Susanna Satta era una ragazza sui venticinque anni. Una ragazza con già una storia alle spalle. Maledetto quel nome. Aveva cominciato senza pensarci. Per curiosità. Per raggranellare quattro soldi, una vera miseria. Colpa di Luigi, quel gran bastardo figlio di meretrice, che non è cresciuto mai. Bell’amico. Era l’eroina di fumetti comix un po’ osé che lui disegnava. Anzi proprio spinti. Poi, sempre per una delle sue strampalate idee, avevano fatto delle tavole ispirate, per il pubblico eccitato, ai grandi quadri. Rubens, Guido Reni, Anthony van Dyck, eccetera, nomi così, aveva detto il carogna. Lei gli credeva, non poteva fare altro, lei aveva fatto ragioneria e si limitava a spogliarsi. Maledetto quel nome. Diceva che era la sua musa e lo ispirava. Stare lì nuda non la imbarazzava, ma cominciava ad infastidirla, ad averne abbastanza. In fondo era lei a mostrare le tette, e tutto il resto. E l’opera del grande artista cominciava a girare e se ne cominciava a parlare e sparlare.
Certe risatine e certi bisbigli, che le inseguivano le spalle, non avevano bisogno di indagini. La storia fra loro due era durata poco ed era finita quasi subito. Con la penna e la china era una mago, a mani nude era una vera delusione. Occhiali profondi e un inizio di pancetta; un vero nerd che da sfigato anche si vestiva. Braghe di velluto e giacche sgualcite. Cicca sempre in bocca. Era rimasta solo quella, come dire? Collaborazione. Lui diceva che erano rimasti amici. Ma quel giorno era tutto per lei e solo per lei. Non aveva altri impegni. Aveva dovuto decidersi di far visita al supermercato. L’alternativa era trovare qualcuno che la invitasse o digiunare. Nessuna delle due opzioni la allettava, aveva voglia di godersela e restare sola. Si sentiva libera. Si era impigrita a letto. Aveva bisogno anche di riposare. Usciva da una storia burrascosa e da un periodo faticoso.
Si era soffermata tra i scafali con la tranquillità di non avere nessuna fretta. Fingendo di controllare i prezzi. Solo che, mentre usciva, dopo aver pagato, quel maledetto sacchetto di plastica si era sfondato. Tutto il suo contenuto era precipitato a terra. Si era immediatamente chinata senza avere la minima idea di come comportarsi. Con un diavolo per capello. Lui, il tipo, era accorso premuroso in tutta fretta: “Posso aiutarla”? Lui, il tipo, aveva già afferrato tre arance e gliele stava porgendo con un sorriso sicuro. Una era rotolata giù del marciapiede finendo per essere schiacciata da una macchina che passava. Aveva avuto l’impressione che le sbirciassi sotto la gonna. Scontrosa gli aveva risposto stizzita che gradiva essere lasciata in pace. Nel frattempo alcuni passanti si erano bloccati curiosi solo per godersi la scena. L’uomo aveva insistito offrendosi di andare a prendere una borsetta nuova alla cassa. Si era sentito rispondere che lei preferiva si facesse gli affari suoi. Allora lui rassegnato aveva poggiato a terra le tre arance e aveva fatto il gesto di tornare a quello che stava facendo.
Lei aveva alzato lo sguardo. Sembrava indispettito. Si sentiva in colpa, era stata proprio maleducata e scortese. Cosa le era preso? Probabilmente lui voleva solo essere gentile. Avrebbe dovuto essergliene grata. Lo osservò meglio, con cura. Gli avrebbe dato quarant’anni, chilo più, chilo meno. Vestito con curata eleganza; con un abito perfetto nello stiro. Una cravatta di buon gusto. Mocassini in morbida pelle di manifattura italiana. Sicuramente non era uno sfigato, anche per la macchina su cui stava per salire. A quel punto lei si sentì in dovere di cercare di farsi perdonare e richiamò nuovamente l’attenzione dell’uomo: “Mi scusi”… Lui, naturalmente, tornò sui suo passi con un ampio sorriso sereno. “Credo di essere imperdonabile. Lei è stato gentilissimo”. Aveva anche degli occhi belli. Si era presentato come Carlo.
Frettolosamente si allontanò e rapidamente ricomparve con il nuovo sacchetto. “Ecco fatto”. Si sistemò i calzoni sulle ginocchia per non sgualcirli e si chinò nuovamente e riprese nel palmo quelle tre sfortunate arance. Fece il gesto di porgergliele e il gesto rimase sospeso. Lei lo fissava, non era niente male -convenne Susanna. Voleva solo essere garbata: “Non so come ringraziarla. Posso offrirle un caffè. Magari, se è così cortese di accompagnarmi, saliamo a prenderlo da me”. Pensava di portarsi addosso qualche chilo di troppo. Ma, quei chili, erano tutti nei posti giusti e opportunamente strategici, e Luigi le aveva sempre assicurato che era una perfetta Susanna. Che avrebbe potuto fare anche una splendida Giunone, che cioè aveva quelle curve abbondanti che tanto piacciono a tutti i maschi. Con il tempo era diventata sicura di sé. Non che lo fosse sempre stata, da ragazzina si sentiva ignorata, evitata. Poi di storie ne aveva vissute abbastanza per sapere che quello che portava sotto gli abiti era la promessa di una favola che tutti avrebbero voluto svelare.
Ma lui, quell’uomo, doveva essere diverso. Diverso in tutto. Non aveva mai frequentato uno così elegante. Così a modo. Con una voce così suadente. Che conoscesse così le buone maniere. Anche quella gentilezza che aveva dimostrato immediatamente non era ricorrente da trovare. E lei riconosceva l’orologio che lui portava al polso. Per essere più persuasiva indossò il suo sorriso più luminoso, e poi quello più ammiccante. Schiuse leggermente le ginocchia nel gesto di poggiare un paio di barattoli sulla gonna. Sicura di sé, sapendo come trattare con un vero signore. Ora era certa che lui la stesse spiando sotto la sottana. Ebbe un piccolo scatto d’orgoglio. Sulla faccia le si dipinse un’espressione di padronanza soddisfatta. Poi lui alzò gli occhi e il suo viso si trasformò in un sorriso strano che lei non seppe interpretare. Sentì quegli occhi scorrerle addosso come se la stesse valutando. Si sentì chiaramente sotto esame e restò stupita quando il signor Carlo aveva appoggiato di nuovo le tre arance su quel marciapiede e si era scusato ricordandosi solo allora che doveva scappare per un appuntamento importante. Peccato, era proprio una gran bella macchina.
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