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Archive for settembre 2009

Frettolosamente. A parte le zanzare della cultura. Non parlo dell’altra umanità. Parlo proprio degli insetti. Si accanivano con ferocia. Solo ai giardini napoleonici. Avvicinandosi con fare indifferente. Strano: zanzare che hanno l’ambizione di mordere solo in ambiente colto, raffinato; dove a piene mani si spargono i semi dell’arte e dell’intelletto. Dicevo all’inizio: a parte quel diversivo fastidioso, il grande contenitore è come sempre favoloso. Ma Venezia, si sa, è di se una grande opera d’arte da lasciare sempre stupiti e fascinati. Viverci e come vivere nell’arte. Il contenuto invece lascia, come sempre, invero in un immersione di perplessità. Dove va l’arte o le arti visive, o le arti figurative, o l’accidente che si vuole? Questa credo sia la domanda che si dovrebbe porre una vetrina prestigiosa come quella. Quella che, non senza un leggero senso di pomposità, è stata titolata «Esposizione Internazionale d’Arte Fare Mondi».
Insomma ci vado con tutta la mia buona volontà. La compagnia è buona. Non so perché Lei non né ha già parlato. E poi c’è anche Lei. Insomma dovrei essere contento a prescindere, di default, comunque. Invece ho un senso di “ansia da prestazione”. Non so cosa aspettarmi e non tutto quello che mi aspetto mi promette sensazioni gradevoli. Ne ho sentito parlare; è argomento che non si lascia ignorare. La città se ne mostra fiera. O forse viceversa. E poi da veramente un tono, parlarne. Eppure come avanzo ho come la percezione di confusione. E che anche la disposizione dei padiglioni vi contribuisca. Come se quella “confusione” fosse cercata; in qualche modo voluta e/o perseguita. Una confusione d’artista, insomma. O l’arte della confusione. Indubbiamente “l’offerta” è esuberante e questo porta ad un logorio percettivo. Ad una veloce stanchezza. Ed a una altrettanto veloce rimozione del già visitato. Ovvero tendo a confondere le sale e gli artisti visitati e a ridurli velocemente all’oblio.
Non che non vi trovi stimoli, ma sono quasi tutti presto accompagnati da perplessità e domande. In alcune sezioni non so comprendere, faccio venia della mia ignoranza, quale sia l’offerta dell’autore. Non è per una questione di mercato, ma per una di sopravvivenza. Un artista, per campare da artista, dovrebbe “guadagnare” dalla sua arte, mi intestardisco a ripetermi. Parlare di mercato fa volgare. Parlare di mangiare forse. Credo di sapere quale può essere lo spazio che si può ricavare un quadro. Mi sfugge come si possa offrire, ad esempio, ma solo come esempio, quei suoni e quei rumori. Fatico a farmi capire. Vado oltre. Mi distraggo da questa perplessità. Infondo l’arte è solo arte. Può, e deve, parlare con se stessa, e di se stessa. E nemmeno mi credo troppo conservatore in fatto d’arti. Per chiarezza, e a prescindere, il mio atteggiamento a riguardo e tutt’altro che di disdegno per le avanguardie del 900. Credevo di essere aperto, invece probabilmente non lo sono. Mi sorge il sospetto che l’«arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica» possa contenere elementi truffaldini. E che a quel punto l’arte possa essere, al massimo, artigianato. E’ questa una osservazione però su cui mi va di sorvolare. Ché abbisognerebbe di troppo spazio per essere qui trattata.
L’arte, nel senso di pittura (ma ormai pochi pittori dipingono), si è interrogata allungo sugli spazi all’interno dell’opera. I contemporanei si interrogano sugli spazi in cui interviene l’opera. Sempre spazio è, ma non riesco a cogliere spesso interesse per l’intervento dell’opera. Né sul significante né sul significato. Colgo delle citazioni. Colgo però anche delle riproposizioni, e numerose. Se n’è parlato in molte sedi ma con circospezione. A nessuno è dato interesse di mostrare la propria ignoranza. Io mi posso permettere di non avere di quei pudori. Sono solo uno che guarda. Uno che vede. L’uso dello spazio mi sembra un quesito affascinante. Non altrettanto la puntigliosa riproposizione dello stesso quesito e del suo modo di risolverlo. Infondo un paio di saloni dell’Ikea (scusate l’involontaria pubblicità) restano, per me, spazi che l’Ikea avrebbe potuto utilizzare al meglio. A parte il fatto, stupido da parte mio, di chiedersi come nessuno di essi rappresenti la Svezia. Ci sono, è vero, le sedie di Hugo Alvar Henrik Aalto, sempre primo nelle enciclopedie, ma sono al bar.
C’è gente che mostra vero e profondo interesse. Molti fotografano nonostante i numerosi cartelli. Qualcuno prende persino appunti. Cerco di interpretare, a bocca aperta, un perfetto trasporto davanti ad un vero estintore; ovvero davanti ad una coppia che interpreta se stessa nella quotidianità approfittando di un divano davanti ad una televisione che trasmette cartoni. Sono talmente realistici da sembrare vivi. Credo, sempre come esempio, di cogliere in alcune opere una riflessione sull’Art Nouveau (Liberty), cioè sulla cosiddetta secessione viennese, proprio quella di Klimt e Schiele, ma stanno dentro il padiglione Egiziano. L’impressione non è solo mia eppure non abbiamo frequentato gli stessi studi. Io manco ho studiato. E’ vero però che abbiamo molte affinità e sensibilità in comune. E dire che è un padiglione che ho apprezzato, soprattutto per quelle sculture che a me ricordano quella storia di quel paese. Poi non trovo grecità nella proposta greca. La pittura in paesi di grande tradizione come la Francia o Belgio pare bandita. E c’è dell’altro: alcuni “autori”, infatti, seppur distanti fra loro per storia e provenienza, propongono esattamente lo stesso prodotto. Sospetto che il pericolo sia quello del «pensiero nell’epoca della sua riproducibilità tecnica». Di un pensiero unico, omologato; si potrebbe dire stereotipato. Solo che questa non è la proposta di un artista ma una riflessione che può nascere solo dal pubblico. Non so cosa ne pensate voi ma io voglio tornarci.

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raccontiNon era andato a scuola ma non si sentiva in colpa. Aveva evitato quel bar perché lì avrebbero trovato tutti. E li avrebbero visti. Graziano avrebbe voluto dirle che era bella invece le chiese se aveva fatto il terzo. Certo che la vita era proprio complicata. Albertina avrebbe voluto che le parlasse di se o le chiedesse di lei; non aveva avuto nessuna difficoltà con quello stupido problema. Quel sole la faceva apparire come una bella giornata e non era nemmeno freddo. Non andarci per poi parlarne le pareva stupido. Albertina aveva un naso dispettoso e cappelli leggeri che se li portava il vento. Non sembrava nemmeno possibile che quello fosse il suo nome. Quando credette di poter trovare il coraggio gli squillò il cellulare. Era il Pisani. Probabilmente voleva sapere dov’era. Lo avrebbe richiamato. Graziano aveva gli stessi occhi del suo criceto e la stessa precipitazione. Parlava veloce che non si sarebbe detto e se l’era immaginato diverso. Aveva mani belle e gentili, ma si mangiava le unghie e questo le fece ancor più tenerezza. Albertina si sentiva quella pigrizia addosso e alla fine, pensando di farlo contento, lo aprì quel quaderno. Lui la sfiorò per avvicinare il viso ai fogli a quadretti, dove lei indicava con il dito, ma si ritrasse subito.

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poesiaMa     uomo
io     lì in fondo
non ho voluto cercare,
scavare;
ho udito fredde campane
e qualche passero,
un paesaggio triste,
ho palpato un fremito – sottile – di rancore
e di paura
e ho temuto di denudare
ciò ch’era più in fondo
troppo     in fondo
ormai da sempre     nascosto, celato
o mai liberato;
nel nuovo verso del TE DEUM.

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NosferatuQueste parole erano nate più parche come risposta ad un commento, ma quale semplice risposta sono subito state strette in quello spazio che si faceva angusto; fino a diventare quasi il racconto di un racconto. Una nota quasi presunzione di saggio (quasi confessione) poiché a tutto si può trovare ragione giacché Lei solleva delle questioni. Del resto non si hanno che piccoli indizi; plausibilità. Infondo voleva passare inosservato come una carezza e farsi in parole sfumate che suggeriscono più che descrivere. Se ciò non appare è nell’incapacità dello scrivente. Ma l’autore non dovrebbe mai essere autorizzato a denunciare gli strumenti che voleva usare, smontando così, di fatto, l’architettura. Col rischio di ammettere che la sua è solo una barca di carta. Non si dovrebbe mai scordare che Solo nei romanzi gotici, come in tanto cinema, c’è sempre il lieto fine. L’eterna lotta tra il “bene” e il “male”, si prega di notare le virgolette poiché tutto è relativo, non finirà mai. Diversamente non sarebbe eterna. E di ogni sentimento non vi è una ragione univoca. C’è l’amore che uccide allo stesso modo di quello che da la vita. C’è un gesto generoso anche nell’uomo più abietto. E tutto viene tradito nella stessa traduzione. Le parole non hanno sentimenti.
Ad una rilettura si può proditoriamente affermare quanto nulla sia lasciato al caso. Così il racconto è volutamente ambientato a Venezia e non in Valacchia o in Transilvania. Venezia non sarebbe città adatta ovvero non lo potrebbe essere meno. Non ha l’aspetto cupo per un romanzo gotico; a differenza la sua aria è, se vogliamo, malinconica. E niente è più malinconico di una Venezia in novembre; malinconica e silenziosa. Il teatro diventa figura di spicco togliendo importanza agli attori. Le sue figure scivolano come ombre allo stesso modo delle sue barche. I suoi personaggi sono sempre in cerca di anonimato. Anonimo è il protagonista “negativo” e, infatti, è solo un ombra. Non viene mai pronunciato se non in terza persona singolare. Come non avesse sembianze. Non risulta né come Nosferatu, né come Dracula, né come Vlad. Con più affinità al romanzo di Polidori è un non-nominato ovvero un maledetto. L’unico sentimento che può suggerire infatti è un terrone muto, un terrore sottile come una lama di gelo nella carne. Per chi è attento nemmeno quello. Lui non porta addosso quel destino da, per la maledizione che lo condanna, farlo apparire come figura in fondo atta a muovere a compatimento giacché il personaggio immaginato vuole essere solo una figura parassitaria. Un “individuo” che vive della vita d’altri, che dagli altri succhia la sua linfa vitale. E’ una figura negativa ma non è il “male” poiché anche il male richiede qualità.
Fosse vampiro sarebbe in parte giustificato poiché i vampiri hanno bisogno di “servitori” per poter esistere. Avrebbe un destino e un fine. Ma Una cosa unisce i due personaggi, quelli che vengono definiti il suicida e il vampiro, sono entrambi non morti, proprio con nel romanzo di Bram Stoker. Condannati a vivere una non vita. Il loro destino, nel breve e modesto racconto, voleva essere meno definito. Non è poi così certo che per il primo si tratti di suicidio, come il vampiro è chiamato così solo nel titolo. E poi, come sempre accade, si tratta di lotta intestina poiché nessuno e solo veramente buono e solo esclusivamente cattivo. Una lotta in cui ognuno affronta il suo doppio, un altro se stesso. In ogn’uno c’è anche amore anche quando è solo amore di se; per se. O quando degli altri ama la propria immagine riflessa. O degli altri invidia quello che crede di non avere. L’invidia che rode è corrode è un veleno terribilmente affascinante, in alcuni. Ma infondo questi protagonisti sono tutti colpevoli così come avviene solitamente nella vita. Infondo tutti i nostri protagonisti tradiscono, non sono liberati da attenuanti o giustificazioni, al massimo da ignoranza; e tradiscono, prima di tutto, l’amicizia. L’amicizia, e nel caso, la generosità. L’amore dato senza chiedere, senza essere chiesto, senza giustificazioni. Chi apre il proprio cuore spesso lo fa con distratto non accettare la persona che ha davanti. Testardamente si convince che gli altri sono come vorrebbe che fossero. Forse offre il suo pane per elemosinare un grazie. E’ plausibile.
Ma ancora si dovrebbe convenire che nessuno resta per sempre un ragazzo. Quella tomba potrebbe non contenere alcun corpo. Essere vuota come l’animo di colui che cerca la sua improbabile vendetta. Improbabile quanto inutile. La vendetta non comporta nessun riscatto né restituisce alcunché. Placa solo una fame di orgoglio. Altre piccole cose. Come detto niente giustifica colui che medita la vendetta, né lo giustifica quel suo asserire di non sapere, di non aver capito. Doveva avere occhi per vedere e orecchie per sentire. Il suo atto, anche se colposo, la sua insipienza, non fa meno grave il suo tradimento dell’amicizia degli amici e della fiducia di Lei. La sua ridicola apprensione tardiva. Tutto pare assumere il tono della giustificazione. Come chi si compiace di compiangersi. Come chi ama farsi compatire. Cosa può giustificare delle sofferenze? Nemmeno la propria sofferenza può servire a perdonare la sofferenza degli altri. E la sua stessa ultima scelta può anche essere vista, come le altre, quale incapacità a scegliere la vita; mancanza di coraggio nell’accettare le sfide che la stessa vita sempre lancia. Muore sempre anche chi smette di vivere e/o si rifugia nella rassegnazione. Lui semplicemente cerca riscatto inseguendo la vendetta. E la vendetta – così allo stesso modo dell’amore – può diventare ragione di esistere.
Le poche parole in cui si fa cenno di lei – Lui non mi ha costretta e io ho perdonato – sono l’unico ritratto che abbiamo. Appare e dispare quasi quanto una figura di contorno. Non è espressamente chiarito se Lei segue una illusione, il fascino magnetico del male, la sfida del nuovo o venga da Lui dominata, di certo, in qualche modo, stregata, per certo ingannata. Il racconto non si sofferma a dirlo. Forse la cosa non ha importanza alcuna. Nemmeno lei si lascia il tempo per chiedere. Semplicemente scompare. Forse allo stesso modo semplicemente aveva finito i suoi giorni. Non poteva più restare ragazza. I sogni hanno il vizio di essere volatili, di disprezzare l’arrivo del giorno, di invocare una realtà anche piccola. Le poche parole però denunciano anche della donna, che ragazza è stata, la sua incapacità di odiare, ma persino di portare rancore. Basta per farne figura fragile nella fragilità delle cose e della realtà. Confermano la sua capacità ad essere vittima così diffusa tra appartenenti del genere. Il suo femmineo resta in balia degli eventi e dei due uomini. Si lascia trasportare dagli tali eventi senza cercare di intervenirci. Anche nei precedenti è lei che apre la finestra per lasciare entrare la propria maledizione. E accetta di restarne schiava.
Infondo ogni storia è fatta di storie. La storia non ha mai padroni, al massimo testimoni è narratori; a volte tessitori. Lo so che Lei è solo una donna e non sa fare di meglio ma come è facile sapere il “male” contagia. Quello se n’era andato con un sogghigno beffardo, che pareva un po’ forzato, dicendo nei confronti di quella donna-vittima: “non fossi donna saresti un individuo intelligente”, ma era sua questa affermazione che probabilmente non avrebbe detto se altri avessero potuto ascoltarla; ma questo non è dato sapere con certezza. Sono state qui trattate figure di parole come persone vere, reali, in carne ed ossa, ma erano e restano solo personaggi di fantasia, immaginari. La vita è meno clemente con le sue vittime.

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raccontiGran brutto mese il mese di novembre. Il mese dei morti. Ormai andava sempre più raramente a visitare la propria tomba. Non c’era più nemmeno la foto, ma quella l’avevano fatta sparire subito. Gli metteva tristezza la pietra spoglia. Come se fosse stato cancellato, ancora. Come non fosse mai stato. Per quanto si dicesse non sapeva scrivere lettere d’addio. E nemmeno era bravo per le storie gotiche. Infondo aveva una simpatia per i romanzi d’appendice. E aveva finito la voglia di scriverne, ma era ancora un ragazzo.
Lui pensava che quel suo sguardo chiedesse aiuto. Non sapeva ancora. Ma chi può sapere? E pensava che il suo silenzio fosse pieno di parole. Così gli aprì la porta e lo invito ad entrare. Lo fece sedere alla sua tavola. Si premurò che non avesse freddo. Gli offrì il suo cibo dividendo il pane e il vino. Gli cedette il suo letto, e per giorni e giorni lo trattò più che come un fratello. E lo vestì per ripararlo dal freddo. Gli disse dove teneva i soldi. E lo presentò anche agli altri pregandoli di trattarlo come se fosse stato lui stesso. Nessuno l’aveva riconosciuto. Quegli occhi sembravano miti e lo aveva assicurato che avrebbe avuto cura della casa. Doveva essere tranquillo ma non lo era e si rimproverò di quello. E aveva creduto di vedere, negli occhi degli altri, solo un po’ di invidia, e di gelosia. In realtà il suo volto non era un vero volto, in realtà non era. Così, d’ignoranza, li aveva traditi tutti.
Quando era tornato dal lavoro aveva trovato la casa vuota. C’era quel vento freddo che c’è in certi giorni di novembre; che entra fin dentro alle ossa. E l’acqua era salita fino a invadere la terra. La pentola era fredda sopra il focolare spento. La casa in disordine. Il letto disfatto. Di lui nessuna traccia. Di lei nessuna traccia. Sulla tavola nemmeno due parole. Il cane era impiccato al fico nella corte. Mancava anche la barca dalla riva, ma nessuno voleva sapere. Si lasciò vincere solo da una piccola apprensione per entrambi. Temeva per saperli soli. Solo per se non temeva la paura. Aveva sentito parlare dei lupi ma le credeva storie di altri tempi. Piccole voci correvano nelle strade. Aveva guardato il cielo e quello aveva un grigio da aggiungere apprensione. Si lasciò andare come si lascia un abito ormai logoro; svuotato. Solo molto dopo avrebbe saputo. Aveva finito di tradurre quel diario. Non aveva avuto bisogno di guardare il calendario, e non gli interessava di sapere il giorno.
L’avevano trovata pesta non molto lontano, ed era stato lui. Nemmeno quelli che l’avevano soccorsa erano stati buoni con lei. Anche i suoi occhi erano pesti, erano occhi di una donna che aveva sofferto, erano occhi a cui avevano succhiato l’anima. «Lui non mi ha costretta e io ho perdonato». Poco importava, non la poteva più sentire. Allora l’aveva maledetto; anche lei era ancora ragazza. Lo era quando era sparita dalla sua casa. E lui le aveva promesso di proteggerla. Ma non si dovrebbe morire a vent’anni; eppure aveva preso la corda e se l’era stretta contro. Pronto per quella terra arida e sconsacrata. Niente aveva più una ragione ormai, pensò troppo frettolosamente; aveva già versato tutte le lacrime che poteva piangere. Non aveva più alcuna ragione tranne quella di cercarlo. Certo non avrebbe più riavuto le cose indietro. Il passato sarebbe rimasto per sempre passato, e a lui restava quello: era solo padrone di una preghiera che non aveva mai imparato abbastanza bene. Ma non era di se che provava pietà e non era più un ragazzo ormai. Non era nemmeno più lui. Nel dolore si cambia. E sapeva ormai che solo i morti possono dare la caccia ai morti. Gli dava coraggio sapere che non c’era ormai abbastanza mare per nascondersi.

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Rossana Passo Rolle

«E magari vivere la stessa gioia e lo stesso smarrimento. Se ci penso mi fa un po’ di paura».
Ragazzi per sempre. Così lontani che sembravano formiche nell’infinito. Quel giorno c’era troppa neve intorno, dove nessuno sembrava esser passato, e vi affondavano i piedi, e il cielo era fin troppo azzurro di un azzurro imbarazzante, intenso. L’aria era naturalmente frizzante (gli sembrava banale). Così leggera da poterla bere. E tutto era così immenso tanto da togliere il fiato. A cercarlo, un silenzio senza confini, non era difficile trovarlo. Tanto che ogni parola sembrava inutile. Anche le loro parole. Con tutto quello che avevano sperato di quel giorno. Di quel diario anche minimo in cui ogni piccolo istante pareva vita. Perché ad essere ragazzi è sempre così: ogni gesto sembra importante e irripetibile. Nessuno poteva immaginare che sarebbe stato per sempre. Nemmeno Rossana. Ma chi può immaginare e leggere già domani? A pensarci quello spazio faceva veramente anche un po’ paura. E tutto quello che non aveva mai provato. E le mani intirizzite da non sentire.
Aveva occhi di velluto facili a perdersi. Eppure occhi senza timore. Occhi che non sapevano nascondere. Glielo aveva detto Michele ma non era certa di sapere; non voleva farlo. Glielo aveva detto nel mentre aveva imparato a proprie spese cosa voleva dire perdersi dentro a due occhi così; così tersi come quel cielo. Nel mentre, senza farsi scorgere, le aveva rubato un sorriso per tenerlo per sempre tra le sue pagine. O solo il canto di un sorriso come in una illusione di prestigiatore. Perché quello accendeva, in quegl’occhi, una luce che non avrebbe potuto scordare. Una sconosciuta sicurezza; dei suoi avrebbe sfidato il mondo. Di questo gli amici che li amavano si amavano, ovvero imparavano a farlo. Lo avrebbero fatto per sempre, loro. Perché il tempo ha l’arroganza di poter rendere amari certi ricordi? Oppure di regalare dei rimpianti? Non di quei dubbi lei si riempiva alla vista ma solo di quell’azzurro. E i suoi pensieri correvano veloci e leggeri. Correvano come il vento e parevano quasi nemmeno esserci. E’ strano come quell’estraniarsi di se può dare un senso trasparente di libertà. Eppure trovarsi smarrita. Come si può, per un attimo, illudersi che la sera non verrà mai? Se poi ogni storia ha un inizio ed una fine. Ma quella non era nemmeno una storia. Troppo fragile, ancora: è già domani. «Come sarà? Non sarà». Eppure era vero: da quel paradiso non sarebbe mai più tornata. Non lei. Non la ragazza. Sperava solo che non potesse finire. Come era possibile non sentirsi confusa?
Lui si accese una sigaretta. Anche in quel gesto si sentì grande e padrone del mondo. Ma grande non era ancora mai stato. E appoggiò la testa sulla sua spalla. Niente di tutto quello che gli sta intorno aveva altro nome. Quei nomi non li sapeva e ripeteva nel silenzio solo quello di lei. E con gli occhi tornava a vagare impaziente senza trovare modo di fermarsi. Lì dove si può sentire anche il respiro perché non si sente altro rumore. Loro, per quel momento, hanno paura di interromperlo. Hanno paura persino della più piccola parola. Anche di un sì. Persino di un forse. E’ perciò che lei scrive quasi distante i loro nomi sulla neve, quasi a non volersene fare scorgere, con la punta di un dito; pudica. L’unghia graffia la pelle bianca stesa con cura sulla terra. Tutto il suo coraggio le si precipita dentro, ma lui lo sa. In quell’attimo è sicura che quella neve non si scioglierà. E’ solo quello che vuole. E’ solo il tempo che le duole. Non è il momento di pensarci. Di pensare ad altro. Non accetta nulla che possa essere, seppur vagamente, triste. Che non possa essere tutto. Vuole solo vivere. Ha paura di tradire la sua fiducia. E quel suo stesso sogno da ragazzina. O che lui glielo legga e se ne accorga. Di quella promessa che sente confondergli la testa. Come se non avesse passato e in realtà non lo ha, e non ha altri ricordi che quelle ore.
Quale leggerezza? Si ricorda che una promessa non c’è ancora mai stata. Eppure, nel silenzio anche quella, se la sono scambiata. Cuore di ragazza, ma era partita ragazza e ora che tornava si vedeva tornare donna. Lui aveva distratto dentro una canzone. La strada sarebbe certo scivolata nella noncuranza. Erano fatte d’altro le loro riflessioni. Quei piccoli timori. In realtà non stavano tornando. Era ancora una partenza. Le bastava di essere completamente padrona di tutto quel giorno per potersi credere padrona di tutta la sua vita. Perché allora tutta quella paura? Gridò con tutta la sua forza, ma in silenzio per non farsi sentire; e dalla volta si stacco un frammento di universo che si sarebbe portata per sempre nel cuore. E gridò senza pudore. E Michele capì che il nome di lei voleva dire tutte quelle cose. Ma il loro viaggio era appena cominciato. E il loro viaggiare era già finito. La prese tra le braccia non più come un uomo ma come un cucciolo. Com’è facile sognare. Non era più lei. I suoi occhi non erano più due occhi, erano cielo, erano laghi profondi, erano occhi che sapevano. Niente era come prima. Da allora sarebbero vissuti dentro la foto scattata di nascosto da un amico che sapeva. Lui si sentì svuotare e perdersi, ma era bello perdersi tra le braccia di lei. Sognare assieme; da costa a costa per una libertà che non può essere. Il mago del tempo stipulò un patto con uno strano calendario dove tutto era ordinato secondo un ordine conosciuto solo a lui. Gli anni erano semplici tessere di un domino. Scese dal pullman e nemmeno allora si accorse che lei era rimasta lì; del paesaggio. Tutto sarebbe rimasto per sempre prigioniero di quell’assoluto silenzio. I giovani non hanno le parole e quando le hanno sono le parole a fuggire da loro. E poi dicono che è facile. Ringraziò l’autista ma quello non capì perché. Si sarebbe ricordato solo molto più tardi: «e magari vivere la stessa gioia e lo stesso smarrimento. Se ci penso mi fa un po’ di paura».

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Oggi il mio pensiero, e quello di tutti gli amici, va solo a lei; a Rosanna. Cara amica «Questi nostri giorni non aspettano che di essere nuovamente illuminati dal tuo sorriso».

 Rosanna

E’ questa la canzone che avevi promesso di tornare a cantarci.

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Non erano più quei tempi.
franca1A dire il vero quei tempi erano belli solo nei ricordi, poi a guardarci bene era stato un vero massacro di sentimenti e di affetti. Lei ci pensava ogni volta che c’era la luna a imbiancare le sue notti. Pensava a quell’angolo vicino al ponte dove, una sera d’inverno di molto tempo prima, lui disse “No…”. Un poco prima di Natale. In un tempo dove i Natali si stavano trasformando da una festa degli occhi di bambini stupiti ad un’occasione di false speranze. Proprio quella sera lì. Davanti ad una luna vigliacca, lui disse “No!”. Ma non era proprio il No definitivo di chi parte senza lasciare nessun rimpianto. Era una parola che negava il respiro, ma che preludeva al sogno.
Lei lo sapeva, lo aveva sempre saputo. Non era quello che volevano dire. Non era la luna puttana che era al centro dei loro discorsi. Lo sapeva che a partire ci voleva lo stesso coraggio che a rimanere. E loro quel coraggio non l’avevano ancora. Sarebbe arrivato, certo, e come no, si sarebbe presentato quel coraggio, per azzerare il conto.
Non era proprio un No definitivo e questo li aveva rincuorati. La sera dopo si scambiarono quel bacio che si erano negati. Non un semplice bacio, quello era il padre dei baci. La dolcezza assoluta. La parola che non avrebbero detto mai. Almeno non allora. Il dolore di sapersi persi. Il presagio della fine. E la fine era venuta, al suono della loro canzone. La loro grande occasione perduta. Sotto la luna. Sempre sotto una luna bugiarda.
Lei partì senza voltarsi indietro, neanche il tempo di riprendersi quel poco che credeva di avere. Lui la vide partire, da lontano. Sembrava che tutto sarebbe stato come prima, ma niente sarebbe stato più come prima.
Avevano con loro solo la memoria di un sogno. Ognuno l’aveva sognato da solo, ridisegnando sulla propria pelle la vera storia. Quella storia. Fasulla, ma comunque, sempre, l’unica vera loro storia.
Il tempo non lascia scampo. Tante lune a cui lei aveva rivolto le sue preghiere. Luna trasformata in divinità. In giudice severo. In dolore e smemoratezza.
Era tornata dai suoi viaggi. Dalle peregrinazioni di un’anima in pena. Ogni luogo era il suo luogo. In ogni luogo lei non c’era davvero. Almeno non tutta. Almeno non integra.
Di lui aveva saputo poco e male. Ma non voleva davvero sapere. Ogni suo passo lo portava lontano. Troppo lontano, Il dolore era sordo e cieco. Si poteva confondere con una piccola gelosia dozzinale. Non era cosa per loro. Non li avrebbe resi migliori. Ma lui diventava uomo sui corpi di altre donne. Lei non ricordava più dove avesse perso la gioia di vivere. Nessuno disse perché quella luna avesse loro strappato il cuore.
Tanto chi poteva sapere che erano stati loro ad inventare quella luna? Chi voleva sapere che quel “No” sarebbe stato come un “Sì… per sempre”?
Lei sentì bussare alla porta. Rumore inopportuno. Piccolo fastidio della vita. Perché disturbare i suoi pensieri? Non aveva voglia di sapere. Non voleva esserci. Non poteva ricominciare la noia di tutti i giorni. Non ora. Non quella sera. Non con quella luna infida.
Il tocco si fece più deciso. Un pensiero come un’onda improvvisa nella notte. Una carezza di vento.
Un sospiro d’amore. “sono io, sono qui, sono tornato…”. Il suo volto scavato nel marmo. Le sue mani nervose attorno ad un libro. Un vecchio libro sciupato, consumato dal lungo viaggio. “Sono qui… Te lo dovevo rendere, da tanto tempo, forse da troppo…”. Un sorriso, attinto dalla dolcezza di un sogno, appena velato dal tempo e dalla fatica di andare.
Lei senza vedere gli tolse il libro dalle mani e lo posò. Mosse le dita in una carezza delicata e incerta su quel viso segnato. Tracciò un disegno di memoria attorno a quegli occhi verdi che sapevano sorridere.
Allora un raggio di luna bussò e non attese più il permesso di entrare.¹


1] Scritta da Rossaura Shani

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poesiaPer essere onesto
io     ti ho cercato     uomo,
ho scavato,     frugato,    sperato;
per essere onesto
io     ti ho creduto      uomo
e t’ho lavato i piedi,
portato in stalla il cavallo,
preparato il pasto
(buono o cattivo non so)
e rimboccate le coltri;
per essere     ancora     onesto
non t’ho trovato     uomo
e non resta ormai che un piccolo angolo
inesplorato, in fondo a me,    dove cercarti.

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Cani senza padroni

raccontiIl primo frugava dove l’uomo aveva già mangiato. Degli altri si parlerà più avanti. Nessuno si curava di lui e lui di nessuno. Nessuno gli avrebbe reciso la coda. S’era accorto che ogni sera era più avara. Il piccolo non aveva bisogno di un nome: poteva darselo da se e l’avrebbe fatto, ma rimandava sempre al giorno dopo. Era un cane del mattino e torno alle dieci, minuto più minuto meno, aspettava al banco. Non elemosinava ma ormai lo conoscevano e nessuno gli negava un pezzo di brioche. Lui era scappato perché non gli tagliassero le orecchie. Gli pendeva ancora una medaglietta al collare e se ne sentiva soffocare. Se ne vergognava e non abbassava mai gli occhi per sapere chi era; lo sapeva ugualmente. Lui era il più veloce tra quanti conosceva. E non temeva i gatti. Strani animali i gatti. Ne portava i segni sul muso. Non era diverso solo perché non temeva l’acqua. E ce n’erano altri quando la notte si radunavano nei pressi del muro della fornace abbandonata. Quello bianco era il cane della pioggia. Alzava il muso al cielo e ingoiava le gocce. Lui non aveva bisogno di un nome breve, rapido come uno schiaffo. Lui era; placido e distratto. E non aveva bisogno di guardare. Il muso cercava la sua strada nella strada. Anche gli occhi dell’ultimo non chiedevano pietà, ma erano disposti a darla.

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