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Archive for novembre 2009

Queste parole
(povere parole)
aggrappate al mattino
avvinghiate al giorno
inseguite ogni sera
sussurrate ogni notte
queste parole
che divengono suono
che divengono sogno
che divengono respiro
che divengono bisogno
queste semplici parole
che divengono colore
che divengono segno
che divengono carta
che divengono poesia
queste parole sono
il ritmo del mio amore

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Carlo ed Anna si nascosero in un cinema. Nel buio della sala si nascosero in un abbraccio. Sullo schermo proiettavano una storia d’amore che sembrava la loro. Resistettero fino alla fine senza vederla. Appena fuori lui guardò l’orologio e faceva ancora la stessa ora; guardò lei e, anche se per un solo attimo, non si ricordò di chi era. Frugò nella mente per cercare le parole che lo togliessero dall’imbarazzo. Lei lo guadava con occhi pieni di dolcezza, come non l’avesse mai visto come quella sera. Forse gli stava in silenzio confidando una promessa. Una macchina che passava prese in pieno la pozzanghera e lo bagnò tutto. Il vento le spettinò i capelli e le rese il viso bello. Scappò in preda ad un urlo disperato scoprendo il terrore di amarla. A casa la pasta era diventata fredda nel piatto.

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Nessuno è bravo come me a raccontare storie fantastiche e affascinanti. E qual è quella donna che non è pronta a lasciarsi affascinare? Lidia dice: «Sei un gran figlio di puttana ma ti amo». E dell’argomento, parlando di puttane, beh! se fossi un signore non dovrei dirlo, ma lei è una che se ne intende; di quello e, naturalmente, di corna. Sono dell’avviso che le dia più gusto la consapevolezza del tradimento, come ad ogni donna.
La prima con lei è stata in macchina, il giorno stesso. E’ stata quasi una cosa senza seduzione. Non è servita nessuna storia. Non sapevo come difendermi dalle sue mani. In fondo crede di essere stata lei a sedurre. Almeno a decidere. Con quella sua mancanza di ritegno e di grazia; e pudore. Sarebbe stata una cosa assolutamente priva di interesse e comune non fosse, appunto, così assolutamente porca. Quale donna non lo è se sai toccare le corde giuste? Non è servita nessuna storia almeno quella prima volta. In seguito sono state utili, intendo le storie. Ora lei crede di essere eccezionalmente straordinaria, almeno nel sesso, per il resto, a parlarci, non è che si può pretendere: non si può dire una cima. E quel poco è anche confuso. Certo non ha né remore né limiti. Il nostro… rapporto vive ancora di quello, mantiene il fascino del proibito e del peccato. Si accontenta di sentirsi dire quanto è porca e che mai ho trovato nessuna come lei. Sarebbe una noia non avesse anche lei quella grande fantasia a letto e quel paio di tette da competizione. Elena non ha niente da invidiarle come porca e quelle di Armanda, come tette, intendo, sono anche meglio, che bastano loro a far sognare, ma lei, Lidia, ha le due cose assieme e non è mai sazia. E poi è perfetta quando ho la fantasia un po’ scarica perché va di fretta, non ha tempo di aspettare, passa direttamente al dunque. Si accontenta anche di una piccola bugia.
Mica come Rita, ma lei è giovane. Con lei ho dovuto inventarmi le cose più incredibili e dipingere Carlotta come una megera che mi maltratta e mi tradisce. Lei si aspetta che me ne liberi e io glielo lascio credere. Con lei è come se dovessi ricominciare ogni volta d’accapo. Lei mi dice sempre che sono un poeta e in fondo una parte di ragione ce l’ha. Spesso dice che è stanca di aspettare. Dice che sono un po’ troppo galante con Filippa, fortuna che lei, Filippa, è la sua più grande amica; ma che colpa posso avere io se quella ha allungato la mano sotto il tavolo. Nemmeno il tempo di arrivare a finire l’antipasto. Fortuna non se n’è accorta. Crede ancora, povera piccola, che l’amore sia quella bella cosa di cui vanno raccontando e che le racconto. Non fosse di quelle donne che hanno bisogno di crederci dovrei sentirmi una vera carogna. Credo che per lei credere faccia parte del gioco. Diversamente forse aspetterebbe ancora la sua prima volta. Così mi parla di fiori d’arancio con gli occhi che si perdono nel sogno e quando fa all’amore quegli occhi sono sempre abbassati, le guancie arrossate e si mette vergogna ad ogni cosa; e meraviglia. Fosse per lei lo faremmo solo a luci spente. Solo quelle volte che eravamo fuori mica potevo spegnere il sole o che ne so? il riflesso dei colori del grande schermo. Alla fine è ragionevole, le basta quella giustificazione, e vuole sentirsi dire continuamente Ti amo.
E io che mi credevo che fossero finiti i tempi per il romanticismo anche per le donne. Nemmeno Teresa mi fa mancare niente. E a lei quella frase darebbe anzi fastidio. Vuole sia chiaro che il nostro è solo sesso. Non sa che io so che non disdegna nemmeno le donne. Questo mi da un gusto con non provo con le altre. Mi lascio andare alle fantasia. Sarebbe un’amante perfetta se non pretendesse che fossi pronto in ogni occasione che lei riesce a liberarsi. E lei è esigente e lui è spesso fuori, con il lavoro che fa. A volte ne devo inventare veramente delle belle, ma a volte proprio non posso. Dovrebbe capirlo anche lei che non può chiamare e pensare che sia già là. Certo che crede che sia ancora completamente libero da qualsiasi impegno. Con Ambra invece ho dovuto usare l’avventura; questo mi è successo spesso. Farmi persona intrigata e interessante. Crede che le mie assenze dipendano dal fatto che mi occupo di pozzi di petrolio. Paesi dove anche il più piccolo gesto è pericolo e intrigo imprevisto. L’ansia rende i nostri radi incontri ancora più appassionati; quasi disperati. E’ come cercare di domare un cavallo impazzito. E’ con Giovanna che ho un po’ esagerato. L’ho guardata dentro gl’occhi e non ho potuto fare diversamente. E’ stato come se lo chiedesse e quello fosse l’unico mezzo. Mi crede un noto e avventuroso archeologo. E ha visto tutti i film di Indiana. Nemmeno se lo mette il sospetto che indagare reperti non sia quello che mostrano quei film. A volte mi riesce fatica a soddisfare le sue curiosità. Non fa che chiedere il seguito della puntata precedente.
L’importante, in casi come il mio, è la memoria. Mica ci si può sbagliare. Non si può confondere la storia raccontata ad una donna con quella ad un’altra. Sarebbe terribile, e terribile è stato l’unica volta che m’è successo. E’ stato con Ezia, come potrei dimenticarlo. Quella sera non mi ha lasciato nemmeno il tempo di metterle le mani addosso. Non sarebbe finita com’è finita. Lei non sa che arrendersi quando le sente, le mie mani. E’ stata una scenata durante la cena, in un ristorante. La ricordo come ora. Tutti a guardarci. S’è alzata indignata e la cena è andata, naturalmente, a scatafascio. E con la cena anche il dopo cena. Ho cercato di seguirla, un improbabile recupero in estremis. In quel caso la fantasia non mi è bastata. “Per chi mi avevi presa?” mi ha detto. E per chi dovevo prenderla se non per quello che era. Mica aveva fatto tanto la difficile. E poi gliel’avevo detto che non amo quelle gelose. Certo che a volte sei costretto a fare delle eccezioni. Ma chi non sa non ha nulla da temere. Lei invece non ne ha più voluto sapere. E quel saluto d’addio è stato alquanto volgare. S’è alzata e s’è alzata la gonna “scordatela”. E mi è servito da lezione.
Carlotta, mia moglie, che appropriato e disgustoso nome da moglie, santa donna, ha una pazienza straordinaria per aspettare; la pazienza della moglie fedele. Certo che spesso va da Marilena e qualche volta si ferma e questo le rende meno dure quelle ore. Per conto mio ormai, con Marilena, ho chiuso e son contento che vada da lei piuttosto che si impigrisca davanti alla televisione. Che magari gli possono venire strane idee. Che quando una donna si mette in testa qualcosa poi è quasi impossibile toglierla. Dice sempre «Non so se ne vale la pena; lavorare tanto, intendo.» ma lei non sa, naturalmente.

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Come lupi affamati
e non c’è notte
e non cantano alla luna
ma come lupi affamati
in silenzio bava alla bocca
occhi che scrutano
parole che tagliano
e cullano rancori perduti
dal mondo che non c’è
dalla memoria appartata,
e questo tradisce,
perché lupi affamati
pietra nel cuore
in cerca della carne
in cerca del sangue
in ricerca sempre
con una fame eterna
da uomini che non sanno dimenticare.

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Fosse il più bel cielo del mondo,
sfarinato di stelle,
vorrei donartelo e fossi tu a darmi
la meraviglia di raccontarmelo
e vorrei darti la carezza che non ho
e che non hai ritrovato;
occhi grandi a guardarlo, quel cielo
e sperare farsi notte
come se gli occhi solo così sorridessero
immaginando il sogno ma
il sole è troppo forte per questa pelle
e le mani troppo ruvide di calli
e non so esser gentile come vorrei
per tradire la dolcezza che nascondo
come se di dolcezza si potesse provar vergogna.

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Lo aveva amato con talmente tanto convincimento e violenza che aveva provato rimorso ogni qualvolta l’aveva tradito. A volte avrebbe voluto non farlo e poi aveva maledetto l’occasione, ma solo dopo. Era sempre stato troppo faticoso pensare le cose già prima di farle. Era rimasta sconcertata scoprendo che, ora che non lo amava più, lui non era più lui ed era cambiato. Avrebbe voluto fargli del male e sapeva di fargliene anche senza deciderlo. Pian piano lui aveva accettato di essere posto in un angolo, di ricevere solo niente delle sue attenzioni. Di vederla distratta mentre le parlava. E non aveva fatto nulla per opporvisi. Come se anche lui se ne fosse convinto che la china era ineluttabile. Per un po’ a lei quella rabbia che scaricava con furore le bastò. Poi pian piano cominciò a sembrarle che nulla fosse diverso; tanto lentamente da non potersene accorgere. Andare con un altro non la lusingava più, anche per quello si decise, finalmente, a dirglielo: “E’ proprio finita.” –una volta per tutte. Lui si sentì perduto e le disse di capire ma non avrebbe potuto capire mai. E a lei tutti quei ricordi la facevano, ora, sentire come sporca. C’erano occhi che cominciavano a pesarle addosso.

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E sopra il cielo era il più bel cielo
pieno di notte, limpido, sereno e complicato
gonfio di stelle come se non ne avesse bastanti
così gettate lì su tutto e alla rinfusa
tanto che le luci luccicavano a sconfinare
una con l’altra a ingarbugliare il lucore
e poi vezzose a riflettersi del mare palpitanti
e, stringendola, a mancarsi il respiro
perché di parole non si può esser parco
ma tutte mancavano a rimestare
o non trovavano voce; confuso
e davanti solo spazio e ancora spazio
e quello tra le braccia in cui annegare

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Un concerto. Si va (non è poi cosi lunga la notte). Mica puoi sempre star lì ad aspettare che il tempo ti lasci la polvere sulle spalle. E’ il primo assieme. Alla nostra età. Non lo è certo per me. Non lo è per Lei. Non che ne abbia visti molti. Cioè non moltissimi. Almeno non quanti avrei voluto. Nella musica mi sento bene. Qualcosa ti unisce agli altri quando si ascolta assieme; quando ti accarezza tutta la pelle. Non riesco a stare fermo. Insomma non è certo il primo ma il primo assieme. Ma in fondo, da quando ci siamo ritrovati, abbiamo avuto una serie infinita di prime volte. E poi è inutile dire facciamo, basta fare. Mica posso accettare che allora si era, Lei, troppo giovani e che oggi si sia, Lei, troppo vecchi. Io mica mi vedo. Certo un po’ mi sento. Qualche acciacco. E allora avventura; il viaggio (questo ha deciso la scelta del brano). In più ho un amore per i Modena. E sono stati un sogno inseguito a lungo. Poi non sono mai riuscito a farli venire, ma questa è un’altra storia. Così uno strano prurito mi attraversa come una corrente sottile. Non è una vera e propria ansia ma qualcosa che gli assomiglia. Anche il posto è nuovo, almeno per me: Fucina Controvento (Marghera, VE) via Colombara 123. Io ho anche abitato a Marghera, un secolo fa. Ne porto poca memoria. Allora non c’era nemmeno il C.S.O. Rivolta; figuriamoci. Forse, anzi certamente, scendiamo almeno un paio di fermate prima. Questo paesaggio allucinato, unico al mondo, è pressoché deserto. Il grande Moloch fa ancora paura e incute timore: acciaio e cemento. Lingue di fuoco che non si spengono mai. Aria irrespirabile. Abbiamo organizzato un convegno sui morti della chimica; della Montedison. Nessuno a cui chiedere. Due puttane dell’est, o di quello che era l’est, spettinate dal passaggio delle poche vetture. Qualche camion (che ci fanno, anche loro, in giro a quest’ora?). Una si avvicina. E’ lei a chiedere: “Ce l’hai una sigaretta”? Gliela offro, e una anche per l’amica. Poi un’autista sul suo bus. Conosce una via Colombara ma in altro comune, alquanto distante da qui. Quando finalmente la troviamo, dopo vari giri e qualche sigaretta, mi rendo conto che arriviamo dalla parte opposta delle indicazioni approssimative che avevamo ricavato dal sito della Fucina. Ecco perché non vedevo il movimento che mi sarei aspettato. Ma in fondo non ci eravamo persi d’animo nemmeno un attimo. Faceva tutto parte della serata e dell’avventura. Della piccola avventura. Ci saremmo divertiti certamente meno. Il posto è un posto come quelli che ho amato e amo: uno spazio splendido per fare musica e stare assieme. I giovani, ma non solo giovani, sono quei giovani. Vestiti e forse pensieri colorati.
Non ci sono solo i Modena ma anche il “Collettivo musicale MOKA DA TRE”. Ho degli amici tra loro. A quel tempo non li conoscevo per come suonavano ma per come bevevano. Ma io… chi non ha peccato, eccetera. Non faccio a tempo ad avvicinarmi che mi viene incontro Marco (cantante) sorpreso di rivedermi dopo tanto tempo. Naturalmente l’abbraccio è spontaneo e caloroso. Qualcuna ne abbiamo vista assieme. Subito, come se ci si sentisse a distanza, arriva Michele (basso). Faccio ammenda in silenzio ma fatico a ricordarne il nome. Mi spiega che se li avessi chiamati sarebbero venuti a prenderci (ho ancora il suo numero sul cellulare). Mi spiega che non si può interrompere la notte e che suoneranno subito. Naturalmente la tessera ARCI, fresca fresca, l’ho scordata a casa. Mi credono. Entro perché ho una vivace curiosità di sentirli. Il Pera (chitarrista) mi saluta dal palco. Suona come dio comanda e io lo conoscevo non solo per le bevute ma anche perché, per un lungo periodo, il vino ce lo portava lui. E’ stato infatti il barista al Baracca & Burattini. Uno di quelli che con me ha pianto per la chiusura. Dita veloci e, ora, capelli lunghi e barba. Se me lo fossi chiesto avrei creduto di incontrarne di più di amici ma il tempo è passato. Ci siamo divisi e persi. Magari qualcuno non sono riuscito a riconoscerlo. Il tempo ci ha cambiati. Forse la maggioranza in sala è già un’altra generazione. Il posto è entusiasmante come le note che lo attraversano. Poi vedo anche altri amici. Amici di altre avventure. Non molto più giovani di noi. E il “Collettivo” attacca a suonare ed è trascinante. Suonano, cantano, bevono e parlano: dialogano con il pubblico; il loro pubblico. Trascinano. Cazzo se ci sanno fare! A questo punto i Modena potrebbero anche aspettare. Sento che è una di quelle notti magiche. Sarebbe un delitto farla finire prima del mattino. Un delitto di lesa maestà. Ma la sua maestà al mio fianco, Lei, non può essere lesa. Insomma non posso non tenerne conto. Sarà solo concerto. Poi ce ne andremo buoni buoni. Io mi conosco. Se mi lascio prendere la mano, se mi fermo un attimo, poi quell’attimo finisce solo con l’alba, se basta. Finisce che ci ritroviamo a mangiare e bere, a riempire la notte di entusiasmi e ricordi. E io non sono per i nostalgismi. E’ per quello che quando finiscono (peccato) mi metto buono ad ascoltare i Modena che cominciano sul palco grande, ed è già mezzanotte. Mezzanotte e si comincia. Buono per quanto riesco a stare io con la musica. Non posso esimermi di sentirla anche con il corpo. Non posso rinunciare ad unirmi almeno al coro per, in ordine sparso, “Quarant’anni”, e per “Contessa” e per “Fischia il vento”. “Macondo” non la fanno. Inutile aggiungere niente sui Modena, i Modena sono i Modena. E’ qui il mondo che vorrei. Dentro nemmeno si fuma. Accipicchia (si fa per dire) com’è cambiato questo mondo. Se mi allontano di un palmo continuo a cercarla con gli occhi. Che storia è la nostra storia. Che fantastica storia è la vita. Proprio come un film. Finché un altro mondo non è ancora possibile lagniamoci almeno di questa merda. Merda nel senso di mondo di merda; protestiamo. Come si può stare zitti. E questa musica è quello che ci vuole. Come dice lei «Evviva i Moka e i Modena!» Grazie ragazzi. E scusate se non mi sono fermato a salutarvi. Poi sarebbe stato difficile lasciarci.
I ragazzi, i miei ragazzi, non mi hanno dimenticato. Cioè miei… insomma allora abbiamo trovato l’amicizia, senza guardare in faccia la differenza di età. Nemmeno se ne accorgevano. Lei è attenta alle differenze. I ragazzi sono solo ragazzi, come ragazzi siamo stati noi, io e lei, noi ragazzi del ’68, assieme. E ancora insieme. La sinistra non vuole morire e non può morire. Se ne scordano perché è difficile continuare a sognare e a sperare, in tempi come questi. Non solo perché la merce c’è entrata nei polmoni. E non è nemmeno questione di coerenza. Certo che un passaggio lo potevo anche trovare. Addirittura sarebbe stato facile: Roberto, che non credevo proprio di incontrare in un posto simile, e che è amico più recente, senza avventure, doveva andare proprio a Venezia per accompagnare la sua accompagnatrice. O avrei potuto chiedere a Giorgio. Certo potevo aspettare loro, i vecchi amici ritrovati. Io e lei abbiamo preferito chiamare un taxi. Andarcene in sordina. Ci saranno altre occasioni. Bisogna imparare ad avere rispetto anche di noi, e delle nostre età. Insomma ci siamo imposti di tornarcene tranquilli ed andarcene a letto. Dentro restava un “carico da undici” di adrenalina e una gran voglia di raccontarla. Una piccola correzione sulla mia compagna: «Per carità, mica ci spaventava cercare la “Fucina” in mezzo alla più spaventosa zona industriale del pianeta». Certo tornare è stato più facile. Ma forse no. Forse è stato più faticoso. E’ stato come tornare da un passato che sembrava più bello e ci vedeva più belli. Da un passato in cui le speranze non erano ancora rimpianti. Non pensare all’età. Se si va a Berlino mi porto la cazzuola, voglio ritirare su quel fottuto muro. Certo che la notte un po’ di appetito me l’ha messo addosso. Cazzo! come mi sono dilungato e come sto diventando “passatista” e nostalgico. Ancora grazie agli amici della MOKA.

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RosannaSo che non sei
e che non sarai
ma guardo là
con la speranza
e frugo di vederti
come se fosse,
con uguale apprensione,
giorno per giorno
alla stessa ora del giorno
come ad un appuntamento
e l’attesa guarisce
e la delusione distrugge
ma so che tutto può tornare
e di un sorriso mi sorride il cuore.

Il viaggiatore sbadato mi guarda e non sa,
sgrana gli occhi e continua a tacere
ma il suo sguardo mi segue, è curioso
e si indaga in cuore in cerca di niente
mentre mi rifugio nell’altra parte del me.

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raccontiEd eccolo il novembre. Hai un bel dire che è come gli altri, che un mese è solo un mese. E nemmeno perché è sempre, ogni anno, il mese dei morti. Quando ci si scotta. Si sentiva nervoso senza una ragione. E se non c’è una ragione è inutile chiedersi perché. Cerchi magari semplicemente di rincuorarti intorno. La giornata è mite; capita. Con un bel cielo terso, e il sole. Le foglie aggrappate ai rami hanno tutti i colori; i rossi, i gialli, etc.; forse solo il verde si fa più opaco. Sono colori splendidi. Il freddo non è poi troppo freddo. Ma non poteva che farsene una colpa. E questo non gli bastava, lo faceva anzi sempre più amareggiato. Lo sapeva da sé che la vita scorre. Non fosse che è novembre.
Ormai era come un appuntamento. Ma poi i “perché?” uno se li chiede. Siamo solo uomini, e pure maschi. Era più alto? No! Più bello? Boh! Direi proprio ancora un no! Caz… cavolo, un difetto alla vista. Più intelligente? Direi proprio nuovamente: negativo. Più ricco? E di cosa? Forse di arroganza. Certo guardava gli altri. Quello che era era troppo e mai abbastanza. Di questo sono fatti gli uomini, a volte. Almeno quelli come lui. Non aveva arte ne parte (si dice così) e non sarebbe diventato altro che niente. Ma non ditelo a lui. E allora cosa? Ce l’aveva forse più lungo? Le voci di corridoio danno per certo anche qui una risposta più che negativa; penosa. Povero piccolo. Inutile fare dell’ironia. Certo che questo o controlli, e non era il tipo, o prima mica lo puoi sapere. Forse aveva scommesso sul cavallo sbagliato. Forse era il cavallo della contrada del bruco. Si ha un bel dire ma Ernesto non riusciva a darsene pace. Non era bastato tutto quel tempo a farlo dimenticare. A riempire il vuoto lasciato da lei. Nel tempo, anzi, gli era cresciuta la rabbia. Faceva tutto distrattamente, senza interesse alcuno. I piatti erano rimasti nel lavello. Beh! non erano certo gli stessi, quelli di quella sera, erano altri. Ma i piatti restavano sempre nel lavello. Avrebbe dovuto tornare a prendersi cura della casa. E non aveva più ritrovato la voglia di accettare la sfida. La vita scorreva piatta. Non aveva capito. Si era solo rassegnato. Usciva dal lavoro senza voglia di rientrare. Lo aspettava solo un bicchiere e tutte quelle parole dette solo a se stesso. Sarebbe mai passata? Ma poi quale novembre?

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