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Archive for giugno 2017

A vederli gironzolare sembrano frutto di tre amici rimasti soli al bar.
Due personaggi sfuggiti alla penna di Stefano Benni. Messi in musica da Samuele Bersani. Nella Bologna di Carlo Lucarelli. Semplicemente perché la salute di Claudio Lolli non era più la stessa, quella di Paz[1] andava ancora peggio, se si può dire così, e Marino Severini era il tournée con i suoi Gang. Per questioni di necessità.
Inutile chiedere in giro: nessuno avrebbe potuto distinguerli. Non perché fossero uguali, non si assomigliavano affatto. Uno era lungo lungo e biondo, coi lunghi capelli lisci, le mani sempre in tasca e un naso che arrivava con un buon quartino d’ora in anticipo. L’altro era un po’ meno alto e meno secco, aveva i cappelli che non si saprebbe saputo dire, ma sicuramente scuri, e due occhi sempre accesi; e non risparmiava certo nella sua collezione di brufoli. Solitamente uno era incazzato nero sempre e brontolava, forse il biondo, e l’altro pure. Semplicemente perché nessuno aveva visto l’uno senza vedere insieme l’altro.
Anche per l’anagrafe comunale era così o quasi. Sul registro cartaceo apparivano come Maiano e Zizinho, nati tra il primo e il cinque maggio, da N e NN. Come una sola registrazione e una sola persona. Il registro informatico invece non ne aveva voluto sapere. Zizinho aveva cercato di classificarlo come cognome, e alla data di nascita era andato tutto in crash. Pretendeva, la stupida macchina, una data unica e precisa. C’era un box con una sola possibilità di inserimento per il giorno, o 1 o 5. Avevano provato con una soluzione intermedia, cioè il tre. Avevano subito capito che ad ogni stringa da digitare si sarebbero trovati davanti agli stessi problemi e avevano rinunciato. Nessuno era stato in grado di trovare una soluzione. Alla fine si era deciso di abortire l’inserimento dati e di accontentarsi unicamente della carta. Quello era stato assolutamente il primo problema creato dei nostri due, o, per meglio dire, derivato, anche se del tutto involontariamente da parte dei nostri, dal loro stato.
Non che fossero cattivi; non si poteva certo dire fossero buoni. Se domandavi in giro ti sentivi rispondere Ah! quelli, meglio lasciarli stare. Stesso orfanatrofio. Sembra, ma molte cose sono incerte e vaghe, che uno sia stato abbandonato da una ragazza madre, per la vergogna, e l’altro i genitori non li avesse proprio mai avuti; icona delle storie del cavolo. Non si sa se nemmeno all’entrata a quel ricovero siano stati registrati separatamente. In quel posto non ci rimasero molto. Quella viene ancora menzionata come la loro prima evasione.
La prima volta che fecero parlare di loro il meno biondo la faceva ancora nel letto di notte. Rovesciarono la zuppa in testa alla mocciosa del tavolo accanto che si dava tutte quelle arie da principessa. Lei frignò per una settimana. Allora andarono a visitare il suo letto di notte e presero, per così dire in prestito, quel libro con solo disegni, che le era tanto caro e conservava come l’ave Maria. Non che amassero particolarmente la letteratura, nessuno dei due, ma solo per il gusto. Come sempre li presero quasi subito. In quel caso dopo l’esame delle feci. Se è capitato di sentirla raccontare lo facevano solo per ridere al ricordo di come s’era imbrattata tutta.
La vita è breve. Passa in un lampo. Sono inutili tante menate. E nella vita è sempre meglio correre, che fermarsi a pensare; ci può essere sempre qualcuno a correrti dietro. Lo skate dello stronzetto era proprio bello. Basta saper chiedere. “Me lo fai vedere”? Nella vita non conta il più forte, ma il più duro. Il più deciso. Il più furbo. A volte anche basta essere solo il più svelto. E in due si è sempre uno in più di uno. Ma una volta li hanno presi in cinque. Ne parlano ancora in piazza Grande. Cinque e non proprio minuti. Le hanno prese tante. Ma uno aveva un tirapugni in tasca e l’altro ha rotto una bottiglia. Alla fine li hanno stesi tutti e son rimasti a contare i caduti. E quei morti lamentosi li hanno pure pisciati.
Uno prometteva bene a dar calci al pallone, sembra quello che non era biondo, l’altro sapeva dare calci ma non lo prendeva mai, quando si trattava del pallone. Naturalmente se giocava uno bisognava far giocare anche l’altro, magari in porta. Visto da un ignoto osservatore, a quello bravo, ad un certo punto, proposero un contratto come pre-aspirante-promessa-dilettante in una grossa squadra. Rispose che non se ne faceva niente, che non andava da nessuna parte senza l’amico. Il contratto non fu mai firmato e gli spogliatoi del campetto della quasi grossa squadra semi-professionista presero fuoco di domenica, mentre tutti aspettavano di fare la doccia. Ma anche la partita non era proprio andata bene.
Ormai giovani ragazzi quando uno si innamorò si innamorò anche l’altro; della stessa ragazza. Ad una festa. Una stronzetta, maglietta a righe e zatteroni; tutta pelle e ossa e piercing al naso. Lei non ne voleva proprio molto sapere. Né dell’uno né dell’altro, e tanto meno di tutt’e due. Voleva fare la diva. Con un po’ di pazienza alla fine sono riusciti a convincerla, e la loro storia d’amore è cominciata veramente e alla grande, una decina di giorni dopo, quando lei ha lasciato l’ospedale. Ma poi era diventata molto docile. Alzava le spalle. Sempre imbronciata. Proprio come una ragazzina. Questo o quello era lo stesso, anche tutt’e due. Nessuno di loro era geloso. Bastava poco, un materasso. Bastava che portasse la grana perché, per un periodo, si era lasciata convincere anche a fare il mestiere per loro.
Uno dei due, insomma quello che a calcio rimuoveva solo le zolle, aveva imparato a strimpellare con la chitarra, e aveva anche una voce intonata. Acchiappavano. Più grandi loro e più grandi quelle che rimorchiavano. Salvo qualche rara occasione, perché le sbarbine, anche molto tenere, attizzavano entrambi. Erano più emancipate, sempre pronte a limonare, pronte a darla. Farlo con due era anche più divertente. Niente musi lunghi e niente stupide fisime. Alle feste li invitavano malvolentieri, solo perché un po’ di roba, a loro, non mancava mai. Avevano imparato la lezione. Per le zoccole c’era sempre lavoro. Niente crisi. I quattrini cominciavano a girare, anche se non bastavano mai.
Di storie da raccontare su loro, e quella loro vita, ce ne sarebbero ancora tante e ancora altre. Fin troppe. A cominciare dal loro innamoramento con la roba pesante. Ma nessuno né parla volentieri, e qui si è detto quanto basta. E non vuole essere un necrologio né ancor meno un’ ode. Perché voler andare contro corrente e infastidire il silenzio? Quella città non era fatta per gli eroi. La realtà non è mai stata creata per essere favola. E’ solo quello che è. La gente passa e va. Ci sono tipi così e tipi diversi. Loro erano solo Maiano e Zizinho. Due ragazzi come tanti. Due ragazzi del branco. Ma anche due tipi tosti. Non avevano avuto molto, anzi niente. Non che questo li giustificasse. Per le assoluzioni c’è sempre la chiesa. Sapevano quello che volevano e quello che volevano se lo prendevano. Decisi. Senza tante menate.
Poi Maiano o Zizinho, uno dei due, fa lo stesso, incontrò quella che ti mette triste. Quella che ti fa andare fuori. Quella rossa. Sono sempre le donne brave a mettere zizzania. Che mandano fanculo le cose belle come le amicizie. Una vita intera, tra loro, poteva finire in un istante. Divenne ancora di più malinconico. Perse l’appetito. Lei, la fata, non ne voleva proprio sapere di darla. Né lì in mezzo la sala, con occhi che vedono, né in un buco più privato. Tanto meno farlo anche con l’altro. Non ci pensava. Non se lo filava proprio. L’altro disse: “Lascia fare a me. Cazzo”! Sostenendo che ci avrebbe pensato a convincere lui la sgualdrina. Ma con lei era tutto diverso. Lui provare ci provò: “Io ti voglio bene, veramente. Cazzo”! Lei non era un tipo remissivo. Non si faceva convincere. Sembrava l’avesse messa sotto chiave. Lasciata in una cassetta di sicurezza. Lo lasciò toccarle una tetta. Poi stop. Gli tolse le mani quando aveva quasi raggiunto le mutandine. Tutto inutile. Invece la maliardona disse la cosa che li condannò entrambi: “O lui o me”.
La festa finì com’era cominciata, con entrambi che rinfoderavano le armi. E si rinfacciavano le colpe. Non si riconoscevano più. Dopo altre insistenze promessa gliel’aveva anche promessa, ma quando si sarebbe deciso. Da soli. Con un letto sotto al culo. E il marito distratto a guardare altrove. A farsi le sue. A menarselo distante. Magari quando era via. Ma non si toglieva dai coglioni. Questo solo rimandava la decisione. Poi il giorno venne. Era ricoverato, il marito, per dei calcoli renali. Faceva, il marito, il ganzo con tutte le infermiere, persino con le interinali, e anche le dottoresse. Si credeva un dio. Lui, Maiano o Zizinho, quello dei due, lo sapeva. Lei era una troia di quelle nate e fatte. Una di quelle insaziabili, ma che la faceva penare. Che si divertiva a farsi desiderare. E quella, la donna, telefonò alle otto di mattina. “Cos’hai deciso? O vieni con me o vieni da solo”.
Il discorso non gli filava proprio liscio. Ma poi, se possibile, l’incantatrice fu anche più precisa. E più subdola d’una serpe. Era proprio senza alcun ritegno. Gli annunciò che si sentiva troppo sola. Che il letto era troppo grande per lei. Desolatamente vuoto. Che lo pensava da giorni. Da quella sera stessa. Che non poteva più vivere… Di quanto aveva sognato e sospirato questa occasione. E poi ancora, come non bastasse, cominciò ad elencargli tutto quello che avrebbe voluto fare. Con lui. Gli confessò che si era già fatta una doccia. Profumata e preparata, proprio per lui. Che era quasi nuda, stesa sulle lenzuola. Che si stava già sfilando il tanga, e che sotto era già un torrente in piena, straripante. Forse fu quest’ultima ammissione, la visione di una sorta di tsunami vaginale, che le convinse. Se la raffigurava là, davanti ai suoi occhi. La vedeva. Stava già sudando e disse solo: “Arrivo”.
Ma se c’era uno più furbo dell’altro non era lui. Non aveva ancora finito la prima. Stava riprendendo fiato. L’appartamento intero fu scosso da un orrendo boato. Lui nudo, lei nuda, l’amico davanti a loro. Aveva sfondato la porta. E aveva due occhi come l’altro non li aveva mai visti, lanciavano fuoco. Lo stese con un pugno e prese il suo posto, mettendo alla puttana una mano lì e una sulla bocca, per soffocare quelle grida. Era la prima volta che menava l’amico. Gli dispiaceva essere stato costretto a farlo. Le spiegò, senza togliere una mano, che doveva fare silenzio. Stare zitta. Che se faceva la brava forse non si sarebbe fatta troppo male. Mentiva. Quegli occhi le mettevano paura. Le ordinò di fare sì con la testa, se aveva capito e se era d’accordo. Lei fece quel cenno rassegnata. Tremava di terrore. Lui ansimava e lei aveva capito che era deciso. Cercò di supplicarlo con i suoi occhi e sottovoce. Niente da fare.
Le ordinò di girarsi. Lei protestò con l’ultimo fiato con la voce che tremava: “Non vorrai mica?”… aveva perso anche l’ultimo appetito. Lui le aveva spiegato che per lui non faceva differenza. Sbatterla se la sarebbe sbattuta. Poteva scegliere lei se prima o dopo. Quando ancora respirava o da esanime. Lei scelse la prima opzione, sperando di salvarsi da quella immane ira, e si voltò quasi docile. Ora sapeva di avere sbagliato. Ciò che la natura unisce non può una donna separarlo. Ma lui era deciso. Le aveva detto di tacere e di limitarsi a eseguire gli ordini. Poi le aveva date le istruzioni spiegandole tutto per filo e per segno. Cosa doveva dire, quando poteva gemere, come si doveva mettere. Che non era obbligata a farselo piacere.
Lei singhiozzava ma senza voce, mentre lui aveva lo stupro che aveva sempre sognato, il più fantastico di tutta la sua vita. L’amico guardava tutto inebetito. Ancora non aveva ritrovato tutti i sensi. Senza distrarsi le strinse al collo il cavo del telefonò finché lei non smise anche l’ultimo respiro. Le disse un’ultima volta Puttana! a mo’ di saluto. Poi scese e raggiunse l’altro. Quello si massaggiava il mento e lo fissava attonito. Si erano giurati che niente al mondo poteva dividerli. Si sedette sul pavimento vicino a lui, e lo abbracciò, e gli infilò la spada maledetta, l’ultima, in vena. Poi attesero sereni entrambi la morte. Nemmeno quel viaggio potevano farlo da soli.
[1] Andrea Pazienza

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1969.06.02 img567.jpgCapita, a volte; capita. Ti metti davanti e ti chiedi: E ora cosa racconto in questo racconto? Come se fosse importante. Mentre la tua storia invade le storie. E ti perdona. Come una nenia. Eppure c’è sempre della meraviglia. Come cominciando un nuovo viaggio. Eppure le ciabatte sono ancora là. E la certezza è solo un sospetto. Annusi nell’aria: soffritto di cipolle. E un motivo che non riesci ad afferrare. Tutto ha un sapore di intimità. Di passato e già visto. Eccola l’avventura mentre il tuo caffè borbotta e sbadigliano le tende. Ma il Fantasma appartiene al passato. Trascina quelle catene sottili. Senza peso apparente. E questa è una dichiarazione d’amore. Non importa dove, in uno dei tanti luoghi, alla porta di Damasco, alla porta di Brandeburgo, aspettando una lei sotto casa.
Ricordi lontani. Ragazzi. Il ragazzo che eri. Pagine di un libro non ancora scritto. O la Parigi di tanti altri libri. Quella di Hemingway o quella di Sartre o quella di Miller. Fogli bianchi. Irritazione. Attesa. Lei ha portato fuori il gatto. Non è più tonata. Né ho rivisto il gatto. C’è il vuoto nella stanza. Nella vita intorno. E si fa esile il ricordo della sua voce. Quasi impalpabile. Quasi anch’esso silenzio. Solo i suoi occhi muti continuano a fissarmi nel tempo. Da quella sera. Come non se ne fosse mai andata. Come se fosse ancora seduta là. Eppure ho bisogno di una storia per vivere. E di un atlante geografico.
Non mi va di uscire. Cos’è un autore senza fantasia? Una crisi. Un uomo inutile. Stanco. Con la barba lunga e ispida. E’ pur vero che se apri il cassetto torna la memoria. Il caffè ha un buon aroma. Si spande nell’aria. Sistema di vita. Il fatto è che non mi diverto più. Non mi affascina più scrivere storie di altri. Per gli altri. E di raccontarmele non c’è sapore. E’ come se le conoscessi già. Vorrei una storia solo mia. Una storia da vivere. Finalmente. Senza nessuno che ponga limiti. Senza il rischio che qualcuno corra all’ultima pagine a scrivere la parola fine. Insomma la grande storia delle storie. Ma le vere storie quando vengono vengono da sole. Senza scampanellii.
Magari anche un grande amore. Basterebbe un amore ritrovato? Non lo so. Magari solo un viaggio. Ritornare a Praga. Una seconda opportunità. Una sigaretta in bocca e due occhi curiosi. Tutto come in una grande e preziosa tela. Rivoglio il mio gatto. E le parole sfuggite per caso. E uscire finalmente dalla stanza. Respirare l’aria che si respira la sera. Scrivere in un blog cosa ho mangiato per colazione. Fantasie e consuetudini. Pettegolezzi. Amenità. La storia di Elena dopo essere stato Paride e averla rapita. Un piatto ben cucinato di tagliatelle. Una fiorentina di chianina. Un buon calice di chianti. Vorrei non chiedere troppo. Voglio tutto. E anche di più. E andare al mare con Rossana.
Io e lei da soli, a guardare per ore le onde. A ammirare una vela bianca così lontana. Ascoltare la pioggia dietro il vetro. Tenerla abbracciata stretta a me. Perché non l’ho fatto allora? Camminare sulla sabbia bagnata. Stendere un telo per noi. Sdraiarcisi sopra. Baciarla una notte intera. Trovare il coraggio e dirle il mio amore. Non ora ma allora, quando mi costava troppa fatica. Cambiare i ricordi. Riscrivermi la parte. Riscrivermi la vita. Addentare l’ultima mela. Divorare quel vento. Allineare le figurine sull’album. Rileggere quei vecchi romanzi. Con la stessa curiosità. Con la stessa ingordigia. Con la stessa voglia. Con la stessa ignoranza ritrovando lo stesso fascino. Rileggerli assieme. Vorrei essere io a decidere. Rivorrei il prima e anche il dopo. E restituirle i suoi vent’anni.
Scrivere per lei la più bella delle poesie che non sono mai riuscito a scrivere. Che mi guardasse con quei suoi occhi e mi credesse. Persino quanto la vita mi costringe in una piccola bugia. Vorrei che salpassimo con una nave, con un vero veliero, verso l’isola che non c’è, ma che se lo vuoi veramente c’è ed è lì ad aspettarti. Vorrei donarle una Rosa. Una rosa rossa. Entrare in ogni stanza del film della sua vita. Lasciarla cento volte, ora che lo so, senza parole o con troppe parole, per poi ritrovarla mille volte. Vorrei gradare forte che mi sentisse l’universo intero. Vorrei che mi facesse tacere con un bacio. Che mi affogasse tra le braccia. Vorrei che mi prendesse fra le labbra e mi facesse scordare il mondo e la stupidità del passato.

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carceriLa guardia mi dice Nabucco hai una visita. Nessuno mi viene a trovare. Mi dice un pazzo. Uno che vuole scrivere la tua storia. Ma cosa c’è da raccontare in una storia come la mia? Curioso decido di vederlo. E’ una specie di giornalista dell’etere. Senza carta su cui scrivere e da stampare. Con una tastiera al posto del foglio bianco e la penna. Un blogger. Un intruso.
Gli ripeto, anche se lo sa, che sono Nabucco, ma che tutti mi chiamano da sempre Tex Mille. Mille perché allora c’erano le lire e quella era stata la mia prima refurtiva. Aggiungo prima di poterci pensare che il primo che mi ha affibbiato quel nomignolo l’ho riempito di botte. L’ho lasciato più morto che vivo. Poi mi sono accorto che non mi dispiaceva e me lo sono tenuto quel soprannome. Da allora tutti mi chiamano così, Tex Mille, ma solo quelli che hanno il mio rispetto e il mio permesso.
Vuole sapere tutto, ma non gli racconto la prima, con pudore, nemmeno la seconda. Non erano nemmeno ragazzate. Cose tra piccoli delinquenti ancora a scuola. Alle elementari. Non ho fatto altro. Nessuno mi ha mai potuto mettere i piedi in testa. Comincio da quella della televisione. Mai raccontata. Questa è la prima volta.
Ero entrato in quel negozio e sono uscito con l’apparecchio in spalla, disinvolto. Quello invece, il padrone, mi corre dietro. Mi chiede dove vado. Gli spiego semplicemente la verità: che sto andando a casa. Mi chiede ancora: “E quella”? Mi guardo sulla spalla e candidamente: “E’ una televisione. Non la vedi”? L’idiota: “Non pensavi di pagarla”? “Perché, si paga”? “Certo che si paga.” –mi precisa l’imbecille. Mamma avrebbe amato avere la televisione. Sono passati tanti anni. Mi giustifico che non me ne ero nemmeno accorto, che forse era stato qualcun altro a mettermela in spalla; magari lui l’aveva già pagata, o così ho pensato. Quello invece per tutto rimando ha chiamato i caramba e l’esercito. Per una stupidata come quella. Un vero citrullo.
Candido, così si chiama, lo sa che all’inizio sono stati solo semplici e innocenti furtarelli. Tranne quando sono entrato in quella casa dalla finestra e me ne sono andato con quel quadro. C’erano solo cose da signori ma niente di veramente utile. Per questo ho preso il quadro e ho svicolato via con quello sotto braccio, ma mica lo potevo sapere che era di un certo De Pisis. Sul campanello c’era scritto: Famiglia Graziani. Aveva, la tela, una firma che nemmeno si leggeva. L’arte è per chi ha anche il superfluo. Come potevo immaginare che un dipinto tanto brutto valesse così tanti denari. A dirtela tutta mi sono stancato, l’ho guardato e buttato in un canale. Ancora non sapevo. Mi sono dato dell’idiota solo dopo, quando ho letto cosa avevo fatto e quanto avevo gettato. Da quel momento ho fatto sempre vedere le refurtive a chi ne sapeva più di me.
Non avrei voglia di parlare tanto, mi sarei già stancato. Candido mi chiede di quando sono passato alle rapine. Beh! rapine è un termine grosso. Impegnativo. Almeno per quei primi tempi. Non sono un ladro di polli. Questo è certo. Chi ha provato a dirlo ha dovuto pentirsene, amaramente. Era solo all’inizio della mia attività e non avevo ancora finito con i furti. Mi ero perso soprappensiero proprio in centro. Strada da signori. Lo vedo dietro una larga vetrina pulita a tavola in un ristorante rinomato. Quello stava mangiando un gran piatto di gnocchi. Gliene ho chiesto una forchettata. Mi ha negato anche quel piccolo boccone, l’ingordo. Me ne sono andato col piatto minacciandolo con un martello che avevo trovato in un cantiere.
Ma la prima vera è stata a un portavalori, anche se mica ero da solo. Allora avevo trovato di riffa e di raffa la mia prima rivoltella. L’ho messa sotto il naso a quei cacasotto e loro hanno subito abbassato le brache. Mi avrebbero consegnato anche la moglie, già senza niente addosso, in un vassoio d’argento. Abbiamo caricato tutto sulla macchina e ce la siamo filata. Quattro sacchi belli gonfi. E’ stato proprio un bel colpo, veloce e pulito, ottimo bottino. Che ha fruttato un bel gruzzolo. Tanto le assicurazioni, come le banche, ne hanno tanti e quando finiscono se li stampano. Si è diviso tutto in parti uguali. Dopo avrei potuto fare il signore, ma io a fare il signore non sono bravo. Io devo lavorare. Non riesco a starmene con le mani in mano. E’ stato quello il mio difetto. Però da quel momento tutti, persino i giornali, hanno cominciato a portarmi veramente rispetto.
Mi chiede: “Perché sei qui”?
Una marachella, una storia da niente. Ho sbagliato lo so. Candido osserva che per quella che pende sulle mie spalle e sta agli atti insomma… si tratta di una bella accusa di omicidio. Che non uscirò tanto presto. Ha fatto i compiti a casa, lo scribacchino. Decido di dirgli papale papale come sono andati sinceramente veramente i fatti. Una semplice lite, banale, finita malamente. Non volevo fargli del nemmeno un graffio, un piccolo sgarro. Una pura baruffa solo che l’altro c’è scappato morto. Insomma… per farla breve… aveva una bella macchina, proprio bella, veloce; me ne sono innamorato a prima vista. Volevo solo farci una gita e una piccola rapina tra amici. Una cosa semplice che avevo in testa da tempo e che ero sicuro sarebbe filata liscia. Una gioielleria. Un gioiellino. Bisognerebbe tener presente che mi ero appena fidanzato con Aida, che avevo tolto dalla strada e ormai lo faceva solo per me. Forse questo non conta e può non essere un gran merito, ma si dovrebbe comunque prendere in considerazione. Lui, quello che chiamano povera vittima, stava salendo su quello splendido mostro di automobile. Forse la vera vittima è stato il sottoscritto. L’ho bloccato e quasi gentilmente gli ho chiesto le chiavi. Mi ha risposto maleducatamente e mi ha insultato, tipo sei pazzo? e vattene barbone. Cose così. Ho cercato di farlo ragionare, lo giuro. Lui niente. Mi ha spinto. Stava per alzare le mani. M’è scappato un colpo, involontariamente. Prima che ci pensassi. Giuro che non volevo. Sarebbe preterintenzionale. E’ stata tutta colpa dei miei precedenti e dei miei avvocati. Incompetenti.
Questa intervista sta volgendo al termine. Ammetto che… Certo che nella mia professione ci si fanno dei nemici. Però… per essere precisi non ho voluto mai averci nulla a che fare con quella, con la droga. Non è cosa da veri mariuoli. Non ci vado davanti alle scuole. Non ho mai fatto del male a ragazzini. Ho pagato quello e il fatto che non riesco proprio a piegare la testa. Se volevano la piazza, liberarsi di noi scambisti, dovevano prendersela. Questa è la mia idea. Non si dovrebbe mai dare niente per niente. Così… Certo non c’è l’hanno chiesta con gentilezza. Mica potevo farmi vedere che cedevo senza provare a combattere. Ho perso alcuni amici. Me ne resi conto subito che tutto si stava sfasciando. Alla fine ammetto per stanchezza: “Vuoi la verità: mi son fatto beccare. Qui sto bene. Sono al sicuro. Se dovessi uscire quelli mi ammazzano. Subito. Appena metto il naso fuori dalla gabbia. Non siamo noi i cattivi. Non lo siamo mai stati. Loro sì che sono veramente cattivi”.

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Erano passati ormai due mesi dal loro colpo “Sgangherato”. Sgangherato, ma avevano ben dimostrato agli uomini di che pasta erano e che non c’era niente che anche loro non potessero fare. E poi era il primo. Erano state veloci ed efficienti. Tutte avevano fatto la propria parte, anche la Ninetta che non sapeva da dove venisse l’ospite che ogni mercoledì si trovava in casa. Neanche un cenno nei giornali. Nessuno ne aveva saputo niente, ma loro lo sapevano. Questo bastava. E due mesi erano, quasi sempre, sessant’un giorni. Nessuna rimase sorpresa quando Virginia le chiamò, ma tutte si mostrarono curiose: “Cosa c’è”? “Mi son fatta un paio di negozi ma poi”… “Poi cosa”? “Mi conoscete. Lo sapete come sono fatta. Non so starmene con le mani in mano”. “Cosa vuoi dire? Falla breve”. “Avrei un colpetto. Una cosa facile facile. Insomma quasi”.
Si provarono a protestare senza convinzione. Il capo aveva visto come brillassero già loro gli occhi a quel pensiero. Era stata adrenalina pura. Era emozione. Paolina, la più impulsiva, certe volte la si poteva giustificare e sopportare solo per via l’età, ma in questo caso fu la prima a rispondere entusiasta senza nemmeno sapere di cosa si trattava: “Io ci sto”. Quella gatta cheta di Claudiana: “Io, per me, ci starei, ma di cosa si tratta? Vorrei almeno sapere”. “Fatela parlare”. “E lui che ci fa qui”? “E’ il mio giorno. E poi lui ci può stare. Mi ha aiutata… cioè… insomma… si può dire che l’idea è anche un po’ sua. Possiamo dire che è come una di noi. Gli ho esposto il problema e”… Le fermò con la mano mettendole a tacere e si prese un attimo di silenzio: “Scusate signore, non credete che quando si tratta di finanzia, perdonatemi se mi permetto, ne sappia un po’ più di voi. Sanza offesa. Anche solo per una questione di pratica”. Come dargli torto? Solo che… meglio chiedergliene spiegazioni: “Con lei, voglio dire con la vecchia arpia, con quel vampiro succhia grana della tua signora Santippe Carraro, alla fine come te la sei cavata”? “Lei è convinta che ho organizzato tutto io. Da solo. E che ora me ne sto, scusate care amiche, con i gioiellini al sole, in una bella spiaggia delle Laccadive”. “Lacca che?”… “Paoletta, sempre tu”… “Sono dei mucchietti di sabbia bianca finissima in un oceano di limpidissima acqua di un azzurro stupefacente. Circondati da barriere coralline. Nel Mar Arabico”. “Devono essere belle”. “Una favola. Se non si mangiasse solo riso e pesce stopposo. Ci possiamo anche andare, tutte assieme, dopo il colpo”. “Splendido”. “Fatta”. “E Cesare”? “L’ho mandato a cagare”.
Si guardarono una nella faccia dell’altra e tutte in quella del loro, in un certo senso e per così dire, prigioniero. Convenne Claudina: “Solo che questa volta dovremmo essere più… più professionali. Sii onesto: mi avresti riconosciuta dietro quegli orribili occhiali”? “A dire la verità, amiche, sì”. “Era abbastanza… ridicola”. “Per la verità, ancora sì”. “Come si fa”? In quel momento di grave imbarazzo, pieno di dubbi espressi dalle facce di tutte, si tenne la parola e prese la situazione in mano il bravo Baldassare, già gioielliere ed ex-segregato. Quell’uomo sembrava avere una risposta per tutto: “Permettetemi di darvi a tutte del tu. Rende tutto più semplice. Allora… dove eravamo? Sì! al colpo. Vediamo… Tu, Paolina, ti potresti vestire da Pippi Calzelunghe”. “Pippi che”? “Era una ragazzina… Lasciamo stare, è una storia troppo lunga”. “Perché io”? “Perché sei la più giovane e poi”… “E poi un cazzo”. “Non fate le difficili, ragazze”. “Per i codini provvederemo con una parrucca. Ti basterà riempirti il viso di panne. E un po’ di rossetto sulle guance. Sarai perfetta”. Paolina preferì, nel dubbio, tenere il muso. “Invece tu ti camufferai da… Maga Magò”. “Perché proprio quella ch’è vecchia e antipatica”? “Claudiana, non ti ci mettere anche tu”. “Poi vediamo”. “Lasciamo parlare lui”. “Posso dire che non mi va”? “Puoi, ma poi basta”. “Vecchia ti facciamo diventare con un po’ di trucco. Non voglio dire che lo sei. Perché hai il fisico del ruolo”. “Le hai volute le tette e ora te le tieni”. “Pazienza. Ma poi non dite che non sono una che si accontenta”.
L’uomo ebbe bisogno di un ulteriore attimo per pensarci: “Due da pagliacci. Direi Otylia, basta che non parli, e Severina”. “Io non voglio fare la pagliacciata. Quella cosa lì”. “Si intende da Clown. Funzionano sempre. Quelli sono una garanzia”. “Se è da Clown allora va bene, ma solo se è da Clown”. “Una da Biancaneve”. “Voglio farla io Biancaneve”. “La faccio io”. “Vedo meglio Beatrice. Molto meglio. Mi sembra perfetta”. “Io preferirei da Maleficent. E’ anche più truce”. “Vada allora per Malefica”. Lei soddisfatta: “Se lo dici tu”? “E io?” –chiese contrariata Virginia che si sentiva trascurata. “Tu mi servi libera. Credo che saresti perfetta… Ti potresti mascherare, con un trucco pesante, perdonami, scusa il termine, in una puttana”. “Io sono il capo, qui, e non la faccio la puttana. Nemmeno per una sera”. “E’ solo una maschera”. “Non è perché è una maschera… perché non lo facciamo fare a Beatrice? è sicuramente più brava”. “Io sono già Malefica”. “Ti va bene Betty Boop”? “Non so chi sia quella, ma sempre meglio di puttana. Ci sto”. “E tu”? “Io sto al volante”.
Siamo donneLa saggia Claudiana fu la prima a reagire e chiese divertita e altresì curiosa: “Ma non stiamo parlando, con tanto di maschere e costumi, di una recita di Beneficenza”. “Possiamo sapere qualcosa di più”? “Giusto! Passiamo al piano. Si tratta di… di un tipo che conosco. Un certo Aronne, Aronne Hagmann, è un tipo molto preciso. E molto meticoloso. Allo otto chiude la saracinesca e mette tutto in cassaforte. Alle dieci precise solleva la saracinesca e va a depositare l’incasso alla cassa continua”. “Che cazzo di nome strano”. “Fai silenzio”. “Ascolta”. “Cosa ti importa? Chiamiamolo Aro. Il sabato sera non va a versare i soldi. Perciò il lunedì sera ha quelli del sabato e del lunedì. Mi seguite? Fatte cenno se avete capito. E’ a quel punto, alle dieci, non un minuto di più né uno in meno, che dovete intervenire”. “Ma ne ha”? “Un vero Re Mida, credimi”. “…?”? “Già me ne potrei innamorare”. “Ma io non ho l’orologio”. Non aveva il coraggio di ammettere che al suo si erano scaricate le batterie e non aveva trovato il tempo né la voglia di andare a sostituirle. “Ti metterai il mio, solo per quella sera, ma fai attenzione, non è una patacca”.
Ora veniva il difficile, l’impegno, il lavoro. Era un po’ restio ma lo doveva dire: “Lo dovete tenere sott’occhio continuamente, per almeno due giorni, a turni di due. Così almeno una sa sempre l’ora. Pedinare. Braccare. Basta, diciamo, dalle sette e mezza, otto meno un quarto, a quando lo avrete visto depositare. Dovrebbe bastare. Annottarvi tutto quello che fa. Precise al millesimo. Tutto deve filare liscio e alla perfezione”. “Ma se hai detto”… “Meglio che siamo sicure”. “E poi che si fa”? “Il moto-furgoncino del panificio del marito di Lisetta è dal meccanico; accidenti”. “Niente moto-furgoncino questa volta. Lo facciamo salire sulla sua macchina, dopo averci levato la targa. La tiene a due passi. Il pigro. Mi raccomando non togliete mai i guati. Poi passiamo tutti sulla mia. A quella la targa la tolgo la sera prima. Poi diritte al rifugio. C’è una vecchia capanna malandata che io conosco. E’ isolata. L’ho già attrezzata di tutto. Le catene sono già infisse al muro. E’ perfetta. Dovremmo solo darci i turni per portargli il cibo. E magari qualche giornale”. “E cosa gli diciamo, Lo invitiamo a una gita fuori porta”? “Niente di simile. In una cassetta postale c’è la mia pistola. Si occupa Virginia di andarla a prendere”. “Io una rabbiosa la posso rimediare da un amico carabiniere”. “Amico… diciamo cliente”. “Rabbiosa”? “Me l’ha insegnato Il mio ganzo”. “Non lasciatevi distrarre”. “Carabiniere?”… “Sì! ma è un tipo tosto ma malleabile, almeno con me, e accondiscendente. Non so se mi sono spiegata. E poi non devo spiegargli niente”. Ride e ridono anche le altre. “Due credo che bastino. Tutto chiaro”? In coro: “Chiaro”.
Ormai erano entusiaste e avide di sapere: “Poi che si fa”? “Pazienza”. “Facile da dire”. “Quando siete lì dentro vi fate riaprire la cassaforte. “Se si rifiuta di liberare la marmotta”? “Marmotta”? “Se fa qualche resistenza il codice lo so. E’ una ics a specchio. Non chiedetemi come ma lo so. Semplice: tre, cinque, sette, uno, ancora cinque e nove. Virginia, è meglio se lo scrivi. Lo impari a memoria. Non farti vedere che lo leggi mentre sei là. Poi vi fate dare i soldi delle due giornate e poi fate un pacco anche di lui. Io vi aspetto in macchina. Tutto chiaro”? In coro: “Chiaro”. “Fate attenzione. Ne parleranno tutti i giornali”.
Tutto filò liscio. Lui, l’obiettivo, aveva rispettato tutti i giorni esattamente gli stessi orari preventivati. Loro si erano comportate tutte come delle vere professioniste. Fino alla sera del colpo, alla grande serata. Erano lì in trepidante attesa. Si erano travestite all’ultimo momento dentro la macchina della stessa vittima che Baldassarre aveva già provveduto ad aprire e a privare di targa. I due clown li avrebbero seguiti con una lambretta, e Pippi, recalcitrante, in un altro motorino. Nessun mezzo doveva avere la targa, il nome. Era stata la scelta più comoda. La macchina del rapito era parcheggiata a pochi metri dal negozio. Per dirla tutta ci sarebbero anche potute stare tutte. Quando stava per giungere l’attimo fatidico un po’ di scaga ce l’avevano. Paoletta fu costretta a correre altre due volte al bagno già in costume. Dieci di sera. Il grande orologio dell’avventura batte la loro ora. Come un araldo di gloria. L’ignorante alzò la saracinesca a metà. Il meschino si chinò nel tentativo di uscire con un borsello bello gonfio sotto il braccio e si guardò intorno. In quel preciso momento entrò in azione sicura Beatrice: “Se mi fai entrare un attimino ti mostro il paradiso. Mi chiamano MaleFica”.
Il viso era spigoloso, gli zigomi, ma tutto il resto era… generoso. Portava le corna con estrema disinvoltura. Gli fece cenno al collare che portava sopra il suo splendido decolté e richiamò l’attenzione sul profondo spacco che ad ogni passo mostrava le sue magnifiche lunghissime gambe e le sottili caviglie. Lui restò fulminato. Repentinamente aveva strabuzzato gli occhi e solerte alzato la saracinesca. Baldassarre, che era alla regia, era certo che l’avrebbe fatto; ed erano sgusciate dentro in sei. Sei sbucate dal nulla. Per un attimo la vittima si chiese se fosse tornato carnevale, halloween o che festa fosse. Oltre a Malefica, o come s’era presentata lei MaleFica; avevano fatto la loro entrata in scena una Maga Magò, ma con due tette da paura; due antipatici clown muniti di pistoloni; una Pippi Calzelunghe con due codini come un dondolo; e, dulcis in fondo, una Betty Boop tutta occhioni e lunghe gambe e parrucca nera. Visti i camuffamenti né Malefica né Betty avrebbero saputo dove nascondere i ferri. Li avrebbero presi salite in macchina. Non fosse stato per quei revolver quell’Aronne avrebbe pensato che ci sarebbe stato da divertirsi: “Fate le brave ragazze. State calme, non fate scherzi. Cosa volete”?
Loro erano calme, o almeno lo sembravano, lui, il cretino, molto meno. Dovevano fare in fretta. Malefica si prese cura del borsello, Betty andò diretta alla marmotta, la cassaforte, senza chiedergli nulla, mentre Pippi lo legava come un salame e i clown lo tenevano sotto tiro. Non una sola parola. Nemmeno un fiato. Poi sodisfatte e sicure tornarono in strada. Abbassarono la persiana e salirono negli automezzi destinati. Poi via nel nulla con dietro il pacco. Non avevano mai immaginato tanto ben di dio. Né visto o sognato diamanti tanto belli e grossi; proprio come noci. E due giorni d’incassi erano come due anni di buoni stipendi. Avevano il paradiso davanti ai loro occhi. E per di più un milioncino non era una cosa da poco; quasi due miliardi delle vecchie lirette. Certo che non aveva perso l’appetito. Lo avevano lasciato sull’Appia, senza nient’altro che le mutande e la canottiera, due mesi dopo. Otylia si era innamorata del suo orologio e non avevano avuto il cuore di chiederle di rinunciarci. Erano andate persino in televisione, certo non con la loro faccia. In tutti i notiziari: il fantastico Colpo delle Maschere. Un titolo proprio azzeccato. I giornali ne parlano ancora; anche se sempre più di rado. Ma non li leggevano ormai più. Quelli italiani non arrivavano alle Laccadive. Con tutto fuori e lui che se le guardava e si beveva il suo bloody mary che s’era fatto portare con la barca.
Nell’ordine Pippi era ridiventata l’innocente Paoletta; Maga Magò una Claudiana più giovane, ma sempre piene di abbondanti virtù; i due Clown erano tornati ad essere uno la brava Otylia e l’altro una Severina carina; Malefica, la più riottosa, alla fine si era rassegnata e si era lasciata convincere ed era tornata Beatrice; e Betty non aveva fatto troppe storie a ritrasformarsi nell’originale, Virginia. Ma erano rimaste nel cuore completamente legate ai personaggi che avevano interpretato. In fondo la vita è sempre un meraviglioso spettacolo; solo una commedia. Erano certe che avrebbero rimesso quei panni. Per ora dovevano pensare solo a divertirsi. A Baldassare, finito il suo bloody mary, avrebbero provveduto. Non era come una di loro.
Se è il lavoro a dare dignità all’uomo, avevano imparato dal primo rapimento che: se c’è una cosa certa quella è che il crimine cambia la vita. Severina, che sa, avrebbe detto che era stato proprio come sparecchiare un altarino. Anzi due… Ora pensavano che la pratica rende l’uomo scaltro, e che un lavoro ben fatto dà sempre le sue belle soddisfazioni.

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Io e Giacinta siamo sposati da vent’anni. Le voglio bene, ma, diciamo così, i gesti d’affetto si sono raffreddati; sono diventati più vaghi. Credo succeda a tutte le coppie. Lentamente e senza che nessuno dei due se ne accorga. Scivolando nella noia. Insomma viviamo bene insieme e ci ignoriamo con simpatia. Litighiamo anche sempre meno, e sempre e solo ancora per cose banali. Abbiamo perso la passione anche per quello.
Credo sia così anche per lei. Io sono un tipo un po’ sedentario. Qualche avventura ma niente di più. Nulla capace nemmeno di riscaldare il nostro rapporto. Sempre cose molto brevi che non hanno lasciato ferite. Ma ho sempre meno voglia anche di quello. Però lei è una buona moglie. Sempre attenta e premurosa. Mi accudisce bene. Con cura. Ha sempre una parola premurosa, e la casa è sempre in ordine. Su me non transige: non mi lascerebbe uscire meno che assolutamente ordinato. Vuole essere ancora orgogliosa di me.
Solo da poco ho un piccolo segreto. Ho scoperto la beatitudine di una donna che mi accarezza i capelli. Non si può nemmeno dire che è un vero vizio. Solo che avere le mani che mi frugano delicatamente e mi accarezzano il cuoio cappellino è un vero e proprio godimento. Me ne starei sempre lì, con quelle mani in testa. Ora vado dalla parrucchiera, uomo donna, almeno tre volte la settimana. E vado sempre dalla stessa. Da Sansone’s shop.
La prima volta ho accompagnato Giacinta, mia moglie. Poi ho imparato la strada. Sono sempre gentili e non mi fanno aspettare troppo. Lo shampoo è il trattamento da me preferito. Si inizia sempre con quello. Non nego che inizialmente ero un po’ imbarazzato. In mezzo a tante clienti. Che raccontano e spettegolano. Anche le riviste sono quelle preferite dal gentil sesso. Cose sulle celebrità e di gossip. Spesso sono l’unico maschio. Un po’ alla volta mi sono liberato dai miei pregiudizi. Sono diventato uno dei clienti più affezionati.
Ci sono diverse ragazze. Non le ho mai contate. Saranno un otto dieci. Tutte sempre affaccendate. E’ c’è la signora Maila Elizabettta Valarie, la padrona, che tutti chiamano Eli. Giacinta mi ha consigliato di non chiederle del suo nome. Non so perché. Credo che sia originaria da Bran, un posto che mi era, fino ad un attimo prima, sconosciuto; che dovrebbe essere nei Carpazi. Non so se in Ungheria o in Romania. Sicuramente in una delle due Repubbliche. L’ho sentito dalle ragazze che bisbigliavano tra loro. Senza farsi sentire. Sembra che con loro sia meno gentile. Che sia una che pretende. Forse è solo una mia idee tratta da sussurri rubati.
Tra tutte le ragazze quella che preferisco è Cristelliana. Certo non è bella. Forse è la meno carina. Forse non lo è affatto. Certo Diasporana è molto più graziosa. Ha una bella figura e il camice le sta bene. Spesso lascia qualche bottone del grembiule aperto. Poi è una che conosce l’arte di strofinarsi con gentilezza. Non che non la apprezzi. Non che non sia garbata come le altre. Forse lo è anche di più. Ma come me li lava e mi massaggia la testa Cristelliana, per me, non c’è paragone con nessuna. Anche se non è bella ha delle mani magiche. Un tocco fantastico.
I capelli però li taglia solo la signora Eli. Cristelliana a vederla non le si darebbe fiducia; un centesimo. Forse fa solo la shampista, e qualche eccezione per me. Non ha il grembiule, come le altre. Ha spesso i capelli neri, fin sotto le orecchie, con qualche strano ricciolo. In tagli che sembrano improvvisati o sbadati. Un sorriso sgraziato. Degli orecchini a dente di squalo. Poco trucco. E’ sempre insaccata in un paio di jeans e una maglietta, spesso macchiata, che mostrano molta fatica a contenerla tutta. Più che robusta è pienotta, anche nei posti che fanno infuriare le donne. Sui fianchi. Sulla pancia prominente che smotta. Sugli arti. Eppure dev’essere giovane. Con un sedere per sedie a due posti. Ha braccia da far invidia a più di qualche uomo, solo che sono tenere, flosce. E due tatuaggi, uno sul bicipite destro e l’altro affiora dallo scollo della maglietta, che odio, come odio tutti i tatuaggi.
Sotto quella maglietta deve avere abbastanza seno, che sembra già stanco. Ma sono pazzo delle sue mani. Ormai tutte mi conoscono, e sanno i miei guasti. Forse sospettano di quel segreto. Certo che a volte sono servito tra l’ilarità sbarazzina, veloce e temporanea. A volte credo si predano gioco di me, e allora mi affidano alle cure di Diasporana o di qualche altra; o della prima che si libera. Succede di rado. Sanno che posso aspettare. Quasi sempre mi lasciano servire dalla mia Dea. Lei mi fa accomodare. Mi prega di togliere gli occhiali. Mi chiede se va bene la temperatura dell’acqua. Se voglio quello rivitalizzante, rinforzante, tonificante, con balsamo, eccetera. Per me fa lo stesso e lo sa. Fa parte del gioco. Mi passa il pettine. Mi passa le mani sulla testa e… Poi, nella schiuma, comincia a farmi impazzire. Io chiudo gli occhi e volo.
Poi mi risciacqua e torna ad insaponarmi una seconda volta. Questa volta con meno energia. E’ una carezza molto intima. Un contatto onanistico. Le sue dita fanno sesso con i miei pensieri. Lentamente. Con sensuale dolcezza. Proprio come piace a me. E’ una goduria. E’ il massimo. Non mi hai mai sfiorato con altro che le dita. Nemmeno per un attimo. Nemmeno per un centimetro. Ed è di una precisione chirurgica. Mai una sola goccia d’acqua mi è scesa lungo il collo o si è avventurata dentro le orecchie. Mai il più piccolo fastidio che possa distrarmi dal piacere. Poi mi fa accomodare su una sedia girevole. Li asciuga col phon. Li pettina. E io cerco di ritrovare la calma. E ricomincio a provare malinconia.
A volte torno a casa ancora in preda a quell’eccitazione. A volte è persino tanto violenta da essere dolorosa. Certo Giacinta ignora la ragione di questo. Non la può nemmeno immaginare. E’ sorpresa e più spesso seccata. Non mi chiede e io non ho nessuna voglia di svelarlo. Quasi sempre mi allontana invitandomi a calmarmi. Io sbuffo e di malavoglia, in quei casi, ricorro al bagno. A Cristelliana non ho mai chiesto niente; niente di lei. Non ha importanza. I soldi se li guadagna tutti. Mi da già più di quello che mi potrebbe dare. Il nostro è già un rapporto soddisfacente. Quasi completo. E poi la amo solo quando chiudo gli occhi e sento il contatto dei suoi polpastrelli sulla testa. Se la guardo mi passa ogni entusiasmo. Non vorrei rovinare tutto. Forse un giorno le chiederò se posso chiamarla semplicemente Cristi.
Prendo appuntamento appena aprono. Così hanno tutto il tempo per me. C’è come più intimità. Senza il brusio delle chiacchiere delle ficcanaso intorno. Va tutto troppo bene per poter essere vero. No! non è colpa di Giacinta, questa volta. E’ solo che le cose belle sono sempre destinate a durare poco. Cristelliana mi sta sciacquando per la seconda volta quando mi da la notizia funesta. Il peggior pomeriggio della mia vita. Una vera pugnalata. Mi spiace che sia lei a dovermelo dire. Egoisticamente preferisco essere ferito da lei piuttosto che da un’altra. Che lo confessi la sua voce. E’ naturale che io reagisca male. “Dottore, –mi ha sempre apostrofato così, credo per una questione di rispetto– mi spiace doverglielo dire ma lo sa che sta perdendo i capelli”?
Quando sono tornato a casa ero proprio depresso. Non avevo voglia nemmeno di parlare. Solo di litigare. Non facevo che guardarmi allo specchio. Chiedermi Perché proprio a me? Era una sorta di penitenza fin troppo amara. Non sapevo che fare. Avrei voluto sparire. A cena ho mangiato senza appetito e quella notte non ho dormito. Ne sono seguiti dei giorni d’inferno. Poi ho rivisto la luce in fondo al tunnel. Cristelliana mi aveva colpito a morte e Cristelliana mi ha ridato speranza. Erano le quattro e un quarto del pomeriggio, anzi, per la precisione, le quattro e diciassette, quando ha suonato il telefono. Era lei. Ho riconosciuto la sua voce subito. Mi chiede se mi disturbava. Lei ho detto, con l’amaro in bocca, di no.
Sembrava contenta. “Meglio così. Parlavo con un amico, un mago del maquillage e della cura della pelle. E allora mi sono ricordata di lei. Scusi se mi permetto. Non so perché. Mi ha detto che potrebbe essere una forma di alopecia leggera, ma dalle mie spiegazioni lo esclude. Derivare da stress, allora sarebbe solo passeggera. Per essere sicuri sostiene che è meglio intervenire. Ed intervenire subito. Dice che si sono fatti passi da giganti. Che ci sono degli olii e delle pomate a base di erbe che fanno miracoli. Che favoriscono la ricrescita”. Non sapevo come ringraziarla. Ero fuori di me stavolta perché strafelice. Tanto da restare senza parole e senza fiato e non chiederle niente di più. Solo dopo mi son dato dello scemo e l’ho richiamata. Era a casa. In negozio m’hanno dato il numero, senza che dovessi insistere troppo. Forse hanno sentito che ero agitato.
Le chiedo come devo fare. Dove debbo andare. Mi dice cortese che se lo desidero, ma solo se lo desiderio, ma è un po’ costoso, però potrebbe passare lei per casa mia. Sarebbe una gentilezza solo per me. Fuori orario di bottega. Ma devo prometterle di non farne cenno al lavoro. Non c’è niente di male, ma semplicemente non vuole avere rogne. E qualche soldino in più fa comodo anche a lei. La tranquillizzo colmo di speranza da spendere in fretta. Proprio stasera Giacinta ha la canasta. Per le prossime sedute non sarà difficile inventare qualcosa. E poi che c’è di male. Non può essere gelosa di una shampista. Di Cristelliana. Si vede da lontano che è una che ha imparato presto il suo posto. E allora torno a vivere. Anche più di prima.
Stasera viene dopo cena per il primo trattamento. Quando suona sono già sulla porta. Arriva con un borsone con tutto ciò che le serve. Persino un paio di asciugamani bianchi. Mi chiede dove si può cambiare. Mi rassicura che le va bene qualsiasi posto. Le indico il bagno. Si sbriga in fretta. Esce con una specie di pigiama candido. Senza macchie. A prima vista sembra un’infermiera senza il cartellino. E’ più presentabile del solito. Quell’abbigliamento la fa sembrare più magra. Le toglie almeno un sette etti.
Mi fa sedere. Mi bagna la testa e la spalma con le diavolerie che ha portato. Più che profumo fanno puzzo. Ma non è troppo sgradevole. Comincia con un massaggio lento e profondo e meravigliosamente eccitante. Dice che devo avere pazienza. Ho tutta la pazienza del mondo. Non sapevo che dovesse durare per due ore. Avrei speso il tempo di tutta la notte; sotto le sue dita. Mi ci vorranno almeno una decina di sedute per sapere che tutto funziona anche su un cranio perfettamente calvo. Verso la fine esclama: “Ma… dottore”… Ma io sono già in preda al più straordinario appagamento.

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Enrico Mazzucato 10469303_801639323220062_8390893481013635969_oAlla fine, quando si tirano le somme, e si potrebbe guardare con il senno di poi, tutto è risultato chiaro e lineare, quasi banale, ma mentre procedeva l’indagine, tra momenti d’impasse e sconforti vari, tutto pareva ingarbugliato e la soluzione sempre più lontana. La scena del crimine era molto compromessa con reperti e impronte di tutti i generi. In casi come questo si pensa sempre per primo al povero marito. Ci si azzecca quasi sempre. Si era subito ipotizzato che si trattasse del classico delitto di gelosia, ma il coniuge sembrava veramente onestamente sconvolto e sbigottito. Comunque si era continuato, per gran parte del tempo iniziale delle investigazioni, a sospettare di lui, di quel povero marito della povera vittima, una donna, ma non sembrava possibile in quanto, al momento dei fatti, l’uomo stava parlando a un convegno davanti ad una cinquantina di ascoltatori distratti. Se fosse stato lui sarebbe stato quantomeno diabolico. Inoltre pareva che la coppia filasse in armonia, perfettamente d’amore e d’accordo.
Poi, per un po’, abbiamo seguito la pista della rapina. Ma non mancava nulla dalla scena del crimine tranne delle barrette di cioccolato fondente e una confezione di brioches. Il delinquente aveva lasciato gli involucri delle cioccolatine che aveva consumato sul posto. C’erano tracce di dna che non combaciavano con nessuno dei sospettati congetturati fino ad allora. Abbiamo analizzato anche i quattro mozziconi di sigaretta rinvenuti nel posacenere, due con evidenti tracce di rossetto, ma si sono dimostrati appartenere alla vittima –quelli con il rossetto– e all’uomo che era con lei in quel momento topico e delicato –gli altri due. Sul motivo perché quei due giacessero a letto alle quattro del pomeriggio di una bella giornata soleggiata sono state formulate abbondanti e attendibili ipotesi, ma, a me personalmente, viste le calze bianche e la ciocca in testa della signora, osservati il tipo di canotta e il fatto che si fosse sfilata gli orecchini, o non li avesse proprio messi, questo indicherebbe una precisa premeditazione ai fatti, visto il disordine in cui è stato trovato il letto, la ragione è sembrata fin da subito più che palesemente evidente.
Il cognato della vittima, un vero signore, è tuttora il nostro migliore e unico testimone, solo che a tutt’oggi resta traumatizzato e sostiene di non ricordare nulla dell’accaduto. Su alcuni particolare si è chiuso in un assoluto riserbo. Quando siamo arrivati, chiamati da una vicina protestante disturbata dai rumori mentre guardava la settantatreesima puntata del suo serial preferito, il poveretto era ancora sotto il letto e ancora senza nemmeno le mutande. Lo abbiamo dovuto pregare di uscire e di ricoprirsi. Fatta irruzione nell’appartamento dalla porta rimasta aperta davanti ai nostri occhi s’è presentata una vera alcova con tanto di telefono bianco, con la cornetta che pendeva attaccata al filo senza toccare terra. Quello che non siamo ancora riusciti a comprendere è la presenza di quelle due maschere di Topolino e Minnie appoggiate sopra le lenzuola stropicciate. In quanto pare proprio, e fuori di ogni ragionevole dubbio, che i due si conoscessero bene, anche per quei vincoli di parentela. Non abbiamo perso la speranza che l’uomo, col tempo e molta pazienza, ritrovi la memoria e sia in grado di darci le informazioni necessarie onde farci capire la ragione della presenza di quelle due maschere seppure carnevale sia passato da un bel pezzo.
Nel telefonino del signore, in seguito, abbiamo ritracciato uno scatto della vittima che è quello che si può vedere e che è stato allegato agli atti come referto probatorio numero nove b. Si può notare che la signora ha un’espressione sorridente che si potrebbe definire anche serena e in un certo senso candida con un bel sorriso e un indumento –un top– che non la copriva molto. Si sarebbe potuta classificare certamente come una bella donna molto avvenente. Quando abbiamo rinvenuto la vittima la minuscola canotta di lustrini, molto, anzi esageratamente scollata, la indossava ancora ed era sporca del suo stesso sangue, rosso su rosso. Mentre le mutandine e una corta gonna erano piegati meticolosamente su di una poltrona, difficile se non improbabile supporre che una signora come lei fosse arrivata vestita solo di quei vestiti perché i capi di abbigliamento erano atti a non passare del tutto inosservati. Probabilmente apparteneva alla stessa anche una giacca grigio perla rinvenuta nell’attaccapanni dell’entrata. Come ho avuto occasione di affermare nell’esposizione dei fatti brancolavamo nel buio, nessun ricettatore da noi contattato con solerte sollecitudine si era visto offrire un paio di due orecchini a stella con incastonate piccole perle.
Per fortuna tutto è cambiato in base ad ulteriori successivi approfondimenti sui reperti ritrovati da parte della scientifica e quel tutto è stato reso ancora più semplice quando abbiamo reperito la registrazione di quella telefonata. E io cretino che mi ero anche chiesto come lo spieghiamo al marito che abbiamo trovato la moglie a letto nel letto di un altro, del fratello, per giunta. Con le voci che si sovrappongono il primo a parlare è proprio il marito che stupidamente non aveva nemmeno avuto l’accortezza di cancellarla dal cellulare che l’arguzia e l’intuito dell’appuntato Santinbeni, di propria encomiabile iniziativa, aveva provveduto a far mettere sotto controllo: “Sì può sapere cosa hai combinato, cretino”?
Quello che mi hai detto”.
Ti ho dato l’indirizzo”?
”!
Hai seguito il piano”?
Sì! Il secondo, prima porta a destra. Tutto okkei”.
Ti ho spiegato bene che si trattava solo di prendere quel contratto con la firma di mio fratello e che non si doveva fare male nessuno”?
”!
Per via della sua partecipazione alla società. Ai proventi”?
”!
Che mia cognata non aveva nessuna interessenza nella società”?
Credo di sì”!
Ti ho dato le foto”?
”!
Le hai studiate bene”?
Sì! cioè credo di sì”.
Ti ho detto di far sembrare che fosse una rapina”?
”!
Dovevi dargli una botta in testa”.
”!
Hai preso su qualcosa prima di andartene”?
Qualcosina. Ero di fretta”.
Qualcosina cosa”?
A parte… non importa. Non li ho proprio presi. Insomma… un paio di orecchini che erano sul comodino e mi sembravano belli ma non di grande valore. E come mi hai detto li ho buttati subito. Sono stato bravo? Insomma… buttati… Me ne sono liberato”.
E allora”?
Che ne so”?
Ti ho detto di appostarti e aspettare che la moglie uscisse e lui restasse solo”?
”!
Ma hai fatto come ti ho detto”?
Perfettamente. Sono stato delle ore sotto fingendo di essere un mendicante suonatore di kazoo. E l’ho vista uscire con i miei occhi”.
Ti sei almeno coperto il volto per non farti riconoscere”?
Certo”!
Sei sicuro”?
Credo di sì”.
Cosa vuol dire credo”?
Avevo quel cazzo di kazoo nell’altra mano. Non sapevo dove infilarlo. Ed ero ancora vestito per la posta, ma avevo un gran bel paio di baffi finti”.
E allora com’è potuto succedere”?
Che ne so? Sarà rientrata. Mi sarò distratto, ma ti giuro solo un attimo, forse… probabilmente… quando sono andato a farmi un cicchetto”.
Cazzo, racconta”.
C’è poco da raccontare. Entro con la chiave che mi hai dato. Me li trovo davanti. Lui scivola terrorizzato e sparisce rannicchiandosi sotto il letto come una pulce. Lei urla come una forsennata da richiamare tutto il vicinato. Mi prende un tale spavento… Allora sparo alla bionda e me la filo perché le cose si stanno mettendo male”.
Bionda hai detto. Sua moglie è una bruna, anche graziosa”.
Ti assicuro che quella era bionda. Bionda naturale. Prima dovevano stare facendo degli strani giochini. Sai come siete voi ricchi? Lasciami dire, un gran bel pezzo di gnocca. Una vera porca. Uno e sessantasette circa; direi. Secondo me quelle non erano sue, troppo perfette. Un gran bel… sì, insomma. Due labbra gonfiate. Con uno strano tatuaggio sulla spalla destra. Direi un asso di bastoni, ma non ho guardano bene bene e con calma. Non potevo certo fermarmi molto. Stavo dimenticando, aveva la fede al dito. Mi spiace per il cornuto. Non le capisco certe donne, e tu”?
Ma… ma… allora hai fatto fuori mia moglie, deficiente”.
Che ne potevo sapere”?
Cazzo, come hai fatto a sbagliarti”?
Vorrei vedere te. Che ne so? Forse… Quand’è uscita aveva un cazzo di cappello in testa”.
Che ci faceva lì quando avrebbe dovuto essere a Ivrea”?
Lo chiedi a me, amico? La vuoi la mia versione? La verità che ho visto con i miei occhi? Si stavano semplicemente trastullando e alla grande, amico”.
Cosa vuoi dire”?
Mi dispiace per te, amico, ma lei era sopra e lui sotto. Sul grande letto. Dovevi vedere l’energia che mettevano. Sentire come gemevano. Vuoi che ti faccia un disegnino? Sono rimasto a guardarli un paio di minuti senza che nemmeno badassero a me. Come se non ci fossi”.
Ma sei proprio un dilettante”.
Me li dai quei cinquecento”?
Era mia moglie… cazzo, aveva lei il nostro pacchetto azionario”.
Non ne capisco di aziende”.
Il resto della conversazione e delle seguenti sono state trascritte e verbalizzate ma non sono state riportate nel presente sunto informale, per solo mio uso e memoria, poiché prive di grande valore giuridico. Da quel momento ho indirizzato le indagini nuovamente sul marito e su un suo caro amico della materna già noto a noi per piccoli reati quasi insignificanti contro la moralità. Il coniuge sospettato, a precisa domanda, risponde che il cretino corrisponde al nome di tale Saint-Honoré, strana coincidenza, altresì conosciuto con il suo vero nome che all’anagrafe risulta infatti quello del vecchio amico Luigi, detto Gigi, Battiston, già tratto tempestivamente in arresto e attualmente in fermo trattenuto in una cella presso la locale caserma. Un amico colto e interessato aveva ravvisato da subito nei fatti come si potesse trattare di un episodio che pareva sputato un classico esempio della teoria freudiana del dualismo di Empedocle ovvero, in parole povere, della stretta connessione tra eros e thanatos. A me veramente era sembrata sull’istante solo un’assurda e inutile, nel nostro caso, formula chimica.
Il marito si dichiara estraneo ai fatti in quanto non presente, come poteva dimostrare chiamando al banco dei testimoni numerose persone; per aver perso le tracce dell’amico che non aveva più rivisto da tempo, per il quale nemmeno allora provava molta simpatia e fiducia, ma di averlo solo sentito per una telefonata che doveva essere a compimento di una burla; in quanto innamoratissimo della bella donna che gli era sempre stata fedele, sostenendo anche che ci doveva essere certamente un’altra logica spiegazione per la presenza della propria moglie in quella stanza –camera da letto ndr–; in quanto lei non si sarebbe mai prestata a una simile cosa e non avrebbe mai indossato simili panni, dovevano certamente averla rivestita post-mortem; In quanto gli orecchini non erano un suo regalo e lei non era usa accettare regali dagli estranei che non fossero lui; e anche in quanto assertore convinto della non violenza; e aveva immediatamente chiesto quale tutela la presenza di un avvocato.
Il maggior indagato, ovvero il Saint-Honoré, si dichiara con caparbia ostinazione innocente in quanto nello stesso momento dell’orrendo omicidio era nelle vicinanze, ma si stava dilettando quale virtuoso di kazoo, anche per raggranellare qualche spicciolo, infatti aveva ancora in tasca la refurtiva per euri ventisette virgola quindici centesimi; perché lui poteva assomigliare a quello chiunque quello fosse, ma non aveva mai portato i baffi; perché lui non poteva essere un assassino in quanto non era mai stato un assassino; perché l’arma non era sua e non sapeva in quale cassonetto fosse finita; perché era vero che aveva in tasca quegli orecchini ma li aveva trovati in un uovo di pasqua la nipotina; e, in ultima istanza, aveva chiesto la clemenza della corte, senza chiedere un avvocato, per infermità mentale in quanto, trovando la porta aperta, e non essendo assolutamente vero che lui aveva ingoiato le chiavi, e nessuno lo poteva dimostrare, era stato traumatizzato e poi spaventato dall’indecente attività dei due e dal grido della donna.
Personalmente stento a credere che i due abbiano agito da soli.

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Quarant’anni e non un giorno senza maledire quel nome. Lei adorava sua sorella ma non riusciva a darsi pace: perché lei Ambrosia e lei Mandragora. Nemmeno capiva come un padre, ancorché appassionato di botanica, trovasse logico condannare una figlia ad un nome simile. Che poi lei, sua sorella, tutti a chiamarla con il suo nome, mentre lei si sentiva al meglio nominare Mandra; il che era forse anche peggio. Lei adorava sua sorella e mai avrebbe ammesso che c’era qualcosa oltre a quello. Ci sono cose che resteranno per sempre da confessare e lei credeva che fosse abbastanza quello da rimproverare al padre. Ma lui, povero uomo, distratto alquanto come padre, era venuto a mancare abbastanza presto; troppo perché lei gli avesse esternato a sufficienza tutta la sua disapprovazioni, per farla sentire almeno un po’ meglio. E a nulla valeva, non certo a consolarla, il fatto che fosse stato distratto con tutti i suoi figli in egual misura.
Certo non avrebbe potuto confessare quanto rimproverava a Bibi, in casa la chiamavano così Ambrosia; la sorella maggiore le aveva fatto da madre e da madre premurosa. L’aveva sempre difesa dalle intemperanze di quel padre. Era sempre stata pronta alle sue confidenze. Era sempre stata molto più saggia dei loro dieci anni di differenza. Certo restava imperdonabile la fortuna che sua sorella, a suo dispetto, aveva sempre avuto, soprattutto con gli uomini. Anche se si sa quanto sono stupidi, gli uomini. Con lei non lo erano mai stati a sufficienza o lo erano stati fin troppo.
Si lisciava la gonna davanti allo specchio osservando il passaggio del tempo e intanto si liberava dei propri pensieri. A guardarle bene, a parte il colore dei capelli, nemmeno sembravano sorelle, e non lo erano mai parse; come se il nome avesse deciso dei loro destini fin dalla culla. Le sembrava che il nome di Bibi suggerisse una personalità coinvolgente, in qualche modo già da quello affascinante; il suo pareva un nome da libro dell’orrore o da manuale per apprendisti falegnami. Fin da ragazze erano state così diverse e divise. Tutte e due avevano i capelli di quel biondo che pareva d’oro e erano alte, ogni somiglianza si fermava lì. Ambrosia era sempre stata corteggiata. Un corpo prima intrigantemente acerbo e più tardi attraentemente maturo e arrogante.
Non che lei allora avesse un corpo che avesse nulla da invidiare a quello della sorella maggiore; a parte il seno che era rimasto lo stesso da quanto aveva tredici anni. A parte qualche chilo che aveva messo nei posti in cui non avrebbe dovuto esserci. Era dal collo in su che le cose non andavano e lo sapeva perché. Quegli occhi sempre tristi e incavati. La bocca come una parentesi che si chiudeva. Le orecchie a bandiera stesa, che prendevano il vento. Come delle vele gonfie. I capelli che non le stavano mai a posto. In un certo senso diventava una bellezza da guardare solo di spalle. Non si meravigliava se gli uomini finivano per sfiorarle sempre e solo il sedere. Per guardare solo quello. E anche quello lo facevano ben di rado. Ambrosia faceva sognare, Mandragora solo bestemmiare. Condannato per un infelice nome. Se non era sfiga quella? Condannata a essere sempre seconda.
E Ambrosia, naturalmente, era brava anche in cucina. E poi porca quel tanto che bastava. Ma una che si chiama Mandragora non può farsi furba. E si era fatta scoprire subito. Quel giorno che s’era messa il vestito della sorella più grande, che le stava anche stretto. Quel giorno che si era finta lei e si era stesa al suo posto sul suo letto. Quel maledetto giorno in cui aveva aspettato il buio per aspettare Peleo distesa tra quelle lenzuola. Quella nefasta notte che Peleo, dolce e garbato, le aveva sfilato finalmente quel vestito che la soffocava. Lei, Ambrosia, proprio quella notte era tornata prima e li aveva sorpresi subito incollerita. Nemmeno il tempo che gli occhi del mascalzone si soffermassero sul suo corpo per un attimo. Nemmeno il tempo di cominciare e tutto era già finito. Gridava che era il suo uomo, l’egoista. Invece era solo il suo fidanzato. Cosa sarà mai? Come può una sorella privare anche di una piccola gioia una sorella.
Non voleva restare un solo attimo in più in quella casa. Dividere più nulla con quell’ingrata. E allora Mandragora prese le sue cose e si allontanò in silenzio sotto braccio a Peleo. Verso una vita nuova. Lui non era un Adone, ma nemmeno Efesto. Comunque Adone era più misero di quanto si pensasse ed Efesto era stato un vero galantuomo. Se proprio fosse stata costretta a scegliere si sarebbe tenuta il suo uomo. Sperava solo che il suo caro Peleo non fosse geloso. Nella vita una donna deve pur avere una vita. E lei sognava un matrimonio in bianco, ma non troppi pargoletti. Per divertirsi c’è sempre tempo e non è mai troppo tardi.

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La chiamo zia ma non è mia zia, Zia Cesarina. L’ho sempre vista per casa. Fin da piccolo. Fa le faccende. Sistema le cose. La mamma, povera vedova che deve lavorare, e fare anche i turni di notte, con un figlio ancora piccolo, ha bisogno di qualcuno che la possa aiutare. Le voglio bene quasi quanto una mamma. Come ad una vera zia.
Credo di essermi innamorato. E’ ancora una ragazzina. Lei non lo sa. Mi sembra bella. La più bella. Credo sia per gli occhi con cui la guardo. Per quelle trecce. Per il suo viso imbronciato. Per il suo sorriso, soprattutto per quello. Per la sua voce quando mi parla. Per l’attenzione con cui mi ascolta. Per l’espressione che assume il suo silenzio quando riflette. Perché è lei. Perché è la mia più cara amica. L’unica. Dovrei dire era? Ora mi sembra essere diventata molto di più. Non so come si bacia. Non so se lo sa. Non so se avrò mai in coraggio di confessarglielo.
Ha due anni più di me, Serenella. Non credo che sia grave. Mi parla come si parla ad uno grande. Il problema è che non possiamo stare nella stessa classe. Ma ci troviamo durante la ricreazione. E facciamo sempre la strada insieme. Abitiamo a uno sputo; due passi. Credo di essermi innamorato quando sua madre mi ha invitato a entrare a fare merenda. In quella casa grade. Piena di tappeti. E mi ha dato i biscotti con la marmellata fatta in casa; la sua mamma, la signora Teresa. Teresa Bonfanti. Anche Serenella si chiama così, naturalmente, Serenella Bonfanti. Il suo cane, Rocky, mi ha fatto un sacco di feste. Ma i nomi dei cani chiedono la maiuscola? Chissà… Il papà non l’ho mai visto. E’ sempre via per lavoro. Poi la signora Teresa ci ha lasciati soli. A giocare sul tappeto. E’ stato in quel momento che ho capito. Anche. Forse. Forse lo ero già. Forse lo sono sempre stato, ma l’ho capito solo allora.
E quando mi ha preso per mano, per strada, ho provato una felicità indescrivibile. Immensa. Ha le mani tiepide e morbide. E le dita sottili e lunghe. Ma Serenella è tutta lunga. Cioè alta. Con quelle gambe lunghe e le calze nere. E’ già una spanna più alta di me. Da allora facciamo sempre la strada così, per andare a scuola, per mano. Dondolando le braccia. Se faccio il gesto lei mi precede: mi prende la mano. E si comporta come una mamma. Questo non mi piace troppo. Non so come ma vorrei che si comportasse come una vera fidanzatina. Anche se i ragazzi ridono. E lo so che si prendono gioco di noi dietro, alle nostre spalle. E dicono anche delle cose non proprio belle. Anzi un poca volgari. Non mi interessa degli stupidi. Vado diritto per la mia strada. Perché… le voglio bene… bene veramente. Se questo è amore allora è amore.
Poi una mattina… Quella mattina non è venuta. Non ci siamo visti. Poi ho saputo che aveva la febbre. Mi dispiaceva per lei. Ed ero giù di corda. Sono corso a prenderle i compiti. Volevo farle compagnia. Magari leggere un libro assieme. Solo un racconto. Non potevo perché era infettiva. Vuol dire che me la potevo prendere. Non mi sarebbe importato. Avrei voluto dividere tutto con lei. Ma la sua mamma è stata categorica. Mi ha rispedito a casa. Ma quanto sono arrivato vedevo tutto nero. Zia Cesarina non sopporta quando mi vede triste. Mi fa sedere sulle sue ginocchia. Come sempre quando sono così. O quando ha voglia di farmi le coccole. O quando sa che io ne ho voglia. O per raccontarmi qualcosa. Come a un bambino. Ma non sono più un bambino. Lei non lo sa, forse. Lei non lo vuole sapere. Per lei sarò sempre il suo cucciolo, mi dice, ed è tutta sudata. Che cosa c’è, piccolino?
Sono l’unico uomo di casa, il loro ometto. Certo mamma direbbe che sono troppo giovane per queste cose. Che sono ancora piccolo. Vorrei la smettessero entrambe con quell’ometto. Vorrei crescere in fretta. Zia Cesarina ha sempre il suo da fare. Ma lei invece trova sempre un attimo per me. Vorrei dirglielo. Anzi gridarlo. Mi sento disperato. E se Serena non guarisce? Come posso confessarle che vorrei morire? So già che mi chiederebbe cosa sono certi paroloni. Quando non so nemmeno cosa sia. Ma so quello che sento. Vorrei piangere. E i miei occhi lo denunciano. Alla Zia Cesarina non so nascondere nulla. Tanto lo scoprirebbe. Mi conosce come un libro che ha già letto. Ride prima ancora che mi venga in mente uno scherzetto, un capriccio, un dispetto. E come se mi potesse leggere in testa. Una volta o l’altra le chiedo come fa.
Gli occhi mi bruciano e nella testa ho solo un grande ronzio. Ride, con quella sua aria materna. “Non ti starai mica innamorando”? Lo sapevo che mi avrebbe mascherato. Fa caldo. Ha la blusa bianca generosamente aperta. Non è la prima volta, ma stavolta è diverso. Non so né come né perché, so solo che è diverso. Vorrei solo coccole. Vorrei che mi allattasse come quando ero piccolo piccolo. Vorrei… non lo so. Dentro quella camicetta c’è una sorta di rifugio. Una specie di nido caldo. Un riparo da tutto.
Guardo. Vede che guardo. Sorride senza far rumore. Mi sento strano. Poi si fa prendere da un’allegria che sembra divertente. Mi strofina la faccia sulle sue tette generose, sospirando Piccolo mio. Poi me le lascia succhiare squittendo come se le facessi prurito Piccolino mio, così dolce. Non so bene cosa succede lì sotto. Ho una grande confusione nella testa. Caldo. Poi, con il suo sorriso bonario mi fa accomodare, e continua quel sussurro paziente Piccolo mio. Sento che lei sa quello che fa. Mi sono sempre fidato di lei. Mi detta il ritmo. E’ la mia prima volta. E succede così. Ho una specie di sete che mi arde in gola e negli occhi. Ho fretta. E’ solo la ricerca di un godimento disperato. Dalle labbra mi sfugge un bisbiglio angosciato: “Zia Cesarina”… Lei mi sorride benevola e mi risponde solo e semplicemente: “Furfante”.
Non sono un furfante. Sono uno stupido. Forse solo uno stupido ragazzino. Amo Serena e invece credo, forse, di aver amato, la Zia Cesarina. Ne provo vergogna. So di non doverlo confessare. Nemmeno davanti al prete. E ho perso entrambe. Perché quella zia mi ha detto Scordalo, è stato solo una volta. E il mio vero amore mi ha tradito. Andando a scuola, per mano, la mia dolce Serenella è triste. Si racconta e mi racconta che le piace quello stupido di Giulio. “Credi che glielo dovrei dire”? Mi sono sentito morire. Dovevo parlarle prima. Avevo già deciso. Credo che non glielo confesserò mai.

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In qualsiasi altro posto tutti si sarebbero sorpresi di trovare una donna in un orinatoio per soli uomini, unico posto in cui non è consentita la presenza femminile. Non nel nostro paese dove tutti conoscevano il conte. Adelina lo seguiva in ogni posto accondiscendente come un cagnolino da compagnia. Lui s’era semplicemente messo davanti alla latrina di porcellana con le mani in tasca e lei era intervenuta subito: “Lasci fare a me, signor conte”. Se n’era rimasta buona in silenzio indirizzando il gesto dei nobili bisogni liquidi del suo insigne padrone: “Non si preoccupi, signore”. Lui arrogante tutto impettito del suo lignaggio come si conviene ad un gran signore: “Adelinaaa!!! Stai attenta, cretina, che mi schizzi”. Lei remissiva gli occhi chini ma attenti come si conviene a chi nella vita e nata destinata ad essere donna di servizio: “Scusi, signor conte”. Dopo una non troppo breve attesa si era premurata delle sue condizioni perché preoccuparsi di lui era nei suoi compiti, scordandosi però inopinatamente il titolo: “Tutto bene”? Il conte cercò d’essere gentile e di non far caso alla sbadataggine: “La solita scrolla”…
E fu subito premurosa: “Certamente, signor conte”. E il conte aggiunge solo: “Uhm! –e poi un non completamente soddisfatto– Bene”. Lei premurosa prese la salvietta. Ma la serva era educata a cogliere anche le sfumature e a prevenire ogni suo ulteriore bisogno nonché attenta a tutte le vicissitudini e necessità: “Serve altro”? La domanda era invero un po’ retorica e l’uomo fu lesto nella risposta anche se un po’ balbettata: “Veramente la mano mi”… Lei solerte non lo lasciò finire la frase, già sapeva, e si prodigò immediatamente: “Naturalmente, signor conte, ai suoi ordini e desideri”. Ma l’uomo a cui si accompagnava la zelante domestica era persona veramente esigente. “Non sarai già stanca, sembra la mano d’una morta”. La povera donna leggermente sconfortata cercò sollecita di renderlo soddisfatto con la destra che aveva tenuta in tasca del grembiule affinché ritrovasse la consueta circolazione del sangue e tepidezza: “Va bene il ritmo, signor conte”. Poi, sempre con l’intenzione di prevenirlo, lo tempestò di premure, intervallando ogni preghiera con il dovuto titolo gentilizio: “Ancora lenta? Forse stringo troppo? Se mi posso permettere, lei è proprio… maestoso. Non sarò troppo veloce? Mi dica pure”. Lei sapeva quanto quel maschio gradisse i complimenti, ma alle sue osservazioni l’aristocratico si limitava a sintetici borbottii che parevano più mugugni che altro, ma forse di apprezzamento. Lui dondolava come se fosse ritto nel vagone di un treno in viaggio con gli occhi socchiusi. Alla fine la poveretta con molta cautela e attenzione sistemò il padrone e con cura gli tirò su la lampo dei pantaloni. Lui la precedette soddisfatto, dopo aver scritto ridendo la sua valutazione sulle piastrelle per pura burla ai posteri invidiosi; e uscirono dal nauseabondo vespasiano.
I giorni della cameriera a volte potrebbero apparire molto duri. Dell’episodio non insolito dell’uscita dalla latrina lei cercò di ingoiare anche un po’ di vergogna. Appena condotti alla villa i due si separarono, l’uomo raggiunse lo studio per immergersi nelle sue letture del proprio albero genealogico, e la donna si dirette verso la cucina senza ricevere nemmeno un cenno di elogio, che per altro non era mai stato da lei richiesto. Si rimise subito all’opera e accese il fuoco ai fornelli e vi mise sopra la pentole. Poi alacre raggiunse le stanze della sua padrona e l’aiutò ad indossare l’abito per la sera, la pettinò con cura e le consigliò quelli che a lei sembravano i gioielli più adatti, sempre con la dovuta rispettosa cortigianeria e quel pizzico di adulazione. La signora moglie del signor conte decise di protrarsi ancora per qualche minuto nella stanza stesa a letto con le tende accostate a causa di un po’ di emicrania che l’affliggeva. Finché non si fece l’ora per servire a cena la docile sguattera fu costretta a trattenersi con lei per farle silenziosa compagnia nella penombra. Dovette scusarsi quando ormai incombevano le sette; il conte era rigido per quanto concerneva la puntualità ed era una buona e nota forchetta giacché si abbandonava facilmente tanto ai vizi della carne quanto a quelli della bocca, in questo specifico caso intesa come tavola. Quella sera non era atteso l’amico del conte, Adelina doveva limitarsi a preparare solo per due. Per lei era più facile interpretare i desideri del padrone, la di lui giovane consorte era spesso capricciosa ed era relativamente nuova alla casa pertanto ancora meno facilmente interpretabile nei tanti vizi quanto nelle minime virtù. In verità non provava molta simpatia nei suoi confronti, ma non lo avrebbe mai confidato a nessuno nemmeno sotto tortura, perché spesso doveva dannarsi a soccorrerla correndo dietro a tutti i suoi numerosi piccoli capricci. Ma quella sera era una sera speciale poiché era l’anniversario della presa della Bastiglia. Una sorta di festa all’incontrario in cui i suoi padroni cenavano con le luci smorzate e bardati a lutto.
La padrona prese posto all’altro capo della tavola e presto si spazientì, Adelina accorse premurosa servendole due buoni mestoli di zuppa; l’altra non soddisfatta chiese con fare indispettito: “Adelina. Non aspettiamo il signor conte”? La domestica imperturbabile, pur mantenendo la sua solita calma e gentilezza, le rispose alzando il coperchio e facendo cenno alla pentola: “Il conte è in tavola, signora contessa”. La contessa era solo un gran pezzo di zoccola.

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Ma chi l’ha detto che certi crimini possono essere frequentati e ad appannaggio solo dagli uomini? Non erano certo da meno. Potevano fare come loro e anche meglio. Non era stato per bisogno, più che altro per scommessa. Forse anche per noia. Lo conoscevano l’ambiente, per averlo frequentato magari di striscio. Almeno alcune di loro. Anche per piccole storie. Una era stata brevemente con uno che si era introdotto in chiesa dopo la chiusura. Un paio non volevano ammettere di averlo fatto dietro ricompensa, ma ne erano tutte a conoscenza. Una aveva avuto, addirittura, una lunga relazione con uno che era entrato in banca con un mitra in mano, e ora era una vedova di Regina Coeli. Per questo non aveva avuto problemi a farsi eleggere a capo. Così sei donne, quasi tutte di passabile aspetto, decisero di mettersi in banda e dar vita alla loro grande avventura.
Tutto sembrava filare liscio. Lui, il soggetto, l’obiettivo, aveva casa e negozio in via Condotti. Per quella sera Paoletta si fece prestare il motofurgone del marito da Lisetta. Erano state mute. Naturalmente s’erano cucite le bocche e non avevano detto a Lisetta a cosa serviva Altrimenti magari avrebbe voluto anche lei essere della partita; entrare nell’affare: “Ma solo per un paio d’ore perché poi debbono cominciare a consegnare il pane”. Si erano tutte camuffate, cioè mascherate, per non farsi riconoscere. Severina aveva messo il reggiseno di Paoletta di due taglie più piccolo. E Paoletta le scarpe con i tacchi dell’altra, in un equo scambio: “Sia chiaro. Solo per il tempo necessario”. Un paio di scarpe come quelle valevano certo di più di un semplice reggipetto preso al mercato. Beatrice aveva indossato una gonna che nessuno avrebbe perso tempo a guardarle in viso, e calze di rete. Claudiana si era dovuta accontentare degli occhiali da sole. Virginia, come sempre la più intraprendente, si era presentata vestita con i vestiti del suo ex-compagno. Infine Otylia si era dovuta accontentare di cambiare l’accento, comunque avrebbe fatto meglio a starsene zitta. Tirarono la monetina per decidere chi guidava. Vinse Otylia.
Aspettarono pazientemente, in un angolo in penombra, che lui chiudesse bottega, e prima che salisse a casa lo avvicinò Beatrice. Fu incaricata lei perché, anche se con qualche protesta, era stata considerata la più carina, cioè la più arrapante, e poi lei sapeva bene come fare. Non avevano avuto torto. Il commerciate aveva strabuzzato gli occhi e lei non aveva faticato nemmeno un secondo per farsi seguire: “Cerchiamo un posticino riservato, tranquillo” –e lui dietro come la sua ombra. In verità cercò un anticipo, ma lei rifiutò, come da accordi, risolutamente lusingando ancor più il maschio che era in lui ormai non più assopito. E gli scodinzolò davanti, con la scusa di non farsi vedere da un fantomatico marito, fino a portarlo nel posto convenuto: dove avevano lasciato il mezzo. Non fosse stato così distratto il riccastro non si sarebbe mai avventurato per quei posti, nemmeno in pieno giorno. Avevano scelto un angolino nascosto a Tor Bella Monaca, anche perché era vicino al rifugio che era anche casa di Virginia che ormai ci viveva da sola.
Convincere il soggetto a salire non fu impresa facile. Le lusinghe di Beatrice non potevano bastare e aveva cominciato a chiedere “Dove andiamo?.–e a informarsi–.Quanto vuoi?” A quel punto, constatato il panico che si stava impossessando dell’esca, decisero di intervenire. Improvvisamente, come per magia, erano sbucate tutte dal niente del buio agguerrite e lui si era cominciato a impaurire: “Cosa volete? Vi sbagliate?”… Tremava anche un poco. Poverino balbettava. Sembrava fosse la prima volta che faceva la parte del rapito. Non si riusciva a convincerlo né con le buone né con la gentilezza. Severina era entrata completamente nella parte. Da non crederci: “Sbrigati coglione”. “Non farci perdere tempo che il tempo e d’oro. E dobbiamo riconsegnare questo trabiccolo”. Otylia, consumata la pazienza, aveva risolto tutto con un colpo preciso del mattarello che s’era portata in borsetta: “Tiè! Almeno ti starai buono per un po’”. “Sicura che non l’hai fatto secco”? “Sicura; solo una bottarella. Un solo bozzo”.
Appena giunte a destinazione si resero all’unisono conto che non avevano pensato né a catene né a corde. Convennero che per non farlo scappare sarebbe bastato sottrargli i pantaloni, e così fecero. Virginia mise i calzoni nell’armadio dell’ex e il prigioniero in garage, soddisfatta. Per estrema precauzione gli legarono anche i polsi con la sua stessa cinta: “Se esce deve farlo in mutande. Figurarsi”. Poi si fece restituire il portafoglio perché era nelle brache e nelle brache doveva restare, dove tutte sapevano che era. Contarono i contanti e col cellulare fotografarono le carte di credito, e già gli occhi cominciavano a lampeggiare. Dovevano essere certe che quello che c’era dentro fosse lo stesso che avrebbero ritrovato ogni volta che avessero avuto il bisogno di controllare il contenuto. Tutte si assicurarono che Virginia chiudesse a chiave il mobile e consegnasse la chiave a Paoletta, la più ingenua. Da quel momento non rimaneva loro altro che aspettare con ansia il mattino. Continuando a guardare inquete l’ora ogni cinque minuti nei loro orologi. Otylia si informava dalle altre perché non lo portava al polso. La padrona di casa preparò un buon caffè per tutte e Claudiana prese il sonno sul divano perché non poteva assolutamente perdersi quella puntata; mentre Paoletta andava a restituire a Lisetta il mezzo del lavoro del marito.
Non erano riuscite a chiudere occhi, tutte tranne, come detto, Claudiana. Di primo mattino fu la solita Virginia a mascherare la voce dentro un fazzoletto per fare la telefonata. Naturalmente la moglie, all’altro capo del filo, chiese la prova che il suo caro marito fosse ancora vivo e vegeto e in buona salute. Lei fu sbrigativa: “La richiameremo”. Si spostarono tutte in garage e spiegarono confusamente all’uomo, sormontando le voci, qual era la situazione. Lui parve capire anche se non dava segni di troppa acutezza. Attesero assieme la mezzora pattuita. Quando gli passarono il cellulare lui eseguì con attenzione le loro istruzioni: “Sto bene cara e mi trattano bene. Almeno spero. Non ho ancora preso nemmeno un caffè”. “Sei sicuro”? “Certo che sono sicuro”. La moglie protestò: “Ma hai visto che ore sono? Altro che caffè. Accidenti a te. Ti sembra questa l’ora di farmi chiamare? Me ne torno a dormire”. “Aspetta cara. Hanno una cosa da chiederti, loro, le… signore”. Con pazienza Virginia cercò di scuotere la donna dal sonno. Alla richiesta del riscatto la mogliettina non batté ciglio, non mercanteggiò nemmeno per un attimo, tanto che tutte pensarono di essere state fin troppo moderate, e qualcuna propose di aumentare. Solo che la sicurezza della donna in viva voce le aveva prese in un contropiede inaspettato. Troppo tardi. Sembrava fredda e determinata. Per nulla preoccupata: “Quando volete e dove volete. Ora, siate gentili e fatemi tornare a riposare almeno un paio d’ore. Poi… datemi solo un paio d’ore per prepararmi e un altro paio per contattare la banca, poi richiamatemi all’altro numero. Lui lo sa”. Restarono a fissarsi a bocca aperta. Solo Virginia al telefono riuscì, con fatica, a reagire: “Niente furbate. Ne va della salute del maritino”.
In quel frattempo non poterono fare altro che ammazzare il tempo. Decisero di prendere confidenza col soggetto, sì! insomma col prigioniero. Di conoscerlo solo un po’ meglio. In fondo dovevano passare almeno sei ore assieme. Forse, anzi probabilmente, anche tutta la giornata. Non aveva figli e aveva anche una casetta al mare. Era sposato da vent’anni e da vent’anni aveva quel negozietto. Lo aveva definito proprio così: “Come mai”? “Non lo so. Non l’abbiamo mai cercato”. “Scusa?”… “Un figlio”. “Volevo ben dire”. “Voi ricchi siete tirchi anche in quello”. “Posso avere una sigaretta”. Nel mondo dei ladri e dei rapitori la generosità non è mai stata un difetto: “Puoi tenere anche tutto il pacchetto. –poi le venne spontaneamente e le parve divertente e si mise a ridere– Casetta, negozietto, pacchetto. Capito”? “E’ d’oro”? “Certo. Non sono mica… Scusate. Non vendo mica caramelle”. Questo era sicuro, perché trecento non erano mica una bazzecola, come sembrava dire la sua faccia e la voce di quella donnetta. Ci si poteva comprare, volendolo, quasi mezza casa. D’accordo, poi con un po’ di mutuo sopra… Magari una cosa modesta. Il fatto era che erano in sei. Per il colpo erano state un team, un numero perfetto. Per dividere sarebbero state anche troppe. Non era il momento per pensare a quelle cose. Intanto quelle, le ore, scorrevano lente, ma implacabili.
Claudiana si era assunta l’incarico di controllare il passare del tempo. E lo aveva scandito ogni mezzora. Alle dodici precise chiamarono. Avevano deciso, di comune accordo, che era meglio che a fare quella telefonata, almeno inizialmente, fosse lui. La carampana non avrebbe dovuto perdere tempo per informarsi della sua salute, e poi lui sapeva già il numero: “Cara… loro, –Virginia gli aveva sputato in un orecchio Sbrigati!– le amiche, mi hanno chiesto di chiamarti. Ti prego perché l’ultimatum sta per scadere. Sì! sto bene. Certo mi hanno trattato bene. Ti dico… Ti prego. Fai in fretta. Tutto quello che puoi. Tutto quello che chiedono. Ne va della mia vita. Sì! sono determinate. Se non lo fai torno a casa, ma un pezzettino alla volta”. Certo aveva un bel po’ esagerato quel bel tipo del loro rapito. Non serviva metterla così sul drammatico. Parlare di vita e di morte poi… Un pensiero bislacco le venne alla mente: e se si fosse rifiutata di pagare cosa ne avrebbero fatto? E gli avevano anche detto: “Niente iniziative”. Ormai la frittata era fatta. Virginia prese, ancora una volta, decisa, in mano la situazione. Gli tolse il cellulare di mano che era anche il suo. Parlò come in un giallo di Agatha Christie, ma si scordò di camuffare la voce: “Parli con me, signora Carraro”. Il tono freddo dell’atra le mise i brividi, e le giungeva chiaro come se fosse lì, nella stanza: “Ho qui il contante. Non fategli del male. Va bene per le sette perché dopo avrei il ramino”? “Alle sette puntuali. In Piazza di Spagna. Ci facciamo vive noi” –e chiuse la conversazione che ne aveva già le palle piene.
Era sempre Virginia a doverci pensare a tenere il timone, a mantenere la rotta. A decidere e provvedere: “Hai una foto”? “Di chi”? “Di tua moglie. E di chi se no? di Greta Garbo? Altrimenti come la si riconosce. Cazzo! Mica ti ci possiamo portare”. Non si aspettava quella domanda e reclinò il capo: “Sì, ma è nel portafoglio”. Paoletta corse solerte a prenderla. Mentre era via lui chiese se era proprio necessario, e loro non capirono. Il dubbio sorse quando si trovarono nuovamente tutte lì. Guardarono lo scatto, passandoselo una a una, con attenzione e una minima reazione di delusione, quasi di disgusto: “Non è male”. Severina era la più pronta e brava a mentire: “Bella signora”. Certo che la ricchezza non dà la bellezza. Per la felicità invece ci sarebbe stato molto da dire. Lui aveva la faccia da colpevole: “E’ venuta particolarmente bene che non sembra nemmeno lei. Ma… nemmeno a vent’anni”. Paoletta reagì prontamente stizzita: “Cosa c’entrano i vent’anni”? “Dicevo per dire”. “Ahhh! Volevo ben dire”. Il piccolo bisticcio terminò lì, prima di cominciare. Era un tipo a posto, controllato, e molto ben educato. Un vero signore.
Virginia uscì un attimo per preparare la colazione dell’ospite, ma al suo ritorno trovò la confusione più completa. Non era passata che una mezzora, che era stata via, oltre la notte e la mezzora e quelle sei dell’attesa. Quasi una vita. Cercò di zittirle tutte e farle parlare una alla volta. Il tentativo non ebbe successo e fu costretta e farsi spiegare dal prigioniero cosa diavolo stesse succedendo là dentro quella mattina. Gli liberò le mani e lui prese fiato e si prese con gusto la colazione. Poi spiegò con calma, spazzolandosi le briciole dalle ridicole gambe nude, con occhi compassionevoli: sarebbe stato disposto a pagare anche il doppio solo se loro gli avessero permesso di restare. Piuttosto di tornare da quell’arpia: “Non vi ho guardate con attenzione. Si può dire che non vi ho riconosciute… insomma… Siate gentili. Compassionevoli. Ma l’avete vista? Mettetevi una mano sul cuore; amiche”. Cogliendole tutte nella più assoluta sorpresa. Non s’era mai sentito niente di simile. Maledizione. Il prigioniero che chiedeva di restare carcerato. Nel dubbio, e nel non sapere cosa fare, le amiche cominciarono a scambiarsi accuse tra loro.
Erano proprio in un bel guaio: “Se tu, Bea, riuscissi a stare qualche volta più composta, forse ora non ci troveremmo in questo guaio”. “Se tu Paolina non avessi tutta questa fretta di diventare donna”… “Parli proprio tu, Severina; non ti potevi accontentare di una bella terza”? “Ragazze, è stata Otylia, dovevamo immaginarlo, sono tutte uguali quelle dell’est”…. “Non sono dell’est”. “Non importa, siete tutte uguali, non pensate che ad accasarvi”. “Parli proprio tu Buddana”. “A chi puttana? Ma come ti permetti”? “Mi permetto perché lo sei”. “Chi te l’ha detto, chi è la spia qui, fuori la linguacciuta, e anche se fosse, se io sono una puttana, perché si dice Puttana, cara mia, impara la lingua, che per il resto la sai usare bene, tu sei una mignotta”. “Guarda che in Italia si dice anche così, e io non sono quella cosa lì”. “Cosa ne vuoi sapere di cosa si dice”. “Io voto per Claudiana. Ma avete visto come lo guardava. E poi chi ne avrebbe bisogno più di lei”? “Ti puoi leccare le dita, cara mia”. “E tu ti puoi leccare qualcos’altro, bella”. “Non mi parlare con quel tono”. “Sentila la principessa. La principessa del pisello”. “Guardati allo specchio”.
L’ambiente si stava surriscaldando. Poco mancava che venissero alle mani. Lui le guardava letteralmente sbigottito, non certo di capire. Senza capacitarsi. Non gli sembrava una richiesta poi così assurda. Sarebbe bastato che lo lasciassero dov’era. Avevano voluto rapirlo? Del negozio e dei capricci ne aveva le tasche piene. Di alzarsi sempre alla stessa ora e fare sempre le stesse cose. Aveva già pensato di prendersi un altro commesso. E godersela. Poi erano arrivate quelle. Pazze. E se l’erano portato via. Mica glielo avevano chiesto. Mica era stato lui: “Prego signora, vuole per cortesia rapirmi un po’”? Ora che ci pensassero loro. Se la vedessero tra loro. Semplicemente. Lui lì non ci voleva tornare. Era meglio se se ne stava zitto. Non era certo più un suo problema: O spiffero tutto o vi tenete il pesce e anche l’odore. Per calmare gli animi dovette intervenire nuovamente Virginia in qualità di capo. Fu costretta a farsi sentire alzando la voce. Se andava bene il loro sarebbe probabilmente entrato nelle cronache come il rapimento più veloce nella storia del crimine: “Fate un po’ silenzio. Devo pensare. Litigare non serve e non risolve il problema. Proviamo invece a trovare una soluzione”. “Certo che il doppio sarebbe proprio una bella sommetta”. “Esattamente due volte un sacco di soldi”. “Proprio tanti”. Su quello erano tutte d’accordo: “Ma come si fa”?
Alla fine acconsentirono almeno di provare e fecero un patto sotto giuramento. Lo giurarono e spergiurarono: se una di loro, una qualsiasi, si fosse presa e tenuto il vecchietto, cioè l’anziano, cioè quell’uomo maturo, la sua parte del gruzzolo sarebbe stata divisa tra le altre. Però… si potevano tenere anche il malloppo che avrebbe consegnato la moglie quella stessa sera all’appuntamento in quella Piazza. Perché no? La facciamo parlare con lui e poi chi s’è visto s’è sentito. Il rapito accettò anche quella condizione. Brindarono tutti a crema marsala perché in casa non c’era altro. Ma non era ancora finita perché Pierina, la solita, si ritrovò piena di dubbi: “E dove lo teniamo”? “Siamo sei; un giorno a casa per ciascuna; pur che si impegni a rispettare i patti e a non far mancare nulla a nessuna”. “Cosa vuoi dire con nulla”. “Nulla vuol dire nulla. Dai che mi hai capita bene. Bottino e tutto il resto a ciascuna in parti uguali. Sono stata chiara”? “Ma i giorni sono sette”. “La domenica può guardare la partita e lo lasciamo riposare; poverino. Ogni domenica si cambia. Avrà pure bisogno di riposare anche lui. Anzi il diritto”. La solita Pierina, esperta nel rompere le uova nel paniere fece mente locale: “Ma io sto con mia mamma”. “Chi è tua madre”? “Lo sai, la Ninetta”. “Quella di Tor Vergata”? “Proprio lei”. La competenza di Virginia trovò immediatamente ancora una volta la soluzione giusta e restituì tranquillità: “Allora va bene, basta che ne lasci un po’ anche per lei”.
Con soddisfazione Paoletta poté liberarsi finalmente di quelle scarpe. Severina togliersi il reggiseno dell’amica sotto la maglietta, sospirando nel liberare le sue grazie al vento. Claudiana sfilarsi quegli orribili occhiali e tornare a vedere, era rimasta fin troppo dentro la notte. Otylia tirare una saracca nella sua lingua madre e correre a fare la pipì. Virginia andarsi a cambiare e sistemarsi per tornare donna. Ma Beatrice rimase fasciata con quella gonna. Non voleva dare spettacolo. Non voleva far togliere alle amiche anche quella soddisfazione. E poi lui la guardava già ben bene. Però il primo giorno sarebbe rimasto segregato da Virginia, le spettava di diritto, non era forse lei il capo? E quella che aveva avuto l’idea? E quella che s’era fatta il mazzo più delle altre?
Tutto filò liscio e ritirato il malloppo lasciarono che se la sbrigasse lui: “Sì! tutto bene, cara. Sì! ho mangiato. Ora vado a cenare. Buon ramino. Sì! mi hanno liberato. Non ti preoccupare. No! non direttamente a casa. L’avventura mi ha affaticato. Forse vado qualche giorno alla casa al mare. Una bazzecola. Non dire niente a nessuno. Sì! ti racconto quando torno.” –e si asciugò il sudore. Tutte insieme, emozionate, contarono tutti qui soldi. Avevano gli occhi come diamanti: “Cazzo quanto sono tanti”. E Claudiana fece i mucchietti e li distribuì. A ciascuna il suo. La cosa è sempre stata nota, che tra quel tipo di persone, la solidarietà impera.

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