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Archive for ottobre 2014

Mi sono versata un bicchiere di buon chianti e l’ho mandato giù tutto di un sorso. Di storie come la mia ce ne sono tante, fin troppe. E non sono cose da raccontare. E non nego che ci sia stata anche un poca di colpa da parte mia. Mi ero fasciata la testa di storie piene di sentimenti e credevo ancora alle favole. Alle favole non credo più ma quel senso di colpa è rimasto. Credo non andrà mai via. Ma forse è troppo anche ricordare.
Noi donne sappiamo vivere anche di noi stesse, e da sole. Non abbiamo bisogno di nessuno al nostro fianco. Io non ne ho bisogno. L’ho imparato col tempo. Tutto è cominciato quell’aprile. Eravamo tra amici al bar e lui s’è avvicinato. Un ciao ragazzi! S’è presentato e poi s’è messo a parlare con me. Era un po’ più vecchio di noi, ma non era grave. La volta dopo mi ha aspettata davanti a casa e siamo andati a prendere qualcosa. Mi sembrava bello come un dio. Lo guardavo e lo ascoltavo. Ha pronunciato il mio nome con una delicatezza che non l’avevo sentito dire da nessuno: “Giorgia”. Sì! Giorgia, proprio come quella della canzone. Ed era pieno di attenzioni e premure. Non è che ne capissi molto ma mi sembrava proprio galante. Diventare amici e poi fidanzatini è stato un attimo; naturale. Credo di essermene innamorata subito. Al primo bacio.
Ero così giovane allora, anche se non si è mai abbastanza giovani per sognare, e non si è mai pronti per vivere e capire. E lui era così deciso, così sicuro di sé. Le sue mani su di me erano una sensazione unica. Al solo sfiorarmi mi mandava in paradiso. Non c’è voluto molto. Donna lo sono diventata dopo, e con lui. E’ stato tutto così veloce, all’improvviso; anche troppo veloce. Ero così affascinata. Non avrei mai saputo dirgli di no. E così mi ha convinto a salire a vedere casa sua. Ero nuda prima ancora di togliermi i vestiti; e mi sono vestita solo di me stessa. Ho provato un grande orgoglio. Mi sembrava il massimo essere la sua donna. Toccavo il cielo senza nemmeno alzare quel dito. Non c’era stato nessuno prima, niente di importante, intendo, e pensavo: Non ci sarà nessuno dopo. Non sapevo quanto avevo ragione.
Tutto sembrava una favola. Quando mi ha chiesto di sposarlo gli ho detto subito “”! Poi c’è stato quel piccolo contrattempo: uno schiaffo. Sembrava una cosa da poco. E non da lui. Era nervoso quella sera. Forse per quella nostra promessa. Mi ha chiesto subito “scusa!” tutto pentito. Sembrava pronto a piangere. Mi son detta “Cose che capitano”. Una discussione che è andata oltre. Un semplice litigio tra innamorati. Non ero mai stata innamorata veramente. Ad un certo punto del litigio aveva perso le staffe e mi ha chiesto: “Perché ti guardava così”? Volevo dirgli tante cose, che non potevo essere nella testa di quello, alla fine gli ho chiesto solo “Scusa”. Passata la tempesta mi ha coccolata tra le sue braccia. Ho dimenticato tutto in un attimo. Mi ha assicurato che non sarebbe successo più e io gli ho creduto. Alla fine mi ha anche chiesto di aiutarlo: “Anche tu, però, dovresti cercare di non contraddirmi sempre, di non farmi uscire così dai gangheri che pare ti diverta”. Cosa potevo fare se non perdonarlo?
Pioveva a dirotto quel giorno, un’acqua come non avevo mai visto. Ero tutta zuppa. Mi vedevo bella come non lo sarei mai stata. E poi dicono “Sposa bagnata, sposa fortunata”. Aveva controllato lui le liste degli invitati. Non aveva voluto i miei amici. Aveva detto che una donna deve sapersi lasciare dietro il passato. Che per noi semplicemente iniziava una nuova vita. Mi dispiaceva soprattutto per Enrico, è sempre stato così caro. E per Cristina, non avevo mai avuto un’amica come lei. E la sera stessa siamo partiti per la Costa azzurra.
Scusatemi ma ha parlarne mi sento ancora confusa. Così non l’ho mai fatto con nessuno. Spero di non doverlo rifare. La prima notte me l’ero immaginata diversa. E anche tutto quello che chiamano luna di miele. Di miele ne era rimasto subito poco. Non capivo perché ma sembrava lo avessimo lasciato a casa. Ce lo fossimo dimenticati nel fare le valigie. Non che il posto non fosse bello, e anche dell’albergo non potevamo lamentarci. Aveva scelto e deciso tutto lui. Aveva detto “Una sorpresa per il mio grande amore”. Invece sembrava che tutto lo annoiasse. Era diventato taciturno e silenzioso. Giravamo quasi come due estranei. E non mi piaceva come lo diceva: “Spogliati che adesso devi fare il tuo dovere di moglie”. Dov’era finita quella sua iniziale gentilezza, quando le parole sembravano tutte di zucchero? Quando sembrava mi dovesse chiedere permesso anche per un semplice bacio? E diceva che ero il suo piccioncino? Lo vedevo preoccupato. Mi rimproverava per il minimo nonnulla. E guardava malamente tutti quelli che mi guardavano. Non mi sapevo comportare. Non ero mai coperta abbastanza. Non ero mai abbastanza seria; ridevo troppo e per troppo poco. Insomma non ero mai alla sua altezza e all’altezza del mio compito. Eppure ci mettevo tutta la mia attenzione e buona volontà. Qualsiasi cosa sbagliavo.
Prima di lui il vino proprio non mi piaceva. La nostra casetta era proprio un incanto. Piccola e facile da tenere in ordine, ma il sogno è durato poco. Lui non poteva capire la fatica che facevo perché tutto fosse a posto. Lui era un uomo, gli bastava tornare a casa alla sera e trovarmi ad aspettarlo. Certo non potevo tardare. Ho Lasciato il canto perché era un’attività troppo frivola per una donna maritata. Per lui ero solo un’incapace. E son cominciate le botte. Mettevo sempre troppo sale o troppo poco sale. Non era mai in ordine abbastanza. Controllava ossessivamente ogni granellino di polvere. Ma lui aveva sempre una sua soluzione per tutto. E subito ha cominciato ha cercare di convincermi di lasciare anche l’impiego. Inizialmente con le buone: “Una brava moglie deve pensare solo alla casa”. Io ho cercato di resistere per quanto ho potuto. Ha cominciato a venirmi ad aspettare al lavoro e poi a capitarmi in ufficio. Non sapevo più come giustificarlo. E non sapevo più come nascondere i segni dei suoi scatti d’ira. Mi ha detto: “Sei una cretica. Una moglie deve ascoltare il marito”. Ha cominciato a spiegarmi come dovevo tenere la casa. Quali erano i miei veri compiti. Come mi dovevo comportare: “Non devi sorridere a tutti così; vuoi capire che sei mia moglie”. Volevo dirgli tante cose, che non era colpa mia, che “non posso essere nella testa degli altri”. Alla fine ho dovuto lasciare il lavoro ed è stato allora che ho cominciato a bere. Ma le cose hanno continuato ad andare di male in peggio. Tornava stanco e nervoso. E quando era nervoso volavano sberle, pugni e calci. Il mattino dopo si scusava sempre e mi chiedeva perdono, ma sempre meno e con meno convinzione. Era tutta colpa mia, perché non lo ascoltavo, non capivo e non mi sapevo comportare, non mi impegnavo e leggevo quei stupidi libri che mi rintronavano la testa; e io mi rifugiavo sempre più nel vino.
Quando felice gli ho detto che stavo aspettando l’ha presa male. Ero tutta contenta perché speravo che almeno quello ci avrebbe aiutati a stare meglio. Che avrebbe potuto migliorare le cose. Mi ha detto subito che non lo voleva. Le sue parole sono state terribili tanto che non le voglio raccontare. Ormai non vedevo più nemmeno la mia famiglia. Ero completamente sola. Volevo tenerlo lo stesso. Contro il suo parere e quello di tutti. Non ho abortito. L’ho perso quando mi ha fatto cadere già dalle scale. All’ospedale è risultato un aborto spontaneo. Ho pianto per giorni e settimane. Mi ha detto che non mi capiva. Che ero una stupida. Un’illusa. Che nella nostra vita non c’era spazio per nessuno. Per nessuno tranne che per noi. Tanto meno per il mio moccioso. Perché lui aveva me e me avevo lui. Perché eravamo tutto e ci bastavamo. Perché aveva il lavoro. E tutti i suoi pensieri. Io non potevo capire ed ero solo superficiale. Una sciocca donnetta. Che pensavo solo a me. Che avrei capito con il tempo. Mi promise che saremmo andati in vacanza, e che mi sarei scordata di tutto. Compresa quella follia. Quel giorno bevvi fino allo sfinimento. Non riuscivo più ad alzarmi dal letto. Non facevo che vomitare. Da allora mi costrinse a prendere la pillola. Saltai di proposito vari giorni, ma ormai non mi toccava più, tranne che per punirmi. Per picchiarmi.
Avevo i suoi occhi sempre addosso, anche quando lui non c’era. Diceva cosa leggevo a fare se poi non le capivo le cose, le cose importanti. Era in grado da solo di spiegarmi cos’era bene per me. Questo ripeteva in continuazione. Ormai gli amici di un tempo non li vedevo più, e persino Cristina mi evitava, e io evitavo lei. Eravamo amiche da sempre, non volevo farle vedere i miei occhi che si intristivano. Non volevo far triste anche lei. E lei non sapeva più cosa dirmi, come consolarmi. Mi aveva detto “Lascialo”. Non l’avevo ascoltata. Dopo era tardi; non aveva più un consiglio da darmi. Al mio primo ricovero venne a trovarmi in ospedale. Mancavano le parole tra noi. Non sopportavo la pena nei suoi occhi. Ho cercato di spiegarle che non potevo denunciare mio marito. E lui a casa ormai controllava tutto. Mi dava i soldi per le piccole spese al mattino e mi dovevano bastare per tutto il giorno. In quella sorta di questua era compreso il mangiare. Era diventato attento anche al centesimo. Diceva che in ogni casa bisognerebbe evitare gli sprechi. Quante volte mi ha detto “Sei già ubriaca a quest’ora”? Era l’unico modo che mi restava di scappare, di nascondermi da lui e da me stessa. Ma lui segnava il livello sulle bottiglie. Le prime volte era un dramma. Ed erano botte; naturalmente. Poi ho imparato e di nascosto prendevo quello nei cartoni e lo nascondevo. Certo non è molto buono ma il prezzo basso mi permetteva di acquistarlo con gli spiccioli che riuscivo a racimolare senza che se ne accorgesse.
Non ero mai stata brava ad oppormi e a controbattere. Forse ero nata vittima; non potevo difendermi. Se solo in una camicia trovava anche solo una piegolina me le spiegava tutte e le dovevo ristirare dalla prima all’ultima. Quando ho creduto di non poterne più mi sono decisa. Ero uscita dall’ennesima visita all’ospedale e quella volta me l’ero vista proprio brutta. Mi sentivo una cretina e nemmeno io avrei creduto alle balle che mi dovevo inventare. Per quanto ubriaca non erano credibile tutte quelle mie distrazioni e quelle cadute. Quando mi hanno dimessa avevo il polso ingessato e naturalmente dovevo nascondere gli occhi dietro ad occhiali scuri. Non gli ho detto nulla e mi sono allontanata in silenzio; senza avvertirlo ne dirgli niente. Aveva una riunione di lavoro. Ormai se andava ad una festa ci andava da solo. Diceva che si vergognava di me. Mi chiudeva in casa. Sono andata alla «Casa della donna» e loro mi hanno aiutata e nascosta. Sono stati i primi momenti belli dopo tanto tempo. Mi ero quasi ristabilita. Mi ha trovata. Ha detto che l’unico posto di una donna è in casa con il marito. Mi ha riportata indietro, con varie fratture ed ecchimosi, trascinandomi per i capelli. Quella volta mi ha spiegato che non mi sarei mai liberata di lui: “Meglio morta”. Nell’odio dei suoi occhi furenti ho letto che parlava sul serio. Mi sono nascosta e mi sono scolata un cartone tutto d’un fiato.
Ripeto che non sono cose da raccontare. Mi controllava anche le telefonate. Ero prigioniera di un incubo. Ma durante l’ultima visita Irene mi aveva detto che la prossima volta sarebbe stata l’ultima volta che mi avrebbe picchiato. E io gli ho creduto. E ho continuato a pensare a quelle sue parole; a sperare, non le potevo dimenticare un attimo. Era una gran brava donna quella donna. Brava e decisa, che sapeva il fatto suo. La pace è durata un paio di settimane, forse meno. E quella sera forse aveva ragione, ero ubriaca. E forse la pasta era veramente scotta. Ha buttato il piatto per terra rompendolo. Mi ha detto “Mi fai schifo”. Mi ha lanciato un bicchiere di vino sul viso. E tutto è cominciato con uno spintone. Poi le cose sono naturalmente trascese. Quella volte credevo che mi avrebbe ammazzato sul serio. Eppure mentre mi picchiava selvaggiamente pensavo all’assicurazione di Irene. Lo sfidavo. Avevo tanta paura e allo stesso tempo speravo che presto sarebbe tutto finito. Vedevo il mio stesso sangue e sognavo che sarebbe stato l’ultimo. Non so cosa mi dette la forza. Ci avevo già provato ma lui mi aveva salvata in tempo, era finita con una lavanda gastrica. Ero decisa: o mi avrebbe ammazzata o non avrebbe più alzato quelle mani contro di me. Alla fine è stato costretto a chiamare l’ambulanza anche se continuava a ripetermi che “Non è niente”.
In ospedale è passato a visitarmi anche l’avvocato della «Casa». L’ho ringraziato e gli ho detto che non avevo bisogno. Che se proprio voleva rendersi utile mi poteva portare una bottiglia di vino. Ma Irene non è venuta. Di lei non avevo più avuto notizie ma in cuore sapevo che di lei mi potevo fidare. Quando si è presentato il maresciallo ero ancora immobile a letto, con il braccio fasciato e la gamba in trazione. La commozione celebrale era stata scongiurata. Mi sentivo anche un grande mal di testa e mi girava ancora tutto. Non dovevo essere molto presentabile, anzi ero proprio uno straccio. Ho faticato a fargli un sorriso quando è entrato, mi doleva anche quello, ogni muscolo. Era serio e molto preso dall’incombenza e dal suo ruolo. Era venuto a comunicarmi che purtroppo il mio povero marito era stato vittima di una presunta rapina, da quello che dicevano i primi rilievi, la notte precedente. Che purtroppo non c’era più nulla da fare, era stato ricoverato già morto. Diciassette coltellate inflitte con rabbia inaudita. Pare che l’autore poi avesse sputato sul cadavere ancora agonizzante e lo avesse, come si dice? evirato; credo sia questo il termine giusto. Non riuscii a mostrarmi credibilmente addolorata. Avevo troppo male per pensare anche a quello di altri. Per fare la vedova afflitta in modo credibile. Quando l’uomo uscì tirai un sospiro di sollievo. Era finalmente finita. Chi? Ma era veramente finita? Stentavo a crederci. Erano stati tredici anni di completo inferno.
Appena a casa la casa era vuota e silenziosa. Non sembrava più nemmeno la nostra casa. Mi sono versata un altro bicchiere di buon chianti e ho mandato giù anche questo tutto di un sorso. Ormai avevo tutto il tempo per pensare e liberarmi di tutto quello che mi ricordava lui. Avrei dovuto anche trovarmi un lavoro. La mia vita era cambiata. Ora lui non c’è più ma nelle vene mi sono rimasti amarezza e vino. E’ il modo in cui mi nascondo ed è l’unico modo che ho di dimenticare. Di lui mi hanno liberata ma io del vino non mi potrò più liberare. E’ l’unica cosa che mi è rimasta di lui.

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Eravamo in tanti, tanti a S. Giovanni Lupatoto. Eravamo tutti. C’era anche chi non c’era. Ne sono certo. Anche chi non poteva esserci. E c’era amore.
Era settembre, era ottobre, era oggi, era domani, era ogni giorno, era sempre. Sempre così bello. Sempre così difficile. Con un sorriso, e le lacrime a gonfiare gli occhi. E col sole negli occhi –gli occhi non sanno mentire– e ancora speranza nel futuro. Anche quando ti sembra di stringere solo sabbia in quel pugno. O soltanto vento. O ti nascondi in un silenzio. Non è mai tempo solo di dormire. Quel sonno. Vorrei e non vorrei. Vorrei essere là. Essere con te. Così come sei qui, con me. E pagare il prezzo, un prezzo alto, il prezzo di tutti, per essere. E per conoscere. Perché la vita ha ancora speranza. E ha fame: fame di giustizia. E ancora ascolto narrarmi di te. Come a giocherellarmi vicino. Storie che sembrano di tutti. Storie che diventano sempre più mie. Per tornare. Perché è bella la vita piena delle risa dei bambini. Perché e nel dolore che si ama. E’ dalla sofferenza che si può capire. E’ nell’illusione. E’ nell’utopia. Pirati. Senza bandiere. Così diversi e così umani. Senza Frontiere. E nemmeno l’orizzonte per confine. E c’è il mare a Gaza. E continua il viaggio. Ed essere ancora vivo. Di nuovo vivo. Perché c’è sempre un dio in cui credere. Un piccolo poeta dentro di noi. Quella sete d’amore.
A una madre

Vittorio Arrigoni

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Il realtà lui si chiamava solo Carlo Di Francesco. Suonava in un complesso jazz. Erano ormai relativamente conosciuti nel giro. Si faceva chiamare Charlie Fanciscotown. Era volato a Roma per una serata. Lui amava volare. Salire sul palco e esibirsi. Lo faceva sentire bene. Era la cosa che sapeva fare. E l’esibizione era andata bene. Non si poteva lagnare. E non si poteva lagnare nemmeno delle compagnie femminili. Si sa che il palco affascina. Anche quella sera, alla fine, un paio di ragazze giovani lo avevano aspettato fino alla chiusura. La più furba e svelta era riuscita a infilarsi nel sul letto. Era molto carina, ma nemmeno ricordava il nome. Ormai era quasi parte del suo stesso lavoro. Suonava, si faceva qualche birra, qualche spino, quando c’era, loro sotto il palco lo adoravano, non lui ma l’artista, e lo aspettavano fino a notte. Se lo bisticciavano. Spesso sotto gli occhi dei loro compagni. Avevano grandi fantasie se avevano necessità di una scusa. Cercavano di approcciarlo anche nei luoghi più improbabili.
Le prime volte ne era orgoglioso, poi sempre meno. Qualcuna era rimasta anche tra i suoi ricordi. Ricordava, ad esempio, una delle tante, non più troppo giovane, con marito al seguito. Una, che non voleva perdere tempo, dietro al palco. Quella bionda scatenata che era solo una ragazzina e per un po’ lo aveva seguito in giro per le date. In particolare Jessika che, per una ragione che non comprendeva, gli era rimasta appiccicata dentro più delle altre. Cose così. Niente che durasse più di qualche settimana. Ma certe sere se lo chiedeva se la vita gli aveva dato tutto o niente. Gli capitava certe notti in cui si trovava solo e si lasciava prendere da una sorta di malinconia. Perché in fondo lui si ritrovava da solo. Tutti quei visi, e quei sorrisi e il loro indaffararsi, erano di passaggio. Probabilmente nemmeno loro si ricordavano di lui. Era solo il musicista sopra al palco. Forse un po’ figo, un po’ tipo, con la sua giacca con le frange, forse nemmeno quello. E ci si trovò a pensarci anche al ritorno dall’esibizione di Roma.
In quei momenti invidiava Tommaso che alla sua stessa età aveva già messo su famiglia, e aveva già due figli. Giordano con la sua favola cominciata alle superiori e che durava ancora. Cosentino tutto preso dalla sua carriera in comune. Con loro aveva iniziato, ma loro avevano messo in soffitta i loro sogni per cose più concrete. Ora loro avevano qualcuno che li aspettava quando tornavano a casa. Avevano un posto dove tornare. Anche quella sera doveva suonare, al «Pappagallo verde»; strano nome per un pub. Era stata un’esibizione senza lampi, senza pregi né difetti. Una sera come tante altre. Forse anche la sua musica cominciava ad essere stanca di quella vita. Alla fine era uscito dal retro con una sgrinfia di cui nemmeno sapeva il nome. L’aveva baciata e poi le aveva rifilato una pacca dietro. Lei se n’era andata verso la notte ridendo tutta contenta e soddisfatta. Una scena che aveva già visto. Era sparita nel buio della stradina e da quel buio era apparso Giordano. Che ci faceva là a quell’ora? Lo stava aspettando? Lo stava aspettando ed era strano il modo con cui si avvicinava. Sembrava fuori di sé.
Quando gli fu davanti ebbe la certezza che fosse infuriato, e lo era con lui. Era tanto che non si sentiva apostrofare col suo vero nome. Quello lo affrontò a muso duro. Non ebbe nemmeno il tempo di dirgli un “Ciao!” che l’amico lo colpì violentemente alla bocca e si trovò seduto per terra. Cazzo che botta. Il sangue gli scendeva copiosamente dal labbro ferito. Era frastornato e senza un perché. Non lo ricordava nemmeno mai arrabbiato; era un tipo mite, Giordano. Non l’aveva mai visto così deciso e non lo faceva così forte. E il compagno di tante avventure da ragazzi, il suo primo batterista, gli sputò un faccia con rabbia la sua verità: “Sei solo un lurido bastardo, fallito. Puoi avere tutte quelle che vuoi; e allora perché? Perché con lei? Ti avverto: stai lontano da Loredana”. Scuotendo la testa cercò di realizzare cosa era successo mentre gli aveva già voltato le spalle, allontanandosi con le spalle curve e i pugni ancora stretti. Ci capiva sempre meno. Loredana non era certo il suo tipo. Ad essere onesti non era nemmeno molto bella. Non aveva nulla di attraente. Era simpatica ma una come tante. In un certo senso l’aveva presentata lui a quel rompiballe. In quel momento uscì un cameriere e corse ad aiutarlo a rialzarsi. Gli chiese cos’era successo. Lui gli rispose: “Non è nulla. Non è successo niente”.
Aveva lo stomaco sotto sopra. Per quanto ci pensasse era certo che non ci fosse stato mai niente tra loro. Andò a piedi per schiarirsi le idee. Salì da Giovanna ma lei non c’era. Per un po’ Giovanna aveva suonato con loro. Anche la sua era una storia vecchia. Una storia che forse aveva distrattamente buttata al vento. In bagno si fece la prima pera.

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C’era qualcosa di magico nell’aria. E nella sua pigrizia. L’aveva colta cautamente di spalle, quella sconosciuta. Poi si era avvicinato. Guardarla era un piacere e a lei faceva piacere farsi guardare. Le si arrossarono le gote. Forse non era nemmeno proprio un piacere, gli anni più belli erano comunque passati. Non doveva essere stata guardata troppo, né così a lungo. Non si sarebbe potuta dire bella, e allora lui scoprì che era uno sfizio e continuò a fissarla. Lei cercò di fermare la propria attenzione sul giornale che stava leggendo riuscendoci molto male e molto poco. Si ricoprì le ginocchia che non s’erano scoperte. Sembrava una di quelle povere ragazze non troppo interessanti né baciate dalla sorte, disposte a sognare tutta la vita. Gli occhiali spessi le aumentavano in aria da invecchiata precocemente. I suoi gesti si erano fatti maldestri e intimiditi. Sospettò di avere una calza smagliata. Allontanò col piede i piccioni, aveva finito le briciole. Il sole della primavera principiava a scaldare. Poteva essere una professoressa o una maestra come una semplice impiegata.
Lui amava quel tipo di donne perché non amava le conquiste faticose. Le cominciava a conoscere bene: erano pronte a farsi convincere velocemente; disponibili a credere. Non aspettavano che di sentirsi porgere con galanteria anche il più piccolo dei complimenti. Rise al pensiero: avrebbe voluto vedere la sua faccia se le avesse detto direttamente che le piaceva il suo culo. E poi gli dava un gusto maggiore con una donna con la quale aveva l’impressione che dovesse ancora imparare tutto. La faceva sembrare ancor più una vera conquista. Lui era un animale da preda e lei aveva scritto tutta una storia di vittima nella piega che assumevano le sue labbra, sottili e incerte. Pigramente si decise di avvicinarsi e chiederle se poteva sedersi. Usò la tonalità più calda della propria voce. Lei non avrebbe potuto dirgli di no e non lo fece, naturalmente rispose con un “prego” facendo segno al posto sulla panchina. Lui si accomodò e finse di leggere dove la donna stava leggendo, guardando un po’ il quotidiano e un po’ lei. Un paio di notizie di nera, i drammi fanno sempre affetto. Sui tipi romantici le lacrime e la morale si fanno sempre posto. Soprattutto le notizie di quelli famosi.
In lei crebbe l’imbarazzo in modo evidente. Pareva non conoscere quel modo di essere guardata e di guardare. Con un gesto nervoso si avvolse la sciarpa attorno alla gola. Fu attraversata dal brivido di una brezza che non c’era. Lo controllava con lo sguardo nascosto da sotto le lenti. Non sapeva cosa dire e preferì tacere. Semplicemente abbondonò un sospiro al silenzio. Lui le si fece più vicino. Le sorrise come sapeva sorridere; fissandola insistentemente. Cercò più volte il punto dell’articolo dove era stata interrotta; disturbata da quella presenza; inutilmente. Per la disperazione di uscire da quel disagio gli chiese se gradiva leggere la pagina sportiva. Fece per tirarla fuori e si scostò ma solo un attimo. Parlava poco con una voce incerta, ma ben impostata, in un italiano pressoché perfetto. Lui scosse la testa. Le rispose che avrebbe preferito parlare con quello stesso sorriso. Controllò l’ora e aveva tutto il tempo che voleva, ma questo già lo sapeva. Lei si mostrò indispettita e accartocciò il quotidiano gettandolo senza attenzione vicino a sé. Gli fece presente che non aveva il piacere di conoscerlo, e lui si presentò e prese a parlare. Lei si limitava quasi esclusivamente ad ascoltarlo.
Lui era così sicuro di sé. Pensò che era stato anche più facile di quanto aveva previsto. Il mattino era pigro e il posto molto isolato. Si chiese quanto sapesse baciare. La macchina l’aveva lasciata poco distante. E pensò che poi un po’ di sano movimento avrebbe potuto fare solo che del bene anche a lei. Fu quando si tolse gli occhiali che lei glielo confidò: “Ti stavo aspettando”.

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I. La cerimonia aveva preferito farla sull’isola. Una cosa intima. Nelle prime ore della sera ruggiva la risacca. Un cane mugolava come bastonato. E le stelle stavano a guardare. Fino alla telefonata aveva sperato fosse stata solo una disgrazia. Una disgrazia opportuna. Capitata al momento giusto. Pur sempre una sventurata disgrazia. Una tragedia. Con i suoi pro e i suoi contro. Con la chiesa. Con le cose da organizzare e quella cerimonia che le metteva tristezza. Con la voglia di ridere di tanta ironia. Col dovere di piangere per i presenti e la stampa. Ma lei stava bene anche in nero. Appena sentita la voce di Giancarlo aveva avuto certezza della amara verità: “E’ fatta”.
Sei pazzo”?
E’ stato un gioco da ragazzi”.
Parla sottovoce. Non te l’ho chiesto. Cosa vuoi”?
Ti ricordi «Avanti il prossimo»? La terza scena”?
Ho chiuso con il cinema. Anche in casa. Toglietelo dalla testa”.
Perché”?
Non farti più sentire. Non possiamo vederci per un pezzo. Non sono così scemi nemmeno quelli della polizia”.
Avrebbe voluto non aver ricevuto quella telefonata. Il tono che l’aveva salutata era deluso. Forse lo aveva chiesto, ma come si fa così per dire. Durante il drink di una sera. E senza promettere niente in cambio. Se si era illuso lo aveva fatto da solo. Mica poteva immaginare che uno dei presenti potesse prenderla seriamente. Voleva scherzare; questo le pareva ovvio. Aveva detto che se il lettone fosse rimasto vuoto il responsabile avrebbe potuto riempirlo. Che quello sarebbe stato il premio per il primo; per il vincitore. Per chi l’avesse liberata del cornuto. Era stato divertente. Se ne era già scordata. Ora aveva un problema nuovo. Sospettava che quell’idiota non si sarebbe accontentato. Che morto un papa… che quello credeva di essersi già infilato sotto le sue lenzuola; tra le sue cosce. Povero illuso. Era andato tutto liscio. Aveva bisogno di tempo. Di tempo per riflettere. Doveva stare attenta. Essere guardinga. E i vicini erano ancora là ad aspettare l’estate. Con quelle riprese. Per fortuna non avevano ancora deciso di usarle. E forse stavano pensando a come farne tesoro. Al valore che potevano ricavare. Avrebbe potuto cercare di inventarsi una qualche spiegazione, fantasiosa e stravagante. Non le sarebbe sembrato difficile. Soprattutto davanti ad una voce come la sua. E ad un sorriso come il suo. Ai suoi argomenti. E non sarebbe stata la sua prima apparizione nei giornali. Ma certo non era decoroso vedere una contessa col proprio maggiordomo. A fare quello che stavano facendo. E probabilmente erano anche inquadrature di scarsa qualità. Giancarlo ora complicava tutto. La polizia è sempre pronta a credere alla più piccola chiacchiera. A fare ipotesi. Fantasie. Ad entrarti dentro. Insomma non aveva più un problema ma due. Se non di più. Aveva proprio bisogno di pensare. E lei rifletteva meglio dopo aver fatto un po’ di movimento; dopo aver fatto all’amore. Solo che tutti gli amici aspettavano ancora l’estate.
Le sorprese la infastidivano. Il suo era un mondo di pescecani. Pronti ad azzannarti. A farsi belli delle disgrazie degli altri. Il suo pensiero fece un rapido giro delle variabili e delle opportunità. Andò in bagno e scoprì che aveva visto giusto. Forse era l’unico posto, comunque lì era certa che non avevano messo telecamere. Ebbe quel senso di libertà, ma anche di intimità, che da la sicurezza che ogni gesto sia solo tuo. Pensò al da farsi e decise di spogliarsi da sola. Riempì la vasta, abbondò di sali e vi si immerse. Si sentiva pigra e stanca. Era passato anche troppo poco tempo dal dramma del marchese[1]. Era stata una stupidata la sua. Ora aveva fatto chiacchierare tutto un mondo. Come se fossero tutti uguali. Non aveva mai avuto simpatia per quell’uomo. Meno che per quella donna. Bella era bella ma non come tutti dopo l’avevano dipinta. Non ci voleva anche quella. Restò per un po’ a godersi quel bagno ristoratore rilassata, cercando di non pensare a niente.
Poi tirò il campanello per chiamare il suo cameriere. Lui rispose subito al suo richiamo e accorse rapidamente restando ritto impalato davanti alla porta. Ligio era ligio e solerte. Non proprio intraprendente. Uno abituato a non fare domande, a obbedire. Gli venne da ridere: lei tutta nuda immersa in quel piccolo mare d’acqua trasparente e lui tutto vestito impettito col naso sull’attenti. Non aveva nulla certo di cui non andare fiera. E non c’era certo nulla di sconveniente. Era solo un servitore che sapeva che doveva stare al suo posto. Era solo che in quel momento le sembrava buffo: “Puoi chiudere quella porta?” – lui eseguì imperturbabile. Sembrava guardarla senza vederla: “Puoi passarmi la spugna sulla schiena”? L’uomo lo fece con cura, delicatezza e attenzione. Forse con una cautela e un rispetto esagerati. Inoltre con la prudenza per non bagnarsi la livrea. Le sue mani erano grandi e lisce, ma sapeva sostituire l’energia con il garbo. Lei si stancò in fretta. Uscì dall’acqua: “Puoi darmi l’asciugamano”? Glielo porse. Le gocce le imperlavano tutto il corpo rilucendo. La luce era troppo forte. Si ammirò nell’enorme specchio: pareva proprio una regina. Non era ingrassata di un etto. Si asciugò con pigrizia. Tornò a dover soffocare ilarità nel ricordarlo con la giacca e i pantaloni abbassati: “Il signore non c’è più”.
Lo so, signora Contessa”.
La voce dell’uomo era un po’ nasale, come si conviene. Lui era ancora lì. Non si era mosso di una piega. Lei si chinò appoggiandosi sulla vasca con tutta la seduzione che sapeva mettere in un gesto simile. Proprio come nella terza scena di «Avanti il prossimo». Sapeva di quel gesto e del suo effetto per essersi vista e rivista in quel film che aveva avuto meno successo di quanto meritasse. Fosse stata uomo sarebbe impazzita di se stessa. Attese un attimo. Lui pareva non capire. Gli sembrò quasi inopportuno doverglielo dire e non aveva certo voglia di dare spiegazioni: “Vorrei che mi prendessi da dietro”.
Imperturbabile: “Come vuole Contessa. Credo di aver capito. Con piacere signora Contessa. Ma”…
Si chiese come poteva restare sempre quello che era. Distaccato. Ligio al dovere, come se tutto intorno non lo riguardasse. Ma mal sopportava l’eccessiva indolenza. E la parsimonia. Quella domanda l’aveva proprio infastidita. Non le sembrava il momento. Né il luogo. Tantomeno il caso. Aveva l’abitudine di essere ubbidita. E quando decideva una cosa quella cosa era decisa. Amava poco doverci pensare prima e niente farlo dopo. Era sempre stata di indole decisa. Ma sapeva anche essere tollerante, e generosa. Certo che ne doveva possedere di pazienza: “Non ti preoccupare, Magari li trattengo sulla liquidazione”.
Lei preferiva le comodità ma non le dispiaceva, in caso di necessità, di tanto in tanto, farlo come i cani. Era anche un po’ come tornare a sentirsi attrice. Distrattamente il maschio aveva scelto di non farselo ripetere tre volte e di non pensarci. Nonostante fosse tenuto al contegno quella apparizione, quello che vedeva, era troppo per qualsiasi uomo. Era comunque l’estasi. Non era certo stato facile fino ad allora. Non era mai facile con la sua Signora. Non sapeva mai come comportarsi finché non era lei a dirglielo. Anche quando avevano ospiti. Il che capitava ed era capitato. Forse amava troppo sentirsi ammirare. E si mise fretta di esaudire il desiderio della sua padrona, che era anche la sua ormai impellente urgenza. Forse si impegnò troppo, e con troppa foga, e, purtroppo, con troppa fretta. Temeva di averla potuta deludere. Ci teneva. Non se lo sarebbe mai perdonato. E proprio con lei. Non era come qualcuna delle sue amiche. Sapeva di essere al servizio di una vera signora e che quella signora era anche esigente. Non poteva certo chiederlo a lei. Sperò che per quella volta potesse essere anche indulgente.
Non se lo lasciò pesare e ansimare sulle spalle, non lo poteva sopportare. Si alzò e mentre lui si tirava su i pantaloni decise di affrontare subito l’argomento. Aveva visto bene, ora si sentiva più calma, rasserenata; riusciva a riflettere meglio. Anche se le sarebbero pesate quelle parole: “Filippo. Sei stato sempre fedele e… affidabile. Fin troppo… affidabile. Scusami ma… viste le circostanze, mi vedo costretta a licenziarti”.
Lui non aveva potuto immaginarsi che era un addio. Pensò “Puttana”! Le disse: “Come vuole, signora… Contessa. Sempre ai suoi ordini”. Certo che quella inaspettata conclusione gli era dolorosa. In cuore meditava che se non come maggiordomo, almeno come… come amico avrebbe rivisto quelle lenzuola, cioè quel corpo. Voleva convincersi che una donna quando è stata con un uomo una volta non poteva più dirgli di no. E le loro volte erano state più di una. E anche se lui lo aveva fatto per lavoro, cioè era stato ordinato, lo aveva fatto anche con piacere. Aveva sempre ubbidito con il desiderio di ubbidire. Sperando. Era certo di averla sempre lasciata soddisfatta. E aveva sempre saldato il dovuto. Non aveva altri debiti. Nessuno dei due poteva rimproverare nulla all’altro. Ma forse aveva ragione lei perché in verità era stato assunto, molto tempo prima, come maggiordomo del signor conte, quando non era ancora conte. Si sarebbe accontentato di potersi permettere di vederla di tanto in tanto.
Avrebbe avuto bisogno di più tempo, ma non ne aveva di tempo. Lei era certa della lealtà di Filippo. Mentre si rivestiva, finalmente sola e libera, cominciò a misurare se era più rischioso un sospetto o uno scandalo. Aveva notato come l’aveva guardata quel commissario quando era venuto a darle la triste notizia e tutto le sembrò all’improvviso più semplice. Era stata così abile a far scivolare la spallina che non poteva avere nessun dubbio. E poi il suo: “Mi perdoni…” –pieno di rossore, era stato una interpretazione magistrale, degno della grande attrice che ancora era. Non aveva mai avuto bisogno di tante battute, lei aveva sempre avuto un corpo che parlava poesia.
II. Quel mattino il maestrale imperversava rancoroso dal mare. Tutto intorno ondeggiava. Persino l’ulivo e il fico erano inqueti e si piegavano pressoché fino a terra. Il mare era quasi nero di rabbia e di furore. Si frangeva sugli scogli con larghi collari e improvvisi schizzi candidi. Non aveva mai visto l’isola in preda a tanta collera. Il suo umore rispecchiava la natura, anzi era, se possibile, ancora più impetuoso. Non aveva più sentito il bambino. Uscì dalla proprietà e si allontanò di un po’ per esser sicura di non essere spiata. Il vento le sbatteva i capelli sugli occhi e fin dentro le labbra. Sputò quei capelli e mise a fuoco. Del bambino non c’erano tracce. Forse annegato nella microscopica piscina. Forse l’avevano finalmente strozzato di notte e fatto sparire. Semplicemente non c’era. La donna stava stendendo i panni che sventolavano come bandiere che cercavano di prendere il volo. Due camice e qualche mutandina dozzinale e senza personalità. Si avvicinò ancora furtiva. Quella donna dalla radio stava ascoltando robaccia.
Quando trovò l’uomo si stava ancora annoiando a letto con il giornale aperto. Si crogiolava nella pigrizia e non stava lavorando, era distratto. Questo la rincuorò; le tolse un po’ di agitazione. Poteva muoversi con meno cautela. La stanza era nel disordine più completo, incredibile, come fosse passato un uragano. E lui fumava a letto. Era chiaramente la camera di un uomo e il letto era singolo. Si accorse solo allora che dormivano in due stanze singole. Questo spiegava qualcosa ma non tutto. Anzi molte più cose le complicava. Forse quella storia non era una vera storia, era un’altra storia. Scansò dei rovi. Forse lui non era mai entrato mentre lei faceva la doccia. Nemmeno aveva messo piede nell’altra camera. Prima che restarne insospettita ne fu quasi delusa. Erano solo un uomo e una donna. Forse tutto era più banale di quanto avesse supposto. Certamente dovevano essere stati incaricati di sorvegliarla da qualcuno. Forse un giornale. Forse no. Per quali cazzi non lo sapeva. Sicuramente erano ospiti in quel luogo e non avrebbe potuto avere più informazioni nemmeno all’anagrafe. La parola cazzo! le scivolò di bocca una seconda volta.
Scesa in paese, una frase buttata qui e una lì, tra tante mezze parole e sillabe, venne a sapere che si presentavano come i coniugi Santini. Alla posta scoprì che lui in realtà era tale Vinicio Cassamodica. Il suo amico alle raccomandate era una vera spia professionista, ai suoi occhi non scappava nulla. Fortuna volle che ne ebbe anche conferma in banca. Visitò il conto del conte e scoprì alcuni bonifici proprio a quel nome. Da internet ebbe la risposta che cercava: lui dirigeva una società di investigazione. Era solo un impiccione. Dalle referenze si fece l’idea che lei fosse solo la segretaria tuttofare. Quella che rispondeva alle mails e prendeva nota delle telefonate. E quando serviva metteva o smetteva i tacchi a spillo e seguiva il suo capo. Anche se non era rossa, ma di un castano senza personalità, e non sembrava tipo da poter fare l’occhiolino ai clienti; almeno non con troppo successo. Con gli infradito le era parsa più bassa che vista da lontano.
Aveva deciso: meglio lo scandalo. Scese decisa da loro, prendere o esigere il compenso dal morto. Si presentò, pagò e rescisse il contratto facendosi restituire tutto quello che avevano girato. Loro si dissero addolorati per la scomparsa del consorte. Non si mostrarono nemmeno tanto sorpresi né imbarazzati. Lui finse, nel modo più goffo che avesse mai visto, che non avevano visionato il materiale. Giurò sulla serietà e la riservatezza della ditta. Lei li tranquillizzò e assicurò che se avesse avuto ancora bisogno si sarebbe rivolta a loro. Aggiunse duemila euro per il disturbo. Fece loro capire che per la sua vedovanza quelle riprese avevano perso valore. Non ne era certa ma pareva avessero abboccato. Accettò la loro gentilezza e chiese se poteva avere un bicchiere di gin. Alla fine si accontentò di una grappa. Le fece compagnia l’uomo. Quando se ne andò sembravano soddisfatti. L’impressione sulla donna era rimasta la medesima. L’uomo le era sembrato molto meno furbo di come se lo era raffigurato.
Pensò che una contessa non dovrebbe occuparsi anche delle cose spicce, ma aveva preferito fare da sola, l’ultima cosa che voleva era alzare della polvere. Certo avrebbe potuto chiedere aiuto a René, o a Ferry, o a tanti altri, ma da certi impicci era meglio, molto meglio, uscirne da sole. Ingoiò il rospo. Il Rospo? Solo a dirlo provava nausea. Non era certa di niente ma aveva l’impressione che Giancarlo millantasse il vero. Sì! poteva essere reale; lo credeva tipo da farlo. Era talmente scemo quello. Con il rischio che andasse a raccontarlo a qualche amico vantandosene. Lo sapeva fin dall’inizio che era lui il vero problema. E che di lui non c’era da fidarsi. Si spedì a Milano le cassette, ma per quelle aveva smesso di preoccuparsi. La vera e sola differenza tra i film che aveva girato a suo tempo e questi che gli erano stati rubati, in cui era stata spiata, era solo che in questi ultimi la si poteva riconoscere senza maschera. In ogni caso avrebbe ancora una volta querelato chiunque avesse provato a servirsene, a collegarli con il suo nome. Non tanto per i giornali, che quelli si sa e non le dava fastidio apparire di tanto in tanto nella cronaca, anche scandalistica, di sentirsi addosso quelle attenzioni, di essere spinta all’indice e chiacchierata; era una questione di principio. Se si fossero permessi avrebbero pagato e pagato un prezzo salato. E poi non era più una ragazzina. E nemmeno il più misero dei cani muove la coda per nulla. Inoltre voleva mostrare che rispettava almeno per un po’ la sua triste vedovanza; cazzo! Insomma era solo lei a poter decidere se e quando togliersi le mutandine.
Per cautela aveva indossato occhialoni e una parrucca tutta riccioli e aveva acquistato un prepagato. L’aveva visto in tanti telefilm e letto in alcuni libri. Con quello avrebbe chiamato l’idiota. Aveva scordato di detrarre dall’onorario di Filippo l’ultima marchetta. Sprecò l’ennesimo cazzo! della giornata. Si pentì delle parole che si era detta, ma a sé poteva confessare la verità, dire pane al pane. Avrebbe potuto chiamarla anche in altro modo, in qualsiasi modo, ma in quel momento quello era il suo nome. E l’aveva fatto anche gratis, o almeno conservava un debito. Ci avrebbe pensato, se ne fosse ricordata, in un altro momento. Aveva ben altre urgenze. In cambio delle referenze si era fatta firmare una lettera in cui il maggiordomo attestava di aver dato le dimissioni di sua spontanea volontà. Era una messaggio breve e conciso che esprimeva pressappoco questo concetto: mi vedo costretto a lasciare l’impiego presso la signora Contessa, per mia colpa, e mi assumo tutte le responsabilità di ogni mio atto in quanto ho io peccato davanti alla sua generosità tradendo un sentimento di affetto nei confronti della mia gentile e deliziosa padrona. Gli aveva dettato lei stessa il testo ed era stato quel momento a farle scordare del credito che vantava nei confronti del subalterno.
Il vento si era ancora rinforzato. Giancarlo era felice di sentirla e dispostissimo a vederla; naturalmente. La sua voce squillava di sorpresa e di tripudio esattamente come quella di una bambino. Aveva faticato a farlo calmare e a invitarlo ad smorzare il tono. Era tutto un quando? e un dove? Gli aveva fissato appuntamento dopo l’una. Lasciò l’auto distante e raggiunse la casa facendo l’ultimo tratto a piedi come una sonnambula. Senza luna non si vedeva un fico e non c’era in cane in giro. La notte era solo buio e ombre nere. Lui l’aspettava in salotto cercando di ammazzare il tempo con un pessimo film sul satellite. Non era certa di aver riconosciuto Donne in calore. Lui aveva spento appena lei era arrivata. Era anche leggermente ubriaco, forse causa l’attesa, l’ansia, la speranza; per farsi coraggio. Aveva subito cercato di abbracciarla. Lei aveva faticato ad imporgli pazienza e prudenza, a tener a bada i suoi bollenti spiriti. Gli aveva detto di preparare un altro film per andare su di giri mentre lei gli preparava un drink. Intanto voleva che gli raccontasse come aveva fatto. Era tutto orgoglioso: “E’ bastato intervenire sui freni. L’ho stretto in quella curva e ha provato a fre”…
L’aveva raggiunto con un perfetto martini. Gli aveva cinto da dietro le spalle e gli aveva sussurrato frasi licenziose nell’orecchio. Lui aveva fatto partire Aprite la sua porta davanti e dietro e si era abbandonato a lei. Lei lo aveva coccolato e gli aveva sparato alla tempia con la glock con la matricola abrasa che il suo defunto aveva comprato di nascosto, in preda alle sue fobie, da un pescatore portoricano assieme ad un paio d’etti d’erba. Una eredità che non credeva le sarebbe diventata utile. Per quello era sempre stato un uomo coerente, suo marito, era morto democristiano ma non aveva mai rinnegato la patria. Ma lei non era esperta con le armi. Non si sarebbe aspettata un simile botto; ne era rimasta stordita. Una contessa non dovrebbe dover imparare ad usarle. Da quella distanza però non poteva sbagliare. E aveva letto e visto abbastanza per essersi fatta un’idea di come si doveva comportare. Aveva tolto il bossolo e inserito una nuova cartuccia e pulito le impronte. Il secondo colpo l’aveva fatto sparare alla mano del morto mirando fuori della finestra. Aveva spento la tele. Lavato i bicchieri. Tolta la cassetta con la sua custodia. Inserito nell’apposita fessura un vecchio titolo del neorealismo. Poi se n’era andata in silenzio com’era arrivata lasciando il suicida dopo il suo triste destino.
III. La visita della polizia l’aveva sorpresa. Resa anche un po’ inquieta. Poi era rimasta sola con il commissario Edo Rinaldi. Gli aveva spiegato che quel Giancarlo lo conosceva appena. Che aveva partecipato a qualcuno dei suoi party, ma non ci aveva fatto che qualche parola. S’era quasi tradita chiedendo se c’era qualche sospetto. Il Rinaldi l’aveva subito tranquillizzata: “E’ sicuramente un suicidio”. Avevano preso un caffè. Lui parlava con un tono amichevole. Misurando le parole. Prudente. Non era certa che lui non le mentisse. Lei stava per sbagliare una seconda volta: “Ultimamente era strano. Una fesseria. Voglio dire…” –aveva frenato la lingua proprio all’ultimo. Avrebbe dovuto mordersela quella lingua. Non doveva perdere il controllo. Avere a che fare con la polizia, o con la finanza, la metteva sempre in quello stato. Stava quasi per alzarsi ed accompagnarlo alla porta, quando lui aveva accavallato le gambe e le aveva fatto intendere che non c’era fretta, che c’era qualcos’altro. Aveva ripreso in modo confuso, un po’ farfugliando: “Nessuna vera indagine, nulla di rilevante, ma”… Improvvisamente s’era fatto guardingo, misurava anche il più piccolo gesto: “Ci sarebbe… Ci sarebbe… Non so come dire. Ecco”… Lei senti il respiro morirle in gola. Che cosa c’era ora? Si immaginò il peggio del peggio: “Mi dica. Prego. Coraggio. Lei per me è”…
L’uomo denunciò vistosamente un certo imbarazzo: “Sarebbero state ritrovate delle riprese. In cui lei… Come dire? Non so se mi capisce. Dei filmati che”…
Cazzo! quei cornuti avevano già fatto copie: “Qualcosa di grave”?
No! non direi grave. Nulla di cui ci dovremmo occupare noi. Diciamo un po’… Ma se dovessero andare nelle mani… Mi capisce”?
In fondo si tratta solo di una… leggerezza”.
Una leggerezza… almeno un paio… ma… se… qualcuno potrebbe profittare della sua… leg”…
Si può sempre trovare una soluzione. Non crede? Mi dica lei”?
Fosse per me. Non deve… ma… Sa, signora contessa, io tengo una moglie e due figli. Non è per”…
Se quello non era un ricatto non sapeva come chiamarlo. Lo aveva guardato cercando di inquadrarlo e di capire fin dove era disposto a spingersi. Dove poteva arrivare un uomo ligio al dovere e pieno di principi. Nel pieno della sua funzione. Senza doverci pensare troppo allora si era accoccolata sullo stesso divano vicina all’ufficiale, gli aveva scostato i lembi della giacca dando teatralità al gesto, aveva fatto scorrere le dita lascivamente sulla pistola d’ordinanza, aveva preso a fargli le fusa, poi la sua mano era andata là e aveva cominciato a sfiorargli delicatamente la patta sussurrandogli: “Non vorrei… Non pensi che io… non… non lo pensi nemmeno. Ma… potrei anche essere… come dire… carina con lei. Se ne può parlare”?
La mossa aveva funzionato. Gli tolse il cappello e lo appoggiò sul tavolinetto. Lui era entrato completamente in imbarazzo. Era evidente che fosse stato tentato di prendere le distanze. Di sottrarsi; per un estremo richiamo al dovere. Al suo ruolo. Alla figura garante e all’autorità. Intanto lei gli aveva aperto la giacca. L’uomo di legge ebbe bisogno di pensarci un po’ e di crogiolarsi nella posizione di vantaggio e nel dubbio davanti alla povera donna indifesa. Poi i suoi muscoli si rilassarono. Aveva allungato le gambe. Divenne furbescamente e sconvenientemente interessato e curioso: “Quanto carina”?
Lo aveva trovato… uno stronzo, e sconveniente. Forse moderatamente volgare. Rivelandosi ancora una volta uomo. Non ne era sorpresa. Ma consapevole che era sull’orlo del baratro. Alla sua mercé. Pronto ad accontentarsi anche di poco. Si era fermata per un attimo atroce. Per creargli attesa. Per farlo stare sulle spine. A pregare. A implorare. Poi aveva lasciato soffermarsi la mano, che lui ne sentisse solo il tepore, e aveva colto l’interesse. Si era completamente perso. Per quanti sforzi facesse non vi era via di ritorno. Solo allora gli aveva passato le dita tra i capelli. Si era abbandonata ad un sorriso soddisfatto: “Molto carina”.
Era stato sufficientemente, anzi fin troppo esplicita, in quel suggerimento. Il vigliacco non ancora voleva darsi per vinto. Aveva perso ma non voleva ammettere la sconfitta. Mercanteggiava. Mercanteggiava lei. Cioè cercava. Era tipo tosto. Disposto a rischiare di esagerare. Voleva alzare il prezzo. Un po’ assordante. Esasperante. Arrogante. Quasi troppo sicuro ormai dei propri argomenti. E di lei. Fu tentata di allontanarsi, lasciandolo precipitare nel baratro della peggiore delle delusioni. Avrebbe potuto farlo. Non era mai stata una preda facile; per nessuno. Non voleva cominciare proprio in quel momento. Eppure la situazione richiedeva qualche rischio. Decise di correrlo. Aveva districato le dita dalla sua testa e s’era fatta attenta. Fece estrema attenzione alle sue parole: “Molto quanto”?
Lei si immobilizzò e lo guardò negli occhi. Stava decisamente esagerando. Cosa voleva: una polizza? Un contratto? Ne sfidò quegli occhi intrisi di abituale superiorità. Superbia. Occhi militari. Avrebbe voluto capire il suo senso della misura. Aveva capito che quello era un osso duro. Che non avrebbe ceduto facilmente. Ma non quanto lei. Si era immobilizzata fissandolo. E preferì rischiare il minimo possibile. Di mettere tutta la posta sul banco. In una sola puntata. E si chiedeva quanto era… interessato. E gli aveva slacciato il primo bottone disinvoltamente. Lui se n’era accorto: “Quanto avevate pensato. Prima”?
S’era riempito di boria. E d’importanza: “Scusate… Avevo pensato… ve… dieci. Vi sembra troppo”?
Parlava di soldi. In un momento come quello parlava di soldi. Odiava dover contrattare. Una Signora come Lei. Dieci. Non troppo, ma abbastanza. Sempre una bella cifra. Anzi esagerato. Esoso. Per cose che giravano tranquillamente e tutti potevano trovare anche con poca fatica, magari sottobanco. Però, in fondo, si trattava solo di denaro. Anzi ormai nemmeno più di quello; ne era già certa. Ma lei era una Contessa. Ora era tutto nelle sue mani. Stava a lei decidere. L’uomo aveva dimostrato che ogni uomo era un uomo; debole. Ragionevole. Con non troppa fatica. Le sfuggì l’interpretazione di un sospiro di soddisfazione e di rasserenamento. I suoi occhi si fecero più che seducenti. Le sue labbra lucide. La sua mano riprese il percorso della lusinga, lento e leggero: “Il conto allora è semplice. Diciamo che… che sarei in debito e… potrei essere molto carina con voi. Almeno cento volte. Come sappiamo entrambi si tratta solo di una scemata”.
L’uomo stava cedendo. Forse aveva già ceduto. Lo sentiva con le dita. Ne era quasi certa. Può un uomo dire di no? Il suo messaggio s’era fatto più sicuro e deciso. Il pollice era entrato nello spazio lasciato aperto dal bottone. Non era rimasto fermo a pensare. L’altra mano si era infilata sotto la camicia di ordinanza e stava accarezzato il petto del commissario. Giocò la sua carta più seducente per chiudere definitivamente la partita e trionfare su quell’avversario. Sapeva che nessuno avrebbe resistito. Gli sussurrò in un orecchio come un sospiro la promessa: “Il culetto”.
Non che fosse certa di volerlo fare. Non era che un estraneo. Uno sconosciuto. Ora aveva proprio scommesso tutto. La puntata massima. Non c’era più nessun ritorno. Era il suo bene più prezioso. Ne era da sempre stata orgogliosa e avara. Anche con il cinema. Non poteva ormai più tirarsi indietro. Era un sacrificio che doveva affrontare. Ma glielo avrebbe fatto almeno penare. E avrebbe dovuto essere molto persuasivo. La sua voce divenne sottile come un alito di vento tepido e leggero. Aggiunse suadente quasi anelandolo: “Controlli, signor Commissario. Faccia pure” –e lo sollevò appena.
Era molto persuasiva. Sapeva esserlo quando voleva. Più di quanto avrebbe voluto. L’uomo ormai sembrava fidarsi di lei. Le sue armi di seduzione a volte andavano anche oltre le sue stesse intenzioni. Anche quando non era strettamente necessario e deliberatamente voluto. Se serviva riusciva ad essere persino volgare. L’uomo stava già ansimando e cercò di comunicarle in tono di resa che lo faceva Solo per Lei. Per il suo buon nome. Per evitarLe quello scandalo. Poi si abbandonò sul divano, mentre lei pensava che le sarebbe stato complicato mantenere quel conto. Comunque non era male e quella prima se l’era già quasi tolta dalle scatole. Pensò che quella promessa valeva almeno per due, un paio di verdoni. Sarebbe riuscita a rimandare il momento. Doveva farlo penare. Sudare. Mentre gli toglieva i pantaloni della divisa. Intanto rifletteva e giunse alla conclusione che per quanto poteva ricordare: sì! era la prima volta con un poliziotto. La cosa le sembrò meno penosa.
Forse lui si sarebbe accontentato anche di meno, e avrebbe perso il calcolo. E’ sempre difficile far di conto e fare all’amore nello stesso momento. Non bastava una calcolatrice. Il prezzo le sembrava equo. Per entrambi. Per intanto ce l’aveva già in mano. La reflex automatica stava scattando a ripetizione in autoscatto. Lui non avrebbe più avuto nessuna scusa da esibire al mondo assieme al suo coso. A quel… No! non era assolutamente male. Gli sussurrò che avrebbe dovuto avere un po’ di pazienza, con lei. Vista anche quella sua situazione. Si riferiva al recente lutto. Non erano troppo comodi ma lei non voleva accelerare la loro conoscenza. Cedere troppo in fretta. E su tutti i fronti. Lasciarsi andare. E poi solo lì erano nell’inquadratura, e in primo piano. E voleva rimandare e fargli un po’ penare quel suo concedersi. Centellinandolo. Impreziosendosi. Impreziosendo la sua offerta. Se stessa: “Chiedo solo il tempo di abituarmi all’idea. Per ora… pensiamo solo a noi. Tutto a suo tempo. Anche quello”.
Le parole della nobildonna gli rimbombavano nelle orecchie. Era incerto del loro significato ma lei era tra le sue braccia. Pensò che gli aveva detto che avrebbe dovuto essere persuasivo. Zelante. Che gli aveva confidato piena di fiducia espressa che era fiduciosa che lo sarebbe stato. Insomma pretendeva anche quel minimo di corteggiamento. Lui non era più sicuro di niente. Intanto si era lasciata baciare. Quando le unghie della donna gli graffiarono il petto l’ufficiale, che era pur sempre un uomo, pensò che lei era veramente una Contessa, poi si confidò di aver sempre immaginato le contesse diversamente, ma forse erano principesse, ma si sa che brutti scherzi possa fare l’immaginazione. Non era più del tutto certo che lei avrebbe continuato a mantenere la sua promessa, nel tempo. E quella promessa era allettante. L’aveva vista ripresa di spalle. Era altrettanto bella. Bella da togliere il fiato. Da morire. Quella casa gli sembrava una reggia; bianca. Fece un rapido conto e lo rifece. Intanto osservava la sua nuca. Nel chiedersi se era più contessa, più donna, e che donna, o più mignotta, si sfilò controvoglia il cinturone e la lasciò fare. Lei restava una contessa ma lui si sentiva un re. Il mare ingoiò il sole senza alcun sfrigolio in una varietà enorme di arancio e di violetti. Lui ingoiò il proprio fiato e la saliva.
La contessa si tirò su, gli piombò addosso e lo divorò in un solo attimo. Si confidò soddisfatta che il primo centone se era andato, come se le avesse in tasca. Non era stato poi così tremendo. Non aveva nemmeno dovuto togliersi nulla di dosso. Non aveva nessun rimpianto del povero Filippo. Si chiese quale uomo era. Quanto? Quanto uomo era un commissario? Quanto avrebbe dovuto faticare per il secondo, o sarebbe stata costretta a rinunciare e rimandare? Non le piaceva quel dubbio. Non le piaceva nemmeno restare sola in quella casa. Aveva anche finito di leggere il libro. Non le piaceva cucinare, ma avrebbe sempre potuto chiamare in paese. O inventarsi una cosa veloce. Aveva dato un paio di giorni liberi a tutta la servitù.
Lui si disse che erano stati spesi bene. Bastavano poche modifiche a quel rapporto. Quella era la parte più noiosa del lavoro. Ma lo poteva fare l’indomani. Non aveva nessuna voglia di tornare a casa. La pigrizia l’aveva pervaso. Ma era una cosa che avrebbe dovuto fare. Che prima o dopo avrebbe dovuto fare. Gli era rimasta dentro una grande curiosità. E quella curiosità stava diventando bisogno. Si sentiva uno straccio.

[1] http://it.wikipedia.org/wiki/Delitto_Casati_Stampa: Il delitto Casati Stampa, anche noto come delitto di via Puccini, fu un fatto di cronaca nera avvenuto a Roma il 30 agosto 1970 nell’abitazione di Camillo Casati Stampa di Soncino (nato nel 1927). Questi uccise la moglie Anna Fallarino (1929) e il di lei giovane amante Massimo Minorenti (1945), per poi suicidarsi dopo avere commesso il duplice delitto.

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Sul posto era intervenuto il collega De Martinovich. Era persona seria e zelante. Le risultanze non facevano una piega ed erano esposte in un italiano senza infamia e senza lode. Si trattava certamente di suicidio anche se la vittima aveva scelto un modo insolito di farlo. La morte era giunta per asfissia. Doveva voler essere proprio certo di porre fine alla sua vita. Si era sigillata la testa dentro un sacchetto. Si era inciso profondamente le vene dei polsi in verticale. Era entrato nella vasca e si era immerso nell’acqua tepida. Poi si era legato le mani dietro. In un certo senso anche un procedimento complesso a cui la scientifica aveva faticato a dare un ordine temporale. Forse quando si era chiuso sulla testa il sacchetto di nailon si era giù tagliato ai polsi. Sicuramente l’ultimo gesto era stato per annodare quella corda. D’altro canto non avrebbe potuto essere differente. E quando è stato rinvenuto il corpo, dalla moglie, corpo e acqua erano ormai già freddi. Gli agenti intervenuti lo avevano trovato così.
Leggevo il rapporto e lo giravo per le mani. Avevo la sensazione che qualcosa mi sfuggisse. Di avere sotto gli occhi come un indizio che non combaciava, e che eppure non riuscivo a mettere a fuoco. Avevo letto tre volte quelle righe e continuavo a sentirmi confuso, a disagio. Non che lì per lì qualcosa mi dicesse qualcosa, era solo un fastidio astruso. Un nodo scoperto. Come un filo da annodare. Per quanto avessi deciso di non dar peso a quella sensazione mi sono trovato a ripensarci a cena. E poi durante la notte. E nelle ore successive. Così chiamai il collega. Non riusciva ad aggiungere nulla a quanto già verbalizzato sul posto. Aggiunse solo che aveva parlato anche con la moglie. E che la donna gli aveva fatto una buona impressione e gli aveva dato risposte esaurienti. Lei era in casa in quel momento ma stava guardando la televisione. Aveva sentito i rumori prodotti dal marito, in bagno, senza farci caso. Non poteva proprio pensare ad una disgrazia simile. Niente lo faceva presumere, nulla lo lasciava immaginare. Dopo poco più di due ore, alla fine del film, forse era «Colpevole d’innocenza», una cosa del 99 ritrasmessa in prima serata, la povera donna non vedendolo tornare aveva cominciato a preoccuparsi. Andata in bagno aveva trovato il corpo e chiamato subito la polizia senza toccare niente o quasi. Non seppe dirmi altro.
Poi all’improvviso fui infastidito da quel nome: Oresteio Parnaso. Forse per la particolarità di quello stesso nome. Mi sembrava di averlo già sentito. Ne ero quasi certo. Sono andato in archivio e mi sono messo a scartabellare. Non senza fatica né senza polvere sono riuscito a rintracciarlo. Esisteva una denuncia fatta dallo stesso, cioè Parnaso Oresteio, e convalidata dalla testimonianza della moglie: tale Clitenestra, da signorina Di Giovanni. L’indagine, a carico di ignoto, non aveva avuto seguito, sia per gli indizi scarsi sul possibile responsabile dell’atto criminoso, sia per la scarsa importanza del fatto. Purtroppo le forze a disposizione sono quelle che sono e bisogna stabilire delle precedenze. Non è possibile seguire ogni indagine con la stessa doverosa attenzione, e di ferimenti in una città come la nostra ce ne sono più di uno ogni notte. Per farla breve mi sono riletto attentamente il dossier.
Dopo aver precisato le generalità il denunciante aveva fatto una rapida panoramica personale dichiarando alcune cose su di sé, sul loro ottimo rapporto e sulla moglie che definiva una gran bella donna, ammirata e corteggiata, ma, a suo dire, virtuosa. Era stata una serata come tante. Alla fine si erano recati in un cinema, l’Astra per la precisione, per vedere «Il postino suona sempre due volte», quello dell’81 diretto da Bob Rafelson e con Jack Nicholson; indubbiamente un gran bel classico. Si stava proiettando una delle scene basilari, quando lui stende lei sulla tavola infarinata, con Jessica Lange che è l’immagine più ineguagliabile della lussuria che il cinema abbia mai mostrato, o poco prima o poco dopo, sul punto non era riuscito ad essere più preciso, quando un uomo aveva preso posto sulla poltrona a fianco della moglie. L’essere poco presentabile dava l’idea di poca pulizia, aveva la barba da fare, ciabatte ai piedi e gli mancavano anche alcuni denti. Quello aveva subito iniziato a importunare la signora allungando le mani. Infastidito, anche e soprattutto per il fastidio arrecato alla moglie, l’Oresteio aveva proposto alla donna di cambiare posto. Così avevano fatto ma non soddisfatto anche lo sconosciuto aveva cambiato posto tornando ad arrecarle disturbo, a molestarla. Le faceva delle espressioni lascive e le toccava le gambe, le cosce. Il dichiarante aveva allora provveduto a far intervenire il personale del cinema. L’uomo prima aveva borbottato qualcosa di incomprensibile, forse in preda ai fumi dell’alcool, poi la vittima aveva sentito all’improvviso un dolore lancinante; una fitta. Senza capire cosa era successo si era ritrovato all’ospedale con una ferita da taglio che aveva richiesto diciassette punti di sutura. La ricostruzione finiva qui. La denuncia era stata archiviata perché l’indagine non aveva raggiunto nessun risultato e la colpa era stata data a ignoto.
Solo a fine lettura mi son potuto dire soddisfatto. Finalmente cominciavo a trovare pace. Ciò che mi aveva disturbato togliendomi il sonno era quello strano nome che sapevo dentro di me di aver già incontrato. Si fosse chiamato Pinco e Pallino probabilmente non sarei tornato a scavare su quella vicenda. Eppure c’era anche qualcos’altro. Mi dissi che non ero mai contento. Un po’ me la presi con me stesso. Richiamai Bernardo che con altre parole mi ripeté quanto mi aveva già detto e già sapevo. E’ stato allora che ho pensato di telefonare alla povera vedova. Non sapevo cosa cercavo; forse inseguivo lucciole. Lei si mostrò subito molto collaborativa e disponibile. Fissammo per il pomeriggio seguente. Mi aspettava nel salone. Era una casa da ricchi. Un lampadario che illuminava come tutto il firmamento e di più. Sul marmo del pavimento un tappeto grande come un campo da baseball; insomma il lusso più lussuoso. Mi aveva detto esattamente le stesse cose tranne sul film che sosteneva che il marito si fosse sbagliato e si trattasse del vecchio «Furore». Il resto combaciava alla lettera e questo non mi aiutava a riaprire l’indagine sul vecchio incidente. Sul suicidio si era proposta di farmi vedere quel bagno. Pensai che se diceva quel bagno poteva significare che in quella casa c’erano più di un bagno. Per il resto il suo resoconto combaciava con quanto dai rilievi e dai referti autoptici. Non poteva aggiungere nulla se non la sorpresa di averlo trovato in bagno. Aggiunse che la porta non era stata chiusa a chiave. Prima di togliere il disturbo le feci un altro paio di domande, niente di rilevante. Mi rispose in modo esaustivo. Era bionda. Di un biondo che era quasi candido. Poi con una voce suadente che non scorderò per tutto il resto della vita che mi resta da vivere mi sussurrò: “Spero che non vi siano dubbi sul fatto che il mio povero marito si è proprio voluto ammazzare. Non mi chieda il perché, spesso non ci sono spiegazioni per gesti come questi. Posso fare qualcos’altro per convincerla? Qualsiasi cosa? Non ha che da chiedere”. Sono vecchio anche del mestiere e so valutare bene le persone che mi trovo davanti. Se poteva esserci in me anche il minimo alone di un sospetto le sue parole lo hanno dissipato all’istante.

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Era un mattino di un giorno indefinito di giugno. Decido di chiamarla a casa: “Gianna”.
Sono Juliana”.
Cercavo Gianna”.
Gianna non c’è”.
Quando la posso trovare”?
Non so se torna”.
Ci penso e mi sembra scortese: “Un caffè”?
Un breve silenzio: “Hai da fare”?
Penso che tutto possa aspettare. In fondo sarà una cosa veloce. Sbrigativa: “Non molto”.
Perché non andiamo a prenderlo un po’ fuori”.
Non ci rifletto, passo io: “Passo io”.
Sapevo che stava da lei. Non me la ricordavo. Forse era bionda. Mi sembrava solo fosse sudamericana. O qualcosa di simile. Forse nemmeno l’avevo mai vista. Forse me ne aveva solo parlato Gianna. Non ricordavo nemmeno in che modo. Forse era Gianna a stare da lei. Ultimamente la ascolto poco. Non si fa aspettare molto. Sale e si mette comoda. Anche troppo comoda. E sorride divertita: “Dove si va”?
Non so. Fai tu”.
Dove vorresti andare”.
Per me possiamo essere anche già arrivati”.
Allora… anche per me.” –e sorride compiaciuta.
Cosa ti va”?
Non essere impertinente”.
La guardo, è senza pregi e senza difetti; e senza vergogna. Ci penso un attimo. Vestita è vestita come fosse la zia di Gianna. Se così si può dire vestita. Cioè è vestita anche della fretta di mostrarmi cosa nasconde sotto i vestiti, cioè sotto la gonna. Non so guardare altro. Lei se ne accorge: “Qualcosa non va”?
Le sorrido e controllo il traffico: “Potresti anche metterti più… più… composta”.
Ho dimenticato qualcosa”?
Potrei dirle di sì. Ne avrei il diritto. Non è proprio quello che voglio. Mi va anche di guardare ma vorrei farlo da solo: “No! è solo… lasciamo andare. Va bene così”.
Bene”.
Torniamo su da te”?
E perché? E poi c’è ancora lui”.
Da me”?
Non vorrei averti fatto guidare per nulla. E non ho molto tempo”.
E…”?
La guardo allibito e lei mi spiega: “In fondo… è anche comoda”.
Mi guardo torno: “Ma”…
Aspetta, tolgo la cintura”.
Alzo le spalle: “Aspetta, abbasso il sedile”.
Mi sorride e dice: “In fondo non mi dispiace farglielo sotto il naso; anzi farlo sotto il naso a tutti. Anzi mi da un po’ di… di… emozione in più. Mi stavo annoiando quando… Non ti dispiace, vero”?
Non posso mostrarle tutti i miei timori: “Figurati”.
In fondo… quasi quasi… forse è stata proprio una fortuna che mi si sia rotta la macchina. E tu sei stato proprio gentile ad offrirti di venirmi a prendere”.
Ricordami il nome”.
Juliana”.
Credo di doverle almeno un complimento: “Sei.. sei gentile e… e sei un gran bel pezzo di… di Juliana”.
Lo so”.
Poi mi chiede: “Vuoi che la tolga”.
Fa niente. Non vorrei farti fare tardi”.
Me ne frego del rumore delle altre macchine e delle macchine stesse. Le sfilo la copia del contratto da sotto il culo, ma ormai è tutta stropicciata; dovremo rifarla. Intanto penso alla storia che mi dovrò inventare con il cliente.

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Frugando finalmente attentamente Rossana scoprì impigliato nel fondo del cestello della lavatrice un calzino; uno solo. L’unica cosa certa era che nei loro cassetti non c’era il gemello di quell’indumento. Michele dopo averci riflettuto a lungo trovò la cosa strana perché non c’era nessuno, né tra i parenti né tra gli amici, ad avere un piede solo. Cercò di dare un piede a quel calzino. Pensò alle persone che erano passate per quelle stanze. Fece qualche telefonata, inizialmente senza risultati. Si accorse che nessuno dava abbastanza importanza ad un singolo pedalino. Chissà da quanto tempo era rimasto lì ignorato? Poi si sentì con Giuseppe Maria, suo nipote. Il ragazzo s’era fatto uomo e ora aveva anche due bambini. Non si sentivano da anni. Giuseppe Maria si informò se era di lana e a rombi rossi e blu. Non aveva bisogno di aggiungere altro: era suo e aveva conservato l’altro senza riuscire a capire dove poteva essere quello che ne faceva il paio.
Per Michele quel ragazzo, Giuseppe Maria, allora bambino, era stato come un figlio; anche se era figlio della cognata. Una donna cattiva e di pessimo carattere. Molto piena di sé e di invidia, ma questa era un’altra storia che avrebbe riportato solo amarezze e non c’entrava nulla col motivo della telefonata. Le cose avevano portato l’uomo lontano e si era dimenticato di chi aveva dedicato anni a farlo crescere. Non c’erano stati dissapori. Forse era stata solo vita. Forse c’erano altre spiegazioni che Michele non sapeva e non avrebbe saputo comprendere. Forse solo pigrizia. Comunque ogn’uno è responsabile delle proprie azioni e Michele non era tipo da aspettarsi della riconoscenza. Non l’avevano fatto certo per quello. Ogni forma d’amore non dovrebbe avere bisogno di ricompense. Non ne era interessato. Semplicemente aveva faticato a riconoscerne la voce. Avrebbe voluto chiedergli tante cose, dopo tanto tempo, ma le domande non gli venivano. Si sentiva imbarazzato ed era tipo che odiava parlarsi e stare al telefono.
Giuseppe Maria gli spiegò che avrebbe dovuto andare da quelle parti visto che aveva in progetto di recarsi a visitare i genitori. Sarebbe potuto passare di persona a prendere quel pedalino. Michele non si diede nemmeno il tempo di pensarci e senza sapere perché gli rispose che in quei giorni era impegnato, che se gli dettava l’indirizzo glielo avrebbe spedito in una busta per posta. Interruppe la conversazione e non volle nemmeno tornare sulla sua decisione. Non sarebbe riuscito a giustificare quel suo bisogno di non ritrovare il passato.

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linguacciaAll’inizio la guardo e non la vedo. E’ mattina e me ne sto ancora confuso in cucina. Sono rincasato tardi. Martina era tutta di fretta. Entra ed esce. Si spoglia e si veste. Cerco di abbracciarla. Non riesco a prenderla. Mi scivola tra le dita e ride divertita. Mi dice: “Debbo andare in ufficio. Devo proprio scappare”. La imploro ma non ha nemmeno un attimo. “Mi aspettano”. Ho un po’ di mal di testa. Forse ieri ho esagerato un po’. Si sa come vanno queste cose. Alzo le spalle. In fondo il mio era solo un gioco. Un gioco e un po’ no. Sono ancora intorpidito. A vederla è ancora bella. Insomma stiamo insieme e non ci siamo ancora stancati l’uno dell’altra. Prende la borsa e quand’è sulla porta mi dice all’improvviso: “Ti ricordi Flaviana. Devi. Te ne ho parlato. Quella mia amica. Forse me ne sono scordata. Scusa. Insomma, quella. Ieri sera è arrivata. Spero non ti dispiaccia. Non starà molto. L’ho accomodata nella stanza degli ospiti. Non ti darà fastidio. Io torno presto. Appena posso. Bacio. Cerca di essere gentile”.
Mi saluta e scappa. Il mattino ho bisogno di un po’ per connettermi. No! non ricordo me ne abbia mai parlato. Mi verso un altro caffè. Lo prendo sempre amaro. Martina dice che quando racconto una cosa mi perdo sempre in tante parole inutili. Non mi sembra. E’ che mi disturba non capire. E che ho sempre tante domande da pormi. Nel frattempo mi sono già scordato il nome della nostra ospite; dell’amica. Ho sempre il timore di trovarmi a disagio. Lei riesce a mantenere costantemente tanti contatti. Gli amici e le amiche del ginnasio, dell’università, quelli nuovi, i clienti del lavoro, un mondo intero. Non sono bravo come lei. Non amo stare al telefono. Rimando sempre troppe cose. Annego nel mio caffè. Mi immergo nei pensieri. Mi accendo la prima. E non riesco a ricordare tutto il suo mondo. Sento dei rumori. Dev’essere… lei, l’amica, che si sta alzando. Butto la cenere nel lavello e torno a sedermi. Provo ad accendere la tele; un telegiornale. Spengo quasi subito. Le notizie che danno non mettono in sintonia con un mondo che va alla deriva. Penso di tornare a letto. Fuori la mattina è più pigra del sottoscritto. A questo non ci posso fare nulla.
Quella di ieri sera è stata proprio una pessima serata. All’improvviso si sono aperte le cateratte del cielo. E’ precipitata acqua a catinelle. Non ricordo nulla di simile. Sono rientrato tardi, cercando di fare meno disastri possibili; ero bagnato fradicio, fino al midollo. E lei già dormiva. Cioè tutta la casa dormiva. E nella mia vita entra… Flaviana. Cioè entra come un tornado. Decisa. Già allegra di prima mattina. Uscita così dal letto. O forse dalla doccia. Già sveglia. Non fa caso a me. Sembra quasi non vedermi. Come non ci fossi. Fossi parte del mobilio. E non si guarda molto attorno. Come conoscesse già la casa. Controlla il mattino alla finestra; distrattamente. Ne pare delusa. Nemmeno ho il tempo di guardala come poi avrei voluto. Dopo mi dirà che è bella. Arredata con molto buon gusto. Ricordo il suo nome perché me lo dice: “Flaviana”. Insomma: “Ciao”! “Ciao”! E va diritta verso la macchinetta. Se ne versa una tazzona dal bricco. Anche lei amaro. Amaro e senza latte. Mi chiede se mi spiace: “Ne prendo una tazza anch’io”.
Guarda in tralice la mia tazza dove il mio caffè si sta freddando triste e stanco sulla tavola. Non ero stato preparato. A volte Martina è fin troppo laconica. Soprattutto quando va di fretta. Mi ero fatta un’idea diversa. Non mi ero fatta un’idea. Pensavo sarebbe stata una giornata come tante. Non so se la dovremo accompagnare in giro per la città. Certo non è pronta per uscire. Non so come comportarmi. Non ho nulla da dire. Sono solo sconcertato. Scosso da lei. Forse non la dovevo accogliere in cucina. Forse se fossi rimasto in salotto tutto sarebbe stato diverso. Fossi stato in studio; davanti al computer. Eppure sembra completamente a proprio agio, in casa sua. Neanche farlo apposta sono libero da ogni impegno. Potrei fare qualche telefonata. Non c’è nulla di urgente. Il postino suona e infila la posta in cassetta. Per un secondo penso a come mi avrebbe accolto se glielo avessi portato a letto, quel caffè. Per quel secondo mi sento furbo. Libero la mia grande fantasia. Poi rimetto i piedi per terra. E’ stata solo una riflessione stupida; me ne rendo conto. E’ lei che ispira certe fantasie. Il suo atteggiamento. Le sue parole. La sua voce. Quel sorriso. “Lo prendo amaro anch’io”.
Martina le deve Aver parlato di me. Io di lei non so proprio nulla. Tranne quello che vedo, e che mi lascia vedere. Abbastanza per farmi confusione. Sicuramente non sono amiche dalla scuola. Non mi tornano gli anni. Lei, Flaviana, ne ha qualcuno in più. Cosa volevo dire? Ah! sì. Ha quella specie di giacca chimono. Corta. Ho il sospetto che non abbia che quella. Intendo… addosso. Scaccio quel pensiero. Non so cos’ho questa mattina. Pensare non fa certo onore. La nostra ospite sembra più a suo agio, in casa mia, di me. “Alfredo, vero”? Stavo dicendo… forse l’ha messa uscendo dal letto. O dopo la doccia. Deve averla trovata in armadio. Non la ricordo. Direi che non l’ho mai vista addosso a Martina. Forse mi sbaglio. Non so se è per il colore: nero; lucente. Però le ciabatte sono sicuramente sue. Mi chiede di mia moglie. “Sì! Martina è già uscita”. Martina ha riempito tutta la mia vita. E’ una donna che non lascia un angolo vuoto. Una di quelle. Sempre in movimento; attiva. Attenta anche alle cose più minute. Sempre curiosa. Sempre sul pezzo. Con l’argento vivo addosso. E io resto lì muto a guardare quella sorta di amica. In verità sono pochi attimi ma mi sembrano una eternità. Il tempo è sempre stato un valore relativo. Quando sei in ritardo corre. Altre volte va come vuole. Se aspetti qualcuno o qualcosa pare non passare mai. Cerco di convincermi che quella relazione può aspettare. Intanto la guardo in silenzio.
Lei si lascia guardare. Forse sente i miei occhi addosso: “Volevi dirmi qualcosa”?
Cosa? Questo non lo doveva dire. Cioè non lo doveva fare. Si appoggia al piano cottura e si gira verso di me; sorridendo. Il chimono si apre perché non può diversamente, la stoffa si schiude poco trattenuta dalla ciocca, inventa una scollatura vertiginosa. Sembra non accorgersene. All’improvviso non ho più nessun dubbio. Fuori ha ricominciato a piovere. E non ho proprio parole. Non so che dire. Ripeto come un cretino: “Sì! Martina è già uscita”. Mi dice che non fa nulla. Che quello che le doveva dire lo può fare anche più tardi. Che può aspettare. Mi chiede se lo posso fare anch’io; aspettare. Che è stata gentile. Credo intenda ad invitarla. Perché se non era per Martina non avrebbe proprio saputo dove andare. Mi confessa che è contenta finalmente di conoscermi. Mi chiede che me ne sembra. Non so a cosa si riferisca. I miei occhi sono incollati là. Quasi in una attesa febbricitante. Anche se lo so che non è carino da parte mia. Dice che la sua è una visita. Un paio di giorni. Non è nemmeno una vacanza. Deve vedere un avvocato. Ma anche per quello c’è tempo. Non s’è messa fretta. Non credo di seguire il filo che segue.
Chiede qualcosa di me aggiungendo domande alle altre domande. Rispondo per cortesia quando ne afferrò qualcuna. Quando trovo uno spazio tra una domanda e l’altra. Qualcuna è anche un po’ indiscreta. Intanto la guardo, incerto se la sto vedendo. Scuoto la testa. Si dice contenta che fra noi vada bene. Mi dice che mi trova silenzioso, riflessivo. Che di questo Martina non gliene aveva parlato. Mi chiede se c’è qualcosa che non va. Si guarda. Guarda il suo abbigliamento. Ride: “Non sarai mica turbato”? Taccio. Taccio perché non ho il tempo di pensare. Tanto meno di trovare una risposta adeguata. Una giustificazione. Qualcosa che abbia un senso e, in qualche modo, mi giustifichi. Vorrei dirle di no. Non mi crederei da solo. Ho il sospetto che la sappia la risposta. Mi limito ad osservarla. A controllarla. Sì! di anni ne ha più di qualcuno più di noi. Questo non conta. Ride: “Scusa. Ho messo la prima cosa… E’ che mi sono subito sentita come a casa. A mio agio. Qui. Avete proprio una bella casa. E Martina è un amore. Una vera amica. Ti dispiace”? Non so se mi dispiace. Non direi che mi dispiace. Di questo credo di esserne certo. Ha una voce affascinante; e le sue parole diventano progressivamente suadenti. Cerco di spiegarle: “Aveva un impegno che non poteva rimandare.” –non so perché sento di dovermi giustificarmi, e intanto ride.
Continua a tenere la sua tazza in mano. Non sembra molto interessata al caffè. Non ne ha preso che un piccolo sorso. Semplicemente sembra che con quella fra le dita si senta più sicura. Una cosa così. Forse si sente i miei occhi addosso. Le serve a sostenerli? Non posso fare altro. La prego nella mia testa di stare ferma. Di non muoversi. Di rimanere così. Guardarla è affascinante. Qualsiasi movimento non potrebbe che peggiorare la situazione; farla precipitare. Fuori ha smesso di piovere. Mi ripete la domanda: “C’è qualcosa che mi volevi dire”? No! Non ho nulla da dire. O almeno quello che vorrei dire non è carino. Non è da dire. Meglio tacere. Mi manca la saliva. Non sto più in me. La sedia è diventata scomoda. Non so perché ma sono eccitato. Forse la novità. Forse la sorpresa. Forse semplicemente c’è qualcosa in lei. Forse solo la sua presenza. L’unico problema è che se ne accorge; e ride divertita. Prima che abbia il tempo di alzarmi da quella sedia mi confida quello che le sembra un segreto: “Scusami, non farei mai un torto a Martina”.
Cerco di giustificarmi; di scusarmi. Sono un idiota. Le sue parole mi ributtano sulla sedia. E come spesso mi accade credo di non aver capito niente. Non che… insomma… intendo in altre circostanze, naturalmente. La mia vita non è così abitata da… da donne nude. Anche se non dovrei dire che è nuda. E’ nuda sotto. Il chimono la copre quel poco. E brava indubbiamente a mostrare senza fare vedere. In verità ha visto molto e non mi ha mostrato niente. Non mi ha mostrato ancora niente. Mi spiega che lei non vuole complicazioni. Che esce da una storia difficile; incasinata. Mi chiede se è meglio… se preferisco… se si deve andare a vestire. Credo mi legga la risposta nel viso e ne è divertita e soddisfatta. Dice che la sua vita è sempre stata così. Credo monotona; tortuosa; complicata. Non so cosa credere. Lei è immobile. Io sono una statua, solo che la sua postura è morbida ed io sono rigido, teso. Completamente. Comincia a raccontarmi di come si sono conosciute. Due parole e cambia subito discorso. Dice che quello non era importante che forse non mi interessava. Mi spiega che è arrivata stanca. Che viaggiare la stanca. Ma che questo era ieri, perché ha riposato bene. Mi dice di non aver fretta. Sembra si stia prendendo gioco di me. Anche questo non lo capisco. Riprovo ad alzarmi da questa maledetta sedia ma ancora una volta lei mi blocca: “Per quanto credi ne avrà Martina”?
Torno a non capire. Non so se faccio bene ma chiamo mia moglie. Le chiedo come sta. Poi entro in argomento. La nostra ospite è attenta alle mie parole. Quando chiudo la comunicazione la metto al corrente che Martina purtroppo dovrà fermarsi fuori a pranzo. Che ci dovremo arrangiare. Se vuole possiamo scendere fino all’angolo. Non è poi così male. Come cuoco semplicemente non so cucinare. Lei ci pensa. Ci pensa ancora un po’. Come se non capisse completamente le mie parole. Poi dice che le spiace. Che le spiace per lei. E anche per me; forse. Che non sa come rimediare. Che non vorrebbe essere un problema. Che sono fin troppo gentile; anche a starla ad ascoltare. Se voglio che se ne vada. Per la prima volta sento il suo nome nella mia voce. Lei si diverte del mio imbarazzo: “Flaviana… ecco… io… non vorrei cioè vorrei… non fraintendere”…
Lei mi guarda stupita. Penso che anche lei fatichi a capire. Me lo dice con gli occhi. Poi anche con parole senza pause: “Non vorrei dovermi sentire in colpa. Puoi anche dirmelo. Non è certo un dramma. Ti capirei. Non prendertela così. Anch’io le voglio bene. Ma, come si dice… se è quello che vuoi, che anche tu vuoi, allora potrei volerlo anch’io: «occhio non vede, cuore non duole». O qualcosa di simile. Non facciamo male a nessuno. Non è quello che volevo. Scusami. E’ successo. Così. Senza intenzione. Credimi. Senza malizia. A proposito di vedere… –ride e ammicca a sé, a quella sua presenza, più orgogliosa, quasi arrogante; ancora più certa di sé– Pensavo… se non ti spiace… certo… Sai cosa penso? Io credo di no. Allora… Se lei si ferma a pranzo, possiamo pranzare anche noi. Non è come pensi ma… sempre, se non ti spiace, vorrei pranzare di te. Ora. Adesso. Il tempo non è mai abbastanza da poterlo lasciare scappare. Non credi”?
E’ in questo preciso istante che mi mostra spudoratamente un capezzolo con la ferma intenzione di farmelo proprio vedere. Di confessarmi un segreto. Scostando la stoffa. Ha ancora quella maledetta tazza in mano. Non sono mai stato schiavo del tempo. Né delle ore né dei minuti. Non metto mai la sveglia se non ho un appuntamento. Il mio orologio biologico è sempre stato sballato. Martina dice che sono un ritardatario nato. Non so perché pensare a lei non mi sembra argomento giusto. Sto per dire qualcosa di cui mi potrei pentire. Sono bravo a non dirla. E quando sono in casa non lo tengo al polso, l’orologio. Infatti guardo l’ora ma non lo indosso. E’ quello che si può chiamare un riflesso condizionato. Eppure so che, come mi ha assicurato, non torna. Che siamo completamente soli. Fino a sera. E lei appoggia finalmente la tazza. Per avere le mani libere. Per omaggiare i miei occhi. Per farne mostra di entrambi sostenendosi i seni. Per mandarmi un messaggio definitivo, indiscutibile. Insomma è troppo tardi per qualsiasi considerazione.
Non danzasse con i miei sentimenti, non fosse così intenta a rubare tutta la mia attenzione, a riempirmi gli occhi di lei, così… nuda, potrebbe sembrare una tranquilla donna di casa; forse. Corro fugacemente il rischio di informarmi sulla sua età. Intanto in silenzio mi dice tutto di sé. Tutti i suoi segreti. I segreti del suo regno. Del suo corpo. Il resto sembra una galleria fotografica. Assume pose come se la dovessi ritrarre. Non vuole mettermi fretta. Me lo ripete e ribadisce. Il suo è un invito esplicito. Allo stesso tempo vuole provocarmi. La sua espressione mi chiede se sono soddisfatto. Se mi piace quello che vedo. E’ certa di sé. Sembra intenzionata a restare in cucina. Non so cosa pensare. Non so se ho altre preferenze. Credo che preferirei andare di là. C’è anche troppa luce. Ha un ramo di pesco nel basso ventre. O qualcosa del genere. Ma questo dice che non lo devo andare a raccontare a nessuno. Tanto meno a Martina. Assolutamente. Non sono il tipo. E’ una cosa che deve restare tra noi. Mi trova d’accordo. Mi sembra di sentirla aggiungere che deve restare una cosa senza importanza. Non ne sono sicuro. Non la sto più ad ascoltare molto. Sono distratto. Le sue parole sono ormai solo rumore. E confusione. Confusione nella confusione. Non ricordo nemmeno più cosa dicevamo del tempo. O solo pochi istanti fa.
Oramai mi ha fatto vedere tutto quello che c’era da vedere, che ha da offrire. Si corica sulla tavola. Il suo invito è esplicito. I suoi occhi sembrano gridare finalmente e ora. Non ho il tempo di afferrarla, di spostare la mia tazza, nemmeno di toccarla, solo il tempo di alzarmi, che all’improvviso nella stanza irrompe Martina. Sarebbe stupido e banale che cercassi di giustificarmi dicendole che non è successo niente. Non ancora. Devo essere sufficientemente ridicolo con in pantaloni abbassati. Mi guarda e mi fulmina. Si dipinge in volto un’esclamazione di sorpresa. E di disapprovazione. Mi dice che sono uno stronzo. Che non se lo sarebbe mai aspettata. Sembro l’unico responsabile, e colpevole. Non riuscirò mai a togliermi il dubbio che quelle due fossero d’accordo. Forse persino che l’amica non fosse tanto amica, o persino che fosse una professionista. Se non proprio una professionista nemmeno una novellina. Una che indubbiamente ci sa fare, e sa come farlo. Mi continueranno sempre a rimbombare nella testa le parole della traditrice: “Ti sei fatta attendere. Non sapevo più… Se tardavi ancora un po’”… Per me era già tardi.

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Foto da Vincitori e VintiNon avrei voluto essere nemmeno nei panni di quei poveri difensori. Nomi di tutto rispetto. Il meglio. Non doveva essere facile nemmeno per loro. A carico degli imputati c’erano montagne di accuse, di prove e di testimonianze. Non sussisteva il minimo dubbio. Colpevoli erano colpevoli oltre ogni ragionevole dubbio. Non si trattava certo di questo. Né dell’entità delle colpe. Alcuni avevano ucciso anche con le proprie mani. Tutti avevano dato scientemente gli ordini. I nomi delle vittime erano in un elenco senza fine. Solitamente, per subirne meno il peso, ci si limita ai numeri.
Le cose non sono mai o bianche o nere. Nessuno poteva avere alcun dubbio: le pene sarebbero state pesanti per tutti. Per alcuni si parlava della vita. Per qualche altro sarebbe stata comunque una condanna a morte vista l’età avanzata. Ma la legge è fatta da uomini per gli uomini. Non si somministra la giustizia; anche quella è un concetto aleatorio o soggettivo. Si applicava quella legge formulata appositamente per quel caso, come per gli altri casi simili. La guerra è un’aberrazione della storia; ci si illude che sia una eccezione. Ogni morte è morte. E anche la morte di quei colpevoli rappresentava togliere loro la vita. Che diritto ne avevano uomini su altri uomini, più o meno come loro. Ma quello di cui si parlava in quell’aula severa e in quell’aria grave erano crimini di guerra. Certamente il delitto più grave che l’essere umano possa concepire. Un crimine che spinge agli estremi. Che richiama alla vendetta.
Eppure nessuna vendetta è giustizia. E quando si entra nella logica della guerra chi può definirsi innocente tranne quelle vittime? Forse noi giudicanti che non abbiamo partecipato in prima persona? Chi crede di aver dato la morte per la vita? La verità è che il giudizio è sempre impartito dai vincitori, non dai giusti. Ma chi giudicherà i crimini dei vincitori? E chi si potrà definire Giusto? Niente può essere definitivo tranne quelle morti. Non si può cancellare l’orrore. Ci saranno altre vendette, altre condanne. La coscienza del mondo rimarrà scossa. La memoria tornerà a visitare le notti di tutti i sopravvissuti. La storia non finisce con una condanna, anche se esemplare. Già sul banco degli imputati sbiadisce l’arroganza del potere. Ora il potere è in mano ai giudici; a uomini. Del tutto uguali agli uomini che dovevamo giudicare. Non ero stato a guardare. Mi ero indignato. Dentro di me avevo gridato. Non sapevo perché non mi sentivo l’unico innocente. Quei crimini hanno lordato anche me. Nelle notti ci pensavo e ancora ci penso. Termine complesso quello di giudice. Avrei voluto rinunciare a quel ruolo. Non mi sentivo libero di esprimere un verdetto. Che condannavamo l’orrore. E non riuscivo ad illudermi che potesse essere l’ultima guerra.
Indubbiamente l’orrore va condannato. La confusione che era in me derivava dal fatto che con l’orrore si condannavano gli uomini. Non ero certo che vi fosse un’alternativa, un altro modo di procedere. Non era questo il punto, il dubbio, la perplessità. Il malessere era dovuto nel dover decidere della vita di qualcuno. Un malessere che non si sarebbe comunque mai sopito. La domanda restava. Avevamo noi il diritto di trasformare i carnefici in vittime? Come avrei potuto spiegarlo a mio figlio? Quali braccia avevano imbracciato le armi giuste? Esistono? Avevano difeso la libertà, certo. Forse qualcosa che si sarebbe potuto chiamare civiltà, democrazia, in altri mille modi. Qualcosa che analizzata diventava impalpabile, quasi indefinibile. La guerra non ha vincitori. Allora chi giudica i vinti? Con quale diritto? L’unica via di uscita si nascondeva sul rifugio che il mio giudizio non era determinante. Che potevo liberare la mia coscienza allineandomi alle decisioni degli altri. Non mi era sufficiente, ma non mi restava altro. La condanna era scritta prima che ci si riunisse. Era la storia che la imponeva. Eppure anche quelli erano uomini.

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