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Posts Tagged ‘viaggio’


Se vai in Palestina
porta con te un sorriso
e riceverai in cambio un sorriso
perché di lacrime ne ha fin troppe
ma di più lì vive la speranza.

Se vai in Palestina
vai col cuore aperto
e ti aprirà il suo cuore
e te lo ruberà a pezzetti
e te lo riempirà di emozioni e amore.

Se vai in Palestina
lascia a casa il cuore
perché troppe spine possono ferire la sua delicatezza
e sarà duro vedere il dolore e non provare dolore e
soffocare il grido che ti salirà fino al petto.

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The New Black by The Mavrix

The New Black by The Mavrix
words and music composed by Ayub Mayet and Jeremy Karodia
copyright 2012

Chorus:
Hai detto qualcosa?
Hai sentito le implorazioni dei bambini?
Nella notte tragicamente fredda,
senza speranza di calore o cibo
ti hanno pregato
pregato di togliere l’assedio,
di rendere disponibile cibo
e di rendere disponibili gli aiuti;
oh ti prego! togli l’assedio.
Non devi perdonare la mia insolenza, dato che vengo descritto rozzo e persino sfrontato
Puoi pensare che io sia una persona inutile, spacciatore di falsità, disilluso.
Sono l’interruzione alle tue conversazioni a tavola, una costante irritazione e sbigottimento
al contrario di una certa nazione sovrana che ha una storia vecchia di quaranta generazioni
un’incomprensibile mano umana ha approvato violenza, brutalità e la cacciata dalla terra di appartenenza
Verso una terra senza gente per un popolo senza terra
In modo ancora più inatteso, un maledetto incontro, una lista nera di superpoteri…
Non sono una vittima, sono un terrorista!!!
Per cui non perdonare la mia insolenza, limitati a rispondere alle mie domande
perché sto perdendo la pazienza ed è ora che io diventi la tua coscienza;
è ora che io diventi la tua coscienza;
è ora che io diventi la tua coscienza.
Hai detto qualcosa?
Hai sentito le implorazioni dei bambini?
Nella notte tragicamente fredda,
senza speranza di calore o cibo
ti hanno pregato
pregato di togliere l’assedio,
di rendere disponibile cibo
e di rendere disponibili gli aiuti;
oh ti prego! togli l’assedio.
Non perdonare la mia frustrazione, il mio risentimento e la mia rabbia
perché l’umiliazione dell’occupazione è aggravata dal pericolo.
E’ un tipico giorno soleggiato e tranquillo a Gaza oppure un massacro a bordo di una flotilla di aiuti.
I ricordi di Sabra e Chatila e di un ragazzino chiamato Mohammed al Durrah sbiadiscono.
Una nazione, oppressa nella lotta, bombardata e catapultata in un’irreale età della pietra, è immersa nel dolore,
in modo ancora più inatteso, l’oppressore si atteggia a vittima ed è accettato, lodato ed applaudito,
con una tempesta di propaganda e odio!!!
Per cui non perdonare la mia insolenza, limitati a rispondere alle mie domande
perché sto perdendo la pazienza ed è ora che io diventi la tua coscienza;
è ora che io diventi la tua coscienza;
è ora che io diventi la tua coscienza.
Hai detto qualcosa?
Hai sentito le implorazioni dei bambini?
Nella notte tragicamente fredda,
senza speranza di calore o cibo
ti hanno pregato
pregato di togliere l’assedio,
di rendere disponibile cibo
e di rendere disponibili gli aiuti;
oh ti prego! togli l’assedio.
Hai detto qualcosa? Hai sentito l’urlo dei bambini?
Quando le armi al fosforo bianco incenerivano i cieli e dissanguavano una nazione,
dov’era Obama, quando il diavolo giunse a Gaza?
Hai per caso implorato? Dateci misericordia, misericordia, vi prego.
Non perdonare il mio sarcasmo, la mia irriverenza o cinismo
perché qualsiasi antagonismo o critica al prescelto da Dio è proibita.
Visioni ed allucinazioni di pace vengono sputate dalla pancia di un M16.
Blackhawks & bulldozer, mortali ed osceni, fanno a pezzi e tradiscono la ragione.
Complotti fatti di massacri, convenzionali e chimici, convogliano un semplice messaggio:
la resistenza in azione sarà raggiunta dalla gloria della civiltà occidentale.
senza discorsi o ovazioni, io chiedo, qual è il prezzo del mio perdono, Jack?
Al diavolo, sopravviverò ad un altro attacco perché non mi fate alcuna concessione,
non c’è ritorno, sono sulla rotta della mia libertà
Perché I PALESTINESI SONO I NUOVI NERI!!!
I PALESTINESI SONO I NUOVI NERI!!!
Hai detto qualcosa?
Hai sentito le implorazioni dei bambini?
Nella notte tragicamente fredda,
senza speranza di calore o cibo
ti hanno pregato
pregato di togliere l’assedio,
di rendere disponibile cibo
e di rendere disponibili gli aiuti;
oh ti prego! togli l’assedio.
Come noi anche i palestinesi hanno intrapreso, per la giustizia sociale, quel percorso di resistenza attraverso il movimento di boicottaggio internazionale (BDS) che per primo portò a mettere in ginocchio e porre fine all’Apartheid. E’ toccante e stimolante provare la solidarietà dei nostri fratelli e sorelle del Sudafrica. Il New Black è un appassionato e potente riflesso di ciò che significa mostrare solidarietà umana. E ‘un riflesso di che cosa vuol dire “mai più”.
Nella mia vita ho visto la sconfitta dell’apartheid Sud Africa e nessuno può cancellare in me la speranza che l’apartheid israeliano e il dominio coloniale veda la finire.
Questa collaborazione musicale tra Sudafrica e Palestina è una manifestazione creativa di resistenza culturale all’oppressione israeliana, una parte indispensabile della nostra lotta globale nel movimento BDS per la libertà, giustizia e uguaglianza.
Mi conforta che oggi palestinesi e sudafricani stanno lavorando insieme per creare bella musica che risveglia i nostri spiriti e aiuterà a risvegliare la coscienza del mondo.
Al Sudafrica è stata necessaria la solidarietà del mondo per guadagnare la sua libertà, e oggi la Palestina ha bisogno del Sudafrica.
C’è una urgenza immediata, in questo momento storico, dopo la guerra del 2009 di Israele a Gaza (piombo fuso),
per una campagna di solidarietà internazionale nella volontà evidenziare le somiglianze tra apartheid e il sionismo.
Questa collaborazione tra musicisti palestinesi e sudafricani e attivisti, il primo nel suo genere, è un passo importante nella giusta direzione.

I Mavrix nascono da una collaborazione musicale nel 1984 come una band di protesta. Questa band è cresciuta fino ad accogliere 6 musicisti: con violini, chitarre, tabla africani, santoor e vocalisti. Le canzoni loro parlano di diritti umani, di razzismo, povertà, abusi di droga e oppressione.
Nel 2004 i Mavrix realizzarono il loro primo album “Guantanamo Bay” e stanno, attualmente, incidendo il loro secondo album “Pura Vida” che sarà completato in giugno 2012, da questo album è stato stralciato la canzone “The new black”, che è nata dalla collaborazione tra il Sud Africa a la Palestina.
Il video musicale e la canzone sono nati dall’incontro della band sudafricana e il musicista palestinese Mohammed Omar, che assieme hanno realizzato questo video musicale chiamato The New Black, che sarà inserito nel nuovo album “Pura Vida” di prossima uscita.
Il testo composto da Jeremy Karodia e Ayub Mayet è stato scritto come reazione all’orrore del massacro di Gaza “Piombo Fuso” del 2008-2009 e successivamente ispirato al libro “Ogni mattina a Jenin” dell’autrice Susan Abulhawa. La canzone scritta nel 2009 da Mayet è stata ripresa e riscritta dopo la lettura del libro della Abulhawa e oggi ci appare nella versione nuova.
Haidar Eid, esponente del BDS di Gaza e amico della band ha ascoltato la canzone nel 2011 e ha proposto immediatamente la collaborazione con il suonatore di Oud palestinese Mohammed Omar suggerendo una collaborazione con la band per creare un video in collaborazione sulle condizioni che accomunano il popolo sudafricano con quello palestinese.
La canzone è stata registrata dai Mavrix in Sud Africa e successivamente sovrapposta la registrazione di Mohammed Omar a Gaza, senza che le due parti si siano mai incontrate. Il risultato del brano mostra l’empatia che la solidarietà tra musicisti riesce a rendere.

Prodotto dal Palestinian Solidarity Alliance (Sud Africa) e dalla Palestinian Campain for the Accademic and Cultural Boycott of Israel (PACBI) accompagnati con scritti di Aldar Eid di PACBI, Barghouti del Movimento BDS, Ali Abunimah di Electronic Intifada e Susa Abulhawa, autrice di Mornings in Jenin” la canzone rappresenta un messaggio di supporto dei sudafricani che hanno vissuto in precedenza pure loro l’oppressione e l’apartheid. In solidarietà con i palestinesi che vivono ancora sotto l’oppressione dell’apartheid di Israele.

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Juliano’s way
DAM feat Juliano’s students¹

Jul, mi ricordo sempre quando mi dicevi che l’arte è rivoluzione,
e noi da quel giorno non siamo solo resistenti, noi siamo artisti.
Jul, non dimenticherò mai la resistenza che hai piantato dentro di noi!
Se sapessi volare
ti prenderei
e ti trasporterei nella notte,
ti porterei
come non hai visto fare mai.
Jul diceva che fare teatro ed esprimere la propria opinione è anche questa una forma di resistenza.
Noi ci siamo fermati davanti ai confini
mentre tu li hai semplicemente scavalcati.
Hai tracciato una freccia in una sola direzione:
nessuna svolta, nessun rallentamento, un unico obiettivo.
Sei morto con tutte le tue qualità amico mio,
mentre l’assassino mascherato ha paura di guardarsi in faccia.
Jul, chi è il folle tra noi?
Chi è il sano di mente? Chi ha chiaro il quadro della situazione?
Ci fosse stato tra noi un pizzico della tua follia
“libertà” non sarebbe stato solo il nome di un teatro.
Jul… Juliano è stato ucciso
lo stesso giorno in cui è stato ucciso Martin Luther King,
entrambi avevate un sogno che per noi è una speranza,
ma c’era gente disperata e armata.
Regista e attore fuori dal copione,
ci hai regalato i bambini di Arna, adesso lasciaci essere i ragazzi di Juliano.
Se sapessi volare
ti prenderei
e ti trasporterei nella notte,
ti porterei
come non hai visto fare mai.
Ci diceva sempre “non fatevi fermare dalla prima pallottola”,
e noi dopo 7 pallottole nel tuo corpo siamo ancora in piedi.
Chi incontra l’assassino gli chieda:
se Jul era su una lista nera, ditegli di mettere il mio nome dopo il suo,
a chi avete sparato?
Avete sparato al nostro uomo e alla nostra unità.
Lui, senza alcun effetto speciale è riuscito a salvare 3 ragazzi;
chiedi agli sbirri, dì agli occupanti di continuare a opprimere.
Noi non ci arrendiamo.
Jul… ci ha lasciato la sua eredità,
ma se l’assassino è uno di noi
sapete a chi abbiamo sparato?
Abbiamo sparato ad un teatro? ad una danza? ad un dipinto? Tutto questo è eresia?
Io ho aperto i libri, ma non trovo la pagina,
fammi capire, la religione combatte l’oscurità e l’arte ha lo stesso proposito,
questa è la differenza: non c’è bisogno di trasformare il bastone in un serpente per convincerci della vostra ideologia.
Basta combattere la schiavitù, e noi vi seguiamo.
Jul, se tu tornassi ai tempi dei profeti li proteggeresti con il tuo corpo:
mentre chi ti ha ucciso ha in mano i chiodi e il martello,
riposa in pace,
Se sapessi volare
ti prenderei
e ti trasporterei nella notte,
ti porterei
come non hai visto fare mai.
La libertà è libertà di pensiero, è libertà di espressione, e la cosa più importate è libertà di scelta.
Non capisco: perché si uccide la cultura?
Fa così paura la cultura? Jul ha risposto a questa domanda.
Ci siamo incontrati a Led, mi avevano detto che stavi girando un videoclip,
ad un certo punto iniziò una manifestazione, fu allora che capii una cosa nuova:
se l’occhio dietro la telecamera è coraggioso
allora ci si può trovare dinanzi ad una rivoluzione.
Per te una rosa e una grande tristezza; tutte le strade portano a Jenin,
e da qui che è iniziata la storia: impara dal maestro,
non avere paura dell’uomo mascherato che vuole far vivere nelle tenebre.
Sicuramente lui avrà seguaci tra i pazzi
mentre tu, in futuro, illuminerai la storia della liberazione, e nella storia della liberazione
ci sarà il poeta, lo scrittore e il combattente,
e stai sicuro che ci sarà anche il teatro.
Per chi ha ucciso e organizzato la scena nel teatro cupa, mentre quella di Jul sarà colorata, illuminata e terminerà con:
la storia continua.
Se sapessi volare
ti prenderei
e ti trasporterei nella notte,
ti porterei
come non hai visto fare mai.
Se sapessi volare
ti prenderei
e ti trasporterei nella notte,
ti porterei
come non hai visto fare mai.
Tu ci hai sempre insegnato che se nella resistenza non rimaniamo tutti uniti, l’uno accanto all’altro, finiremo tutti impiccati uno accanto all’altro.
I DAM sono il più importante gruppo rap palestinese, con sede a Lyd, Palestina, nati nell’anno 2000. Due membri del gruppo sono conosciuti per le loro canzoni di protesta che parlano di politica, sui diritti delle donne e altro. La band ha inciso due album (Dedication and Sligshot Hip Hop ST) e attualmente stanno completando l’album “Dabka on the moon”

La canzone Darb Juliano – Juliano Way è stata scritta nel 2012.
Nel 2004 i Dam hanno lavorato assieme al regista Juliano Mer Khamis (ucciso il 4 aprile 2011) al loro video clip del singolo Born Here e nel 2006 del loro album Dedication hanno dedicato il secondo brano (I have no freedom) al film di Juliano “Arna’s Children” tributo alla madre del regista stesso Arna, donna che ha passato la vita dedicandosi ai bambini e ragazzi di Jenin, insegnando loro di esprimere le loro paure e le loro difficoltà attraverso il teatro.
Dopo la morte di Juliano, che ha lasciato un profondo segno nelle persone che l’hanno conosciuto, hanno usato il video ed inciso la canzone per ricordare a tutti quale fosse la strada indicata da Juliano.
Il disco è uscito il giorno stesso della sua morte il 4 aprile 2012 e per la sua incisione sono state usate le immagini del funerale di Mer Khamis e delle riprese durante il suo lavoro e del suo teatro del campo profughi di Jenin dal nome significativo Freedom Teater. Il teatro stesso è stato più volte attaccato e distrutto e arrestati i collaboratori di Juliano.
L’opera del regista che si diceva essere al 100% israeliano e al 100% palestinese, non era molto gradita in quanto lui l’aveva destinata alla parte oppressa della popolazione e ai bambini e ragazzi del campo profughi che attraverso la recitazione e il teatro hanno preso coscienza della loro condizione e hanno superato paure e condizionamenti tipici di una popolazione privata dei propri diritti.
Juliano Mer Khamis, apprezzato all’estero più che a casa propria, a parte quella che si trovava nei territori palestinesi, lascia dietro di sé un grande insegnamento e delle persone che continuano la sua opera. Di questo parla il video e trasmette immagini di speranza e di volontà di emancipazione.

¹ Il video viene riproposto in quanto era già stato pubblicato con testo leggermente differente.

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1. Io guido e lei mi distrae dalla strada. Non è stata una buona idea. Non dovevamo nemmeno partire. Avevamo appena caricate le valigie e avrei voluto già essere arrivato. Una non può dirmi: mi ci porti al mare? E poi venire all’appuntamento così. E dopo il primo incontro. Con quella maglietta, così gonfia. E quei jeans che minacciano di scoppiare. Come sarà riuscita ad infilarli? Ad entrarci? Avesse la necessità di infilare in tasca un biglietto da cinque non ci riuscirebbe. Io non emetto fiato. Sono sette chilometri che guido questa bagnarola in apnea. Fuori il caldo è soffocante. L’aria condizionata non va; devo farla sistemare. Il finestrino aperto le da noia, e si spettina. E pare si sia portata dietro tutta la casa. Questa casa al mare a volte è una manna. Altre una disperazione. Cerco di fissare la mia attenzione sui cartelli stradali che indicano quanto manca. Inutile, mi distraggo. Cambio le marce con estrema prudenza, per non sfiorarla. Insomma faccio tutto per stare tranquillo. Perché questo sembri un viaggio normale. Chiede se per cortesia posso fermare. Accosto subito sul ciglio. In seconda fila. L’ha detto come fosse una urgenza. Cosa c’è adesso?
Mi verrebbe da dirti: il programma è sottotitolato alla pagina 771. Cosa fai? Cosa tiri gli occhi? Non credevo che sarebbe finita così. Insomma… cominciata così. Appena partiti. Prima ancora di partire. Almeno ferma questa dannata macchina. Che non andiamo anche in cerca di farci del male. Accosta. Ecco, bravo. Vuoi vedere? Allora guarda. Sembra che non ne hai mai viste. Bastava dirlo. Speriamo che non mi veda nessuno”.

Ragazza in automobile che mostra le tette (?)

La foto è stata censurata da Google+ (?)

Tira su la maglietta e le estrae dal reggiseno. Io resto di stucco. Senza parole. Carina è carina. Giovane e giovane. Forse sono io che sono un po’ più avanti. La serata. Il buon vino. La compagnia. Non mi ero reso conto… cioè… quasi… che… insomma. Che mi prende? mi balbettano anche i pensieri. E poi una non viene al mare in jeans. E vestita di tutto punto. Cioè solitamente una mette qualcosa sopra il costume. Sono curioso di vederlo, il costume. Sono curioso di tutto. E senza fiato. Lei non alza gli occhi. Mentre quelli di quei due enormi meloni guardano ognuno dalla parte opposta. Sembra anch’essa affascinata da quella meraviglia. Forse si sente in imbarazzo. Non ci avevo pensato. Non le avevo chiesto nulla. E’ solo… è solo che mi viaggiava a fianco. Non è facile guidare con una come lei vicino. Me ne rendo conto ora. Forse ho avuto troppa fretta quando sono arrivato. Nel farla salire.
Ti facevo uno… uno che si controllava di più. Così piacciono solo a voi uomini. E so che vi piacciono. Vorrei che qualche volta… insomma una parola carina. Un gesto. Non quello. Un gesto d’affetto. Una battuta spiritosa. Invece te ne stai lì senza emettere un fiato. Come tutti”.
E non c’è reggiseno che tenga. Che possa frenare quella loro aspirazione a dondolarti davanti. Definirla giunonica mi pare anacronistico. Curioso ne sono diventato curioso. Come ho fatto ad essere così distratto? A vederla salire senza valutare il volume, l’ingombro di quei due airbag naturali? Decisamente l’età rende stupidi. E pensare che avevo accettato solo perché mi sembrava una ragazza a posto, e simpatica. Mi aveva parlato di transavanguardia e non mi ricordo di cosa. Era nata una simpatia immediata e spontanea; tra noi. Era stata Enza a dire della mia casa al mare. Ho paura che me le sognerò di notte. Le ho fatto una foto. Lei se n’è infastidita. Credo che la terrò religiosamente tra i miei momenti più emozionanti.
Certo che… così… qui in macchina. Potevi almeno aspettare. A casa saremmo stati più comodi. E poi… mi potrebbero anche vedere. Sai cosa potrebbero pensare di me? Che sono una facile. Una di quelle. Che siamo qui… Mica mi piace così. Metterle al vento. Sono così…. Così… insomma. Non pensi che ne abbia troppe? E’ imbarazzante averle. Portarsele dietro. Tutti ti tengono gli occhi addosso. Solo che… potevi dirlo subito. E poi, al primo appuntamento. Forse non sarei dovuta nemmeno salire. Non sei certo un signore. E’ solo perché sei tu. Mi stai simpatico. Ma non lo dovrei fare. E’ tutto così… così… tutto. Non farti strane idee su di me; però. Sì! forse lo avrei fatto lo stesso, anche se me l’avessi chiesto subito. Ti ho detto che mi sei simpatico. Non so proprio. E con i se e i ma. Forse. Invece siamo qui”.
La sua voce è un ronzio anche piacevole che porta alla sonnolenza. Non fosse per l’adrenalina che ho in corpo, la fretta di arrivare, sarebbe pericolosa. Non mi viene proprio nulla da dire.
Spero che adesso non ti metti strane idee in testa. Ti vedevo così teso; cioè curioso. Mi son detta: «questo si distrae. Poi chissà come va a finire. Se ne sentono tante in macchina». Ora calmati. Spero che tu sia contento. Se vuoi, la sfilo. La maglietta. Ma poi ognuno al suo posto. Poi mi rimetto in ordine e andiamo. Altrimenti si arriva tardi. E a me non piace. E non vorrei che ti mettessi altre cose in testa. So come siete voi. Poi magari vuoi anche toccare. Forse era meglio se non lo facevo. Forse era meglio se non venivo. Che con questi jeans, sono così stretti. Mi chiedo cosa ci sto a fare qui. Con tutto al vento. Solo per un capriccio. Il tuo capriccio. Che poi… nemmeno me l’hai chiesto. Sembra quasi che abbia fatto tutto da sola. Non fossero i tuoi occhi a parlare. E te ne stai li zitto. Come se ti avessero rubato la parola. Respira. Devo essere proprio scema”.
E pensare che non mi ero prefissato niente. Per un attimo avevo pensato che se doveva succedere qualcosa sarebbe successo. Per un altro attimo ho pensato che più che carina aveva un sorriso fresco. Per un attimo ancora che era tanto giovane. Troppo. Forse. Poi mi ero imposto di frenare la fantasia. Non mi è frequente abbandonarmi. E’ solo che avevo bevuto un bicchiere in più. E volevo evitarmi delle stupidaggini. Da film. Mi sono spiegato che era solo una giornata al mare; come tante. Forse tutto è dovuto perché era seduta, di fronte. Avevo guardato parlare i suoi occhi; il suo sorriso. Avevo ascoltato il suono della voce. Ecco perché Giangi aveva chiesto: “Ma l’hai vista”? Non avevo capito. Non le vedevo nessun difetto. Ingrano e riparto. Sono naturalmente intralciato nei movimenti. Non vorrei che… è un attimo di comprensibile imbarazzo. Cerco di uscirne.
Che fai”?
E’ l’unica cosa che riesco a dire di questo viaggio: “Resta così. Ti prego. Almeno un po’. Non manca molto. Mi piace come mi guardano i tuoi occhi”.
Ma allora sei proprio vizioso. Ti facev”…
La macchina che sorpassiamo strombazza di clacson. Il guidatore lancia un grido a finestrino chiuso. Il suo entusiasmo resta imprigionato nella scatola di lamiera. Ci occhieggia con i fari. Lei brevemente ritrova la sfacciataggine della sua età. Si volge indispettita ad illustrargli tutta l’enorme vastità esibita dei suoi due promontori, ritta sulle ginocchia: “To’”! Gli indica il cielo con un dito; il medio. Dice ch’è uno zotico incivile. Anche di peggio. Si rimette comoda e chiede scusa indirizzandola verso la nostra destinazione. Lo vedo sbandare e frenare giusto in tempo ad un nanomillimetro dal guardrail. Credo lei si sia resa conto del mio stato. Le sfugge un impercettibile sorriso di approvazione. O almeno è questa la mia impressione. Forse di biasimo? Sembra disposta ad assecondarmi.
Sto leggendo “Quattro etti d’amore, grazie”. L’ultimo della Gamberale.[1] E’ appena uscito. Non so; conosci? Sono solo all’inizio. Non so se è un libro che può piacere ad un uomo. A me invece piace la sua scrittura. Trovo sia pieno di passaggi brillanti. Sottili e brillanti. Siamo proprio così, noi donne. Molte di noi, naturalmente. Ogni tutto è relativo. Scusa le licenze linguistiche; sono fatta così. Non esistono al mondo gli assoluti. Anche i termini debbono essere considerati nella loro relatività. Anche se crediamo solo nelle assolutità; soprattutto noi donne. Nell’amore assoluto, per esempio; anche se è un esempio banale. Ma siamo attente e riflessive. A nostro modo riflessive. Ogni uno è due. Potrei avere tutto, si parla per ipotesi, e paradossi, dicevo che avessi tutto invidierei chi ha l’amore. Per quello, quello vero, siamo pronte a rinunciare a tutto. Vorrei dirti cosa penso di te. Per vedere se ci ho azzeccato. Solitamente ho fiuto per le persone. Riesco a riconoscerle al primo sguardo”.
Non è che abbia una guida particolarmente nervosa. E’ che sono curioso di vedere la loro vita. Di vederle muoversi. Accelerare. Rallentare. Oscillare. Allargarsi. Riassestarsi. Posarsi. E poi, con impertinenza, fare un balzo avanti. Oppure indietro. E ondeggiare. Un sciabordio che prende direttamente allo stomaco. Con quei piccoli capezzoli che quasi scompaiono. Che quasi li devi cercare. Su quella carne bianca. Su quella massa. Microscopiche presenze. Quasi due punture di insetti. Nel mezzo approssimativo di quei due mappamondi. Al centro di quelle vastissime aureole. Che hanno la forma… la forma… che cazzo ne so? Di quelle aree. Non mi sembra il momento di cercare certe similitudini. Ho un enorme ronzio in testa. E la strada scivola fin troppo veloce. Il mio mostro divora vorace la pianura. Chissà se si abbronzano? Non so se è stata una bella idea.
Io leggo molto, come avrai capito, non solo romanzi, ma a volte anche nel racconto più stupido, banale, puoi trovar delle vere perle. Spunti di riflessione, Considerazioni illuminanti. Persino casuali. Chissà se l’autore ne è sempre consapevole. Tu che ne dici”?
Non so. Mi chiede di rallentare. Osserva il suo petto in movimento. All’improvviso cambia di umore. Non è una cosa rare nelle donne. Nella sua mimica silenziosa si addensano un’enorme quantità di nubi; si rabbuia. Non la conosco abbastanza per conoscere tutte le sue facce. Certo che all’improvviso la sua maschera si fa opaca. Non può essere un mistero che dietro quel suo volto, in una donna, non possano che presentarsi riflessioni. Ansie. Considerazioni. Dicono sempre le stesse cose, in certi momenti, gli occhi di una donna. Quel silenzio di un istante non può che nascondere la ricerca spasmodica di una decisione, magari una qualsiasi. Magari una delusione; seppure passeggera. Speriamo passeggera. Magari una rinuncia. Il dubbio di un fallimento. Di una sconfitta. La delusione. Più semplicemente la lista confusa delle cose che ha portato, alla ricerca di quelle che può aver dimenticato. La paura di non essere bella. Un beffardo pensiero di riscatto; magari licenzioso. A volte apertamente osceno. Nascosto. Negato. Perché contengono anche quello le cose non confidate delle donne. Quelle che non dicono che a sé. O tra loro. Non certo in presenza di un uomo. La scoperta di una macchina sulla maglietta. La rincorsa ad una testardaggine. Volitività. Ne può uscire qualsiasi cosa. E un uomo non può stare mai tranquillo quando una donna tace in quel modo.
Puoi rallentare, per favore”?
Fa uno sbadiglio che sospetto annoiato. Riporta quelle due montagne di delizia negli appositi contenitori. Si sistema la maglietta. Si controlla il trucco. Rimette la cintura. Mi studia per due minuti buoni. Legge la mia delusione. Si volta per prendere la borsa, credo, e scopre di aver messo anche quella nel bagagliaio. Districa i capelli che si sono aggrovigliati sugli orecchini. Li rassetta con le unghie. Guarda fisso davanti a noi: “Per cortesia, torniamo”. Intanto ora la vita delle gemelle è diventata più pacata. Non riescono a stare ferme nonostante il gran rifiuto della stoffa a fiori che traspare impercettibilmente sotto, ma hanno un moto più lento. Più lieve. Quasi controllato. Elastico. Anche contro improvvise accelerate e frenate, cambi di velocità e sorpassi all’ultimo, ondeggiano leggiadre, composte, rassicuranti, gentili, lievi, parche, sobrie, moderate, equilibrate, di una vita comune, quasi in un cenno.
Guarda che… non mi p… Non è più divertente”.
Come si può non fantasticare. Gli occhi azzurri come lapislazzuli. I capelli di quel morbido castano pieni di riflessi rossi. Il sorriso virginale da dea dell’amore. A guardare un po’ di pancetta ce l’ha. Chi non ha debolezze nascoste? La pelle… la pelle come… la pelle lisca e senza imperfezioni. Dev’essere soda e morbida allo stesso tempo. Della morbidezza della affettuosità. Devo convincerla a restare. La casa e libera. Che senso ha tornare la domenica dal mare? Inventerò. Se debbo insistere insisterò. Già m’immagino gli occhi in spiaggia che sbiadiscono quando passiamo. L’ammirazione di quei bagnati del dilettantismo. Tutti e tutte che invidiano lei, e me al suo fianco. Uomini e donne. Mi vedo: io e la mia regina. I miei pensieri debbono avermi fatto assentare per alcuni istanti. Superiamo un autogrill. Non mi ha chiesto di fermarmi. Non ne ho né voglia né bisogno. Probabilmente lei non è una di quelle che ci deve andare ogni cinque minuti. Non finirò mai di scoprire i suoi pregi.
Cosa dici? Ho pensato di chiedere un parere. Di consultare un chirurgo. A proposito di ridurle. Di farle stare massimo dentro una quarta. In fondo non è una decisione facile. Però questa non è vita. Sono un pericolo per gli altri e per me. Sono una fonte di incredibili imbarazzi. Se non ero con te… sono sicura che un altro ci avrebbe provato. Che rischiava di finire come va sempre a finire. Sono stanca. Stanca che qualsiasi cosa dica chi mi sta davanti guardi solo loro. Pazienza gli uomini, ma persino le donne. E con quella bava di invidia. Stanca di far fatica a trovare la mia taglia. Dei fischi per strada. Delle mani che mi frugano addosso, in qualsiasi occasione. Degli amici che diventano curiosi. Che mi chiedono come faccio. Se sono mie; persino loro. Com’è? E che anche loro, spinti da un neonato interesse, mi chiedono “Posso”? Non riesco a mantenermi un amico. E per quello nemmeno tanto un’amica. Di quelli che pensano che sarei una grande mamma, o una grande balia, perché tante tette tanto latte. Di quelli che tante tette vuol dire troia. E chissà il resto? Cretini”.
Sento un dolore al petto, una sorta di compressione. Un dolore che poi si estende al braccio sinistro. E una gran sete. Vede la smorfia sul mio viso; la transumanza. Glielo dico e lei mi ordina immediatamente: “Frena”! Scendendo rapida mi impone: “Spostati”! Scivolo nel sedile del passeggero. Lei prende in mano la situazione e il volante. Fa una pericolosissima inversione a U e accelera al massimo. Non fiata né mi dice quello che pensa, solo che: “Si va all’ospedale. Stai tranquillo!” –sembra veramente preoccupata. Comincio a preoccuparmi anch’io. Non ho bisogno di spiegazioni, mi sono imbattuto nel famoso sabato triste, anzi di merda. Credo che le sue parole cerchino di distrarmi. Continua come nulla fosse successo.
Pensare che qualcuna (delle mie amiche n.d.M. [n.d.M.: nota di Marisa]) invidia la mia fortuna. Perché sono bella, cioè carina, e così tanta bella. Invece è una disgrazia. Una vera disgrazia. E pensare non è solo l’inizio. Non hai ancora visto niente. Ho un costume nuovo che è uno schianto. Peccato. Se solo fossi stato un po’ più carino. Un po’ più paziente. Adesso proprio non so. Non so se fidarmi di te. Io non sono una ragazza come tante. Credo nei sentimenti. Credo che da cosa possa nascere cosa. Anche se doveva essere solo una giornata al mare. Forse un fine settimana. Dipendeva da te”.
So solo che mi ritrovo in una sala asettica. Piena di monitor che mi sembra d’essere precipitato in uno degli episodi di Alien. Uno stormo di medici si da un gran da fare intorno a me. L’ultimo commento che ricordo è quello dell’anestesista che mi spiega: “La sua signora la sta aspettando fuori”.

2. «Scusate se da qui la storia la continuo io. Niero non è più in grado di farlo o non ne sente la necessità. Il dottore ci ha detto che deve evitare gli sforzi e le emozioni. Non credevo che quel sabato avrebbe cambiato così la mia vita. Ma dopo tutto quello che c’era stato tra noi non potevo proprio abbandonarlo da solo. E mi suonano ancora nelle orecchie con immensa delizia e gratitudine le ultime parole che gli ha rivolto l’anestesista. Mi hanno fatto e mi fanno sentire importante. Ma la convalescenza è lenta e non si vedono grandi segni di ripresa. Tra l’altro era anche carina, e ho resistito all’impulso di strapparle gli occhi. I dottori sembrano rassegnati e fatalisti. Non me ne preoccupo: è un ottimo compagno anche così. Forse è anche meglio. E’ un uomo che sa ascoltare.
Poveretto: è rimasto completamente immobilizzato com’era; anche, incredibile, nel suo entusiasmo. Ma ora ha me. Anche il minimo movimento gli costa sforzi precari. Ma io provvedo a tutto. E cerco di anticipare i suoi desideri. Credo di riuscirci. Ha perso quasi completamente l’uso della parola. Per il poco che so non è mai stato troppo ciarliero. E fatica immensamente anche per i pochi vocaboli che riesce ad articolare. Li sputa inzuppati di saliva. Me li spruzza addosso. Usa praticamente solo quei pochi epiteti, spesso riferimenti a femmine di animali, così frequenti nella bocca di tanti uomini, come “vacca” o “maiala”. Ma in lui sono carinerie. Sono quasi, ma anche senza il quasi, nel nostro gergo segreto, segnali di gradimento. E i suoi occhi, che spesso lacrimano senza ragione, sono prodighi di muti elogi. E io gli asciugo delicatamente quegli occhi. E i contorni delle labbra. Marisa invece lo dice ormai quasi perfettamente e senza fatica. Si capisce che chiama me.
E’ tutto nuovo per me. Lo curo di tutto e gli metto in bocca tutte le medicine che deve prendere, che sono veramente tante. Se serve ho imparato anche a fargli le punture. E ho imparato a cucinare. Inizialmente cose semplici, ma sto diventando bravina. Qualcuno dice che son diventata veramente una bella signora. Non lo so, lascio agli altri giudicare. Io ci credo veramente che l’amore ti fa bella. Sono sempre io persino a radergli la barba. Con la massima precauzione perché ho sempre paura di tagliarlo. Me lo pettino e me lo vizio. Ieri sono andata a prendergli un pigiama veramente figo. Anche se non ne fa grande uso mi piace curare il suo abbigliamento nei minimi dettagli. Mi piace vederlo elegante e curato. Con i pantaloni in perfetta piega. E poi lui sta bene con la giacca. Ma anche con una bella polo dal colore vivace. Mi piace sceglierle con tonalità che si adattino ai suoi occhi. Una l’ho acquistata del colore dei suoi pochi momenti di tristezza. Perché quelli mi sanno strappare il cuore.
Deve soffrire, povero caro, in quei brevi attimi, la consapevolezza delle sue menomazioni. Io cerco di cancellargli qualsiasi nostalgia. Anche di quel nostro primo vero incontro, non ha perso granché. Solo un sabato al mare. Perché poi già nella notte il tempo è cambiato e s’è messo pure a piovere. Avremmo comunque dovuto starcene chiusi soli in casa. Perché oggi sono certa che mi avrebbe convinta. Magari ci saremmo anche annoiati. Questo non voglio che succeda mai. Con tutte le mie forze. Anche il due pezzi che avevo scelto per l’occasione poi gliel’ho fatto vedere. L’ho indossato in casa e solo per lui. L’ho indossato e poi l’ho anche tolto davanti a lui. E gli ho confessato come mi piace prendere il sole, integralmente. Ovviamente quando non ho altri occhi addosso. Non che abbia potuto stendermi in riva al mare; non c’è nessuno ma proprio per questo la stagione, cioè la temperatura, non lo permetterebbe. E con la carrozzina farei comunque fatica sulla sabbia. Mi sono stesa sul divano con la luce della finestra alle spalle. Una luce un po’ opaca. Credo ne possa aver ricavato un’idea, e nemmeno tanto approssimativa.
Anche nella mia vita privata è cambiato molto se non tutto. Oggi sono più sicura di me. Posso dire che sono una donna soddisfatta. Al suo fianco il mio mondo, più che un mondo felice, è diventato un vero sogno. Finalmente ho conosciuto il vero grande amore e lo vivo giorno per giorno, minuto per minuto, senza lasciarne nemmeno una briciola. In fondo devo tutto a lui e, nonostante i pericoli che comporta, mi capita di non riuscire a non dirglielo. A volte mi sento persino colpevole nei confronti di chi ha meno di me. Il lavoro? quello no. Ho dovuto lasciarlo. E ho dovuto lasciare anche tanti progetti nei quali pensavo di realizzarmi. Ora mi sembrano fantasticherie infantili; lontane. In realtà non è stato nemmeno un grande sacrificio. Lui è più importante di tutto.
Le tette? La storia che non può far fatica e deve evitare le emozioni non mi convince pienamente. Io credo nella scienza, ma ci vorrebbe un miracolo. Ma io credo anche nei miracoli. Comunque io ho ogni cautela del caso. Forse troppe. Forse quelle giuste. Sforzi? Che fatiche può fare uno nelle sue condizioni, tra la poltrona e il letto? Che quando usciamo se ne sta comodo sulla carrozzina? Sono io, doverosamente e con gioia, a spingere. Ma non mi costa alcuna fatica. La carrozzina poi è leggera e maneggevole. Per quanto riguarda le emozioni, povero piccolo, mon petit, ormai quelle, le mie tette, le ha viste e viste bene e riviste. E non solo; perché io non me lo trascuro. Voglio non gli manchi niente. E ormai niente di me può certo rappresentare più chissà quale turbamento. Ho messo la foto che mi ha scattato allora in una cornice sopra il canterano.
I soldi? Quelli non ci mancano. Per fortuna lui ne ha per tutt’è due. Anche se mi sento un po’ limitata nella mia indipendenza. Cioè mi sento un po’ come se sfruttassi lui o la situazione. Lo so che è un pensiero sciocco: cosa farebbe senza di me? Dipende da me in tutto e per tutto; almeno per ora. Lui ha ogni istante della mia vita. E mi succhia ogni energia. Lo cambio sopra e sotto, lo lavo (nel far questo a volte non gli so proprio resistere), lo vesto, lo accomodo nella stanza dove sono, me lo bacio ogni volta che passo, gli parlo, lo imbocco, lo coccolo, gli accendo la televisione, lo spoglio, lo metto a letto, e tutto il resto. E poi, alla fine, per dirla tutta e senza riguardi, la sua famiglia ha mostrato fin dal primo istante di volersene lavare le mani. Che per loro, di lui, importavano solo i soldi. Per me non è nemmeno fatica. Non ci manca niente, assolutamente niente. Nemmeno quello, anzi.
Come ho avuto modo di accennare: nell’incidente, perché preferisco continuare a pensarci in questi termini, è stato anche fortunato. Sì! anch’io, e arrossisco nell’ammetterlo. Lui è rimasto immobile com’era. Voglio dire che è come se mi volesse tutto il giorno, e la notte. Lui è lì ed è come se aspettasse sempre me. Non so se mi spiego. Mi sento desiderata in ogni istante della giornata. Ogni volta che ne ho voglia, e non è quella che manca, lui è immediatamente disponibile. E se per caso non mi dovesse andare, lui è pronto per quando mi torna. Sembra non stancarsi mai. Certo che al mio piccolo amore, al mio little boy, il suo zuccherino non gli fa mancare nulla, e cerca di evitargli ogni fatica. Lui ha solo il dovere di essere felice. E soddisfatto. E di aspettare me. Non fatemi dire cose che non mi piace dire. Sono particolari intimi.
Ma mi prendo cura anche del nostro spirito, per quanto posso. Per esempio al momento gli sto leggendo “Mille piccoli soli[2]. Non è certo fresco di stampa. Lo faccio proprio per lui. Io l’avevo già letto appena uscito. E’ un po’ duro ma è giusto che cominci a capire. Che diventi consapevole. E un paio di sere fa, abbracciati, comodamente accoccolati sul divano, abbiamo guardato assieme, e assieme ne abbiamo pianto, “Restiamo umani; the reading movie[3] di un mio caro amico. Gran bella testimonianza. Che ti tocca diritta nel più profondo. E ti lascia dentro quella sorta di ansiosa angoscia e di rabbia. Quando la nostra attenzione è tutta presa da cose simili ci dimentichiamo anche di noi. Nulla ci può distrarre. Abbiamo attenzione solo per quelle immagini o sulle pagine di quelle storie. Ogni altra cosa è rimandata a dopo. Alla fine mi piacerebbe sapere che ne pensa. Mi accontento di vederlo attento e di liberarmi l’anima di tutte le emozioni che la bellezza e l’intelligenza suscitano in me. Dopo lui le cose che amo di più sono la cultura e l’arte.
Quando mi va di uscire lo faccio e basta. Col suo consenso in un cenno finale degli occhi. Lui sa che sono una ragazza ancora giovane e piena di energie. Di quelle, di energie, in verità, la vita con lui me ne lascia ben poche. Ma abbastanza perché, come tutti, certe sere mi venga voglia di evasione. Come tutte mi vien voglia di indossare questo o quell’abito. Di farmi bella. Di sentirmi gli occhi degli altri addosso. Allora mi metto in ghingheri. Proprio in tiro. Curo ogni dettaglio. Biancheria compresa. Mi faccio ammirare da lui, sopra e sotto, meticolosamente, e lo saluto sulla porta. Questa vita non mi costa nessun sacrificio, ma faccio attenzione e non faccio mancare nulla nemmeno a me. Voglio evitare assolutamente di correre il rischio che questo nostro meraviglioso amore si possa un giorno sporcare di rimpianti. Mentre esco lui solitamente mi dice qualcosa che suona come “coccola” o “zoccola”. E lo dice con occhi imploranti e pieni di quella sua dolcezza.
Ma quando sono fuori non sto mai completamente tranquilla; un po’ dei miei pensieri resta con lui; è naturale. I primi tempi non lo facevo, non lo lasciavo mai solo, non potevo farlo. E mi bastava. Mi tranquillizza solo il fatto che se dovesse aver bisogno, anche se non è ancora successo, io correrei subito da lui. Le dita quelle le sa muovere e anche bene. Ormai si gira i canali da solo. Allora gli metto il cellulare vicino. Non dovrebbe fare altro che comporre il numero breve: il primo, il mio. Sa fare perfettamente il segno del medio e spesso congiunge l’indice col pollice in un messaggio che non ho ancora imparato a decifrare. Infatti gli piace, e piace anche a me, quando gli prendo le mani e me le porto al seno. La sue dita allora sanno cosa fare. Riescono a suonare nelle mie corde più intime delle armonie incredibili. Letteralmente sanno farmi impazzire. Piccoli segni di miglioramento mi sembra di vederli. Si deve aver pazienza, ma io di quella ne ho a pacchi, a pacchi, a pacchi».

[1] Quattro etti d’amore, grazie di Chiara Gamberale. Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Milano, 2013

[2] Mille piccoli soli di Hosseini Khaled. Edizioni Piemme, 2007
[3] Restiamo umani; the reading movie (Stay Human, the reading movie) progetto di Fulvio Renzi, Luca Incorvaia. edizioni dal basso, 2013

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Gerusalemme

Dopo la notte. Perché la notte sporca tutto; di nero. Nulla è diverso. Solo un grande universo di ombre. E i colpi improvvisi fiondati delle luci. Come buchi; baluginanti. Come bugie. Come sussurri sfuggiti di mano. Frettolosi. Come un vuoto cavo; privo di emozioni. Come se non esistessero altri mondi. Senza eccitazioni. E’ stato tutto fin troppo facile. Non resta che l’incredulità. Ed essa si mescola alla fretta. E alla stanchezza. Guardarsi intorno è trovare solo un grande vuoto. Febbricitante. Mi sembra di non essere mai partito. Non fosse perché mi trascino il sonno di queste piccole ore. Non fosse perché so, perché mi hanno raccontato: pagine, voci, ricordi. Perché ho già una guida. E lei mi guida. Mi dice che questa non è la luna, che non sono entrato nel ballo. E non aspetto il mattino, lui viene da solo. Si fa spargendo sole in un paesaggio piatto. Ed è Palestina.
Diario di viaggio. Mi alzo pigro. Svuotato di forze. Forse è la febbre. Spero sia solo quella. Senza il coraggio della resa. Il fuori mi aspetta. Mi accorgo subito che il viaggio non è fuori ma dentro. In me. A mettermi ansie, e dubbi. A dirmi che non era vero. Non così. E’ un viaggio nella pancia, nel cuore. Banale dire: un viaggio nell’anima. Le emozioni tradiscono. Niente è uguale. Credi di sapere. Ti accorgi che non sai. Devi sentirle le cose. Devi vederle con i tuoi occhi; lì. Toccare quella terra che pare non essersi mai bagnata che di sudore. E mai abbastanza. Terra che si fa polvere. Che si fa pietra. E la carne è pergamena, sui volti scavati, sotto le schiene curve. Adesso sì, sono sulla luna. Su un altro mondo. Il paesaggio altro non è che paesaggio. La gente è gente. So che l’uomo è uomo da per tutto. Non cambia con le stagioni, né per una limite immaginario e immaginato. E la gente va di fretta come da noi. E’ mattino. Si comincia. L’inquietudine è solo nello stomaco, nel mio stomaco. Ho timore di aver sbagliato posto. Eppure le voci hanno suoni diversi. Che ricordo appena (senza dovere spiegazioni).
Dimmi che è vero? Siamo a Gerusalemme. Dove è cominciato tutto. Dove sono nate le storie (e anche chi le ha raccontate). Dove hanno scritto l’odio. Dove hanno ucciso l’uomo. E lo tornano ad uccidere ogni giorni. Ogni minuto. Ciò che mi colpirà è la testarda perseveranza. L’ostinazione di un rancore senza tregua; lì dietro torrette cieche. E la gente per strada, che sa ancora sorridere. Che sa ancora guardare a domani. Che inventa un motivo continuamente, e la voglia di vivere. Quella voglia frettolosa di frugare nel nulla per preparare almeno un tè. Per farti sentire a casa. Eccoli i terroristi. Certo che non ci avevo creduto. Certo che non può esserci un popolo che vive solo e tutto di terrore. Sono uomo tra gli uomini. In ogni paio d’occhi c’è un benvenuto. Voglio vedere l’altra faccia. Ho fretta.
Cos’è un’occupazione? E’ lì, dietro un muro. In quelle torrette da dove ti guardano e non li vedi. E’ nelle armi di un paese di guerra. Ma è questa la guerra? I bambini vanno a scuola. I negozi aprono. Tutti vanno di fretta. Una fretta scomposta. Passano vicini alla guerra e non la guardano. I soldati paiono anacronistici. Usciti da un altro raccolto. Scesi da un altro mondo. Da un mondo distante. Maschere. Finzione. E paiono anche loro a disagio. Fuori dal tempo. Imbarazzati. Appaiono all’improvviso e scompaiono lentamente. Cercano di non guardati, ma quando lo fanno ti sfidano. Credono che quello sia il loro compito: sfidare tutto e tutti. Sfidare il mondo. Forse è questo il mestiere del soldato. Raccontano in silenzio un’altra storia. Ancora un’altra. E tutte quelle storie si intrecciano. Senza una vera trama. Senza un ordine. Più alto delle case si leva il minareto. Più delle voci si alza l’adhān. Ora so di essere arrivato: sono a al-Quds.

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da WWW.ASSOPACEPALESTINA.ORG
uno, due, mille Bab Al Shams, oggi è Al Manatir

Bab Al Shams

Centinaia di residenti di Burin, villaggio nei pressi di Nablus, in collaborazione con i comitati popolari e attivisti palestinesi, hanno costruito un nuovo villaggio sulle terre minacciate dalla confisca e sotto continuo attacco da parte di fanatici coloni ebrei israeliani dell’insediamento di Har Brakha
Gli hanno dato il nome di Al-Manatir, le capanne di pietra tradizionali costruite sui loro terreni agricoli, utilizzati come rifugio e ripostiglio.
Negli ultimi anni, il villaggio di Burin ha sofferto di frequenti attacchi dei coloni, sia da quelli di Har Brakha che da quelli di Yitzhar. Gli attivisti sottolineano che il loro obiettivo principale è quello di sostenere la presenza sul territorio, proteggere dalla confisca e affermare sul terreno i diritti dei residenti Burin alla loro terra.
Intanto gruppi di coloni di Har Brakha iniziato ad attaccare i palestinesi lanciandogli pietre. L’esercito, presente in grandi forze, ha sparato gas lacrimogeni e granate assordanti contro i palestinesi, ma fino ad ora, non è stato in grado allontanare i palestinesi.
“Questa attività mette in evidenza l’assoluta necessità di promuovere e rafforzare la cultura di base di auto-difesa della nostra terra”, ha detto uno degli organizzatori. “Inoltre, l’azione mira a rimuovere i coloni e gli insediamenti di terra palestinese”, ha aggiunto.
Burin è un villaggio palestinese situato a 7 chilometri a sud-ovest della città di Nablus. Il villaggio di 2.500 abitanti su un area di 1.300 dunams. Terra e risorse idriche di Burin sono stati gradualmente ridotti dopo l’occupazione israeliana del 1967 a causa dell’ espropriazione delle terre per far posto a insediamenti israeliani e basi militari.
Dal 1982 più di 2.000 dunum di terra Burin sono stati dichiarati “terra di stato” dall’Amministrazione Civile Israeliana, e poi consegnato ai coloni di Har Brakha. Il paese è continuamente posto sotto attacco dei coloni, compreso l’uso di munizioni vere contro i residenti e l’incendio e la distruzione di proprietà e ulivi.
Lunga vita Al Manatir, libertà per la palestina.
http://www.assopacepalestina

qui sotto comunicato dei comitati popolari

Saturday, 2 February 2013
Palestinians Build Tents and Huts in Burin Village to Ward off Settlement Expansion Hundreds built the Manatir Neighborhood on the lands of the village, south-west of Nablus, which is routinely the target of settler attacks.
Activists establishing the neighborhood of al-Manatir in Burin Hundreds of Burin’s residents, together with Palestinian activists from across Palestine, established a new makeshift neighborhood of huts and tents in the village today, on lands threatened by confiscation by the adjacent Jewish-only settlement of Har Brakha.
The new neighborhood is named Al-Manatir, after the traditional stone huts Palstinians built in their agricultural lands, which were used as shelter for the watchmen of the fields.
In recent years, the village of Buring has suffered from frequent Settler attacks, launched from both the Har Brakha and the Yitzhar settlements. Activists stress that their main goal is to sustain presence on the land, as means of protecting it from confiscation and establishing the rights of Burin’s residents to their land.
Shortly after the structures were established, groups of settlers from Har Brakha started to convene in the area and attack the Palestinians by throwing stones at them. The army, present in large forces, shot tear-gas and stun grenades at the Palestinians, but as of yet, was not able to drive the residents away.
Media Contact: 0592400300
“This activity highlights the crucial need of enhancing and strengthening the culture of grassroots self-defense of our land”, said one of the organizers. “Furthermore, the action aims at removing settlers and settlements from Palestinian land”, she added.
Israeli settlements and land-grab in the Occupied Territory has recently been highlighted by a report submitted to the UN’s Human Rights Council’s by an independent Fact-Finding Mission on Israeli Settlements in the Occupied Palestinian Territory. The report called has called on Israel to halt all settlement activity and to ensure accountability for the violations of Palestinians’ human rights, resulting from the settlements. The report also called on all relevant international actors, private or state-connected, to take “all necessary steps” to ensure that they were respecting human rights, “including by terminating their business interests in the settlements”.
Burin is a Palestinian village in the Nablus District, located 7 kilometers south-west of the city of Nablus.  The village’s 2500 residents reside on approximately1300 dunams (320 acres, 130 hectares). Land and water resources of Burin have gradually been reduced since the 1967 Israeli occupation due to expropriation for Israeli settlements and military bases. Since 1982 more than 2,000 dunams of Burin’s land have been declared “state land” by the Israeli Civil Administration, and then handed over to the settlers of Har Brakha. The village suffers from ongoing settler attacks, including the use of live ammunition against residents and the burning and destruction of property and olive trees.

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Il cavallo di Jeninda Il campo rifugiati di Jenin, tra ricordi tragici e (apparente) normalità (12 dicembre 2011)
Entriamo insieme per una breve visita a piedi del campo di rifugiati di Jenin. Niente a che vedere con altri campi rifugiati visti in Africa: qui non ci sono né baracche né tendoni, e la gente vive in palazzine d’appartamenti a più piani, di cemento e mattoni, abbastanza solide, anche se costruite alla bell’e meglio, una accanto all’altra, senza molto spazio per respirare o per ammirare il cielo, e senza molta intimità.
Dal punto di vista urbanistico, questo è in realtà un quartiere della città come tanti altri, soltanto più denso e più povero. Tutti i campi di rifugiati in Palestina sono costituiti da strutture permanenti e sono a volte difficilmente distinguibili dai quartieri normali. Politicamente parlando però vengono sempre definiti come campi di rifugiati, perché i loro abitanti sono i palestinesi e i discendenti dei palestinesi scappati o scacciati dalle loro terre, ora parte di Israele, durante la guerra del 1948.
Entriamo nel campo e subito noto qualcosa di strano. Le vie sono tutte abbastanza larghe, almeno tre o quattro metri, quanto basta per farci passare comodamente una macchina. In altri campi quasi tutte le vie sono vicoli stretti e oscuri, schiacciati tra le case, dove a malapena due persone riescono a incrociarsi senza sbattere l’una sull’altra. Il campo di Jenin non doveva essere il più terribile di tutti? A primo impatto, con queste vie abbastanza spaziose, ha l’aria d’essere un quartiere quasi normale.
Un ragazzo palestinese me ne spiega il motivo. Una volta pure nel campo di Jenin c’erano quasi solo vicoli stretti e bui. Durante la seconda Intifada, nel 2002, il campo venne invaso dall’esercito israeliano venuto a snidare i vari gruppi di militanti palestinesi basati al suo interno. Per non esporre i soldati a piedi al fuoco nemico, gli israeliani usarono una batteria di bulldozer corazzati per aprirsi dei varchi e allargare dei passaggi per i loro carroarmati. E nei dieci giorni di battaglia, centinaia di case furono rase al suolo.
Negli anni successivi alla battaglia gli abitanti poco a poco si sono ricostruiti le loro case grazie a vari aiuti internazionali, e delle demolizioni non resta traccia. Questa volta però tra una fila di case e l’altra, hanno lasciato più spazio e le vie sono abbastanza larghe per lasciar passare una macchina. Oppure un carroarmato. Così se in futuro l’esercito israeliano dovesse invadere di nuovo il campo, per lo meno non avrà scuse per distruggere un’altra volta le loro case.
All’ingresso del campo c’è una rotonda con una grande statua di un cavallo, giusto in centro. A prima vista mi fa pensare al cavallo di Troia. Pure qui c’è dietro una storia. Questo cavallo è in realtà un’ambulanza palestinese bombardata e distrutta dagli israeliani durante la battaglia. Con le lamiere strappate e contorte un’artista tedesco ha poi creato questa scultura. Ed eccola lì, all’ingresso del campo, a ricordarci che questo non è un luogo qualsiasi, a rammentarci della sua tragica storia.
Verso la fine della visita entriamo in una casa qualunque del campo, e siamo invitati a pranzo da una famiglia palestinese. Siamo un gruppo misto di stranieri e di palestinesi, almeno una dozzina. Ci sediamo sopra un largo tappeto e dei piccoli cuscini stesi al suolo, ci servono dei vassoi di riso e pollo, dei piattini d’insalata, e pranziamo tutti assieme. Non conoscono quasi nessuno tra di noi, ma sanno che siamo venuti per visitare il campo, per scoprirne la storia, e per ascoltare dei racconti sulla loro vita e sui loro problemi; e solo questo ci basta per meritare la loro ospitalità. Sono spesso le persone nelle condizioni più povere e più dure ad essere le più generose.
Quattro appunti

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Hotel CapitolHotel Capitol. E’ tutto dietro il vetro, almeno per me. Tutto resta dietro quel vetro. Ancora. Una sigaretta e torno dietro il vetro. Nascosto nel male. Cauto. Tutto resterà dietro quel vetro. E mi nascondo da quel male. Dall’odio.
Gerusalemme è una città mediterranea. Rumorosa. Solare. Con quel chiacchiericcio. Una città come tante del nostro meridione. Ma con tante donne col capo coperto. Eppure la mia indignazione ha bisogno di quel vetro. Per difendersi. Per prendere le distanze. Per lenire la grande rabbia. Ma gli occhi troppo spesso non sanno trattenere le lacrime. “Restiamo umani”.
Credevo di essermi insegnato tutto. Preparato. No! quello sdegno e troppo grande. Troppo pesante per un uomo solo. Giro la guida tra le mani. Non la sfoglio. Ho occhi curiosi. Vorrei gridare. E dire tutto. E sentire tutto. Nessuna lingua può tacitare quegli occhi. Eppure la gente ride. Cerca di vivere. Cerca la normalità. Insegue la vita. E i bambini non lesinano un sorriso. Ce lo regalano senza parsimonia. Ci corrono incontro. Ci corrono intorno. Ci chiedono i nomi. Ci dicono i loro nomi. E se niente fosse vero? Mi chiedono e mi danno un cinque.
Questa è Palestina. Ancora mi pare inverosimile che un popolo viva costruendo la propria prigione. Dove sono gli ebrei palestinesi? Dietro muri? Dietro quelle torrette? Dietro quelle isole armate di orrore e di vergogna dalle quali ragazzi soldato ci scrutano con disprezzo? Paiono dirci: “benvenuti in un mondo a parte”. “Nel paese ai confini della realtà”. Paiono suggerirci: “dovevate stare a casa vostra, Qui non vi vogliamo”. Io non sono qui. Non ci sono ancora. Io credo in un mondo. Le mie armi sono diverse. Le mie armi sono le parole. Loro hanno solo la guerra. Sono in guerra con il mondo. Conoscono solo la guerra. Vivono l’odio. Il disprezzo. Li respirano. Hanno solo nemici. I nemici della grande bugia: lo stato di israele. Uno stato senza popolo. Uno stato senza pace. Uno stato di epigrafe. Era questo che cercava l’ebreo errante? La vendetta? Ma contro chi? Saranno quei sorrisi a seppellirli.
E’ mattina a Gerusalemme. E’ mattina come in ogni città. Col sole che si fa largo tra le strade, sgomitando tra quelle più strette. I ragazzini vanno a scuola. I negozi aprono le serrande. Un vecchio con la kefiah in testa sgrana le sue preghiere, muovendo solo le labbra. Cade un’arancia. Scivola e corre. Si diffondono gli odori. La vita impone le proprie esigenze. Tutto fa sembrare tutto parte di un paese normale. Non sono ancora arrivato. Non mi sento ancora in Palestina. Qualcosa non torna. Non si può vivere così serenamente della propria prigionia. O sono pazzi o sono grandi. Avrei saputo pazientare per tutta la mia vita? Non gridare per le mie ferite?
Eppure la loro guerra è lì: palese. E dietro gli angoli. La guerra degli occupanti. Di questo popolo-esercito. Di questa massa informe di aguzzini. Di questa armata di babele. Si mostra sfrontata; sfacciata. Nasconde la propria vergogna. Si nasconde dietro il disprezzo. E’ lei stessa stato: lo stato di israele. E la pazienza palestinese gli sputa in faccia la sua risposta: “puoi togliermi tutto tranne la voglia di vivere, tranne il futuro”. Ecco cosa dice il sorriso di quei bambini. Le loro grida. E stanno provando a togliergli tutto. Ma sono solo bambini. Un paese di bambini. E sono bambini. Sono futuro. E guardano le pietre. Paiono pronti a prenderle ancora in mano, perché i loro occhi non mostrano rassegnazione. I loro occhi non conoscono quella parola. 30 gennaio 2012.

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Gerusalemme al risveglioIl volo atterra al BenGurion (infatti si legge נמל התעופה בן גוריון), Tel Aviv. E noi veniamo precipitati nel mezzo del buio. In realtà la sua figura, quella del “fondatore di Israele”, mi ricorda il vampiro del Dracula di Bram Stoker. Un sogno lungo un anno o tutta una vita. Inseguito, con testarda caparbietà. Finalmente è qui, dietro i vetri. Sono tranquillo, intorno c’è un po’ di tensione, e di attesa. E’ stato fin troppo facile entrare, trovarci immersi in questo incubo sottile. Una ragazza incapace di un sorriso: “perché?”, “siete una coppia?”, “da dove venite?”, “dove andate?”, “siete un gruppo?”. Domande quasi banali.
Sorry, I speak only Italian”. E la mia voce mi infastidisce, suona come di scuse, riverente. Nelle valigie abbiamo poche cose per far spazio ai regali e ad un salame da portare ad At tuwani. Ci guardiamo. Siamo finalmente dentro “il problema”. So che qualcosa non potrò capirlo. Qui, dove dio ha fatto congresso, dove pare tutto sia iniziato, non sento la sua voce, le sue voci. Non mi ha mai parlato, non posso pretendere lo faccia proprio ora. Forse nascosto nella propria vergogna. Scappiamo come ladri a Gerusalemme, nella parte araba di Gerusalemme, o in ciò che ne rimane. Vedo solo alzarsi profili aguzzi di ombre. Guglie, ma soprattutto lame di pietra, a conficcarsi verso il cielo. Il male sottile è ancora fuori, subdolo, quasi non volesse farsi avvertire. La città dorme, dorme con un occhio aperto. Soldati ci lasciano passare e ci regalano solo un’occhiata distratta e diffidente. Veniamo da un altro mondo. Attraversiamo rancori atavici che ancora non ci sporcano. Abbiamo solo parole di brusio, come si potesse restare ancora increduli. Ho lasciato a casa, a malincuore, Handala, Arafat, il portachiavi con la bandiera palestinese, le felpe che ricordano Vik, cioè un bel po’ di quel che sono. Pare che anche la mia faccia sia una maschera che può essere provocazione. E non c’è sfida. Vengo per capire. Con una sola domanda: “com’è possibile”?
Io e la Palestina siamo in qualche modo coetanei. La “Catastrofe” porta la mia stessa data di nascita. Una resistenza lunga come tutta la mia vita. In verità anche di più. Particolari. Nella mia infanzia, nella mia formazione, conoscevo un’altra Palestina. La storia corrode. Molti nomi sono rimasti solo scritti sulla pietra. Sono campi profughi. Sono resistenti. Sono dolore, e sconfitta. Sono fierezza, e un ultimo grido. Ho tanto dolore dentro, e sconfitta. Cerco di caricare le mie armi e le mie armi debbono essere fatte di pazienza. Guardo i volti con me. Quanti conoscono un dio che giustifica tutto questo? Non so, non sembriamo pellegrini. Non abbiamo parole per i lupi. In realtà siamo solo stanchi, e desiderosi di un letto, di cercarci nel riposo. Tutti inseguiamo risposte. Forse non è nemmeno il posto adatto. La memoria mi fa brutti scherzi: mi accorgo di aver lasciato a casa anche le mie canzoni. Eppure il cielo è lo stesso. E siamo uomini fatti quasi della stessa carne. I posti di blocco ci scivolano al fianco. Non c’è una parola che possa leggere, di questa lingua inventata. Qui dove non c’è un popolo di israele e un altro popolo viene in silenzio massacrato. Ed è un silenzio assordante.
Credo di avere la febbre. Certamente ho un grande malessere dentro. Ma forse non è fisico. Ormai credevo che Gaza fosse Palestina e Palestina fosse solo Gaza. Non mi manca più molto per capire. Sono in Palestina, o in ciò che ne rimane, o in ciò che si vuole negare. Gaza è solo la misura colma della vergogna. No! non vedremo Gaza. Vedremo fin troppa Palestina per le nostre tolleranze. Lo so già. E sassi aridi che non dobbiamo raccogliere. La pace si costruisce… come? dove? Insegnami ancora la speranza Palestina. 30 gennaio 2012.

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Franca a Spigone (RE)Quelle parole uscivano direttamente strappate dal cuore, brandelli sanguinolenti. E non erano distanti nello spazio né nel tempo. Erano oggi. Erano vive. Banchettavano sulla loro pelle. Il passato si faceva presente. Strani paesaggi i ricordi. Scelgono; lo possono fare. Scelgono in tutta autonomia. Annebbiano certi luoghi, stendono una foschia fino a quasi renderli fusi e confusi, cancellano altri indirizzi. Erano molte le cose che lui lottava ma non riusciva a ricordare. Ma altri li rendono, improvvisamente o per sempre, vividi; crudeli, affascinanti, dolorosi. E lui lo sapeva, Lei non poteva farci nulla, era indifesa. E Lei era tutto; ma lui avrebbe potuto essere il suo presente, non avrebbe potuto cambiare il suo passato. E si trovò confuso, disorientato. Non era mai stato geloso, nemmeno delle piccole cose. Il suo modo di dire liberava semplicemente le cose dall’estraneità. Non sapeva possedere, tanto meno una persona. Era incapace di egoismo, di invidia. Era lui cioè quello che sapeva essere. Tutto quello era troppo poco per trasformarsi in una ferita destinata a non guarire. Lui aveva avuto solo un grande amore. Certo, altri amori; ma quello era stato uno solo: il grande amore. Quello per sempre. Il segreto mal custodito. Il compagno di viaggio. Il suo rifugio. La sua serenità. La sua allegrezza. Per Lei non era così. Tutto ciò lui lo provava stupito, lo sapeva, non poteva farci nulla. L’uomo è un animale stupido. Avrebbe voluto essere là, in quel posto che non aveva mai visto, tranne che nei films. Avrebbe voluto lottare, ma non si lotta contro il passato. Avrebbe voluto gridare. Non c’è fiato abbastanza per assordare l’assenza. C’erano solo loro: come avrebbe detto allora: “quelle parole, massimo asprore”. Perché si sentiva colpevole anche di quelle che non aveva visto la sua presenza? Perché tutto quello? Era sempre stato così. Eppure nessuno può cambiare le case veramente, può cambiare il disfarsi del tempo. E certamente Lei avrebbe negato, trovato un motivo valido, non era così. Lui non aveva strumenti per capire, aveva amato solo così, con tutto sé stesso. Con le sue paure, con i suoi timori, nei dubbi, nelle speranze, gettandosi in quella storia; storia che ancora gli sembrava troppo grande. Ma allora cosa rimane alla fine di un amore. Si infilò le mani in tasca. Gli faceva orrore quella parola, fine. Gli faceva terrore. Non voleva arrendersi. La voleva lì, subito, e per sempre. Si versò del the. Aprì la finestra. Era un automa. Si accorse che i suoi occhi erano umidi. Si accorse di non poter decidere delle proprio decisioni. Nemmeno delle proprie emozioni. Anche se non lo voleva era arrabbiato, era deluso, era sconfitto. Guardò dove volavano i gabbiani. Ricordò uno spazio largo, all’improvviso, un paesaggio marino, una spiaggia, una giornata uggiosa. Un silenzio pieno di parole. Un sussurro del vento. Ricordò con testardaggine, quello che voleva ricordare, quello che gli serviva, cercando di fuggire, di guarire di sé. Eppure era una storia che conosceva, Lei non gli aveva mai nascosto nulla. Sapeva che avrebbe trovato pronto in tavola come sapeva che sarebbe tornato di cattivo umore. Entrò in un bar solo per perdere tempo, la cena si sarebbe freddata nel piatto ma almeno avrebbero avuto altro di cui discutere che non della sua stupidità.

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