Vecchia storia di una Grecia che è solo stata e non è più stata e che da allora troppo tempo è passato. Invece c’è sempre un tempo. Ci sono i miti, le storie, il sangue e il sudore e anche il dolore. C’è soprattutto, non lo si scordi, l’orgoglio della terra in ogni terra. Nessun silenzio, per quanto forte, lo potrà tacere. E allora, qui, oggi parlo di uno dei miei poeti più amati; appunto un greco:
Ghiannis Ritsos (Monemvassià 1 maggio 1909 – Atene 1990) poeta militante, corifeo della tragedia greca (secondo Aragon che non esita a proclamarlo il più grande poeta del nostro tempo) dalla produzione smisurata.
Per nove volte candidato al premio Nobel, il grande poeta, amate della musica e della pittura (che continuerà a coltivare), consuma una vita a combattere in un paese prima occupato dai nazisti. Dopo la liberazione del 45 conosce l’onta della “occupazione” inglese. Per comprendere bisognerebbe ricordare quella Grecia di allora. Una Grecia che vede morire i suoi figli migliori, molti nomi ignoti e altri molto noti come Beloyannis (1952) fino a Lambrakis (1963) e così via via, dalla dittatura di Metakàs (1936) fino all’avvento della dittatura dei colonnelli nella notte del 21 aprile del 1967 e oltre fino ai fatti di Cipro. Una Grecia che costringe all’esilio i suoi poeti, i suoi artisti. Una Grecia a due passi da noi, ignorata, che sembra senza futuro.
Una vita, la sua, spesa tra Makronisson, Limmos, Ai-Stratis e poi ancora Ghiaros, Limasol etc. isole tristemente famose, baluardi di inciviltà, dove venivano esiliati coloro che erano privati della libertà per reati d’opinione. A scrivere grande poesia e a combattere contro una salute malferma. Nell’agosto del 1974, durante un memorabile concerto di Theodorakis, 120.000 lo acclameranno come il simbolo della coscienza nazionale.
Ma il momento che credo abbia formato maggiormente l’uomo penso sia databile proprio maggio 1936: durante uno sciopero generale a Salonicco la polizia spara sulla folla. A terra restano trenta morti e trecento feriti. Quegli avvenimenti lo condurranno a scrivere in due soli giorni Epitaffio, lungo monologo di una madre sul corpo del figlio ucciso.
Lo vorrei ricordare attraverso un frammento della raccolta, scritta tra il 45 e il 47, ma che verrà edita, per la prima volta, solo sette anni dopo La signora delle vigne:
XV
Perché, signora, ti dai alla macchia e le nuvole fuggono?
Oggi le pecore entrano nell’ovile della sera e tingono di nero la loro lana
oggi l’aquila tinge di rosso i suoi artigli,
ché si sono avventati gli infedeli e hanno calpestato le nostre vigne
staccano il fico dalla pianta e il neonato dalla mammella
staccano il braccio alla Madonna per venderlo al mercato –
nuvole di locuste spianano i campi seminati,
pugnalate alla schiena e vipere agghindate con lingue biforcute.
Ormai chi se ne sta, Signora, a vegliare con lo zufolo il gregge delle ombre
chi a governare gli abeti nelle acque della via lattea?
Collere millenarie di avi e bisavi tuonano dentro le botti vuote
Migliaia d’estati gemono nei barili di vino
Il pellicciotto della nonna nel baule medita Boubouline
E nel cannocchiale del comandante si sono ridestati brulotti e Kanaris e scirocchi.
Signora, Signora, indossa ancora gli abiti cleftici del valore in cima alle montagne
Cingiti il seno di tre file di stelle per giberne
Metti nella bisaccia l’icona della Madonna insieme alle cartucce –
Apostoli pastorecci suonano le campane di Santa Sofia,
le montanare di Macedonia – pinte d’ulivo si danno alla macchia
e i morti sui gradini della chiesa lubrificano i fucili con l’olio della lucerna.