centro. Non sono cose per loro. Mi sarebbe più utile Marietta. La trovo al solito posto. Con il solito gotto in pugno. Gliene offro un altro. Poi ancora uno. La butto là con fare distratto: “Sai niente della storia dei supermercati”? È una che tiene. Dopo il terzo io comincio a traballare e lei comincia a parlare. Si fa più loquace: “Niente?… Vuoi dire tutto? Ero dentro quando sono entrati quelli. Avevo finito la margarina. Visto che c’ero ho preso anche un po’ di pane, e una boccia di Raboso. Quello si lascia bere. Entrano in tre. Uno impugna un cacciavite. Con quello minaccia la cassiera. Ostia. Mi son presa una paura boia. Una fifa del cazzo. E gli altri arraffano a caso. Qui e là. Quello che gli capita sottomano. Derrate. Carne in confezione regalo. Verdure. Frutta. Capisci. Senza manco guardare. Quello del cacciavite sembrava il capo. Ha detto agli altri: «Non aspettatevi niente. Dai colioni. Anche questa è carità senza carità». Uno mi è passato così vicino che… Mentre uscivano. Come da qui a là. Puzzava di una puzza di aglio”.
Non so se crederle e quanto. L’ho cercata io, ma forse mi stava aspettando. Come a tutti piace parlare, alla Marietta. E temo anche un po’ vantare. Siamo tutti eroi e protagonisti delle nostre storie. Per una sorta di riscatto. Ma lei sembra sincera. Soprattutto dopo un bel po’ di bicchieri. Non che sia… io, almeno, non l’ho mai vista ubriaca. Solitamente rincasa prima. Per addormentarsi davanti alla tele. Anche di quella sa proprio tutto. E non ha nessuna ipotesi. Ha solo la sua testimonianza. La soddisfazione di essere stata presente, per una volta, ad un fatto. Lei, di una cosa di cui tutta la città parla. Anzi bisbiglia. Come fosse una vergogna.
Le vie sono affollate. Le vie di questa città sono sempre affollate. Le vetrine dei negozi sempre uguali. I negozi sempre più vuoti. I commercianti sempre più grigi e tristi. Che piova o che non piova. La pioggia, per lo più, è nell’aria. C’è sempre qualcuno che ti ferma. Che ha qualcosa da dirti. Che ti tiene per la manica: “Senti questa”. “Aspetta che ti dico”. E poi la coppia di amici. Il gruppo di amici. Le famigliole. E tutti allo stesso modo con il bisogno di dire. E di parlare. Non ti annoi mai. E le parole assalgono le parole. Non c’è segreto che tenga. Ne fretta che tenga. Chi ha da fare grida e porta pazienza. Chi ha un appuntamento sa che lo aspetteranno. Perché è una città senza tempo.
Dal chiacchiericcio popolano vengo a sentire che Erano vestiti come quelli. “Quelli chi”? Non aggiunge altro. Un’altra voce autonoma e autarchica commenta “Poveretti”. Non so se si riferisca alle maestranze, ai clienti o ai rapinatori. Nemmeno faccio in tempo a vedere la faccia del commentatore. La cassiera se l’è cavata con una visita al wc. Questo è stato sentito dal barbiere. Per uno: “Io lo so. Sono sempre loro”. Da altre fonti anonime ascoltate qua e là apprendo che: “Non avevano la barba fatta.” e: “Vestiti proprio come straccioni. Sembrava avessero prima rapinato un bidone della monnezza”. Questo è uscito dopo una lunga messa in piega. A quello stronzo dell’ appuntato Buonadonna provo a dirlo: “Credo di avere una traccia”. E già mi sono pentito. “Credi”? “Forse”. “O vieni da noi a testimoniare o vai a fare in culo”. Col cazzo che mi metto a fare anche il testimone. Non sono un soffia. Una lingua lunga. Che sono anche sempre rogne. Infinite. Rischia di concludersi che ingabbiano me. E poi, tra disgraziati, non ci si gira le spalle. Sarebbe una vigliaccata. Avrei fatto meglio a pensarci prima.
Eppure c’erano degli indizi che li avrebbe visti anche un cieco. Un cieco ma non un pula. Prima di tutto quella puzza d’aglio. Siamo sotto Pasqua e mi sembra già più che sufficiente. Poi la storia del salame che hanno ritrovato subito. Nel primo cestone per le immondizie. E poi quella frase. Ma la frase forse è una cosa che so riconoscere solo io. Perché quando mi sono fermato a parlare era sorpreso. Mi ha detto che solo un altro si era fermato, ma solo per dirgli: “Fanculo, torna a casa”. Gli ho dato due euro. Mi ha detto che è moldavo e che non è dignitoso dover chiedere carità. Ma non c’è nessun lavoro per nessuno. Tantomeno per quelli come noi. Il peggio sono i colioni, che ti offendono, non solo con gli occhi, ma anche con le parole. E poi, oltre a non essere dignitoso il problema è chiedere la carità dove non c’è carità. Con gli occhi che ti guardano come un cane.
Non avevo altro. Ho aggiunto nel suo berretto anche il mio ultimo biglietto da cinque. Non ci avevo pensato mentre Marietta lo denunciava. Me ne sono ricordato solo dopo. Mentre cercavo qua e là conferme. Quando l’ho incontrato mentre andavo in centro e lui da lì sembrava tornarci. Quando mi ha salutato come un vecchio amico; non mi ha chiesto niente e se n’è andato diritto. Con un sorriso sospetto ma soddisfatto. Con un semplice e amicale: “Ciao colione”.
Spero che abbia festeggiato bene la Pasqua. Solo che in mano non mi è rimasto niente su cui scrivere. Sarò costretto a commentare la solita partita di calcio, o la sfilata di moda. Non me ne può fregare di meno, firmato il vostro Bernardo Carafa.

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VECCHIO WEST.jpgQueste sono cose che ricordi solo dopo. Avrò avuto dodici anni, e le ragazze ancora non le guardavo, quando Donald mi aveva detto che in campagna è tutto diverso, e le tipe, così aveva detto parlando come uno che sa, quelle girls, si fanno meno paranoie. Sono più… disponibili. Forse non ha usato il termine paranoie. Forse non ne sa ancora il suo significato. Comunque era quello il senso.
Sembrava avere un paio d’anni in più, Don. Io avevo in mente solo il football, senza troppe illusioni. Ero ancora un poco leggerino. Troppo indeciso per essere un buon quarterback, troppo lento per fare il wide-receiver o il running back. E poi non sapevo che le sue parole avrebbero avuto un senso nel proseguo della mia storia.
Poi tutto va dove lo porta il destino. Il matrimonio dei miei era naufragato all’improvviso. Nessuno dei due poteva permettersi le spese dell’appartamento in centro. Papà era andato a vivere con la sua avventura. Mamma aveva trovato solo quella casa, ma fuori dal centro, anzi proprio in campagna. Ma’ era tutta soddisfatta. Non potevo dire lo stesso.
Era stata da subito la mia paura e la mia ossessione, ma rimandavo di pensarci. Solo che, per quanto uno possa evitare di tornarci con la testa, la realtà non si lascia influenzare in modo altrettanto agevole. Così ero stato da zia per il paio di giorni del trasloco. Poi fin dopo l’esame che dovevo assolutamente dare. Poi… ma il giorno era arrivato. La mamma tutta orgogliosa mi aveva portato a vedere la nostra nuova residenza. Con le valigie già dietro perché era un viaggio di sola andata.
Non potevo farci niente. Non avevo voce in capitolo. Era già tanto che potessimo permetterci di avere un tetto sulla testa. Questo lo capivo ma non mi bastava. In macchina ma’ aveva cercato di indorare la pillola. In fondo non sono che quaranta minuti con l’autobus, se non prendi il treno.
Certo. Più dieci per raggiungere l’autobus, sempre se non piove e non c’è uno dei tanti maledetti scioperi. O non trovi un incidete per strada. Altri dieci, minimo, mediamente, ad aspettare che arrivi. Più circa un’altra mezzora dopo essere arrivato per raggiungere il campus, o il centro. Naturalmente salvo altri imprevisti vari. Ti ci abituerai.
Tacevo masticando bile dentro. Mi guardavo le mani. Non ne ero così certo. Non sarebbe stato così facile. Già mi vedevo solo e disperato. Col cazzo! Fuck you! avrei voluto risponderle, ma non lo feci. A mia madre non piace sentirmi esprimere in modo volgare. E io sto attento e lo evito. Invece, in un certo senso, proprio con quello…
Non mi ritenevo veramente fortunato. Mi lasciavo dietro tutta una vita e gli amici. Certe abitudini. La tele satellitare. E avevo sempre odiato lo stare a troppo stretto contatto con la natura e gli insetti. E avrei venduto l’anima per non esserne costretto. Non mi aspettavo molto, solo il peggio. Ero rimasto taciturno e immusonito per tutto il resto del viaggio. E subito, a prima vista, non mi aveva fatto un gran bella impressione.
La nostra era solo una piccola cosa; al confronto una casupola. Speravo fosse provvisoria. Che i miei tornassero a parlarsi. Che mia madre avesse un buon aumento, o un’offerta per un posto migliore; più redditizio. Speravo in una qualche lotteria. Nel giusto equilibrio delle cose. Che lei trovasse una nuova storia. In fondo non è ancora una donna da buttar via. Insomma mi sentivo disperato e sognavo qualsiasi soluzione per tornare indietro.
La loro invece era un vero rustico, restaurato e ben tenuto, al confronto era una reggia. Intorno avevano campi. Alberi da frutto. C’era una stalla con gli animali; ne potevo sentire i versi dalla mia finestra. E dietro, come scoprii quasi subito, persino una piscina. Mi ero spinto dalla curiosità, in silenzio, fin lì ammirato. Cercando di non farmi vedere ma ero stato visto.
Le cose poi vanno come devono andare. Le avevo notate proprio lì, in veranda. Intente a ridere e scherzare. Stavo quasi per andarmene davanti ai loro occhi. Di ragazze così ne avevo viste poche. Mi hanno invitato a entrare. Non ci potevo credere, ma era proprio vero, le ragazze di campagna si fanno molte meno paranoie. Loro sono più spicce. Ma è meglio andare usando un po’ di calma.
A farmi da guida a visitare la casa e, per così dire, in quei nuovi rapporti tra ragazzi e ragazze, era stata Chrystal. È stata lei la prima a vedermi che spiavo e a invitarmi ad avvicinarmi. Nella foto è con la sorella, Abigail. Le ho ritratte assieme, così come assieme le ho conosciute, e assieme mi hanno mostrato la casa, e introdotto alla vita di paese. Chrystal è la sorella maggiore, quella con gli short di tela denim, quella più estroversa e ciarliera. Naturalmente Abigail è l’altra, la sorella minore, quella più magra e più alta, quella in vestito.
Sì! la mia vita è cambiata col mio incontro con Cristi e Abbi. Sono due bellezze tipiche del Texas. Hanno entrambe due splendidi occhi azzurri, ma la mia Cristi è, per così dire, più cicciottella da per tutto. È lei che mi ha preso per mano e mi ha guidato fino alla stalla. Abigail si limitava a seguirci singhiozzando risatine cantilenanti che somigliavano a certi versi delle galline. È sempre lei che mi ha presentato per prima il mondo contadino. Lì non ci sono segreti davanti ai misteri della natura, mi aveva spiegato. La sorella ci osservava senza smetterla mai di ridersela a crepapelle.
La vita fuori della città non è poi così male. Oggi penso che, in quel momento, dovevo sembrare alle due ragazze, un poco imbranato. La verità è che imbranato lo ero per davvero. Avevo avuto una sola esperienza, fino ad allora, con Magdalen, finita sei mesi prima, senza grande onore. Era stata quasi completamente platonica. Non mi ero spinto oltre qualche palpatina sopra la stoffa. Lei, Meghi, mi aveva sempre allontanato rapidamente le mani con una velocità di un prestidigitatore.
Per loro, per Chrystal e Abigail, ero solo in fighetto di città. Ma in loro, che non si erano mai allontanate molto, muovevo la curiosità che suscitano i ragazzi di città. Che pensano dovrebbero essere fortunati, ricchi e scafati. Così, come stavo dicendo, Chrystal mi aveva trascinato nella stalla per vedere la mia prima monta. Come il toro, quello che noi del sud chiamiamo bull, ingravida la mucca.
Il padre delle ragazze teneva per la cavezza il bizzoso e poderoso animale, e lo governava con mano sicura. Sollevò solo per un attimo gli occhi, distraendoli dal delicato impegno, e ci fece un cenno di saluto. Ero rimasto a lungo a guardare qualcosa che non avevo mai visto, pieno d’interesse e stupore, mentre Abigail continuava a ridere nascondendo appena le labbra con la mano. Prima di salutarci ci siamo dati appuntamento per il giorno seguente, il lunedì.
Cristi, ma anche Abbi, aveva suscitato velocemente in me interesse e una grande simpatia. Ho raccontato a mamma che quel mattino al college non c’era lezione. La verità è che ho bigiato per prepararmi presto da loro. Ho accennato, solo di sfuggita, che avevo cominciato a farmi nuovi amici. Lei ne era stata felice. E poi ero corso fuori.
Ancora una volta Cristi aveva voluto mostrarmi uno degli aspetti, per me nuovi, della vita del podere. Ancora una volta mi aveva trascinato fino alla stalla, con Abbi che, come di solito, ci trotterellava dietro. Lungo il breve tragitto aveva staccato un frutto dal melo e ne aveva offerto uno a me. Poi aveva addentato quella mela in modo delizioso e malandrino, regalandomi un’espressione provocante.
Nel ricovero mi aveva fatto vedere semplicemente come la mucca allatta il vitello. Erano tutte cose ed esperienze che non avevo mai conosciuto dal vero, solo viste riprese o per sentito dire. Sapevo che era tutto naturale, ma anche interessante. Abbi aveva aggiunto elettrizzata: Guarda come succhia.
Non avevano bisogno di tanti trucchi o trucchetti. Non erano come quelle che avevo incontrato fino a allora. Non sentivano la necessità di dire le cose con tanti giri di parole. Mi hanno invitato a prendere una limonata fresca all’ombra della veranda. È stato allora, dopo essere andato a prendere la spremuta in cucina, che ho scattata la foto.
Forse è stato già allora che ho fatto la mia scelta. Forse per quello sguardo malandrino di Chrystal, o per la sua sfacciata impudicizia. La sua mancanza di vergogna e di vello. Ne ero rimasto stregato, lo ammetto. O forse semplicemente perché è stata lei a dirlo senza cercare troppo le parole giuste: Vogliamo che sia tu a giudicare chi è la più brava.
Per quanto guardassi intorno non avevo modo di scappare. Ed erano scoppiate entrambe a ridere divertite dalla mia faccia. Sinceramente non avevo afferrato subito il loro invito. La relazione con l’agnello e la sua mamma. Le smorfie delle loro labbra. Mi avevano aiutato a capire con dei gesti eloquenti. Per essere più libere si erano subito tolte i cappelli di paglia dalla testa. Non sono proprio così esitante e tonto. Semplicemente non avevo scelta o alternative dopo che Cristi aveva detto con autorevolezza, come un ordine repentino che suonava con lo stesso schiocco di una frustrata: Fammi vedere. Dai! facci vedere.
Certo era anche insicurezza, ma allo stesso modo ero bloccato dalla sorpresa. E loro due che mi osservavano, e mi giudicavano, e mi esortavano. Loro due ma di più Cristi: Non fare il timido.
Per fare, in quel momento, non ero in grado di fare nemmeno un respiro. Cominciavo a capire. Maldestro sì, ma non avevo potuto più tenere nascosta la mia presunzione, ancora nemmeno un minuto. Guardandomi intorno con il timore che potesse sorprenderci qualcuno, magari quel padre così robusto e nerboruto. Con la barba ispida del giorno prima e la salopette sporca di tutto, e di grasso, e dello sterco dei maiali. Oppure la madre, affaccendata in cucina, che aveva spremuto i limoni. La verità è che è stata… una delle due, non mi ricordo chi, ad abbassarmeli sempre ridendo. E l’altra ad avvicinarmi divertita e, almeno apparentemente, soddisfatta.
Poi avevo sperimentato quel bacio intimo. E ognuna incitava l’altra e poi protestava reclamando il proprio turno. E Cristi era stata anche un po’ volgare: Guarda come succhia.
Ero affascinato da quella vista. Ora tocca ancora a me.
Non so quanto fosse evidente e se lo fosse, ovviamente era la prima volta che una ragazza non mi diceva di no; anzi due. Non che mi dispiacesse, tutt’altro, ma mi ero irrigidito perché temevo solo di singhiozzare troppo presto. Sapevo che sarei stato grato a Chrystal, per tutta la vita, ma anche alla sorellina Abigail. La prima sembrava leggermente più esperta. Più capace di passione e di trasporto. Abbi era più distaccata, ed era come se osservasse la maggiore e cercasse di imitarla. Con il dubbio che anche per lei fosse la prima volta. Soprattutto quando mi aveva fatto sentire incautamente troppo la presenza dei suoi denti affilati. Se non l’ha fatto di proposito.
Insomma avrei pensato di doverlo chiedere io invece era stata come il solito Chrystal: Che te n’è sembrato?
Domanda complicata e non priva di tranelli. Certo entrambe si erano meritate un dieci e lode, ma io ho premiato Chrystal, cioè Cristi. Non saprei dirmi il perché. Forse perché Cristi aveva un rapporto più complesso con il proprio corpo e allo stesso tempo più naturale e spontaneo. Forse perché ero maggiormente attratto dalle sue curve più marcate e amichevoli e affettuose. Forse perché lei aveva avuto meno bisogno di tempo per decidersi. Forse perché l’avevo capita prima. E si era mostrata prima, lasciandosi impunemente e, con evidenza, volutamente spiare. Forse perché è più semplice, per un uomo, dire che la sua scelta l’ha fatta.
Quel lunedì me n’ero tornato a casa sconsolato e svuotato. Ci saremmo rivisti anche il giorno seguente, anzi il mercoledì perché non potevo proprio evitare di sprecare almeno un intero pomeriggio sopra i libri. Ma non ero concentrato, non facevo che sognare e pensare a loro due. Penso sia normale. I loro erano sempre indaffarati, curare la terra è sempre stato faticoso e complicato. Ti ruba tutto il tempo. Non ti lascia respiro. Era come se noi due fossimo sempre soli, cioè noi tre, perché Abigail è sempre stata presente nei nostri incontri.
La cosa non mi rendeva certo tutto più facile, ma mi stavo abituando alla sua persona. Quel pomeriggio con Cristi facemmo l’amore, tra le spighe dorate e secche. Sotto gli occhi curiosi dell’altra sorella. Chrystal mi ha guidato lasciandomi l’illusione di essere io a fare. Ed è stato un momento stupendo. Un momento che non potrò scordare. Non me ne sarei andato mai. Solo che il giovedì la mamma si è seduta con noi, e il padre è venuto più volte a rinfrescarsi con una birra. Dannazione!
Il venerdì dovevo andare con mamma in città per l’assicurazione, il medico e un altro paio di cose. Cominciavo a temere che il mio sogno fosse già bell’è finito, e in malo modo. Ero stizzito. Le avevo salutate indispettito senza fissare un altro appuntamento: Fuck out!
Il sabato ero andato solo per Chrystal, come darmi torto? sperando che niente si contrapponesse e di poter fare solo del buono e sano sesso. Avevo escogitato la scusa di portarle un libro che avevo amato. Temevo che quei genitori si insospettissero nell’avermi sempre tra i piedi. Ero ancora convinto di aver bisogno di una scusa.
La madre stava spennando una gallina per cena. Il padre stava spennando gli alberi delle pesche della California per portarli al mercato. Insomma per loro era un sabato uguale a tutti i giorni. Le ragazze erano in cucina a spannocchiare. E quasi non avevano sollevato gli occhi. Nel silenzio avevo imprecato: Damn! Bastard. Sembravano non avermi visto. Semplicemente Abbi mi aveva salutato mostrandomi il dito. Fucking cow!
Quella ragazza mi avrebbe fatto impazzire. Sembrava distaccata ma era piena di rancore. Mi avvicinai alla mia Cristi e la baciai alla nuca, e infilai la mano nella camicetta. L’altra era indispettita. Chrystal mi tolse la mano con grazia e mi invitò a fare il bravo. Mi disse che mi avevano aspettato, e che ero stato un ingrato, e un asshole.
Poi mi spiegò con tutta calma che: se l’altra volta, quella precedente, (avrebbe anche potuto risparmiarsi la precisazione essendo stata anche l’unica e la ricordavo bene) mi aveva fatto divertire lei, ora dovevo far divertire Abigail. Aggiunse che questi erano i patti. Non so tra chi. Non certo con me. Scelsi di non fare nessuna obiezione. Salimmo in camera di Abbi e Cristi, in quel caso, preferì lasciarci soli. Però ci disse di sbrigarci perché la mamma poteva anche rientrare.
Dovevo aspettarmelo: Abbi era ancora adirata per quel verdetto. Fece le bizze per lasciarsi baciare. Mi allontanò più volte le mani e si trattenne il vestito. Cercai di convincerla in tutti i modi. Sembrava decisa a non lasciarmi fare. Stavo quasi rinunciando deciso di scendere per protestare con la maggiore. Per un po’ trovai la sua mano e cercò di accontentarmi miseramente delusa e scoraggiata.
Era veramente dispettosa, e una serpe. Poi mi disse, dopo avermi fatto giurare di non dirlo alla sorella, che per punizione non mi avrebbe fatto entrare. Sospirò, tranne che, se proprio lo volevo, solo dall’altra porta. Nella mia condizione non potevo che accettare. Lasciò che fossi io a sfilarle il vestito e si mise di spalle. Era proprio magrolina e piena d’ossa. Non era nemmeno troppo esperta. Semplicemente mi lasciò fare guidandomi con parche parole. Lick my ass!
Cristi ci aspettava in piscina, allegra e soddisfatta. Si accese una cicca e andò a prenderci da bene. Poi si sfilò il costume e sguazzò nell’acqua. Mi faceva impazzire quel suo modo sgraziato di ridere. Non ho mai amato crearmi complicazioni. Avrei dato un bel pari. Ma aspettavano un responso. Che colpa ne avevo io se erano sempre in competizione tra loro?
Il venerdì successivo ero già il ragazzo di Chrystal, e per i genitori era diventato normale avermi sempre intorno. E poi c’era la sorellina a farci da guardia. Così prendemmo a frequentarci quasi tutti i giorni; io, Chrystal e Abigail. Con gli studi perdevo qualche colpo. Niente che non si potesse rimediare. E trovavamo sempre il mondo per starcene da soli. A quell’età si hanno tesori di energie da spendere. A volte, quando me ne andavo, erano soddisfatte entrambe. A volte ne uscivo talmente stanco che cadevo dal sonno sul tavolo mentre cenavamo.
Mia madre un poco si preoccupava, poi si consolava pensando che fossero i sintomi del cambiamento di stagione, o problemi di crescita. Prima di marzo sono andato a vivere assieme, naturalmente, con Cristi. Altrettanto ovviamente, con noi, è venuta anche Abbi. Insomma, non ufficialmente. Chiaramente siamo rimasti tutt’e tre in un piccolo casolare di campagna, di proprietà dei suoi. Vicino alla baracca di mamma, e alla tenuta dei loro genitori.
Io avevo cominciato ad aiutare il padre e pian piano imparavo a curare la terra e gli animali. Di giorno ero meno libero, ma avevamo tutte le notti per noi. In città non avrebbero capito quel nostro amore. Persino nel piccolo paese eravamo divenuti protagonisti di qualche chiacchiera. Intanto dovevo stare attento alla signora. Era meglio se le giravo al largo. Temevo che avesse cominciato a sospettare qualcosa.
Non tanto perché Abigail era sempre con la sorella. Più perché si fermava praticamente sempre a dormire da noi. Poi Abbi aveva preso le sue cose e si era stabilita definitivamente. Ufficialmente per aiutarci nelle cose di casa e di cucina. Non so se quella madre se la sia mai bevuta. Comunque non potevo ancora abbassare la guardia con quella donna.
Anche quella madre non era femmina ancora da buttare. E il padre era un lavoratore instancabile, ma forse la sera lo poteva cogliere stanco. E poi perché lei era così, ancora assetata di scoperte e nuovi incontri. Aveva gli occhi delle figlie e della tigre, e ancora molte cose da chiedere alla vita. Ma io non sono pazzo. Mi stava bene così. Bitch!
Nel frattempo Cristi aveva scoperto quel mio piccolo segreto iniziale con Abbi. Ma l’avevamo già fatto a quel modo anche con lei. E se i suoi avevano da fare in paese potevamo farlo anche in piscina. Liberi da tutti. Comunque credo che Abigail non me l’abbia mai perdonato. Ancora, ogni tanto, se lo ricorda. E allora mette per un poco il broncio e mi respinge, e semplicemente mi gira le spalle. Anche se ho maturato il sospetto che respingermi e più concedersi a quel modo, senza vederla negl’occhi, cominci a darle un ulteriore diletto. E allora la paziente Abbi le dà della sciocca. Ma a volte è meno delicata e la sculaccia, e la chiama, senza rancore, Bump-ass! o broken-ass! o, più semplicemente, slut!
A volte ci va di ricordare solo quella nostra prima volta. Suck my dick! Mi sono fatto più intraprendente, ma mi guardo bene di dispensare ancora voti. Loro son soddisfatte ed io anche di più. La vita è bella quando ci si sa accontentare. Anche in campagna. Anche lontano dagli amici. Senza tanti rumori di macchine. Certo con il gallo che rompe non solo la mattina. Senza certi odori fetidi; a quello del letame ho educato l’olfatto. Senza tutte quelle frette. Qui a metterci fretta è che arriva troppo presto il mattino, il sonno e la stanchezza. Ma lei è una, anzi loro sono due, che si sanno divertire; e sono sempre allegre. Non son come quelle di città, non si fanno tante paranoie.
Mamma aveva ripreso a parlare con papà, ma non sempre il loro dialogo era semplice. A volte raggiungeva toni aspri, anche se non erano legittimi. Ma mamma era diventata una figura meno centrale nella mia vita, e, nel frattempo, aveva conosciuto Tony, il suo nuovo compagno. A volte si cenava ancora assieme, da lei. Ormai sapeva che arrivavamo in tre. Non mi ha mai chiesto altre spiegazioni. Le bastava sapere che appena pronti mi sarei maritato e sistemato con la mia bella Chrystal.
Non ci serviva altro per dare ufficialità alla nostra unione. Però né io né lei avevamo fretta, ci stava già bene così. Avevamo tutto quello che serviva; carne, insalata e frutta. E nemmeno volevamo toccare nuovamente la suscettibilità della sorella.
Dopo l’ultimo esame avevo ricevuto un’ottima offerta di lavoro, giù in città; ben pagato. Alla fine, parlandone anche con loro, avevo rifiutato. Anche se in segreto ci stavo ancora pensando. Non ci mancava nulla e, a dire il vero, può sembrare incredibile, ma cominciava a piacermi la vita di campagna.

N.B. per non incappare nelle ire censorie di Facebook le foto, come da racconti, sono state sostituite.

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Un nome Innocentisegue: Inconvenienti di lavoro
La sala ormai è quasi deserta. Non l’avevo notata. È silenziosa in un tavolino d’angolo e mi osserva. Si sta succhiando lentamente il bicchiere della staffa. Carina è carina. Forse un pochino troppo evidente. Di quelle chiassose che richiamano l’attenzione degli ospiti famelici. Contenta lei. E continua a guardarmi. Poi mi fa un sorriso. Vuoi vedere che è lei? So che me la dovrei filare. E a gambe levate. Mi sento pigra. Un po’ svuotata. Non mi capita spesso di sbagliare sulle persone. Mi alzo e la raggiungo ciondolando: Posso? Tanto la sera è andata.
Non starò molto qui a dilungarmi. Solo che dovrebbe starsene più composta. Le si vedono quasi le mutandine. Rosso passione; anche quelle. Dev’essere una di quelle tipe scatenate. Beata lei. Ma io non sono un maschio. Mai stata. Quello non ce l’ho. Peccato. A me fanno l’effetto dell’acqua. Dovreste averli capiti i miei gusti; che preferisco… il whiskey. Mi fa un cenno verso la porta che porta ai piani. Mi chiede sogghignando: Com’è andata? Spero di non deluderla. Onestamente me ne frega un cazzo. Certo che ce l’ho sempre in bocca, ultimamente: Niente di che. Mi guarda stupita. Le spiego: Un vero peccato! era tutto mamma e chiesa. Scoppia a ridere. L’imbarazzo è rotto.
Sembra voler solidarizzare con me, anche sulle sventure. Non si sbilancia troppo. Dice che è arrivata da sola e sola è ancora rimasta. Le piacciono i maschi, ne sono certa, e lo capisco da qualche aneddoto che le esce di bocca, ma s’è innamorata delle mie tette. E poi si chiedono perché una donna si incazza. Per farla breve… M’era sembrata più scafata, eppure… Dopo le prime domande vaghe si tradisce, quasi prima di cominciare. Mi chiama per nome Serafina. Uno dei tanti che uso. Solo che semplicemente io non gliel’ho detto. Le è sfuggito. Una distrazione. È lei la carogna. Non ci sono più dubbi. Io fingo alla grande di non accorgermene. Mi guardo bene dal correggerla.
Per un po’ ce ne stiamo ancora là a cazzeggiare. Poi mi chiede se conosco il posto. È nuovo anche per lei, ma, amici, le hanno detto che poco lontano c’è un localino in cui: ci si può divertire. Sempre per farla breve m’invita ed io la seguo a ruota: Perché no? Prima lascio l’albergo e prima torno a sentirmi più tranquilla. Anche se… Tanto prima del mattino, almeno, non lo ritrovano. Forse sarà per il giorno dopo. Così le resto dietro il culo; bella macchina la smandrappata. Nemmeno il suo didietro è male. Cosi, frugando con i fari, attraversiamo un bel po’ di campagna piatta. L’erba è appena china piegando la schiena a un vento tenue. Forse il tempo promette di innaffiare i campi.
È in un capannone con l’insegna ai neon. È uno di quei posti in cui le ragazze ballano attorno ad una pertica. Sotto i riflettori. Come se quel lungo bastone appartenesse al loro uomo. Non so se mi spiego? Se avete presente? Quelle che non sono nude non si possono dire nemmeno vestite. Gli occhi dei maschietti, o dei maschioni, sono rapiti. E infilano a quelle che si dimenano banconote nelle mutandine. E meglio si dimenano e più gli imbottiscono i tanga. Nel mezzo della sala c’è una specie di box doccia di vetro. Ancora più illuminato. Lì dentro balla una smorfiosa. Niente male. È bella piena di curve. Forse è la reginetta della festa. Che ne so? Solitamente non frequento locali del genere.
Solitamente non faccio un gran vita mondana. Non ci sono molte altre donne tra i clienti. Sono quasi tutti maschi. Qualche esemplare interessante c’è. Qualche fisico scolpito dalle fatiche dei campi. La verità è che la serata appare stanca. La gente annoiata. Di soldi non ne circolano molti. Non è che mi sento in imbarazzo, ma forse solo un poco fuori posto. Ivona invece sembra soddisfatta. S’è scelta un bel none del cazzo. Non mi piace proprio. È un nome da vigliacca o da baldracca. Forse è questa e anche quella. Anche nei particolari si dovrebbe stare attente. Basta il nome per tradirsi. Basta il minimo dettaglio. Un nulla.
Non c’è molto, per due ragazze, da stare allegre, da gongolare. A parte qualcuno che pare seriamente interessato. Di avventure, per stasera, m’è bastata quella. Prendo un altro whiskey. Quanti sono? Cerco di farmi il conto in testa. Forse cinque, forse sei. Non abbastanza, e anche troppi. I riflessi sono ancora pronti, ma devo darmi una calmata. Stare attenta. Non posso mettermi alla guida vedendo doppie le strisce per terra. Rischierei di mandare tutto a puttane. Invece lei sembra elettrizzata. L’ho già detto? Insomma, Ivona mi dice: Vieni, li facciamo svagare un po’.
Cerco di resisterle senza convinzione. Mi prende per mano divertita, mi trascina e saliamo sul palco. Fatico a vedere le facce ma sono certa che, sotto le luci, loro vedono bene noi. Resto abbagliata. Rinvengo. Non so proprio che fare. Cerco di muovermi al ritmo di quella musica. È un pezzo che non ho mai sentito. E una vita che non ho mai vissuto. Guardo Ivona e cerco di fare come lei. Dimeno le chiappe. Faccio ballare le tette. E quelle ballano che è un piacere. Avrei dovuto metterne uno più contenete. Chi si poteva immaginare? Dovrei aver messo una corazza. Credo sia quello che l’impaziente pubblico vuole. Gliela sbatto sotto al naso. Per farla breve sembra funzioni.
Anche Ivona si dà da fare e si dimena. Confronto alle altre siamo vestite come educande. Ma siamo delle dilettanti. Siamo nuove. È evidente. E nemmeno siamo male. Siamo salite dalla platea. Non siamo uscite dal dietro le quinte. E questo li elettrizza. Ci incoraggiano. Lei lo spiega a tutti: Sono la vostra Ivona. Sembra eccitarsi anche lei. Non sembra un tipo da frequentare abitualmente il pudore. Cerca di mostrare tutto quello che le riesce. Poi cerca di mostrare anche me. Fa la maestra di cerimonia. Mi solleva la gonna con fatica. È corta, di pelle, ma aderente. Riesce a far vedere al mondo intero che la mia calza a rete è sostenuta dalla giarrettiera.
I maschi in sala cominciano a scaldarsi. Ansimano o tacciono e fanno la voce grossa. Nel giro di un paio di minuti sono tutti eccitati. Schiamazzano. Devo tenermi lontana dai loro artigli. Non posso mica farmi trascinare via; rapire. Non posso nemmeno trovarmi tutta piena di ematomi antiestetici. Certo non dovremmo essere qui. A mostrare tutto il possibile a tutti. A farci guardare. A metterci in esposizione. A renderci pubblicamente ridicole.
Se Ivona è pazza io devo essermi impazzita. Dev’essere stato l’ultimo whiskey. O forse quello che non è successo con il venditore di icone. Non scappo via. Poi quella scatenata di Ivona mi sorprende. Fa quello che veramente non mi sarei aspettata. Mi scivola alle spalle. Mi si struscia addosso come farebbe un torello in fregola. Gli astanti vorrebbero essere al suo posto. Sognano. È così credibile… Spesso la prima impressione è quella che vale. Le piace il montone, ma s’è innamorata delle mie tette.
Non la capisco. Non si resiste. Mi mette le mani a coppa. Se ne riempie i palmi. Me ne vergogno ancora. Cazzo! non mi è mai successo. Me le massaggia. Me le stuzzica. Me le palpeggia per bene. Quasi meglio di un maschio. E sorride soddisfatta ammiccando alla platea. E quelli giù a gridare e incitare. Non che anch’io… Insomma, non mi da troppo fastidio. Mi sussurra all’orecchio: Quanto? Non ne sa molto di tette: La mamma.
Finalmente la musica si smorza. E scendiamo da lì. Ne ho avuto fin troppo. Sono stanca e tutta sudata. Tutti pacche sulle spalle e complimenti. Persino una tipa che tiene al guinzaglio uno che non farebbe presa nemmeno su una gallina miope. Corro al bagno. Un tizio la avvicina, ma Ivona se ne libera in fretta. Mi dice che ha voglia di farsi una canna, se le faccio compagnia. Mai dire no quando puoi fumare gratis. Per farla breve prendo una lattina di aranciata amara. La seguo e usciamo dalla porta sul retro. Avevo anch’io bisogno di una boccata d’aria.
Fumiamo in silenzio guardando il cielo buio. Poi… Lo sta per dire: Scusa ma… Non la faccio finire. Posso completarla io la frase. È quello che avrei detto io stessa: È solo lavoro. Ho già in mano la mia gattina. Appoggio la canna alla lattina e la lattina alla sua pancetta. Dovrebbe cominciare a stare un poco più attenta alla linea. Il tempo è scaduto. Alla fine poco importa.
Anche la luna è stanca. E lei si affloscia nella penombra dietro un cassonetto: Ciao Ivona, o come cazzo ti chiami. Vado diritta alla macchina. Ma non è nemmeno lavoro. Come detto: da oggi lavoro solo in proprio.

P.S. l’immagine è stata sostituita per non incappare nelle ire censorie di Facebook

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LionellaÈ un mondo pieno di esperti. Di cosa? Non lo so. Di tutto. Probabilmente c’è un manuale anche per andare al bagno. Non mi serve, grazie. L’ho appena fatta. Tu sai come la penso. Da quanto mi conosci? Da sempre. Sì! lo so. Non serve che lo dici. Probabilmente lo sai. Lo hai immaginato. O lo hai capito. Se è così non dirlo. Non serve. Fammi parlare. Io credo nella coppia. Sono sempre stata un po’ moralista. Se vuoi un poco bigotta. Ho sempre odiato quelli che vanno anche con altre. E pure quelle. L’amore si vive costruendolo. Giorno per giorno. Ora per ora. Altrimenti sarebbe troppo facile. Non credi? Ma io non sono mai caduta in tentazione. Anche quando si presentavano spesso. Io non hai mai tradito mio marito.
E allora?
Ti prego, non interrompermi, fammi parlare. Sii cortese. Altrimenti perdo il filo. E non ci resta molto tempo. O non riesco più a dirlo. Non è nemmeno facile. Dovresti capirlo. E non fare quella faccia. Non chiedermi quale faccia. La tua. Adesso. Non può una donna… e una come me. Insomma. Allora… Da quanto ci conosciamo? Da una vita. Esatto? E forse sai che quando ti ho conosciuto avevo un po’ di simpatia. Non aggiungo altro. Non mi eri indifferente. E tanto basta. E questo è quasi tutto. E amavo ancora divertirmi. Senza esagerare. Quello non l’ho mai fatto. Non è mai stato da me. Non ho mai ecceduto. In niente. Tanto meno in amore. Un paio di ragazzi. Storielle brevi e confuse. Ed ero ancora tanto giovane. Forse anche queste storie le sai tutte. Ma non mi hai corteggiato. Invece mi hai presentato Camillo. Ti ricordi? A sentire il nome m’è venuto pure un risolino. Non volevo offenderlo. E l’ho ingoiato. E il mio mondo è cambiato. Ho capito subito che era l’uomo giusto. Me ne sono innamorata. Sono passati ormai quasi vent’anni e siamo ancora assieme. E lo dico con orgoglio: non c’è mai stato nessun altro. Ce stato solo lui. E non mi pento nemmeno di un minuto. Solo che sai come sono le donne. E anch’io, a modo mio, sono una donna. Le donne sono curiose. Imprevedibili. Un poco capricciose. Oggi non è più ieri. Ero dalla parrucchiera quando mi son trovata a pensarci.
Perché lo dici a me?
Speravo lo avresti capito da solo. Chi più di te. Gli hai fatto da testimone anche al matrimonio. Eppure… Forse mi son invecchiata più di quanto credevo. Mi sono sciupata. Scusa. Dimmelo se è così. Lo so che dovevo pensarci prima, ma non c’è nessun prima. C’è solo oggi. E oggi siamo qui. Io e te. Soli. Perché lui è in missione. Ma non solo per quello. Perché ne avevo voglia. Avevo voglia di vederti, e fare queste due chiacchiere. Di un consiglio. Non ero sicura di volerlo, ma lo dovevo fare. Insomma ero dalla parrucchiera quando m’è venuto questo stupido dubbio. E mi sono data dell’idiota. E mi son chiesta cosa andavo a pensare. Ed ero certa che se ne sarebbe andato. Così com’è venuto. Invece il pensiero m’è rimasto in testa. Come un tarlo. Ed è per questo che siamo qui. Ora lo sai. Cioè… non c’è stato nessuno e allora mi son detta: Lionella, non ti sarai mica persa qualcosa? Sai la curiosità? Poi ti rode dentro. È facile essere bravi a rinunciare a ciò che non si sa. Ci ho pensato solo dopo. Non ci crederai, ma non ci avevo mai riflettuto. Così è fin troppo facile. Finché non assaggi la cioccolata non sai a cosa rinunci. Non ti viene l’acquolina in bocca quando la vedi. Te ne stai a dieta senza soffrire. Per quello sai che non ho problemi. Io non ingrasso neanche con i bombolotti. Ma era solo un esempio. Una cretinata. Però puoi controllare.
Cosa ti devo dire?
Forse non hai capito. Mi sento di averlo tradito proprio perché non l’ho fatto. Un sacrificio vale nella misura in cui… Voglio dire… non so nemmeno io cosa voglio dire. Insomma… Non è stato nemmeno un sacrificio. Mi son data a lui e solo a lui. Completamente. Bella vigliacca. E fuori che lui non c’era altro. C’era lui. C’era il suo mondo. Le sue abitudini. I suoi pensieri. Un solo mondo, il suo. E io ho vissuto solo di quel mondo. Me ne sono saziata. Mi è bastato. Me lo son fatto bastare. E m’è anche pure piaciuto. Non lo nego che abbia i suoi lati positivi. Quasi tutti. Poi incespichi su una virgola. E ti accorgi che questo andava bene ieri. E ti accorgi che non ti basta più. Solo perché non sai e invece vorresti sapere. E le cose non le puoi leggere sui libri. Non è la stessa cosa. Certe cose le devi vivere. Si dovrebbero fare. Mi sono chiesta se anche lui se lo è chiesto. E anche se mi ha tradita. Credo di no. Spero di no. Ma non si può mai sapere. Se lo ha fatto non lo voglio mai scoprire. Potrei impazzire. Potrei anche fare… Non so cosa farei. E allora ho deciso che dovevo affrontare la mia ignoranza. I mie fantasmi. Che dovevo scoprire di cosa si trattava.
Perché lo dici a me?
Se mi fai parlare poi lo capisci. Forse. Non sei bravo ad ascoltare solo, e tacere. Dov’ero rimasta?… Spero che tu non te ne stia approfittando. Che non fai finta. Saresti troppo ingenuo per essere vero. Certo che devo dire tutto. Ma se lo devo fare allora lo faccio. Da allora ci ho pensato molto. Certo ci sarebbe qualcuno. Ecco perché lo sto dicendo a te. Un collega. Un amico. Insomma… un paio. Sono sicura che loro… Almeno qualche volta mi hanno degnata di uno sguardo. Ma non sarebbe vero. Non so come dire. Sarebbe come una goccia di rugiada mentre muori di sete. Lo so che è un esempio stupido. Una analogia che non regge. Prova a pensarci? Vado con un altro. Sarebbe solo come andare con un altro. Una cosa squallida che non si merita. Che non mi merito. Non sarebbe nemmeno. Sarebbe solo una pausa. Una cosa di sesso. Ma con lui, con Camillo, non c’è solo quello. C’è molto di più. Ci sono vent’anni. Vent’anni di tutto. Vent’anni da quando ci siamo conosciuti. Come con te. Anche se sono vent’anni differenti. Lo ammetto. Lui non potrebbe capire. Ma penso che tu possa farlo. Penso che tu possa cominciare a capire. Scusa se te lo dico, ma tradire è tradire. In un tradimento dovrei coinvolgere tutta me stessa. È per questo che ho pensato di parlarne con te. Non lo nego di essere ancora confusa. Poi mi puoi dire. Poi ti posso dire. Ci possiamo confrontare. Non sei come uno che passa.
Ma Liona…
Adesso dov’ero?… Mi fai perdere il filo. Se non lo dico ora non troverò il coraggio di farlo più. Credo. Te l’ho detto. Mica è facile. Nemmeno per me. Insomma… Non far finta di non capire. Se non ti va dillo subito. Non mi offendo. Mi alzo e saluti e baci. Amici come prima. Non sono più una ragazzina. E non devi pensare a Camillo, non è obbligatorio. Lo so che non son bella come allora. Mi vedo da sola. Li ho gli specchi in casa. Ma, credimi, qualcuno ancora mi guarda. Sempre meno. Certo. Ma c’è ancora qualcuno. E qualcuno che me lo fa qualche complimento. Insomma, guardami. Ormai i miei anni li ho e li so contare. Come so che se non lo faccio ora non lo farò mai. Non ritroverò mai tutto questo coraggio. Se ti crea imbarazzo puoi non chiamarmi Liona. Puoi usare qualsiasi nome che ti va meglio. Magari Salomè o Sonya, per la fantasia. Non importa. E puoi anche non pensare che sono io. Fare finta che non ci conosciamo neanche. Che sia una qualunque. Che passa. Che ci incontriamo per la prima volta ora. Basta lo sappia io. E’ sufficiente. Non pretendo un vezzeggiativo carino. Cerca solo di non essere volgare, ma se ti viene e ne hai bisogno, quello che viene non importa.
Non è per quello…
Ti capisco. E non badare al vestito. Sotto c’è solo profumo. Credimi, non è un capriccio. Arrivano certi momenti. Forse per tutte. Ti ringrazio di non avermi fatto pregare. Non sarebbe stato gentile, da parte tua. Mi sarei sentita umiliata. Certo temevo che Camillo sarebbe stato d’impiccio. O che anche tu, come me, fossi fin troppo fedele. Incapace di sentirti libero. Ero proprio disperata. Mi sentivo inutile. Fallita. Meno di un niente. Più di così sarebbe stato troppo. Speravo che bastasse a lusingarti. Mi sentivo già accaldarmi dentro. Sotto. Le vuoi vedere ora? Non mi hai mai nemmeno sfiorata. Sei toppo buono. Forse troppo onesto. Va già meglio. Sapevo che eri un amico. Che avresti capito. Anche se non potevo esserne certa. Che ci potevo contare. Che non mi avresti tradita. Che non mi avresti delusa. Che non ti saresti tirato indietro. Quando un’amica ha un bisogno. Speravo…
Mi sono chiesto perché lo facevi?
Almeno te ne seri accorto. Ho fatto di tutto… E’ stata una promessa. Se tu avevi ancora un dubbio. Non c’è una ragione. Non sapevo cosa mettere. Non c’è mai un’occasione. Non volevo si vedesse troppo, ma nemmeno troppo poco. Insomma l’ho messo e basta. Ti ringrazio per la cena. È stato bello. Naturalmente il conto è mio. Ti ho invitato io. E poi mi sento in colpa. È stato come un tranello. Un’imboscata. Spero che non lo pensi. Spero non me ne vorrai. Non era questo che volevo. Ma è tutto così difficile. E nemmeno io so cosa volevo. Ma sono certa di sapere cosa voglio. Almeno non hai più bisogno di fingere di non capire. Le carte ormai sono tutte in tavola. Ci stai o non ci stai. So solo che le cose vengono così. E a volte vengono mangiando. Davanti ad una buona cena. O perché è il momento. O solo perché se ne vengono per conto loro. Insomma… non so come si dice. Sono una donna, ma… Non me lo fare dire… Lo vorrei tradire. E lo vorrei con te.
Ma che ti salta in mente? Non siamo neanche soli.
Dice uno scrittore che amo, ma forse nemmeno è farina sua, che il desiderio viene quando vuole. La scintilla. E non importa se è la sera giusta o quella sbagliata. Se si è in un bel posto o in uno orrendo[1]. Questa sera, noi, tutto, dimostra che ha ragione. Lo è per me. Voglio che lo sia. Se hai bisogno di aiuto basta chiederlo. Non te ne devi vergognare. Sono qui, pronta a fare quello che posso. Se ti è d’aiuto te lo faccio vedere. Te lo faccio vedere… il culetto. Purtroppo è un po’ ossuto. Naturalmente non qui. Non sono matta. Ma quello sì. Se vuoi quella te la posso anche mostrare. Se è utile possono tirarla fuori, una tetta. Anche qui. Davanti a tutti. Non sarebbe nemmeno troppo fatica. Nessuno baderebbe troppo a noi. E se lo fa è perché non sa farsi gli affari suoi. Comunque tanto Camillo non lo verrebbe a sapere. E se anche fosse non ci crederebbe. Nemmeno io ci credo a quello che sto dicendo. È un’altra quella che parla. Credo che te ne sarai accorto. Non devi fare niente. Mi devi solo dire sì. Faccio tutto io. Non sono più così bella, ma ora so cosa fare.
***
Basta alzarsi. Lei comprende immediatamente. Paghi il conto e lei ti trottola dietro. Ancheggia e le resta la sfacciataggine di fare anche la smorfiosa soddisfatta. Nessuno a quel punto avrebbe potuto negarle quel piccolo aiuto. E l’amica che credevi di conoscere la conosci davvero. Ti chiede se hai ancora tempo anche dopo. Ha troppa fretta anche per prolungare un bacio. Quel seno l’ha già tirato fuori. Si è presa la tua mano. E, mentre sospiri Liona, scopre di non avere più nessun tempo né pazienza. Si alza il vestito e ti sbatte contro la macchina. Hai già le sue mani che ti cercato ansiose. Non vuole avere nemmeno la pazienza di salire. Il rischio della paura di poterci ripensare. Si alza il vestito ed è tutto vero, sotto ha solo il profumo, e ti fa entrare. E allora continui a sussurrare nel buio il tuo Liona. E quel buio ti nasconde a tutti e anche a te stesso. Non sai se hai tutte le risposte per tutte quelle sue domande. E anche per le prossime. Sai solo che ci sono sempre tanti altri giorni per vivere e capire.

[1] Stephen King: Il bazar dei brutti sogni. Sperling & Kupfer – Milano pag. 340. 2016

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Piccoli gialli italiani4. Certo che io, Bernardo Carafa, apprendista giornalista, ho una mia teoria. Renderebbe tutto più semplice. Probabilmente non resterebbe un solo reato insoluto. A dispetto delle prassi usuali si dovrebbe capovolgere tutto. Basterebbe cominciare dalla fine. Alla faccia di tanti esperti. Perché siamo tutti Montalbano. Se noi partiamo invece dal colpevole è tutto più semplice. Con in mano il nome del reo è un momento capire il come. E il genere del crimine. Anche in caso di morto ammazzato. Viene poi abbastanza facile arrivare al perché. A questo punto dare un nome alla vittima è uno scherzo. Viene da solo, naturalmente. Non serve un genio per capirlo. Sto lavorando per affinare questa mia ipotesi di tecnica di indagine. Anche se so che alla polizia non troverò mai nessuno che mi dia retta. Tutti pieni di presunzione e di sé.
Intanto la delinquenza dilaga. Nessuno lo dice, ma all’appello manca una ragazzina. Silenzio. Avrei scoperto che non avevano risposto in parecchie alle chiamate. Per le prime ventiquattro ore non si accettano denunce. Nelle seconde ventiquattro è ancora troppo presto. Dopo quarantotto si comincia a temere il peggio. Gli sbirri aspettano il ritrovamento del corpo. Comunque aspettano. Diversamente non può che trattarsi di ratto. O di una fuga. Ma già quella ragazzina, Venere, sembrava due. Ho incontrato una Venere uno parlando con i genitori; scontato. Secondo papi era solo una bambina. Una brava bambina. I ragazzi, no! ancora nemmeno ci pensava. Secondo mamma era un tipo sgobbone e molto giudiziosa. Amante solo dello studio. E dei libri. Non certo il tipo da scappare. Tutto troppo pulito e facile. Strano, a scuola non ci va da due settimane. E poco anche prima.
Loro non hanno il becco di un quattrino. Nemmeno un demente potrebbe pensare a un riscatto. Si vede da dove abitano. A questo punto vado al Centro. Aspetto la fine di una riunione organizzativa improvvisata, poi Afro, e mi racconta della Venere due: “Qualche volta passa. È un po’ che non la si vede. Se vuoi sapere come la penso: è scappata. Non ci sano santi né madonne. Ne abbiamo sei sette in fuga. Le teniamo un paio di giorni, poi devi rivolgerti all’associazione. Lei viene, quando viene, sempre con uno diverso. Ed esce con un altro, sempre diverso. Ci ha chiesto se avevamo posto. Ci abbiamo provato. Abbiamo dovuto stralciarla. Aveva troppe voglie e nessun pudore. Era scatenata. Ci poteva mettere nei guai”. Gli spiego che ha solo tredici anni. Mi guarda sorpreso. Mi spiega che non ha più nulla da imparare. Che ce ne sono parecchie di puttane già da bambine. Che ne sapeva sicuramente molto più di me e lui messi assieme e sommati. E Afro, anche perché sta lì, non è uno a cui manca l’esperienza o la materia prima.
Fatico a credergli: “C’era qualcuno in particolare”? Mi offre un tiro. Io faccio un cenno di diniego, con la testa e la mano. Mi guarda e i suoi occhi sono sentenza che non capisco un cazzo: “Troppi. Una volta l’abbiamo beccata, con uno sotto il palco, mentre il complesso ci dava dentro. E anche lei ci stava dando dentro. Capisci? Forse potresti chiedere a lui, ma non so come si chiama. È un fighetto che ho visto quella volta. Forse un’altra. Non so se ti sarà utile. L’hanno beccata anche con due”. “Ma non ha preso niente. E non aveva che pochi spiccioli in tasca. I suoi sono preoccupati e non battono chiodo”. “Non credo sia un problema. Gli spiccioli li sa trovare. È una da darla anche per un quarto di euro. Piuttosto… è che ha le vene bucate”. Penso che c’è chi non ha solo le mani, bucate. Non so più dove cercare, e quale delle due augurarmi di trovare.
È solo una sottile sensazione, che il sesso femminile badi più a me. A me aspirante narratore della città, soprattutto della sua cronaca nera. Mi parlano più volentieri. Mentre sto cercando di arare il mare la vedo e mi avvicino. A volte mi riuscirebbe bene introdurre un articolo. Con le ragazze mai. Non ho mai avuto facilità a iniziare un approccio. È l’inizio sempre la cosa più difficile. Un paio di volte, non di più, ho balbettato: “Posso offrirti un caffè”? Poi ho scoperto che era la formula del perdente. Dopo un paio di risatine. Per il resto non mi riesce a dire nemmeno quello.
Quando ancora ero ragazzino ho provato a fare due partite a calcio. Mi avevano messo subito in difesa. Sono stato bocciato già da allora. Gli inizi sono sempre stati tragici. Trovo un modo per abbordare quella Matilde. Penso un attimo come cominciare, da dove, poi vado diritto al sodo; con la cosa più stupida: “Hai notizie dall’Africa nera”? Non mi chiede chi sono, né che me ne frega: “Se intendi quel gran pezzo di merda di Baldo, nemmeno una cartolina”. È proprio vero che ha occhi irrequieti: “State ancora insieme”. Mi guarda, non so se con sospetto o con sufficienza: “Come potrei? Io sto con chi c’è”. Non posso evitare di dirlo, con il mio solito spirito involontario, rischiando una figura da culo: “Io ci sono”. Sta quasi per ridere: “Vedo che ci sei”.
Cerco di spiegarle chi sono in due parole. Non sembra troppi intenzionata ad ascoltare. Intanto non andiamo né di qua né di là. L’unica nota positiva e che non si schioda. Non mi lascia lì come l’ultimo pirla. Se sapessi interpretare le espressioni dire che è solo un poco seccata. E insofferente. “E allora… vedi”… “Sei tu quello che ha preso il suo posto”? “Quale”… “Quello di Afro”. Alzo le spalle. Mi riesce sempre bene. Mi azzardo a proporlo: “Credi che potremmo prenderci un caffè”? Deve avere una profonda antipatia per le convenzioni: “Se devo farlo con qualcuno preferisco uno spritz. Ma non vado mai con chi ha tempo da perdere. In chiacchiere. Con chi non mi ha mai filata. Né mai toccato nemmeno di striscio. Nemmeno una tetta”. Non me lo faccio ripetere: “Se è per questo provvedo subito”. Se non importa a lei chi ci vede, allora, a me interessa meno e non mi metto fretta.
Ha un modo tutto suo nelle relazioni: “Posso sapere chi sei”? Intanto mi lascia fare. Lascia passeggiare la mia mano curiosa sopra la sua maglietta. Qualcuno ci vede e finge di non vederci. Siamo in mezzo alla strada. Ho una grande curiosità ed è un vasto universo da esplorare: “Sono Bernardo, Solo Nardo tra noi. Sì! scrivo per quel paio di giornali”. “Che ne dici? Qual è la scusa per tanto nuovo interesse? Se posso”… Avrei solo bisogno almeno di un altro paio d’ore: “Solo… che… lui mi ha parlato bene di te” . Non so cosa abbia da rimproverarmi. Se non la mano. Di quella sembra nemmeno accorgersene. La cosa, anzi, la diverte. Mi ha sgamato, ne sono certo. Non fa una piega.
Però sembra esserci stancata. Allo stesso tempo sembra annoiata. Così mi coglie completamente di sorpresa: “Se è per scopare, mi spiace. Mi hai trovata con le mie cose”. In lei sembra quasi naturale. Mondo bestia. Mi legge la delusione. Per fortuna è una veramente generosa. È veramente filantropica: “Se ti accontenti ti accontento in un attimo”. Con Bice sto ancora, eternamente, ai preliminari. Anche se non so vorrei capire: “Sono uno che si sa accontentare”. “Hai un buco”. Sono desolato. Impreparato. Cerco di pensare in fretta. Niente: “Veramente”… Si guarda intorno: “Ho capito, vieni con me”. Me l’avevano descritta bene, ma lei è di più di bene; di qualsiasi descrizione.
Mi porta in un angolo dove non passa quasi mai nessuno. Quasi. Ci sediamo su un gradino. Cosa mi posso ancora aspettare? Potrebbe uscire qualcuno anche da quella porta. A lei sembra non importare. Non è che sono proprio tranquillo. Mi sento morire. E poi è… il nostro primo appuntamento. O qualcosa di simile. Tutto succede che quasi nemmeno me ne accorgo. Forse è per quello. Fatico. Cioè è lei che fatica. Non alza nemmeno gli occhi: “Sei il ragazzo di Beatrice”? Guardo la sua mano operosa. Non capisco quella curiosità. E cosa ne sa di noi: come la conosce: “In un certo senso”.
Riflette a voce alta: “Stai ancora con lei, con Bice”? Tutto mi va tranne parlare delle mie faccende. In quel momento: “Un po’ sì e un po’ no”. “Mi spiace”. Non le chiedo perché. “Ti va di essere il mio ragazzo”? Non mi informo degli altri. Non è il momento per le grandi decisioni: “Forse”. “Fatti sentire. Sai come trovarmi”. Anche se non è vero non voglio deluderla. Mentre temo che lo sto già facendo: “”. Mi controlla di sbieco: “Mi spiace per lui. Si vive una volta sola. Ho sedici anni. Mica li posso buttare. Sono così. Non mi basta una alla settimana. Figuriamoci una ogni mai. Già non andava quando andava. Quando era qui”. Credo parli di Baldo. Forse parla di Alvise. Forse di qualcun altro.
Mentre si dà alacremente da fare, e mi viene da piangere fra le sue dita, mi dice: “Ti piace. Dammi almeno un bacio. Non fare lo stronzo. Non sono mica una… E palpami almeno una maledetta tetta. Loro sono una condanna. Tutti non pensano che a loro. Per prima e unica cosa. Tutti tranne… te. Non ti piacciono”? Per piacere mi piacciono, fin troppo. Non ne ho mai avute così tante tra le dita. Ma al momento sto pensando ad altro. Anche se cerco di non deluderla. Non mi è sembrata nuova. Non mi sembrata nemmeno troppo esperta. Riprendo la mia indagine prima ancora di riprendere fiato. Quando sono tutto dentro un fazzoletto di carta: “Conosci una certa Venere”. “Lascia stare. Quella è una gran troia”. “I suoi la cercano”. “Devono andare dove passeggiano. Però è una che ha sempre fretta. Forse non è andata tanto lontano”.
Ora sembra voglia solo andarsene. Ha gli occhi che non guardano. La cosa non è stata semplice. Il resto si fa complicato. Mi lascia lì a riflettere. A cercare di riprendermi. Di capire cosa è successo. Pieno di domande e, già, di rimpianti. Gran belle tette, però. Molto generose. Poi cerco di pensare solo a quella Venere. Vado anche lì, dove mi ha detto lei, inutilmente. Di pazienza non ce n’è mai abbastanza. Qualcuno racconta di averla vista salire su quel treno. Dopo aver rifiutato un paio di proposte, più stravaganti che indecenti, vado anche al parchetto dietro il Centro. Sono passate quarantatré ore. Sembra che ci abbiano azzeccato. Intorno è pieno di tracce organiche. Della loro e di altre celebrazioni. Non c’è stata violenza.
Decido che traccerò un profilo di Venere uno. So che prometterà di non farlo più. So che c’entra anche quel ragazzo. Anche se sono tanti a cui piace il sesso bambino. Disposti a mettersi in fila. Ancora adesso. L’hanno trovata lì, calma e tranquilla. Vittima di una vita precipitosa. Donna in un corpo non ancora sbocciato. Confusa. Con la bava alla bocca. Con la gonna ma niente sotto. Senza più voglia di parlare. Soffocata da tutte le altre sue eccessive voglie di bambina viziosa. Ma questo resti tra noi. Non tutte le notizie si possono rendere pubbliche.

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L_amante venezianoVenezia è una città ben strana. È nata strana e strana è rimasta. Sarò anche un pazzo, ma sono un pazzo veneziano. Forse è l’odore dell’acqua dei canali. Le sue maree alte. Forse frastornati dalle troppe lingue che affollano le calli. Forse il rimorso degli abrei. Forse il gran da fare dei colombi che tubano garruli. Forse è perché non è mai cambiata e il passato qui vive ancora. Forse perché niente è uguale a qualsiasi altro posto. E a chi non ci abita è come se i suoi abitanti camminassero sull’acqua. Come tanti Gesù. Forse per il peso della storia. Baluardo della cristianità contro gli infedeli, ma mai schiava di Roma. Basta ricordare la storia che lega la città indomita e mai serva alla figura del colto veneziano Giacomo Girolamo Casanova di cui Roma esigeva la testa.
Venezia: meraviglia dell’occidente e porta dell’oriente. Sulle palafitte, dove gli altri non son riusciti a fare che capanne, i nostri vecchi hanno innalzato palazzi e chiese. Quei bei palazzi pieni di marmi bianchi e quelle chiese invidiate in tutto il mondo. Come quella della salute, innalzata a una madonna nera che ci ha salvati dalla peste, che pare agli ignoranti una moschea. Ignoranti e cafoni: chi credono che abbia insegnato a quelli che allora erano gli ottomani a fare le loro sedi di preghiera? Ma a Lepanto gli abbiamo dato una lezione che non si dimentica. Correva il giorno 7 ottobre dell’anno santo 1571[1]. E poi siamo andati anche a riprenderci il nostro San Marco.
E assieme alle chiese e ai palazzi, quei vecchi, hanno costruito una città intera. Sull’acqua e sulla melma. Hanno iniziato la nostra serenissima città da Rialto, che così si chiama perché appunto sul rio la riva era alta. Perché lì è nato, ed è sopravvissuto fino a giorni nostri, il famoso mercato. I veneziani sono sempre stati grandi commerciati e non meno furfanti, se è vero, come dice una nostra canzone dialettale, che marmi e ori sono solo prede rubate ai greci e ai mori. E a Rialto hanno costruito un ponte unico al mondo, che hanno cercato di copiare malamente i fiorentini. Un ponte, il nostro, anch’esso di marmo, che tutti allora avevano detto che non sarebbe sopravvissuto un giorno. Sopravvivrà anche al giudizio universale, questo è certo.
Come dicevo una strana citta la nostra. E… che ne so, forse lo siamo anche noi, un poco strambi. Da sempre abituati ad avere foresti tra i piedi. A dare, con quattro parole, o solo con le mani, un minimo d’indicazioni. Mentre l’amministrazione si fa covo di ladri e di rapinatori. E quella gente che viene da tutto il mondo non lo sa, e ci guarda come si guardano i tipi singolari. Non è vero che camminiamo sull’acqua e ne restano sorpresi. Non è vero che abbiamo le branchie, ma questo forse già lo sospettavano. Non c’è una lingua migliore del nostro dialetto per farci capire da tutto il mondo. La bestemmia è, ostia, che è il mondo a non voler capire.
Solo che loro credono di essere in un film dove noi siamo stati presi come comparse. È un mercoledì quattordici e il cielo è cupo. E fa anche due gocce di pioggia. Solo una rapida pisciatina. E io me ne sto tranquillo alla finestra a farmi una cicca. Passa una tipa per il viale dell’albergo. La noto appena. Cappelli raccolti in trecce sopra la testa. Vestito elastico e lucido che la fascia tutta e credo non le lasci spazio per respirare, color acqua marina, molto scollato. Tacchi alti e gambe lunghe. Trascina un borsone con disegni di carte geografiche e una valigia rossa con le rotelline.
Lei torna indietro e mi fa dei cenni. La osservo meglio. Non capisco. Poi credo di riuscire a interpretare i suoi gesti. Muove le labbra ma non la posso sentire. Da lontano, con le mani, mi chiede se mi può fotografare. Io scuoto la testa appena infastidito. Poi ci ripenso e le grido: Solo se me la fai vedere. Lei mi fa un cenno entusiasta di sì. Fruga nel trolley, getto la cicca, e lei scatta la mia finestra. Come dicevo ci prendono tutti per comparse. Naturalmente scherzavo, con l’amore per la burla di noi veneziani, ma non mi va di essere imbrogliato. Col palmo le faccio segno di aspettare. Ancora una volta con cenno entusiasta mi ripete un sì con la testa.
Mi dò una pettinata e scendo. Così come sono, ancora vestito da casa, e in ciabatte. Lei è lì che sembra aspettarmi. Cazzo! è spagnola e, ostia, il nostro dialetto non le è del tutto ostico. Provo vergogna, temo mi abbia capito. Dovevo aspettarmi una qualche sorpresa dal vestito che indossava. Si china per fotografarmi e capisco che ha capito. Prendo il cellulare e scatto anch’io. Lei sembra solo divertita. A raccontarla non mi crederà nessuno. Sicuramente è tutta matta. E pazza scatenata, certo diventa matta per quello che le mostro; il capitone in cambio della sua gentilezza. Fa un gridolino di stupore e di entusiasmo. Ha fretta e mi prende bene le misure, in quell’albergo che deve avere, ostia, almeno settantasette stelle.
Parlare si è parlato poco, ma quel poco bastava per capirci del necessario. In fondo le mani servono anche più delle parole. In fondo lo spagnolo altro non è che un dialetto dell’antico veneziano. Voleva portarmi subito con sé a Barcellona. Dove ha tutto un castello tutto suo a Disneyland. Ora sto scrivendo da Formentera. Certo il mare è più bello che da noi. Del nostro mare che non è nemmeno un vero mare. Ma non hanno il Lido. E io torno spesso a Venezia. La mia città la porto sempre nel cuore. E poi è una città dove non ti puoi mai annoiare. Se non amassi Dolores avrei un solo amore.

N.B. per non incorrere nelle ire di Facebook è stata sostituita la foto come da racconto.
[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Lepanto

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Piccoli gialli italiani3. Forse non fa per me. Forse avrei dovuto cercarmi uno pseudonimo. Odio sentirmi chiamare Nardo. Odio tutti quelli che lo fanno. Lo stesso Bernardo non è che mi piaccia proprio. Nemmeno un po’. E poi Carafa. Mi sento vuoto. E poi, come aspirante giornalista di cronaca, possibilmente nera, forse ho sbagliato il posto. E il momento. Qui non succede mai niente. Alla gente non piace ammazzarsi. Meno ancora farsi ammazzare. La politica non dà più spunti; non appassiona più nessuno. I grandi affari sono fatti dai grandi uomini su cui deve permanere il silenzio. La mafia c’è ma non si vede. Fa parte quasi di un sottobosco silenzioso. La droga circola, per quella ogni posto è uguale a un altro, ma chi se ne frega. Sembra che le puttane siano emigrate nella lontana periferia. Fuori da dove possono essere viste dai turisti. Tranne quelle che aspettano, forse, i clienti nei grandi alberghi. Nel paese delle osterie di fuori porta. Qui le stanno chiudendo.
Come si dice: sotto le toppe al culo, ma sopra la dignità di una vetrina di oreficeria del centro; per quanto possibile. Forse sono nato già vecchio. Forse sono un poco moralista. Di corna… di quelle ce n’è una foresta. Naturalmente. Tutti ne parlano, naturalmente. I pettegolezzi sono l’argomento più comune quando si trova qualcuno con cui scambiare due parole. Ma è la storia stessa che racconta che non siamo un popolo da delitti d’onore. Mariti e mogli e fidanzati preferiscono fingersi fieri e sicuri, e inghiottire l’offesa. Nessuno si prende la briga di punire il fedifrago con una bella coltellata, oppure soffocandolo sul talamo nuziale del tradimento. L’episodio più eclatante, al riguardo, è stato di quella signora Giovannina, di cui si tace il nome di famiglia, colta sul fatto e cacciata all’stante. Costretta a correre nuda per le strade frequentate, a cercare rifugio nella prima casa amica. Il marito è un medico di base. Lei una donna di classe e di grandi appetiti. L’altro, cioè quello del fatto di quel preciso momento, solo un semplice vigile urbano.
Ora sembra che tutti l’abbiano incrociata in quell’occasione di difficoltà. Naturalmente non è vero. Anche se i più si spingono ad aggiungere: “Però… gran bella donna”. Con qualche commento meno carino e qualcun’altro più spiritoso. È pur vero che le chiacchiere son buone anche dopo carnevale. Insomma la vita prosegue tranquilla. Piena di ormoni. Senza scossoni. Magari con un bel bicchiere di vino rosso in mano. L’altro argomento più frequentato è il tempo. Tutti si fanno gli affari propri. Chi meglio, chi peggio. Chi con qualche possibilità in più, e chi senza niente. E c’è chi è sopra le righe. Chi si può permettere di sfoggiare. Inutile frugare tra le immondizie dove le immondizie le raccolgono con il porta a porta. È questo un universo che non aiuta chi sogna e ha ambizioni come le mie. Sembra quasi disabitato. Persino l’acqua nei canali e cheta.
I momenti più affollati sono ancora il palcoscenico di piccoli e imbranati borseggiatori. Di quelli che pensano di poter profittare della confusione. Dei distratti troppo amanti della fotografia. Che inquadrano tutto. Il pesce sacrificato alla buona tavola, e persino i gatti intenti ai loro bisogni. Ma anche loro stanno scomparendo, sostituiti dal popolo dei selfie. Che potrebbe essere qui o in qualsiasi altro posto, fa lo steso. A quello basta solo immortalare la propria faccia. La città è solo fondale sfuocato. I fattarelli non fanno certo notizia. Per lo più quelli sono dei semplici mariuoli. Dei poveri diavoli. Tranne che per gli zingari tutti li conoscono. Il buon vigile Ulisse ha provato ad inseguirne uno. Era più giovane e più veloce. E poi si è infilato nella calca, spingendo e sgomitando. L’intrepido Ulisse ha desistito col fiatone: “Fanculo. Sempre tu, Schizzo”.
Nemmeno le mie, di avventure, hanno una parvenza di impresa. Sono un tipo tranquillo e casalingo. E allora mi siedo alla tastiera, davanti al monitor 16:9, e mi cadono le braccia. Cerco di dare colore alle storielle, e dargli l’importanza di una vera storia. Prima di tutti deludendo me stesso. C’è un fantasma sconosciuto che gira per le vie e, non visto, ruba la biancheria intima femminile stesa ad asciugare. In quanto fantasma di lui ancora non si sa nulla. Assolutamente. Pare comunque che sia di sesso maschile. Rapido ed invisibile. I maligni in mala fede lo credono, senza farne mistero, sponsorizzato da qualche negozio di lingerie. Le cose tra me e Beatrice non vanno benissimo. Stranamente mi trovo a pensare a Matilde, vorrei guardarle sotto. Le parole non escono. Forse sono io ad essere distratto. Esco per non uscirne pazzo.
Per le strade ci si incontra tutti. È così che incrocio Icio, Semplicio. Lui è un tipo molto silenzioso e sempre affogato dentro i suoi pensieri. Che se ne va sempre per conto suo senza una vera meta. Con una giacca frustra di velluto. E un giornaletto in tasca; forse anche quello sempre lo stesso. Un poco mi fa pena. Mi informo se non ha caldo vestito così, e se ha già fatto colazione. Mi risponde che va tutto bene, con quella sua aria di sempre di scappare e di aver fretta. Di non aver voglia di sprecare nemmeno una parola. Mi accorgo che dall’altra tasca gli sbuca un brandello di esili e trasparentissimi slip addobbati di merletti. Mi legge negli occhi e gli infossa nel fondo allontanandosi rapido. Forse il fantasma ora avrebbe un volto. Non potrei mai tradire quel poveretto.
In fondo le indagini, e la soluzione dei crimini, spettano ad altri. Come in ogni buon giallo che si rispetti. Ma la vita non è mai un romanzo giallo. È fatta di persone. È un poco più complessa. E io mi dovrei solo limitare a darne notizia, e, magari, commentare. Io sono solo Bernardo Carafa, aspirante cronista, possibilmente di nera. Lascio il rispetto delle regole, e della morale, e della legge, ai tipi come l’appuntato Buonadonna. Sono pagati per quello. Ed è quello a dargli arroganza e ragione per campare. O no? E la città non mi aiuta. Non mi è amica.

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