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Archive for aprile 2017

giovane-donna-che-sta-dietro-di-una-finestra-61763300Côte d’Or. Più che bungalow erano delle capanne. Tutte uguali. Qualche metro di giardinetto intorno con una pianta ad alto fusto, qualche volta una palma. Un vialetto e una luce sulla porta. Una piccola entrata con specchio. Un salottino con divano e una piccola televisione. Più che una piccola cucina un angolo cottura. Una camera matrimoniale ampia con una seconda tv via cavo. Una cameretta con possibilità dell’aggiunta di un secondo letto. E naturalmente un bagno. Ad essere pignoli l’unico inconveniente era la mancanza dell’aria condizionata. Ma questo nel dépliant non era detto.
Il villaggio offriva una piscina grande e una più piccola per i bambini, e per chi non sapeva nuotare. Un ristorante, dove non si mangiava per niente male, con una musica composta alla sera anche per chi volesse trattenersi per un drink. Naturalmente il servizio ristorante non era compreso nel prezzo. Una piccola discoteca. Degli spazi comuni di ritrovo. Due campi da tennis. Organizzava corsi e serate a tema. Tutto a cinquecento metri dalla spiaggia su un mare pulito.
Galena era più che bella. Nessuno poteva non notarla. Non c’era uomo che non girasse la testa al suo passaggio. Non c’era donna che non la guardasse con quella certa invidia. In costume sembrava una dea. Ma a lui, come a tutti, gli veniva mancare il fiato quando riusciva a rubare un brandello di lei nella sua riservatezza. Si era sentito soffocare quando, stesa sul telo mare, al bordo della piscina, col reggiseno slacciato per prendere il sole, gli aveva chiesto la cortesia di passarle il cellulare che non poteva raggiungere senza mostrarsi sconveniente. Aveva alzato il braccio per indicarlo e lui aveva potuto vedere, per un attimo, anche se in parte, quasi completamente, un seno sodo. Gli era mancato il respiro quando, soli, si era sistemata la calza prima di entrare al ristorante. Aveva patito un minuto di afasia quando si era chinata in ascensore per poi scusarsi accorgendosi che le si era slacciato un bottone della camicetta. Provava sempre lo stesso senso di vertigine nel guardarla mentre si allontanava dondolando su quei tacchi.
Lei sapeva di essere ammirata e lo faceva con nonchalance. Come se provasse piacere per tutti quegli sguardi. Certo non era così. Quando non era in piscina o al mare, quando si muoveva per gli spazi comuni, portava sempre tacchi sottili e molto alti. Camicette chiare che riempiva di sorprendente generosità. Gonne poco sopra il ginocchio ma così aderenti che sembravano dipinte addosso. Quel giorno tutti avevano continuato a sguazzare nell’acqua cercando ristoro. E lei come gli altri. Poi era andata a cambiarsi per prepararsi per la cena. Lui l’aveva osservata allontanarsi con quel solito batticuore che gli toglieva il respiro. Quasi stesse per svenire. Aveva avuto la sensazione che gli avesse lasciato un sorriso prima di andare.
La prima volta era stata la sera di un venerdì. Sua moglie aveva, come ogni sera, la canasta e lui la scusa che amava andare a guardare in compagnia quelli che giocavano a bocce, o qualche partita di tennis notturno. Erano cose che a Caterina annoiavano tremendamente. Rimasto solo aveva continuato a guardarla con insistenza, distogliendo solo di tanto in tanto lo sguardo nel timore di infastidirla. Era un incanto come sapeva accavallare le gambe. A volte poi la gonna risaliva quel po’ e lui vedeva e immaginava. Aveva notato che quella donna, Galena, ormai tutti avevano imparato il suo nome, aveva lasciato il suo spritz a metà. Si era alzata dal tavolo salutando e si era avviata. Così l’aveva seguita senza farsi notare.
La luce sulla porta era spenta, ma non quella alla finestra. Ed era rimasto a spiarla dietro i vetri. In silenzio e con attenzione per non farsi scappare niente. Quando era andata al bagno, almeno così lui credeva, l’aveva aspettata. Non si era fatta attendere. Era tornata e si era messa stesa sul divano senza trovare mai una posizione comoda. Aveva preso in mano il telecomando e poi aveva scosso la testa senza accendere il televisore. Aveva due splendide caviglie sottili. La gonna era risalita e le si erano scoperte le gambe. Fino alle cosce ben tornite. Con la mano cercò di sistemarsi una ciocca e di farsi aria. Slaccio due o tre bottoni della camicetta. Canticchiava tra sé una canzone che lui non poteva sentire. Se ne andò provando un po’ di delusione, ma questo non gli impedì di cercare di replicare quella esperienza, forse nella speranza di essere più fortunato.
La fortuna arrivo un paio di sere dopo. Il vialetto era sempre al buio. La finestra aperta e illuminata. Si ripeté la storia di lei sul divano che non riusciva a trovare la posizione migliore mentre la televisione restava spenta. Quella volta lui non perse la pazienza e fu premiato. Dopo un po’ lei si alzò, uscì e tornò, e poi si spostò in camera. E anche lui si spostò all’altra finestra appena si accorse che si era accesa. Lei scese dalle scarpe e lui cominciò a sperare. Si muoveva padrona di una lentezza incredibile. Ogni gesto pareva studiato. Si sfilò la gonna e la scalciò lontano. Lui temette che gli sarebbe preso un coccolone. Si slacciò la camicetta e rimase per un po’ coperta solo dalla sua delicata e sottile biancheria intima. Si sentiva veramente asfissiare. Lei si guardava allo specchio soddisfatta di quello che vedeva. Indugiò così per alcuni interminabili minuti. Era una statua. Poi si stese sul letto sopra le lenzuola. Si girò prima su un fianco e poi sull’altro e poi ancora. Temette di essere scoperto ogni qual volta che si girava dalla sua parte.
Da quella sera quello spettacolo si ripeté ogni sera. Lui si nascondeva dietro l’albero finché lei non aveva acceso la luce del salotto. Poi la guardava sul divano. Poi l’ammirava spogliarsi in camera da letto, stendersi sulle lenzuola e rigirarsi finché non arrivava l’ora di spegnere la luce. Alla fine se ne andava di malavoglia e con il batticuore anche se ogni sera era esattamente uguale alla precedente, ma ogni sera era un’emozione che si rinnovava. Lei era precisa e puntuale. Era come se sapesse che lui era là, che la spiava. Qualche volta lo faceva attendere un attimo di più, un niente. Una volta uscì dal bagno indossando già una sottile vestaglia trasparente che tolse di lì a poco. Dopo, come a salutarlo, restava come sempre dritta, coperta solo di quella piccola biancheria che indossava sotto gli abiti. Sembrava proprio farlo per farsi guardare. E finiva stesa a letto cercando sopra le lenzuola quella frescura che non trovava e una pausa nel caldo soffocante. Pensò di fotografarla col telefonino.
Poi quella sera gli sembrò proprio che gli sorridesse. Che rivolgesse le sue attenzioni, e ogni gesto, a lui. Questo lo fece sentire meno cauto. Le previsioni del tempo dicevano che quella sarebbe stata la sera più calda dell’anno. La sua vacanza stava finendo. Lui stava già sudando abbondantemente. Quando lei spense la luce lui prese la sua decisione. La porta era chiusa. Vide che la finestra del piccolo bagno era spalancata e la scavalcò, non senza fatica. Cercò l’uscio della camera e lo trovò socchiuso. Si fece coraggio. Si chiese se era un segno. Si chiese cosa le avrebbe detto se lei lo avesse interrogato. In fondo non le aveva mai rivolto la parola. Niente in quel momento avrebbe potuto fermarlo, così attraversò quell’uscio ed entrò nel buio. Silenzio.
Lei accese l’Abatjour e si voltò su quel fianco, dalla sua parte. Non sembrava nemmeno sorpresa. Semplicemente gli sorrise del sorriso più bello che lui avesse mai incontrato e gli disse semplicemente, proprio come se stesse aspettando lui: “Ti stavo aspettando”. Restò immobile ad ammirarla, bella, allungata sopra quelle lenzuola, incredulo di tutto quello che stava succedendo. In bocca gli si era seccata la saliva. Non aveva un gesto di cui non si sarebbe potuto pentire. Si sentì chiedere cosa stesse aspettando, lì. Lo invitò ad avvicinarsi, lo rimproverò di essersi fatto aspettare: “Ti avevo visto fin dalla prima sera. Solo non credevo… Non dirmi che ti metto paura. Non sarai mica timido? Non sarà mica per colpa mia? Dimmi cosa posso fare. Mettiti comodo”.
Era tutto… tutto… proprio tutto… così… incredibile: “Non so se… io… Mi sono permesso… Credevo… La finestra era… Ma se vuole”… Il suo sguardo era disarmante. “Sei proprio incredibile. Incorreggibile. Non so cosa dovrei… Non so fare bene la vittima. E tu non hai proprio la faccia del criminale, del, come si dice? dello stupratore”. Scoppiò a ridere, di una risata che suonava come accordata su bicchieri di cristallo, mostrando tutti i suoi denti candidi e perfetti. Il rossetto li circondava come una rossa cornice luminosa: “Così non faresti paura nemmeno a una lucertola a cui nascondi il sole. All’essere più minuscolo. Non devi aver paura. Non ti mangio mica. E poi sei tu… Ti va se facciamo un gioco? A me piacerebbe un po’… violento”.
Lui fece sì con la testa senza nemmeno sapere cosa faceva. Avrebbe risposto in quel modo a qualsiasi cosa lei avesse chiesto. Gli lanciò una delle sue calze e gli chiese di infilarsela in testa. Rise. Disse che così andava un po’ meglio anche se non del tutto. Lo mandò in cucina a prendere un coltello: “Non così. Più credibile. Impegnati un po’. Come se mi minacciassi veramente. Impugnalo come per colpirmi. Già meglio. Ora slacciati la cintura. Non essere timido. Abbassali. Calati i pantaloni. Bravo”. Lui era completamente confuso. Con un gesto deciso lei si strappò il reggiseno e scoppiarono alle luce quelle due splendide meraviglie: Su! Fatti vedere. Non puoi solo guardare. Non ti puoi limitare a…. Non credevo saresti stato tu. Non speravo. Non ne ero certa. Ora, coraggio, prendimi per il braccio e scuotimi. Fammi vedere quanto uomo sei”.
Avrebbe voluto accontentarla. I seni le dondolavano appena. Lo invitò a metterci più energia. Più rabbia. Frugò nel cassetto del comodino. Il suo ex era un carabiniere. Una storia brevissima di cui si era sempre rimproverata l’inutile stupidità. Ne estrasse la pistola e gli sparò tutti e sei i colpi diritti nel centro del petto. Si spettinò. Si ruppe un’unghia. Si sbaffò il rossetto. Si controllò. Poi prese il telefono e con voce agitata chiamò. Non sarebbe più tornata in quello stupido villaggio. Era stato uno sbaglio e l’aveva capito fin dall’inizio. Se si fosse chiesta “Perché”? Non avrebbe saputo trovare una risposta o si sarebbe detta: “Solo per curiosità”. Invece si limitò a osservare che quelli erano proprio tempi strani se non ci si poteva fidare nemmeno tra ladri.

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lotteria«Ho sentito dire»…
«»!
«Quanto?»…
«Abbastanza»…
«Sai che non avrei mai voluto. Ma ora è passato. Scusa. Inutile parlarne. Sono stata… Sono stata sciocca. Un momento di debolezza. Niente. Sai che ti ho sempre voluto»…
«Lo so».
Quella sera Ernesta era stata molto appassionata. Lui si sentiva… come dire? diverso. Ecco. Anche se non amava le sorprese, le novità, aveva gradito. Ma come può un uomo?… Si era addormentato soddisfatto di sé. E aveva dormito di un sonno profondo. Il mattino seguente era insolitamente molto allegra: «Credo che oggi andrò a fare qualche spesuccia. Mi sembra giusto. Non credi»?
«Certo».
«Allora… io vado?»…
«Sì! Usa la carta o dì che passo io. Sai non è ancora»…
«Certo».
Al bar sembrava che mi aspettassero. Giuliano era impaziente che parlassimo da soli: «Offro io».
«Va bene».
«Ti ho mai parlato di quel localino? Ricordi?»…
«Non mi sembra».
«Ti assicuro»…
«Guarda che non ci sono problemi».
«Sapevo che avresti capito».
Tutti mi salutavano, anche quelli che non avevano mai fatto caso a me. Scoprii così che tutti sapevano il mio nome. Persino l’ingegner Riccadonna. Il notaio Felicetti che sapeva come far fruttare anche una piccola somma. Ormai sembrava non essere un segreto per nessuno. Nel giro di poco più di un giorno. Quasi dalla sera alla mattina. Non avrei mai avuto il tempo per parlare con tutti. Non sono abituato a bere. Mi sentivo quasi ubriaco. Con Albano ho preso un campari: «Noi siamo stati sempre amici, non è vero? Più che»…
«Certo, perché»?
«Niente. Dicevo per dire. E’ cambiato?»…
«No, certamente. Perché»?
«Ora farai bene a stare attento».
«Perché»?
«Niente, ma sai come sono».
«Non capisco».
«Capisco io. Mi credi se te lo dico?»…
«Certo, ma spiega»…
«Per farla breve… Con te posso».
«Certo che puoi. Tra amici».
«Penavo a una barca. La prendiamo assieme. Beh! io non è che ho»…
«Una barca»?
«Non una barchetta. Una vera barca. Sai le donne?»…
«Non è che io»…
«Pensa. Possiamo usarla assieme. E qualche volta io. E qualche volta anche tu. Me ne occupo io. So già dove metterla. Non serve che lo dici a Titti. Sai le donne?»…
«Certo, le donne».
«Che ne dici»?
«Su due piedi… Mi sembra una buona idea».
«Lo sapevo. Lo sapevo che avresti capito».
«Ne riparliamo».
«Allora fatta. Fidati, l’ho già vista».
Non sono mai stato un grande marinaio.
Mi era arrivato un messaggino su WhatsApp. Era Loredana che mi dava appuntamento in un locale fuori mano. Aveva fretta che ci vedessimo. Aveva detto che aveva una cosa importante da dirmi. Era impaziente di dirmela. Nemmeno il tempo per l’ordinazione: «Forse non dovrei dirtelo».
«Dimmi pure».
«Forse tu sei l’ultima»…
«Dimmi pure».
«Sembra proprio che Luigi»…
«Cosa c’è»?
«Una brutta malattia. Si parla di… forse… cancro».
«Mi spiace».
«Avrà bisogno di molte cure».
«Mi spiace».
«Di molte cure costose».
«Non ti preoccupare».
«Sei un santo».
«Scherzi. Se posso esserti»…
«Ne ero certa. Ora vieni qui. Dammi un bacio. Non pensiamo alle tristezze. E’ festa, no»?
«Ma ci possono vede»…
«Non importa. Ormai»…
«Cosa prendi»?
«Un amarone. Posso»?
«Puoi».
Sembrava moto risollevata. Improvvisamente felice: «Poi saliamo, vuoi»?
«Certo che sì. Magari… dopo. Tra un po’».
La sera ero proprio stanco. Avrei avuto una bella barca, anche se soffro un po’ il mal di mare. Una casa per le vacanze, anche se in comproprietà. Una macchina nuova. Un abbonamento alla palestra e a un corso di yoga. Avevo ricevuto persino una proposta per candidarmi a sindaco. O almeno a presidente di quartiere. In ufficio la promessa di una promozione. E la visita del parroco. Non avevo visto l’ora di tonare a casa. Tiziana aveva voluto aprire tutti i suoi pacchetti davanti a me. Felice e allegra come una bimba. Non sono riuscito almeno a rimandare. Mi aveva preso anche una cravatta. Non era male: «Avrei visto una casetta… proprio giusta per»…
«Non so se»…
«Ma come?»…
«Ho dato tutto in beneficenza. A Medici senza frontiere».
«Ah»!
«Ah»!
«Spero non ti spiaccia».
«Hai fatto bene».
La gioia non traspariva certo dal suo volto. Gli occhi le si erano spenti. Non era vero, ma avevo deciso di trasferirmi in Toscana. Era una decisione che avevo preso da solo. Senza pensarci troppo. Lei non lo doveva sapere. Avrei potuto andarci con Loredana, ma con il marito in quelle condizioni… E poi era meglio così. Stavo pensando a quanti sms avrei dovuto mandare per scusarmi. Alzai le spalle. I soldi non cambiano la vita.

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Donna_con_libroIo amo molto leggere. Quando apro un libro non lo poggerei mai prima di averlo finito. Lui solitamente spegne subito la sua luce sul suo comodino e piomba in un sonno profondo e rumoroso. Quando invece si rigira senza trovare pace allora sono costretta a rassegnarmi a spegnere anche quella sul mio di comodino. Dice che non sa cosa ci trovo di tanto interessante nelle storie degli altri.
Lui è molto pigro. Se da una parte è un bene perché quando è a casa è a casa, dall’altra fosse per lui non ci muoveremmo mai. Fatica persino ad accettare la sola idea di vacanza. Gli sembra tempo sprecato. Allora va in rete. Dice che la sua vita fuori casa è già così piena, animata, convulsa, un vero inferno, e che io sono il suo paradiso; il suo angolo di serenità. Mi fa piacere sentirglielo dire, ma stavo mettendo l’arrosto in forno e non avevo nemmeno avuto il tempo di cambiarmi. Devo ammetterlo che non lo stavo tanto ad ascoltare. Certo che il suo impiego dev’essere molto impegnativo. Anche se poi non molto remunerativo; non come il mio. Questo gli deve dare un po’ di fastidio, povero caro.
Volevo ricordargli che aveva chiamato la banca. Che anche questa volta aveva lasciato la macchina fuori e senza benzina. La biancheria per terra. Ero già lì lì per dirgli delle troppe attenzioni, spesso pesanti e pressanti, di Ettore che mi diceva che sono bella, ma poi ho pensato che era meglio non dargli altre preoccupazioni. Se ci penso lui è tanto, troppo, che non me lo dice. Eppure tra due che si vogliono bene ci si dovrebbe dire tutto. Ma, come dice lui, sono solo pensieri stupidi; è il pensiero debole. E io non sono stupida. E’ meglio che non mi distragga o la cena finisce nella pattumiera e dobbiamo chiamare per due birre e due pizze.
E’ successo una sola volta e ci eravamo appena messi assieme. E’ stato un po’ anche per colpa sua. Inutile ricordarlo ogni volta. Andare a rivangare. Che poi il male non era stato proprio così male. E la pizza era buona anche fredda. Ma allora era diverso tra noi. Non so dire come diverso ma diverso. Magari è così anche per gli altri. Che ne so? So solo che quando si scorda di abbassare la tavoletta del water, o dimentica il tubetto di dentifricio senza tappo, io non lo sto tanto a rimproverare. E poi, se c’è una minima cosa, anche banale, sarei io quella isterica. Lui è molto caro, ma a volte richiede una pazienza dell’altro mondo. Taccio ed esco dalla stanza. Non vorrei che ci sentissero i vicini. Sono diventata brava a cambiare discorso, solo che ha tanti pregi, ma per essere testardo è testardo.
Mi dice Eugenia, non scherzare. Nemmeno a me piace questo nome, ma cosa ci posso fare? Ettore mi chiama la mia Meravigliosa Creatura. Anzi detto da lui sembra detto tutto in maiuscolo. Se io non fossi io, se fossi un’altra, forse non ci penserei due volte. Anzi, anche una volta in meno. Ma io sono io. E poi quello è il mio nome. E poi non ne sarei mai capace. Anche se mi accorgo di come mi guardano gli altri, gli uomini. Anche se quel film dice che Mai dire mai. Ma nemmeno ci penso. Tranne qualche volta. Spesso quando mi dice Eugenia, non dirlo nemmeno per scherzo. Come l’altra sera. Come l’altra sera che aveva un’altra volta un’impronta di rossetto sul colletto della camicia. Per non dire delle macchie di fondo tinta che mi trovo sovente a spazzolare dai risvolti delle sue giacche.
Mi ha spiegato che era la festa in ufficio per il compleanno di una certa Lucrezia. Nemmeno questo è un nome che mi piace. E non aveva mai nominato nessuna Lucrezia. L’avrà lasciato quando le ho fatto gli auguri. Una cosa innocente. Non è successo assolutamente niente. Cosa vai a pensare? Non che avessi pensato chissà che cosa. Sai che non sono gelosa. Ti credo, però gli uomini… Però io non sono gli uomini. Però lui potrebbe fare un po’ più di attenzione. E anche quella Lucrezia, o chi diavolo era, e le altre. Una macchia di rossetto è pur sempre una macchia di rossetto. Poi è difficile da mandare via. E se fossi una sospettosa… Cosa potrei andare ad immaginarmi? Che poi a pulire ci devo pensare io.
Cosa dici: Capri o Berlino?
Sai come la penso… fai tu.
Quando fa così lo prenderei a schiaffi. O in alternativa prenderei me, a schiaffi. Non stacca gli occhi dal computer. In questi momenti è come se fossi trasparente. Potrei uscire nuda che lui nemmeno si accorgerebbe che non sto più in casa. In verità mi fa sentire fuori di me. Sembra interessato solo a chattare. Uno di questi giorni finisce che gli rubo la password, tanto solo dove se l’è segnata, e gli cancello tutta la memoria. Lo dico quando sono arrabbiata, ma arrabbiata forte, tanto so che non lo farei mai. E lo dico solo a me, naturalmente. Non ho mai amato fare delle minacce. Che poi, se sono proprio costretta a pensarci, mi dico che: se non c’è fiducia tra due allora a cosa serve essere in due. Che senso ha; la vita? E’ la fiducia per il proprio uomo che tiene la donna insieme ad un uomo. E io sono la sua donna.
Anche Ettore ha la sua. La sua e le altre. Ma Ettore è Ettore. Né bello né brutto, forse interessante. Forse c’è qualcosa in lui che io non so e che attira le donne. Un fascino che non mi ha affascinata. Forse sono io ad essere diversa. Se la verità è figlia della maggioranza allora è certo che sono io ad essere quella differente. Eppure per me la fedeltà è ancora un valore. Come lo era per mia madre. E per la madre di mia madre. Fin dai tempi dei tempi. Sono nata e credo che ce l’avevo già impressa addosso. Anche se mio padre, a differenza nostra, poteva essere geloso. Forse era solo sospettoso perché gli sembrava strana questa figlia settimina. Ma le cose vanno come vogliono, non come vorremmo che andassero. E un sospetto è come del veleno nel bicchiere. Avvelena la vita.
E allora voglio proprio vedere. Mi metto nuda e lui niente. Mi metto nuda ed esco, e lui ancora niente. Eppure… La gente per strada mi guarda, mi guarda insistentemente, ripetutamente. Si gira a guardarmi, ma nessuno ha il coraggio di dire niente. Solo qualche donna prova l’istinto di parlare, schiude le labbra ma poi si arrende; rinuncia. Sarebbe inutile e indifferente. Qualche sporadico “Ma ti sembra giusto”? Magari è solo invidia. Mia madre forse non me l’aveva raccontata del tutto giusta. Forse mi aveva detto una bugia.
Sento freddo sulla pelle. Certo che sono bella, ma che valore ha una cosa bella se nessuno nemmeno la può guardare? Come un gioiello che tieni nella cassetta di sicurezza. A questo punto mi sveglio. Un po’ eccitata e un po’ imbronciata, e anche un po’ colma di vergogna. Ma mica era vero. E’ stato solo un brutto sogno. Lo cerco, s’è addormentato sul divano. Mi alzo, debbo proprio farla. Se non avessi la fede al dito sarei ancora come nel sogno, completamente nuda. Certo che l’amore è proprio un colossale mistero.

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cappuccettonero02Era insolito vedere una ragazzina, poco più che una bambina, girare per quelle viuzze mentre si faceva buio. Ma lei era piena di giudizio. Camminava diritta senza guardarsi intorno; sicura. Andava per la sua strada. Sola canticchiando tra sé e sé: «Son marinaio, marinaio della marina. Porto le chiavi dell’oro e dell’argento. Son capitato di questo bastimento. Finché l’Italia più libera sarà… sarà… … Sarà
Non si sarebbe fermata per nulla al mondo a parlare con nessuno. Ma lui era grande e grosso, e aveva un sorriso rassicurante. E camminava in centro della strada venendole incontrò. Da principio non ci aveva fatto caso. Certo che nessuno poteva vederli: «Se fossi una regina, sarei incoronata. Ma son na contadina, nei campi a lavorar
Lui le fece un altro di quei sorrisi e un cenno del capo, e lei rispose a quel sorriso senza pensarci un attimo. Era una bimba gentile e premurosa, e intelligente. Lui le si fermò davanti con la sua altezza imponente. La sua ombra nascondeva la luce e l’abbracciava tutta: “Come ti chiami”?
Susanna, ma tutti mi chiamano Susy”.
Bel nome”.
Me l’hanno detto”.
Sai che sei proprio carina”.
Me l’hanno detto. E tu”?
Io cosa”?
Tu, come ti chiami? Non importa. Assomigli proprio a mio zio. Mio zio Egidio. Posso chiamarti papino”?
Puoi chiamarmi come vuoi”.
Grazie”.
Dove stai andando”?
Dovrei tornare a casa”.
Posso accompagnarti? Queste strane non sono mai tanto sicure per una bambina bella come te. A quest’ora della sera. Col buio. Non si sa mai che incontri si possono fare”.
Mamma dice che… Non importa. Se vuoi. Sei gentile”.
Lei lo prese per quella grande mano e si incamminarono.
Hai la faccia piena di efelidi”.
Si dice così? Le lentiggini fanno bella”.
E due belle trecce bionde”.
Me le fa la mamma”.
A chi hai rubato quegli occhi azzurri”?
Ah! questi sono dello zio. Ti ho detto di…”?
Sei proprio carina”.
Me l’hai già detto. Lo so. «Do re mi fa, fa, fa. Sol la si do, do…»”.
Cosa stai canticchiando”?
Una canzoncina dei giochi. Me l’ha insegnata mamma. A lei l’la insegnata la nonna. Alla nonna gliela ha insegnata la sua… beh! non importa. Non credo che a te interessino queste storie. E non ha nessuna importanza”.
Ti sbagli”.
Lei lo guardò con due occhi di ghiaccio. Come se lui fosse lo stupido. Una nullità: “Mamma dice che io non mi sbaglio mai. Papino”.
Fu in quel preciso momento che quell’uomo grande e grosso ebbe per la prima volta un attimo di paura. Si sentì stupido. Era solo una bambina. Non più alta di un soldo di cacio. Tranquilla. Di niente sospettosa. Dopo si sarebbe fatto un buon bicchiere di vino: “Non facciamoli stare in pena”.
Non ti preoccupare. Loro mi conoscono. Si fidano di me. Però questa non mi sembra la strada per casa mia. Ed è buia”.
Non ti preoccupare. E’ solo una scorciatoia. Di qua facciamo più presto”.
Se lo dici tu”.
Posso dirti una cosa”?
Spara”.
Ti faccio paura”.
No”!
Possiamo fermarci un attimo. Solo un secondo. Ho il fiatone”.
Purché sia un secondo”.
Si era chinato per cercare di raggiungere la sua altezza: “Non bisognerebbe mai aver fretta. E dovevi saperlo che non si dovrebbe mai nemmeno parlare con gli sconosciuti. Sei stata un poco imprudente. Devi ammetterlo. Dovresti stare più attenta. Per questa volta… Non voglio farti del male. Tu sei così carina e se sei carina con me potrei farti un bel regalo. Che ne dici? Però non dovrai dirlo a nessuno. C’è qualcosa che desideri”?
Lei sfoderò ancora quegli occhi di ghiaccio, e lui, per la seconda volta, provò quel senso stupido di panico. Era certo che non era semplice vergogna. “Giro giro tondo… L’avevo capito. Sei uno di quelli. Si fingono tanto amici… In questo mondo nessuno fa più niente per niente. Cosa vorresti? Non sei nemmeno abbastanza intraprendente. Va bene. Cosa vorresti che facessi? Non dirlo. E’ inutile. Tanto lo so. Le leggo come le immagini di un film in televisione le tue fantasie. Ce le ho davanti agli occhi. Sei solo un porco pervertito. Magari hai anche bisogno di un po’ di roba per farlo. Potrei anche dartela. E’ solo che hai detto la parola sbagliata. Ma chi sono io per giudicarti? Tutti hanno i loro vizi. I loro sogni. Le loro preferenze. I loro capricci. Sbrighiamoci. Perché mi guardi così? Non sono abbastanza bambina da non sapere. Va bene. Te la sei voluta. Ma sai almeno chi sono”?
Chi sei”?
Giro giro tondo, casca il mondo… Ti aspettavo. Mamma dice che sono una principessa. Sono la principessa del buio. La puntura che hai sentito nel palmo non era una stupida zanzara. Non è nemmeno la stagione. Dovevi accorgertene. Non si dovrebbe mai essere così distratti. Sì! era benzodiazepine; o qualcosa del genere. Potrai sognare di farlo e di farmi tutto quello che vuoi mentre piombi davvero nel mondo dei sogni da cui non potrai risvegliati più. Scusami, è meglio lasciarsi andare. Cercare di resistere, ribellarsi, non farà che aumentare il tuo dolore”.
Lui bofonchiò “Io ti”… mentre si afflosciava al suolo. Ai piedi di quella piccola bambina. Forse più piccola della sua età. Lei gli si chinò sopra e appoggiò le sue labbra su quelle dell’uomo. Le ginocchia per terra senza il timore di sporcare le calze bianche. Se mai qualcuno, sfortunatamente, fosse passato in quel momento avrebbe avuto, con incredibile sorpresa, la convinzione che lei lo stesse baciando. Gli occhi divennero di brace. Lentamente gli aspirò la vita. Pian piano lui si svuotava come una camera d’aria. Succhiò tutto di lui e alla fine, sulla strada, rimasero i suoi abiti e poco più. Solo a quel punto, dopo essere certa del risultato, si rialzò per riprendere il suo cammino. Nella notte si lasciò sfuggire solo: “Peccato”.

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pnn-foto1Era solo sabbia e sassi. Se c’era la luna andava più spedita, ma era più pericoloso. Un po’ di batticuore ce l’aveva, ma solo un po’. Sapeva solo che lo doveva fare. Per quei ragazzi. Senza luna era come un buco nero. Anche l’erba un mare nero, immobile. E allora era paura, ma cercava di non pensarci. Si diceva: Quanto siamo stupide noi donne; abbiamo paura del buio e di quello che non vediamo. E se lo diceva in silenzio. E in silenzio faceva tutta la strada. Sulla sua bicicletta. Pedalando veloce. Senza nemmeno fischiettare. Senza nemmeno poter accendere il fanalino. Ma poi quella maledetta sera li aveva visti da lontano. Erano neri come la notte. Neri come la vergogna. Aveva visto le torce, ma era troppo tardi. Non poteva tornare indietro. Non poteva prendere per i campi. Aveva solo il tempo di ingoiare quel biglietto. E di mandarlo giù senza nemmeno un sorso d’acqua.
Dove te ne vai tutta sola, bella ragazza”?
Vado dove debbo andare”.
E sarebbe, se posso chiedere”?
Stavo andando per la mia strada”.
Sei una piccola vipera impertinente”.
So solo che tanti uomini per una donna sola”.
Il porco le scoprì la gamba e lasciò che la sua mano scivolasse sopra. Gli altri maiali ridevano: “Sai che questi posti sono pericolosi, soprattutto di notte”?
Ora sì che ce lo so”.
Non hai paura”?
Ho paura solo per gli assassini”.
Hai visto banditi da queste parti”?
Qui non ci sono banditi”.
Il porco le pizzicò una guancia. Gli altri maiali ridevano: “Sei carina, non vorremmo doverti fare del male”.
Allora posso andare”?
Non così di fretta”.
Mi aspettano”.
E ridevano: “Chi ti sta aspettando; il tuo moroso”?
Non ho moroso”.
Se fai la brava ne avrai tanti di morosi, e anche se non lo fai”.
Me ne basterebbe uno, ma di quelli buoni”.
Noi lo sappiamo che tu sai”.
Io so solo quello che so. E che una ragazza non dovrebbe fermarsi a parlare con degli sconosciuti”.
Le arrivò il primo schiaffo: “Dicci dei banditi”.
Si sentì persa: “Qui non ci sono banditi”.
Dov’è tuo fratello”?
Via, a cercar lavoro”.
Non è qui intorno”?
No che non è qui”.
Schioccò il secondo schiaffo: “Non farmi diventare cattivo”.
Non credo di poter fare di più”.
Dicci dove si nascondono i banditi”.
Qui non ci sono banditi”.
Aveva già la rivoltella in mano: “Non farci perdere la pazienza”.
Non posso dire quello che non so”.
Sappiamo che sai”.
Se lo sapete voi”…
Dove si nascondono i banditi”.
Qui non ci sono banditi, solo partigiani”.
Il colpo si perse per le campagne.[1]

[1] E’ solo un piccolo e povero raccontino di fantasia per ricordare tutte le staffette che diedero la vita per una giusta causa. Per ricordare a chi non sa ricordare che la Resistenza non è stata fatta solo da quegli eroi che presero le armi in mano, ma anche da tanto altro popolo. Da tanti uomini e tante donne.

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battaglia2La prima volta era stata gentile. La seconda mi era sembrata leggermente seccata: ancora lei. La terza ero andato con la tazzina col caffè ancora fumante in mano e con aria implorante. Era ancora in vestaglia e ciabatte. Però aveva avuto il tempo di pettinarsi. Anche quello per truccarsi. Profumava di “Tempesta ormonale”. Mi aveva rimproverato perché era la terza volta in un quarto d’ora che finivo lo zucchero, ma mi era sembrata più che altro divertita. Stavolta non era uscita per andarlo a prendere. Mi aveva fatto entrare. Si era fatta seguire fino alla cucina. Mi aveva messo davanti il barattolo. Con un sorriso paziente mi aveva invitato: faccia pure. Ne ho presi tre cucchiaini. A me il caffè non piace troppo dolce.
Questa è la vita in un condominio: ci si vede sempre e non ci si conosce bene mai. Si è così vicini eppure così lontani. No! nemmeno due chiacchiere. Non avrei saputo che dirle. Giusto il tempo per mescolarlo e berlo in silenzio. E di notare che aveva messo le scarpe coi tacchi. In casa. Io non riesco a svegliami bene se prima non prendo un caffè. Lo so: è colpa mia. Solo che quando non c’è Domitilla mi sento perso. La casa diventa enorme. Le cose da ricordare e fare: troppe. Mi dimentico della spesa. Della lavatrice. Lascio scadere le cose in frigo. Per non parlare delle bollette. Non ci sono con la testa. E in quel periodo il lavoro teneva mia moglie spesso fuori. Era più in trasferta che in casa; succede tutt’ora. Mi sarei dovuto abituare anche se non era semplice da fare.
Ma il fatto che lei avesse contato quelle tre volte e il tempo intercorso mi avevano fatto sentire uno stupido. Incapace e un po’ invadente. Indelicato. Sfacciato e tutte quelle cose lì. Per non incorrere ancora in una situazione simile allora ho riempito la porta del frigorifero di post-it. Cercavo di segnarmi tutto quello che mi serviva e quello che dovevo fare. Spesso quel frigo restava ugualmente vuoto, ma cercavo di arrangiarmi da solo. Magari con una scatoletta di tonno. Per evitare di ricorrere a quella vicina. No! lo zucchero non l’ho scordato più. Tranne un paio di mattine, ma quelle poche volte il caffè l’ho preso disgustosamente amaro. E nei giorni seguenti, per circa tutto febbraio e marzo, ci si era incrociati saltuariamente in ascensore. Naturalmente non di proposito. Solo qualche saluto, osservazioni sul tempo, interesse per la salute mia e di mia moglie. Tutto in poche laconiche parole.
Poi un giorno ho sentito suonare alla porta e me la sono trovata davanti, non con la solita vestaglia ma vestita di tutto punto. Scusi, ha un pizzico di sale. Ho già la pasta sul fuoco. Prego, certo, si accomodi. Non le farò perdere troppoNon mi disturba affatto. Grazie. Le faccio strada. Non per dire ma io le cose le ricordo bene. Non ho mai scordato un compleanno. E mi piace dire le cose come stanno. Aveva il rossetto sulle labbra, quel profumo e tacchi altissimi. Lei era stata gentile e io avevo cercato di essere gentile. L’avevo lasciata passare e in cucina le avevo allungato il contenitore del sale. Ne prenda quanto ne vuole. Scusi… ma… per la pasta… quello grosso. Son cose da battersi la fronte: Scusi, che sbadato. Non lo so perché ma ci sono occasioni in cui perdo un po’ la testa. Mi ritrovo un po’ sbadato. Goffo.
Mi aveva fissato. Poi avevo capito e le avevo allungato una ciotola dove metterlo. Devo esserle sembrato proprio un cretino. Spero non abbia pensato a scortesia. Nel frattempo lei aveva provato a rompere il silenzio: Come sta sua moglie? E’ spesso fuori? Per lavoro? Dopo due mi ero sentito in dovere di spiegarle che faceva la consulente sanitaria. Questo la tiene spesso fuori? Poveretto. Non è un vero e proprio disagio per me. Non ne sono certo contento, ma dobbiamo pure campare. E quel lavoro le permette di guadagnare abbastanza bene. Spesso, anche la notte. Si sentirà solo. A volte; un poco. Intanto si era seduta. Pareva non avere più fretta. Avrei voluto ricordarglielo, ma non mi andava di essere indiscreto.
Era la prima volta che parlavamo veramente. Senza che glielo chiedessi si era messa comoda cercando di dirmi qualcosa di sé. Per conoscerci almeno un po’: Io insegno in un liceo. Bene. Faccio orario ridotto. Si vede subito una persona istruita che si sa comportare. E lei?… Io invece sono spesso a casa. Suo marito? Volato. –e fece il gesto con la mano. Mi spiace. Non deve, meglio così. Però… forseE’ come se non ci fosse mai stato. Mi scusi. Sa che ha proprio una bella casa. Tutto merito suo, di mia moglie. Deve essere una brava signora, la vedo sempre, quelle poche volte, molto elegante. ! Lei legge? Solo quando ne ho tempo. Certo che anche il pane è andato a prezzi spaventosi, per non parlare della carne. Certo, la carne. Fortuna che io sono vegetariana. Io no. Credo che una persona si riconosca anche da quello che mangia. Temo allora di poter apparire una brutta persona. E’ che da soli
La pasta ormai doveva esser scotta e mi preoccupai per la sua cena: Avevo pensato di prendermi un cane. Un cane? Sa, per la compagnia. Un cane in un condominio, Diosanto, non mi sembra una buona idea. E se n’era andata rapidamente come se qualcuno le corresse dietro. Scordandosi persino del sale che l’aveva spinta fino da me. Decisamente la pasta doveva essere stata la vera vittima di quella nostra perdita di tempo. Intanto il telegiornale era già cominciato. Accesi la tele e buttai una fettina in una padella con un filo d’olio. Non so se sarei mai capace di essere solo vegetariano. Quella sera me lo chiesi, ma non seppi rispondermi. Poi il film mi prese e mi prese anche il sonno prima di poter fare o pensare ad altro. Quando mi risvegliai spensi la luce e a fatica raggiunsi il letto. Era stato gradevole parlare con quella signora. Tranne per quella reazione sull’argomento del cane. Era una persona a modo. Piacevole. Per quei pochi istanti la vita mi era sembrata meno vuota.
Non nascondo di aver sperato che tornasse a suonare alla mia porta. Per un paio di giorni mi sentii deluso. Poi me la sono ritrovata davanti. Una sera: Spero di non essere sfacciata, ma… mi servirebbe un po’ di pepe? Ebbi la prontezza di non chiederle per cosa. Le conosco bene le donne. E Domitilla ha fatto in tempo a mettermene sull’avviso. Non aveva in mente di uscire, anche se per tutto il resto il suo aspetto era curato alla perfezione. Con indosso la solita vestaglia che avevo visto. Capelli da sembrare spettinati. Il solito rossetto. Le unghie affilate dello stesso colore. Il solito profumo. Stessi tacchi. Gli occhi penetranti. Prego, si accomodi. E… Lei; Domitilla, vero? E’ trattenuta. Anche stasera? Anche stasera. Se posso?A Bergamo. Farà molto tardi. Non può tornare; domani
Mi ero giurato che stavolta non avrei perso la parola: Lo tenga pure, ne ho un altro flacone. Lei è troppo gentile. Di nulla. Non so come sdebitarmi. Debbo ricordarmi di comprarlo: Non deve. Posso offrirle una sigaretta? Grazie, non fumo. Lei è un uomo pieno di virtù. Ehhh! Ehhh! Si è seduta. Sembra non avere nessuna fretta: Posso offrirle qualcosa? Ho già cenato; grazie. Anch’io. Il pepe sopra il tavolo. Le dita che non smettono di giocare tra loro. La televisione in salotto. Ho paura di non riuscire a mantenere la mia promessa: Allora almeno un caffè? Non si disturbi. Mi sento in dovere. Non insista. Non vorrei sembrare unoPer quello nemmenoSpero non le dispiaccia. Faceva girare l’anello attorno al dito: Non sono una che se la tira; mi scusi. Nemmeno… Sembra avere caldo: E’ sicuro che non posso… fare nulla, per lei, per sdebitarmi? CredoSicuro. Sicuro, sicuro? Beh! forseDica. Non so se posso. Coraggio. Non vorrei sembrarle sfacciato. Lasci che siaAllora, dice che posso? Dica; la prego. Come crede. Siamo tra adulti, che ci sarà?Spengo la tele e torno. Faccia.
Tra la cucina e il salotto non c’è poi tanta strada da dare il tempo di riflettere. Lei è ancora là, seduta, tranquilla: EccoDov’eravamo rimasti? E’ stata lei a darmene il permesso. Certo. Sì… insomma… la sa fare la battaglia navale. Non mi dicaLo so che nonNo, piace anche a lei. Ne vado pazza. Il suo entusiasmo è evidente. Non riesco a crederci: Io… tutti i giochi da tavolo, ma su tutti quello. E’ una vita… ne avrei proprio voglia. Anch’io. Mi facevo riguardo. Vede che non doveva. Lei non saPotremo farlo ogni volta che sua mogliePotremoE anche stando ognuno a casa propria, quando c’è. AncheNon chePazienza. Però me lo deve promettere. Cosa? Che non mi farà fare troppo tardi. Giurin giuretta. Credo che ora che ci conosciamo meglio potremo darci anche del tu. Se posso… certamente Luisa.

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donna-libroC’è un uomo nella mia vita. E un libro, non finisco mai di leggerlo che ho già voglia di ricominciare. E una cucina con il forno a microonde. E la televisione, quella via cavo. E una cagnetta di nome MiFido, che ha bisogno di mille attenzioni. E mille altre cose. Non posso dire certo di annoiarmi. Ho il mio bel da fare.
Lui si chiama Giulio, il mio compagno del momento, intendo. Non è né bello né brutto, né alto né basso, né grosso né magro, né dolce né… amaro. Insomma non so bene per cosa me ne sono innamorata, ma credo di amarlo. Quando viene a trovarmi ho l’impressione che le cose vadano meglio. Mi sento più tranquilla, serena, meno agitata. Non mi ha mai fatto scoppiare il cuore, ma mi riempie il cervello di pensieri. Poveretto, mica lo so cosa farebbe senza di me.
Non c’è mai silenzio tra noi. Abbiamo sempre molte cose da dirci. Certo che quando parla di sport io mi limito ad ascoltare. Mi assento e lo assecondo fingendo di dargli retta. In questo sono brava. Lo stesso succede quando lui parla di politica. Mi spiega, perché lui mi spiega sempre, l’importanza di avere degli ideali e il dramma della crisi delle utopie. Per le utopie non saprei che dire, per il resto mi sembrano solo formule vuote. Imbarazzate e imbarazzanti giustificazioni per chi ha bisogno di mascherare le proprie ambizioni o i propri interessi. Che ha qualcosa da vendere o guadagnare, che poi è la stessa cosa. Mi limito ad ascoltare fingendomi interessata. L’altra sera ho chiesto il suo parere sulla crisi di coppia. Mi ha risposto che non centra. E che poi non era certo il nostro caso. Su questo ha ragione.
Lui non è bravo come me. Io gli parlo di cose pratiche: della cena, della passeggiata di MiFido, cioè del cane, dell’ultima serie, di pagina trentasei, ma lui non sa mentire. La sua faccia dice tutto. E’ evidente che non mi sta ascoltando. Impugna il telecomando e gira e rigira tra i canali. Deve sempre fare la pipì. Scaraffa il vino. Va a mettersi in ciabatte. Controlla la cottura dell’arrosto, come se io non ci pensassi. Prende in mano il giornale. Mi dice che sono bella. Cerca cose che non ricorda dove le ha messe. Cose così. Le inventa tutte. Tutte senza un briciolo di convinzione. Con fare annoiato. Io so sempre in quei casi cosa fare: una buona cenetta e poi tutti a letto.
Mi piace scherzare. E anche provocarlo. Lui non è sempre pronto. Certo volte sembra un po’ ottuso. La cosa è di ieri. Gli dico per curiosità, per vedere la sua reazione: Credo di essere in ritardo. In un primo momento non capisce, come al solito, come sempre: Te lo ripeto continuamente di prepararti in tempo. Ci pensa un altro attimo: Ma mica dobbiamo uscire. Non lo sopporto quando fa così. Gli ripeto: Credo di essere in ritardo; in ritardo. E lui mi guarda esterrefatto: Dici? Ma se sono sempre stato attento. Forse ti sei distratto. Non sei stato abbastanza attento. Che poi l’unico sistema sicuro e non farlo. Per quello adottiamo anche troppo spesso questa forma di prevenzione.
Quando gli ho spiegato che stavo scherzando, prima ha tirato un sospiro di sollievo, e poi ha detto: Quasi quasi la cosa non mi dispiacerebbe affatto. Sarebbe la dimostrazione di quanto ci amiamo. Avrei voluto dirgli che poi non ci “amiamo” poi così di frequente. Tra le sere in cui è impegnato e non si fa vedere. Quelle in cui è troppo stanco. Quelle in cui c’è qualche partita. Quelle in cui comunque prende il sonno sul divano. Si e no devo avere una buona memoria per ricordare l’ultima volta del suo amore. Bene gli voglio bene, ma mica lo so se lo voglio un figlio da lui.

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sera-nel-parco-di-autunno-64739288Non si può simpatizzare con le vittime. Chi nasce vittima è destinato a essere vittima. E a rimanere, se gli va bene tale per sempre. E’ la storia chiusa dietro tante mura, dentro tanti matrimoni. In tante famiglie. E loro, le vittime, sembra quasi che te lo chiedano. Che ti implorino. E lo farebbero se solo lo sapessero. Se si riconoscessero per quello che sono. Poi leggi i giornali e ne esce tutta un’altra storia. Era una povera ragazza. Così giovane. Non se lo meritava proprio di finire così. Tutti ne sono addolorati. Costernati. La città è in preda al panico. Domenica ci saranno i funerali. Parteciperà tutta la sua classe. E altre stronzate del genere.
E l’altro è sempre il bruto. Prendiamo Lucrezia per esempio. Lucrezia… e… il cognome proprio non lo ricordo. Lei è stata un vero caso esemplare. Frequentava ancora il ginnasio, ma ce l’aveva già scritto in faccia. In quei suoi occhi melanconici; grigi. Sempre bassi. In quel piercing alla narice destra. In quel piccolo tatuaggio sopra l’ombelico. Metteva tenerezza e malinconia al solo guardarla. Sembrava un piccolo cane bagnato, un randagio.
Era buio al parco a quell’ora. Anche questo è un chiaro indizio che lei cercava me come io cercavo lei. Era seduta su quella panchina restandosene in silenzio. Tutta pelle e ossa. I capelli falciati con indifferenza. Carnagione tanto bianca da essere opalescente. Praticamente con una maglietta vuota, senza seno, nemmeno un accenno. Dei jeans che erano più buchi che stoffa. Una di quelle borsette di stoffa multicolorata, di tipo indiano, con delle piastrine dai riflessi d’argento. Infradito ai piedi. Suoni gutturali in gola.
Mi sono avvicinato mostrando cautela: “Qualcosa non va”? E lei pronta a mentire con quelle parole piene di lacrime: “No! tutto bene, grazie”. Non c’era niente di vero e non si dava la pena di sembrare credibile. Mi sono seduto vicino a lei e le ho preso la mano. Forse è stato il gesto a liberarle il pianto. “Posso fare qualcosa per te? Sono bravo ad ascoltare”. E allora era diventata un fiume. Un fiume in piena. Un fiume senza argini. Un nubifragio in cerca di consolazione. Non era qualcosa a non andare. Era tutto. Almeno a sentire lei. In casi simili non si indaga sulla verità o sulla veridicità, ci si limita al conforto.
Sono bravo ad ascoltare ma non avevo troppo tempo, e intorno c’erano solo ombre. La sua famiglia era un disastro, non la capivano. La rimproveravano. Se n’era andata. Andata con un ragazzo, naturalmente; non ricordo da quale paese. Lui aveva speso tutti i pochi soldi per prendersi la roba, poi l’aveva lasciata. Ma lei lo amava veramente. Ed era in ritardo. Non aveva avuto le sue cose. Non aveva mangiato da quella mattina. Ma tanto non riusciva a trattenere nulla nello stomaco. La abbracciai e le diedi un bacio sulla fronte. Come potrebbe fare un padre con una figlia: “Cosa posso fare? Come”?
Lei abbandonò la testa sulla mia spalla e chiuse gli occhi. Ormai singhiozzava come una fontana. Non riusciva nemmeno a proseguire nel suo racconto. La pregai di calmarsi e aspettai che lo facesse. E dopo un po’ lei lo fece. Mi chiese se avessi degli spiccioli. Misi la mano in tasca e le allungai un paio di biglietti da dieci. Lei mi ringraziò e con i soldi in mano cercò di interpretare un sorriso. Disse che ero buono, che ero gentile. Mi chiese se poteva anche lei fare qualcosa per me. Le dissi: “Forse”… e lei alzò le spalle e ingurgitò la saliva. Le cinsi la schiena, l’attirai a me, lei mi lasciava fare come se non avesse consistenza, era vuota. Cercai i suoi occhi, volevo che mi guardasse. Controllai intorno e strinsi le mani sul suo collo.
Come si può non provare anche un po’ di fastidio e insieme compassione davanti ad una persona tanto incapace a vivere? Il suo sguardo sembrava continuasse a ringraziarmi. Forse c’era solo un che di sorpresa. E ancora quella sua rassegnazione. Solo con una mano graffiò l’aria. Una mano con le unghie rosicchiate. Poi il braccio cadde inerme. Mi ripresi i due biglietti da dieci, naturalmente. Tanto a lei non sarebbero serviti più. Spinsi il corpo sull’erba e lo ricoprii di foglie: “Buon riposo, Lucrezia”. Gettai la borsetta nel primo bidone. E mi incamminai verso casa. Non avrei mai voluto che stessero in pensiero per un mio ritardo.

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2341257_fototradimentoForse si potrebbe pensare che era stata un po’ imprudente. Non lo negava. Non ci aveva pensato. Non si può mica pensare a tutto. Per filo e per segno. Lei non amava pianificare le cose. E poi in quel caso sarebbe stato comunque impossibile. Semplicemente era successo. Si erano incontrati giù, alla fermata della metro. Solite cose e poi: “Sono Marco e tu”? “Io no… cioè, Milena”. “Guarda il caso”… “Dove vai?” “Niente che non possa spettare”. “”. “Non ci si può fidare del tempo”. “Sei di fretta?” “Qualcuno ti aspetta?” Cose così.
Forse era stato più lui ad insistere. Anzi certamente. “Non dovrei”. Ed erano saliti: “Magari solo un caffè. D’accordo?”. Poi da cosa nasce cosa. Non che non ci avesse pensato, forse, ma non l’aveva fatto con intenzione. Con malignità. Tra un uomo e una donna si crea sempre quella situazione di imbarazzo e complicità. Tra loro era durata un attimo.
Entrati in casa tutto era precipitato. E’ così che da cosa nasce cosa. “Bella casa.” “Grazie!” “Prego.” “Devi andare proprio subito?” “Ci abiti da sola?” “No!” “E lui dov’è?” “Stai tranquillo, non credo tornerà.” “Sai che sei proprio bella?” Ad un complimento lei non sapeva resistere. Poi era stata come una magia. Era scoppiata la passione. Era stato all’improvviso. Essere attratti uno dall’altra era stato un baleno. Ed erano finiti a letto, per meglio dire sul divano. A cercarsi affannati.
Proprio in quel momento lui era tornato. Aveva aperto la porta e se li era trovati davanti. Troppo impegnati per fare caso ad altro. A lui. Era stato seccante. Seccante e imbarazzante. La prima cosa che le era venuta da chiedere era cosa ci facesse lì. Lì e a quell’ora. Sembrava fuori di sé. “Ma non è casa mia”? Sempre in quelle situazioni si rischia di dire cose stupide che diversamente non si sarebbero dette: “Tua? Diciamo nostra”. Avrebbe voluto che se ne andasse. Almeno un momento. Invece restava lì, come impietrito. Certo che poteva anche pensarci, ma non ci aveva pensato. Come poteva. Sapeva che si sarebbe trattenuto fuori. Almeno così aveva detto. Credeva di avere la casa tutta per sé. E lei odiava quel silenzio. Quel vuoto. E poi lui aveva detto alle otto e le otto sono le otto. Da quando il mondo è mondo. Non le sei. Sei e poco più.
Lei: “Non è come sembra”.
Lui: “E allora dimmi com’è”?
Lei: “Era una cosa innocente. Un vecchio amico. Un caffè”…
Lui: “E tu lo chiami un caffè”?
Lei: “Non ci crederai ma volevamo solo prendere un caffè”.
Lui: “E lo avete preso”?
Lei: “Non mi fare tutte queste domande”.
Lui: “Cosa dovrei dire”?
Lei: “Ma… non dovresti essere a quella riunione”.
Lui: “Abbiamo finito prima”.
Lei: “Potevi anche avvertire. E se ero fuori”?
Lui: “Che c’entra. Ho le chiavi”.
Lei: “Non è una buona risposta. Dovresti saperlo che mi fai stare in ansia”.
Lui: “E te li porti in casa”?
Lei: “Eravamo proprio qui sotto. Dove sarei dovuta andare? E non dovevi tornare prima delle otto. Torno a dirlo: cosa ci fai qui? E poi come lo dici sembra quasi”…
L’altro: “Posso dire una cosa”?
Lei: “Fai silenzio tu”.
Lui: “Parla con me”.
Lei: “Non farmi confusione”.
Lui: “Guarda che stai facendo tutto tu”.
Lei: “E’ meglio se mi rivesto”.
Lui: “Stai qui. Cosa credi di fare”?
Lei: “Io… niente. E… tu”?
Lui: “Io… io… Sei proprio una”…
Lei: “Non cominciare a”…
Lui: “Credo di avere il… Sì, insomma… di una spiegazione”.
Lei: “Non ti adirare che poi… Non c’è molto da dire. Come cercavo di dirti”…
L’altro: “Se mi permettete io”…
Lei: “Stai zitto tu che non centri”.
Lui: “Resta dove sei”.
Lei: “Non è colpa sua”.
Lui: “Certo. Se c’è una”…
Lei: “Non fare così. Non è una cosa importante. E poi… non avevamo ancora fatto”…
Lui: “Scusa se sono arrivato prima”.
Lei: “Lasciami spiegare”.
Lui: “C’è poco da dire. Due occhi ce”…
Lei: “Allora fai come vuoi”.
Lui: “Lei si… tu sistemati i pantaloni. Fuori di qui”…
L’altro: “Allora io vado”.
Lei: “Che aspetti? Non vedi”…
Lui: “Fanculo”…
Lei: “Non essere volgare”.
Lui: “Non essere”…
Lei: “Non ti permetto”…
Lui: “Avrò pure ragione di”…
Lei: “Vieni qui. Facciamo pace”?
Lui: “Potevi anche avvertirmi”.
Lei: “L’avessi saputo ti avrei fatto una sorpresa”.
Lui: “Certo che sei veramente”…
Lei: “Ti dico che non era ancora successo niente. Poveretto. Forse non dovevamo lasciarlo andare così. Non ho nemmeno il numero di telefono. Che dici? E’ colpa mia”?
Lui: “Mia no di certo. Certo che era buffo. L’hai visto? Forse dovresti chiedergli scusa. E allora… Dov’eravate rimasti”?
Lei: “Togliti i pantaloni. Dai! Ti faccio vedere”.
Lui: “Sei incredibile. Ma non ti stanchi mai”?
Lei: “Di te; mai”.
Lui: “Ti amo”.
Non avrebbe mai potuto vivere senza di lui. Ed era scoppiata la magia. Nell’impazienza. Senza nemmeno il bisogno e il tempo di raggiungere il letto. E tutto era stato meraviglioso. Lì, su quello stesso divano. Come la prima volta. Come ogni volta.

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finestra-in-legnoSe andiamo proprio a vedere non si può dire che fu colpa mia. E’ tutta colpa del destino. E’ stato il caso. Per caso passavo di là quella sera. Per caso la mia attenzione fu richiamata da quella finestra. Una villetta. Piano terra. Giardinetto sul davanti. La luce era illuminata. Non è vero che la curiosità è solo donna. Così mi sono avvicinato. Passando tra la biancheria stesa. Solo per pura curiosità. Lei si stava spogliando con le imposte aperte e le tende discostate. Senza nessuna discrezione. Era caldo. Lo faceva lentamente con gesti morbidi. Quasi se potesse essere vista e amasse essere guardata. Trattenevo il fiato e non perdevo nemmeno un fotogramma dei suoi gesti. Si tolse tutto. Uscì. Penso per andare al bagno. Tornò e si mise a letto. Sparì sotto le lenzuola. Poi ricomparve per sopportare la temperatura. Scalciò lontano quel lenzuolo e tornò nuda.
Prese un libro in mano senza aprirlo. Lo ripose e spense la luce. Pensai di andarmene. Stavo per farlo. Avevo già girato le spalle a quella casa. Guardai l’ora: era ancora così presto. Sul campanello c’era scritto Santina Allatri. La luce si accese di nuovo. Forse non riusciva a prendere sonno. Forse aspettava qualcuno. Tra tanti forse mi misi ad aspettare anch’io. Un alito di vento, solo una sottile e quasi impercettibile brezza, fece sventolare le tende. La luce era più fioca. Era quella della lampada del comodino. I suoi occhi sognanti erano persi nel soffitto. Senza nessun timore. Senza nessun sospetto. Senza nessun pudore. Si limitavano ad abbandonarsi sognanti. Era bella. Era bella così nuda. Con le gambe lunghe e il ventre piatto. Sarei rimasto a guardarla per sempre. E in seguito mi sarei beato di quella visione. Sarebbe bastata nei giorni a venire. Mi sarei limitato a continuare a ricordarla. Anche nei miei sogni. Ma, per puro caso, mi accorsi che c’era un’altra finestra aperta.
Questa era buia. Scavalcai il davanzale. Mi trovai in una piccola cucina. Certo che certe donne proprio se la cercano la loro fortuna. La finestra della camera era aperta, come ho già detto. A un piano terra. Di una casetta isolata. Lei sembrava proprio non farci caso. Non ero certo che non si fosse accorta di me. Se io sono osservato mi sento addosso quella strana sensazione di chi si sente osservato. Aveva lasciato spalancata anche la finestra della cucina. Più che un caso si sarebbe potuto pensare a un invito. Non potevo esserne certo ma era come se lei mi volesse. C’era la sua borsetta sopra una sedia. Onestamente ci frugai dentro e presi il contenuto del portafoglio. Non si sa mai, meglio essere prudenti. Frugai un po’ in giro e nei cassetti. Fu così che mi trovai in mano quel coltello. Nemmeno io saprei dire perché lo presi. Fu come se cercassi un’assicurazione, una sicurezza. Se volessi proteggermi da qualsiasi sorpresa. Dalla sfortuna. Che ne so?
Senza far rumore presi un bicchiere d’acqua. Poi mi misi a girare per quella casa sconosciuta. Non c’era molto altro da vedere. Gli abiti sull’attaccapanni in corridoio e quel tipo di disordine mi fecero pensare che vivesse da sola. Non tutti i quadri erano di mio gusto. Un paio di porte erano chiuse. La sua mi pareva potesse essere la prima a destra. Stetti ad ascoltare. Percepivo appena il suo respiro. E una sorta di affanno. Abbassai lentamente la maniglia nel più completo silenzio. Sempre lentamente scostai la porta ed entrai. Lei mi guardò sorpresa. Io cercai di sorriderle infilando il coltello in tasca. Lei disse qualcosa, forse “Finalmente”, forse “Oh! Mio Dio”. Forse da quel momento fu solo la mia fantasia a galoppare. Tutto diventa nebuloso nel ricordo. So solo che ero nudo e le tenevo una mano sulla sua bocca spalancata. I suoi occhi erano bellissimi e altrettanto spalancati. Forse mi sentii mordere il palmo della mano. Forse cercò di gridare. Il libro cadde dal comodino. La lampada si rovesciò. Ci fu un attimo di confusione. Fui preso dalla paura. La mia mano ritrovò il manico di quel coltello e la colpii. Non potrei dire quante volte, ma credo tante volte.
Dopo ritrovai la mia calma. Lei era immobile, e bellissima. Credo di essermi innamorato da subito e di averla amata amando tutta la sua bellezza. Le parlavo. Cercavo di spiegarle. Se solo mi avesse guardato con occhi diversi. Se solo non avesse cercato di gridare. Se solo non avesse provato a scacciarmi. L’amore è un mistero. Ti coglie spesso all’improvviso e sempre di sorpresa. Ero sudato ma felice. Mi rinfrescai il viso e mi ripulii dal sangue. Era stato tutto un caso. Se non fossi mai passato per quella strada non l’avrei mai conosciuta. Se la luce non fosse stata accesa probabilmente non mi sarei innamorato. Se non l’avessi vista spogliarsi con i miei occhi non l’avrei mai desiderata. Se avesse chiuso la finestra della cucina non sarei mai entrato. Sospirai il suo nome: “Santina”. Mi chiusi la porta dietro le spalle non senza averla salutata. Parve non sentirmi. Dopo averlo fatto ho sempre la pessima abitudine di accendermi una sigaretta. Devo proprio togliermi questo brutto vizio.

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