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Archive for ottobre 2008

Caro Pansa (se mi è permesso)
Servono gli storici per costruire un falso storico? Nessuna guerra è come una disquisizione, anche se colta, la disquisizione. Ogni guerra è lutti, sangue, barbarie. Coloro che parteciparono a quella sollevazione di popolo che è ricordata come Resistenza, e che ridiede dignità alla nostra nazione, lo fece in nome della libertà. Forse pensando ad una libertà diversa e ad un Italia libera diversa. Il falso sta nel suggerire come conclusione che una parte rilevante, maggioritaria, preponderante, di quella Resistenza, la parte di cultura Comunista o marxista che dir si voglia, lo facesse in nome e per conto e al fine di una diversa dittatura. Con tutta la pietà per la parola “vinti” e nessuna arroganza per la parte dei vincitori (che non sempre giustifica) quel popolo con la bandiera rossa e il fazzoletto rosso al collo, che tanto aveva patito, più di ogni altro, era spinto dal più alto senso di libertà e giustizia. Una giustizia che mirava a rendere gli uomini tutti uguali, non negli abiti ma nei diritti. Fare la storia è parlare dopo ricordando che è dopo. Lo storico dovrebbe rammentarsi di contestualizzare e di usare una precisa collocazione contestualizzata. La sinistra, nei grandi numeri, scoprirà solo in seguito le aberrazioni dello stalinismo (ma stalinismo e affini vengono dopo del marxismo. Si dimostri, in una sede qualunque, il contrario). Si può discutere quanta parte, a quel punto, ne prese immediatamente e con decisione le distanze. L’unico errore che si potrebbe imputare loro è il pensare che ci siano ideali che giustifichino e rendano necessario il sacrificio umano. Pensiamo innanzitutto al sacrificio ed al sangue di quella grande parte della Resistenza che si sacrificò e lo fece dalla parte giusta, non perché quella dei vincitori, ma perché quella della ragione, della democrazia, della libertà, dei grandi ideali. Anche la cronaca continua a documentare come la grande parte della sinistra sta da quella parte; dov’è la provocazione e lo spirito di prevaricazione, anche in questa sorta di dittatura molle e strisciante sempre meno morbida e tollerabile.
Non mi firmo non per cercare l’anonimato ma perché dietro le parole c’è solo la modestissima presenza dell’autore di questo modesto blog

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Galatea è anche su Ibrid@menti.

Sarebbe inutile aggiungessi del mio quando è sufficiente andare anche all’ottimo link de Il Popolo Sovrano.

urge isolare i provocatori

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Caro amico¹ di vecchie avventure
Di cosa stiamo parlando? Di rete? Di siti archeologici e di blog scatologici? Di un viaggio nel virtuale che non fa male? Di quel viaggio reale che non so iniziare? Di scrittura? Di punteggiatura? Di economia? (Parla più forte, non sento) di quello che raccontiamo di essere stati, distanti e vicini? Di piccole e grandi presunzioni? Non mi interessa. Non mi interessa dire sono io. Sentirmi bravo con me stesso, meno ancora cercare di sentirmelo dire. Cercare arie che nemmeno sanno odore. Dire per non fare (al massimo sono legato al fare). Non c’è nessuna rivoluzione nell’arrogante presunzione. Nel dolce sentirsi migliore. In quel lieve far niente ed aspettare. Nel non possedere null’altro da fare. Nello scriversi parole addosso, di consolazione. Sono più importanti due calci ad un pallone. Un mezzo porto rosso fresco e persino il silenzio; piuttosto. Non mi interessa mettere un nome sopra una copertina. Avere l’aria da ingrasso. Non mi aspetta niente infondo alla strada. Non ho appuntamenti. Basterebbe non mancare quando il treno parte.
Non mi interessa avere un’idea e ripeterla all’infinito. Cercare di farmene una ragione. Non accettare il dubbio e il torto. Impormi. Rifiutare di mettermi in discussione. Io parlo di vita. E’ un dolore di carne. Io parlo di vita. Cosa c’è di più confuso e aleatorio? Di più affascinante e doloroso? E’ difficile partire il mattino. Ogni mattino. Mettere davanti il primo passo. Smettere di fare il figlio. Io cerco di mettere assieme ogni mattino frammenti di vita. Con fatica. Di trovare un ragione. Cerco il piacere dove si può lasciare trovare. I piccoli piaceri. Amo le cose semplici. E la complessità nell’uomo. Le contraddizioni dell’essere vivo. La delicata armonia dei sentimenti. Il rispetto per gli stessi (quello che a volte infrango con fare goffo). Amo chi mi sta vicino. Chi mi è fratello. E posso trovare fratelli ad ogni passo. E dico quello che penso. E quello che penso pago. E intanto il mattino digrigna i denti.
Non mi chiedo cosa valgono queste parole. Quelle che non condividiamo più. E tutte le parole. Non sarei un buon giudice. La parole servono a comunicare. Anche quelle scritte. E io non comunico nessuna presunzione. Solo i miei dubbi, le mie angosce, l’amore, le mie passioni. In assoluto comunico. Cerco il fascino nelle parole. Cerco quelle parole che mostrano. Che fascinano. Che fanno immaginare. Sono un artigiano. Sono un niente. Sono passato. Non ho futuro. Sono un soffio. Sono di silenzio. Sono anche il diciannove. E qualsiasi altro giorno. Sono qui. Di questo mondo. Sporco. Non ambisco al seggiolo di un dio piuttosto arruffone (a dirla tutta il posto nemmeno è vacante). Sono già in troppi così pieni di sé. Preferisco essere riconosciuto per un buon cibo. Quella è la vera scommessa. Anche se ho poche occasioni per cucinare. Già non eccedere o non mancare di sale è una scommessa sufficiente.
Forse anche la qualità si consuma per usura? Credevo fosse passato fin troppo tempo. Invece eri partito allora con una domanda. Ti ritrovo ora con la stessa domanda. Come se non fosse passato che un minuto. Come se niente fosse stato. Se temessi che non ti avessi sentito. Ancora. Ed è anche una domanda inutile. E nemmeno è una domanda mia. Ed è una domanda di ieri.
La mia è la seguente; domanda, credimi, innocente: resti deluso quando una persona riesce a mandarti fanculo cortesemente o quando non si da nemmeno la pena di farlo?
Firmato: un piccolo ospite

Bob Dylan: The Times They Are a-Changin’ [Audio “http://www.fulminiesaette.it/_uploads/musica/rock_mus/Bob Dylan – The Times They Are A-Changin.mp3”]


Ma l’uomo che è nell’uomo si affolla a farsi folla assieme ad altri cercando anonimo di accalcarsi davanti alla grande vetrina.
Cara amica
Ecco farsi la poesia
:
Ma l’uomo
che è nell’uomo
si affolla
a farsi folla
assieme ad altri
cercando anonimo
di accalcarsi
davanti alla grande vetrina.


1] Lui è uomo che pretende di trovare le virgole dove si aspetta di trovarle, e chiede agli altri quello che lui non è disposto a fare.

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Volevo fare una battuta, dell’umorismo, un po’ di ironia, tanto per stemperare gli animi. Ma cosa c’è di più adatto a spingere alla risata grassa della sua immagine, anche se non può parlare?

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Ancora Efesto, in un commento, ricorda una canzone, Fabrizio De Andrè: Un giudice; da Non al denaro, non all’amore né al cielo del 1971 (Disco di cui si è già parlato). Lei, donna carina che si nasconde dietro un nome maschile, ma che non ha la pigra intemerarietà di non mostrarsi esponendo, anzi, tutto di sé stessa, ricorda la canzone pensando ai nani politici (in tutti i sensi) di questi nostri giorni. Ma questi nani si ergono a giudici senza averne nemmeno titolo e nessuna attitudine. Hanno solo l’arroganza di giudicare gli altri, e usare morale, a seconda della giornata e delle convenienze di giornata. Noi italiani, che forse non siamo un magnifico popolo, ma che siamo sempre riusciti a darci rappresentanti peggiori di chi devono rappresentare, non possiamo accontentarci di questo ricordo storico davanti alla pochezza attuale. Povero quel popolo che deve cercare negli attori del circo e del varietà i suoi deputati; che poi, più che altro, sono solo rappresentanti (molto) mediatici. Povera quella democrazia in cui la maggioranza decide di scegliersi la minoranza e/o sostituirsi ad essa; alla propria opposizione. Non è questione di numeri ma di dignità e noi crediamo che l’uomo italiano, prima o dopo, non possa che tornare a desiderare di avere quello scatto di dignità.

Fabrizio De Andrè: Un giudice [Audio “http://www.fulminiesaette.it/_uploads/musica/rock_mus/De Andre – T074-Un giudice.mp3”]

A quella di Fabrizio aggiungo una seconda canzone su argomento simile e cioè Signor giudice di Roberto Vecchioni da Robinson, come salvarsi la vita del 1979, sperando anche che il nostro possa tornare un paese dove si lascia giudicare chi è deputato a farlo e dove si smette di scambiare i ruoli tra gli onesti e i mariuoli.

Roberto Vecchioni: Signor giudice (un signore così così) [Audio “http://www.fulminiesaette.it/_uploads/musica/rock_mus/Vecchioni – Signor giudice.mp3”]

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Superbo pezzo Galatea.

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Auto-censura

Il post di oggi del “Diario di Spinola” è stato reso privato, su consiglio amicale, per autotutela.

Che io mi limiti, mi autocensuri, non è cosa insolita, non è cosa rara, è semplicemente impossibile. Non è un complimento: sono una testa dura, dico sempre quello che penso e lo dico direttamente all’interessato. Oggi subentra una cosa più importante di me, la politica, l’ambizione di contribuire a dare un buon sindaco alla mia città; anzi ottimo; più precisamente il migliore possibile. La stessa persona che credo adatta a ricoprire quel ruolo mi ha consigliato di “nascondere” il post per non espormi ad ulteriori rischi nel lavoro. L’unica cosa che non mi hanno ancora fatto è licenziarmi. Non che non ci abbiamo provato ma non è semplice licenziare un dipendente del comune e io l’ho reso, allora, ancora meno semplice. Per una volta nella mia vita ho deciso di dar retta a quella splendida amica che spero sarà presto Sindaco togliendomeli dalla balle.

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Grande performans del nostro premier: dorme tre ore, fa all’amore per altre tre (minuto più minuto meno), fin qui niente di nuovo. Se la first ha detto “continua pure tu, intanto faccio un salto fin in centro” noi cosa dovremmo dire? Poi rompe le balle per altre 21. Ha superato sé stesso trovando anche il tempo di contare, uno ad uno, filmati alla mano, i sovversivi che erano andati al Circo Massimo. Pare sia sua intenzione, prima che finisca la giornata, modificare con Decreto Legge la matematica; ne ha dato mandato a TreMonti in qualità di esperto di contabilità pressappochistica. Per fortuna che era domenica.
P.S. si è annoiato le tredici ore che è durato il programma della Gabanelli.

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E’ sceso in politica gridando al pericolo comunista. Gli italiani hanno pensato: almeno questo è uno divertente.
Subito ha attaccato il 141bis ma ad oggi non s’è accorto che non era la richiesta di un’altra canzone degli Articolo 31; che non era una gaffe, per così dire, numerica.
Ha promesso che avrebbe marciato senza tentennamenti verso il federalismo e tutti a dirsi: nun lo fà! nun lo fa! e a fare spallucce.
Ha provveduto a tagliare le tasse ma quelle degli altri. Veramente non sono tasse ma imposte e non è poi che sia tanto federalista tagliare da Roma (ladrona) le entrate dei comuni. Ovvero fare l’elemosina con i soldi altrui (non si fa! non si fa!). E tutti a dire: ce l’avevo detto che non lo faceva. Ma tutti sono attenti a come si riprenderà i soldi, interessi compresi. Chi ha il vizio preferisce perdere il pelo, al massimo se lo fa trapiantare.
Ha portato l’ottimismo; veramente il riso. Tutto uno sganasciarsi di bocche senza denti. Tutto un continuo scoppiettio di fuochi d’artificio. Un carnevale tutto l’anno:
I magistrati in galera e i birichini in parlamento (e persino puffi miniaturizzati a fare da energumeni tascabili e bellone a fare da intellettuali).
L’esercito schierato a difendere i confini patrii dalle immondizie mentre quest’ultime battono in ritirata e si nascondono, ma si continua a sentire il loro puzzo.
Le forze dell’ordine (tornate da Genova piene di infamia e lorde di sangue) pronte ad intervenire contro le facinorose ed eversive canaglie infiltratesi nei nidi e nelle materne spacciandosi per bambini.
Ispettori mandati a rubare le carrozzine agli invalidi che vedere se sono veri invalidi o fanno finta; il mio vicino di casa è rimasto steso nel pianerottolo. Potreste almeno restituirgli la carrozzina che si è pagato con i suoi di soldi?
Etc.

?

E’ proprio vero quello che dice il proverbio: Le bugie hanno le gambe corte.

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Martina

Mai avrebbe voluto che fosse solo il tempo a governare le cose. In/vece quel giorno era di umore variabile come lo sono, a volte o in quei giorni, le belle donne (alle altre non ci si fa attenzione). E’ per questo che ogni qualvolta che si gioca c’è il rischio di perdersi. E Martina era una ragazza singolare, aveva un volto asimmetrico che nell’insieme diveniva bello o almeno interessante. Lei amava farsi aspettare e lui l’aspettava fino almeno a quando aveva contato la quinta sigaretta, ma, poi, aveva sempre fretta e anche quel giorno. Lui era nato a Courbevoie la settimana prima di quando sarebbero dovuti tornare; non l’aveva mai convinto bene la storia del settimino. Martina gli chiedeva spesso di parlarle in francese e lui ne aveva solo una parsimoniosa conoscenza scolastica. Era sua madre ad essere francese e lui non aveva più visto la Francia e naturalmente non poteva averne memoria e nemmeno sapeva dove esattamente fosse quel posto. Erano aspettati e in quel ritardo lui faticava a governarsi. Lei chiese se l’amava e lui bofonchiò qualcosa che non doveva esserle parso troppo convinto ma era anche perché badava alla strada. Allora lei pensò che dovesse avere un’altra; non le bastava la sua costanza. Chiese di fermare la macchina – acconsta – e ne discese irritata.

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