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Archive for the ‘Profili’ Category

Game overAvevo suonato sperando di non trovarci nessuno. Sapevo che era una speranza vana. Era durata meno di un minuto. Poi si era presentata alla porta la signora; sua madre. Sono rimasto forse troppo a lungo a guardarla, in silenzio. Alla fine, dall’alto della sua altezza, la donna mi aveva chiesto gentilmente: “Prego? Posso fare qualcosa per te”? Era una bella signora. Con un leggero trucco e i capelli in ordine. Con una vestaglia a piccoli rombi e le ciabatte di panno a fiorellini. Non si aspettava visite. E continuava ad attendere la mia voce. “Veramente… mia ha detto la professoressa… Sono venuto a portarle la lezione”. Lei rise del mio imbarazzo e, senza volersi prendere gioco di me, mi fece segno di entrare: “A me? O vuoi dire alla mia cara piccolina. A Psiche”? Avrei voluto sprofondare: “Sì! A sua figlia”. È stata la madre a accompagnarmi, attraverso il corridoio, fino alla sua tana. Al suo rifugio. Alla sua stanza. Ero così confuso che non sono sicuro che sia stata proprio lei. “Guarda chi c’è. È tanto gentile. Ti ha portato i compiti”. Non era così contenta di vedermi. Neanche un po’ di gratitudine. Se fosse stato per l’espressione della sua faccia avrei detto che le stavo recando un fastidio.
Psiche si è tolta sbuffando gli auricolari dalle orecchie e ha spento l’iPod nano. Una stanzina piccola a bene illuminata. Mi sono ricordato solo in quel momento che mi ero scordato di presentarmi. La cameretta aveva dentro le sue cose. Era personalizzata principalmente dai suoi amori nei post alle pareti che si sovrapponevano. Due manifesti di serie televisive che non conosco. Una famelica Kristin Bauer da cui avrei voluto farmi succhiare e vampirizzare anch’io. Una riproduzione gigante di una copertina di Super teen. Un sacco di facce che ci sorridevano di attori giovanissimi, e tra loro un giovanissimo Brad Pitt. Uno dei vecchi Metallica e un altro di un complesso metallaro probabilmente nuovo che non poteva suonare una musica tanto violenta quanto l’immagine che li propagandava. Il biglietto di un concerto. Non c’era un angolo di parete libero.
Una libreria con qualche libro, soprattutto di testi scolastici. E poi riviste di vario tipo e una combriccola di barbie. Un paio in sedute e le altre ritte in piedi. Come lei ha visto che le avevo notate si è precipitata a spiegarmi che sono lì da sempre, ma non ci gioca più da una vita. Un paio erano rimaste senza più vestiti. Su un altro ripiano una tigre di peluche. Un piccolo armadio basso, ai piedi di un piccolo letto, una piccola scrivania, un magnifico computer completavano l’arredamento della stanza. Mi ha lasciato che guardassi con calma, aspettandomi. Non restava molto pavimento libero. E a fianco al letto c’erano le sue scarpe da ginnastica. Sopra una sua tuta di pile. Un consueto disordine da stanza da ragazzi. Però lei aveva quella stanza tutta per sé.
Ho appoggiato lo zaino per terra, davanti all’armadio. Non proprio a mio agio. Non ci eravamo nemmeno mai parlati. Avevo sempre parlato poco con le ragazze della mia classe. Lo stretto necessario. Con lei nemmeno quello. E non ce n’era stato bisogno. Mi chiedevo ancora perché quel compito ingrato era toccato proprio a me. Appena soli abbiamo provato a studiare. Mi sono subito reso conto che quell’impegno non aveva futuro. Cioè non riuscivamo ad impegnarci abbastanza. Anzi nemmeno un poco. Lei era distratta. Per me era semplicemente una palla. Ne avevo sentito parlare fin troppo già quel mattino. Ero stato meno che attento. Poi lei accese il computer. Senza alcun motivo. Si limitò a lasciare scorrere uno screen-saver dove passeggiavano dinosauri tanto reali che sembrava di poterli toccare. Ne ero naturalmente affascinato, da quei bestioni.
Mi chiese distrattamente che ne pensavo dei suoi capelli viola. Della sua amica Giorella. Del tatuaggio che aveva sotto l’ombelico e del piercing. Non mi chiese di tutti gli orecchini che le massacravano l’orecchio dentro. Il tatuaggio non l’avevo ancora visto. Era una rosa con il gambo che finiva dentro i jeans. Dove non si poteva vedere. In verità non mi sembrava particolarmente interessata alle mie opinioni. Poi mi domandò cosa sapevo di computer. Temeva di aver preso un virus. La cosa sembrava interessarla di più, ma la delusi. A fatica cominciammo a parlare, e a poco a poco le parole divennero più facili. “Ci sei in Twitter”? Non ne capivo molto: “Ci vado poco”. “Allora sei uno stronzo”. Cosa avevo fatto? “Perché”? “Non mi hai messo tra i tuoi followers”. “Ho solo pochi amici”. “Provvedo io. Nick”? “Come”? “Ci fai? Che username usi. Stupido” “Il mio”. “Vuoi dire nome e cognome”? “”! “Ma sei fuori”? “Preferisco Facebook”. “Io sono SuperChicca. Forse è per quello… se mi avessi cercata, probabilmente non mi avresti trovata. L’hai fatto”? Intanto traffica sul cellulare. Alza gli occhi soddisfatta. A quel punto fa uno squillo anche il mio. Lei dice: “Fatto!” ma non so cosa.
Mi sorride compiaciuta: “Quanti ne hai”? “Di cosa”? “Di followers. E di cosa, sciocco”? “Pochi”. “Anch’io. Solo gli stretti amici. Credo quattrocento e settantatré. Ora, scusa, e settantaquattro”. “Io lo uso soprattutto per giocare. Ma mia madre mi controlla. Non vuole che stia troppo davanti. Troppo in rete. Si preoccupa per i miei occhi. E non vuole che mi rubi troppo tempo allo studio”. “Le madri sono tutte uguali. Non sanno far altre che fare le madri. E rompere. E a cosa giochi”? “Mah!!! Soprattutto con sparatutto. Non so se sai”. “Mi fai vedere”? Faccio partire Doom in modalità Arcade. Il gioco fila sciolto che è una meraviglia, per andare su pc. Deve possedere una super scheda. Vorrei chiederglielo, preferisco non essere curioso. E preferisco giocare. Lei mi si appiccica addosso alla spalla per vedere. Resterei a giocare sul suo finché non mi cacciano. Invece… forse non sono abbastanza attento. Distratto da lei e dai suoi commenti. Il primo incontro è brutto, cattivo e… armato fino ai denti. Una sorta di diavolo torreggiante con un ghigno malefico, una cassa toracica più larga dell’armadio di mamma a quattro ante, e una sputasentenze con cinque bocche da fuoco che non tacciono mai. Ci lascio subito la pelle. Game over.
Suona un’orazione funebre. La guardo, mi guarda. La guardo disingannato. Mi guarda e attacca a ridere. “Sei proprio imbranato”. Ci è scoppiata una grande, irrefrenabile, ridarella. “Sei proprio una ragazzina. Sfacciata. Sfacciata e smorfiosa. È tutta colpa tua”. “E tu un pisciasotto”. “E tu una puttanella”. “Ripetilo se hai coraggio”. Ci siamo messi a lottare. “Puttanella”. “Stupido”. Siamo precipitati sul letto. Credo che abbia cominciato lei. A spingermi per prima. Ma forse sono stato a farlo. Non ha nessuna importanza. Lei soffriva il solletico. Mi diceva “Stupido.” E “Smettila stupido”. E io che le solleticavo i fianchi. E lei che rideva come una pazza. E sgusciava come un’anguilla. Cercando di sottrarsi ai miei attacchi. E io non sono da meno, il solletico lo soffro anch’io. E non riuscivo a stare fermo. Provavo stoicamente a resistere. Con l’unico risultato che mi dimenavo come un forsennato. Ma non dicevo niente. Mi sembrava bello. Si era insinuato tra noi una sorta di cameratismo. La rovesciavo e poi me la ritrovavo sopra.
Sghignazzavo e nessuno era n grado di fermarsi, o almeno controllarsi. Credo che abbia cominciato lei. “Siamo amici”? “Amici”. E io ho cominciato a toccarla da per tutto. Le ho scompigliato i capelli. “Cretino”. Mentre lei mi ricambiava con lo stesso trattamento mi redarguiva: “Cretino. Mi spettini tutta”. Non riuscivo a fermarmi. Non riuscivamo più a fermarci. Era una risata dietro l’altra. Senza interruzione. Non credo di aver riso tanto in vita mia. Senza riuscire a ricordarsi il timore di non farci sentire. E nessuno dei due ne aveva intenzione. “Cretino. Mi spettini tutta. Poi cosa le racconto a quella”? Non la stavo ad ascoltare. “Mica posso farmi uscire tutta spettinata”. Le ho tirato le orecchie. “Stupido”. “Puttanella”. “Non dirlo”. “Dico quello che voglio”. Tutto ci sembrava così divertente. Ho ripreso ad attaccarla sui fianchi. “Fai il bravo”. Lei mi ha dato un piccolo morso sul collo. Mi ha infilato la punta del dito nel naso. Ha cercato di infilarmene un altro in un occhio. “Stupido”.
Lei aveva le mani rapidissime. Eravamo più che euforici. L’ho sculacciata con un rumore secco. “Stupido”. Si è vendicata cercando di graffiarmi. Poi ho sentito una scia umida sul collo. Nella confusione non ero certo di quello che stava accadendo. Non sono certo di nulla. La lotta era frenetica. Senza esclusione di colpi. Le ho dato un pizzicotto. “Stupido”. Lei non era più lei. Ci mettevo lo stesso impegno della strada. Non avrei mai voluto soccombere. Arrendermi. Impiegavo la stessa forza che avrei usato contro qualsiasi avversario. Forse non la stessa rabbia. Era una battaglia, e restava un gioco. Ci stavamo proprio divertendo. L’avevo provocata e stuzzicata, e le avevo solleticato l’ombelico. Non cedeva. “Arrenditi”. Non si arrendeva. Aveva cercato di restituirmi l’offesa. Avevo tutta la maglietta fiori dei pantaloni. “Stupido”. La pancia scoperta. La cinta slacciata. Cercavo di tenerle ferme le braccia. E lei scivolava come una saponetta. E intanto rideva con sguaiatezza.
Certe cose le ho guardate solo dopo. Mi sono trovato una tettina in mano. L’ho stretta. Era ancora proprio una ragazzina. Praticamente non ne aveva proprio. “Stupido”. Stavo stringendo solo un pugno di lana del suo maglione. Per un attimo mi è passata nella testa quella mia conquista. Un pensiero monello. Mi ha spinto via con un riflesso che è arrivato tardi, solo di pochi secondi. Per quell’attimo è tornata ragazza. Immediatamente e ridiventata compagnia di classe. Una stupida ragazzina. Un compagno. Il nostro… un semplice gioco. Solo una lotta. Solo che il suono del suo riso era cambiato. E i suoi occhi si erano chiusi. In quel momento hanno bussato alla porta. L’esuberante allegria ci si è soffocata in gola. Io son balzato sulla sedia cercando di infilarmi la maglietta.
Lei ha chiesto un attimo mentre si ravvivava con le dita i capelli. “Sì? Che c’è”? La voce della madre da dietro la porta fece fermare il mio cuore per la seconda volta: “Posso”? Lei era indispettita: “Certo! Entra pure”. Ci eravamo comportati come se in casa fossimo soli. Senza badare a niente. Ero pieno di vergogna. Speravo che potesse non aver udito le nostre risate. I nostri schiamazzi. “Stavate studiando”? Io prontamente ho cercato di reagire: “”! Credo di essere diventato rosso come la bandiera della Repubblica della Cina. Spero che la signora non l’abbia notato. Lei sembrava già più padrona di sé: “Stavamo finendo. Ci siamo presi solo un attimo di pausa”. Quella madre fin troppo premurosa: “Non hai offerto niente al tuo amico che è stato tanto gentile”? “Ha detto con non vuole niente”. Il suo fastidio era palese. Non mi sembrava l’atteggiamento giusto. “C’è qualcosa che non va, tesoro”? “Sai che non mi piace essere disturbata mentre sto studiando”. Nella mia profonda vergogna non trovai di meglio che dire che dovevo proprio andare. E scappare.
Quando fui per strada mi sembrava di essere fuggito ad un agguato. Di essermi salvato da un incubo. Di essermi trovato in bilico sul confine con un baratro. Ero terrorizzato. Pensavo a quella signora madre. Avevo una enorme confusione in testa. Andai a sbattere contro un cartello della segnalazione stradale. Con la testa per aria. Poi mi ritrovai a pensare a lei, alla mia compagna di classe. Ci ero andato di malavoglia. Non era niente di che. Non era ancora una ragazza. Ma aveva un sorriso simpatico. Era veramente una compagnona. Complice. In aula l’avevo sempre vista tutta seria. Sempre sopra i libri. Non l’avevo mai guardata. Invece… Quando sorrideva aveva un sorriso simpatico. Il suo viso diventava una smorfia gentile. Ed era stato divertente. E… Le avevo toccato un seno. L’avevo palpata. Non me ne ero nemmeno reso conto. Non ne ero più nemmeno sicuro. Anzi penso di poter dire che non aveva seno dentro quel reggiseno. Ma… acqua in bocca.

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Un cacciatore da luna-parkSiamo stati tutti cacciatori. Dalle nostre parti, quando nasce un figlio, si controlla il sesso e ci si rattrista se è femmina o si gongola diversamente: “Un cacciatore”! In questo caso le donne sonno soddisfatte pensando ad un cacciatore di gonne. Gli uomini di più pensando ad una nuova doppietta. Prima lo era stato mio padre, e prima ancora in padre di mio padre, e così per generazioni. Era una tradizione di famiglia che risaliva a prima che fosse inventata la stampa.
Mi piaceva essere un cacciatore, e mi sentivo fiero con il petto in avanti. Mi faceva sentire importante, il padrone del mondo. Mi piaceva perché si andava a boschi e prati. Si incontravano gli amici di papà. Si faceva due chiacchiere. Tra adulti ci si dava una pacca sulle spalle. Per me… mi strizzavano energicamente una guancia. Se era il caso si fumava una cicca e si trincava un goccio. Poi si procedeva, ognuno nella propria direzione. E mi piaceva soprattutto per come si vestivano; vestirmi da vero cacciatore.
Fin da ragazzino avevo una buona mira al luna-park, e la stanza piena di peluche. Allora non avevo ancora la ragazza. E fin da piccolo lui mi ha portato con sé. Però, a quel tempo, mi lasciava solo portare lo schioppo, diceva che rischiavo di sprecare il colpo o peggio di sparare sul culo a King Red. E se la rideva per la battuta. A me andava bene anche così; anzi meglio. La selvaggina poteva stare tranquilla, non ho mai sparato a qualcosa che si muoveva. Lo ammetto: avevo ferito un leccio, e ammazzato qualche mela.
Mio padre è morto di fabbrica. Prima di dirci addio per andare in gita con la cassa della mutua –così ha detto– mi ha regalato il suo sciopo. Era un bell’arma, guardarla mi lasciava affascinato. Da allora ho cominciato ad andarci da solo. Da solo e senza fretta. Mi piaceva anche il silenzio intenso. Il frusciare del vento tra le foglie. L’odore. Quell’odore. Quegli sporadici cinguettii. Riempire la borraccia al ruscello. Quell’acqua limpida che gorgogliava nervosa tra le calma circostante. Poter entrare nell’orto di Elsa senza che nessuno potesse dirmi niente. E salutarla mentre lei mi sorrideva dalla finestra. Non era l’unica a cui facevo la corte. Non era l’unica che con gli occhi, qualche cenno o più apertamente mi invitava a corteggiarla. Nemmeno la più disponibile. Solo che fu lei a vincere la lotteria, e lei che alla fine sposai.
Continuai ogni domenica da uscire per andare per caccia, sempre senza sparare un colpo. Lei se ne andava a messa e poi mi aspettava preparando il pranzo. Non ho mai capito, né ho mai indagato, perché mia moglie non abbia mai sospettato nulla e non mi abbia mai chiesto come mai uscivo ogni festa e tornavo sempre a mani vuote. Non portavo mai una preda. Solo una volta pagai molto caro uno che avevo conosciuto quella mattina stessa e tornai con una lepre. La porsi ad Elsa tenendola tra l’indice e il pollice. Lei fece lo stesso con una smorfia di ribrezzo: “Ma è morta? Povera bestia”. Fummo costretti a regalarla al vicino. Non eravamo in grado di scuoiarla. Non sapevamo da dove cominciare per cucinarla. Credo che fu da allora che diventammo quasi vegetariani.
Era il mio unico vero svago e mi accompagnò per gran parte della mia vita. Credo che con mia moglie fosse subentrato una sorta di tacito accordo, non mi chiedeva mai com’era andata. Non parlavamo mai delle mie battute infruttuose. Semplicemente mangiavamo in silenzio e poi andavo a riposare mentre lei lavava i piatti. Ma niente dura per sempre. Col tempo diradai le mie uscite fino a smettere completamente di uscire la domenica, mi limitavo ad accompagnarla a messa. In verità cominciavo a faticare, mi stavano un poco tradendo le gambe. Le dissi che il tempo passa e con il tempo passano anche le passioni. Scherzai che solo tra noi sembravano non passare mai. Non era del tutto vero, ma nemmeno farlo.
Mi chiese perché non lo vendessi. Cercai di buttarla in burla: “Se arrivasse un ciurlo impazzito, o uno stormo di beccacce assassine”. Lei si mise a ridere. Non avevo cuore di liberarmene, era una storia di famiglia e di affetto. Mi ricordava papà. Ed era bello il luccichio della canna quando rifletteva un raggio di sole che le sbatteva contro. Alla fine, com’è d’uso, lo passai a mio figlio. Proprio come aveva fatto mio padre con me, eccetera. Glielo consegnai con un poco di timore, avevo paura che si ferisse da solo. Che si sparasse ad un piede. Quel nostro mondo stava ormai finendo. Lui chiese cosa se ne doveva fare, studiava da agronomo. Le sue parole mi tranquillizzarono. Lo appese sopra il caminetto con l’intenzione di non staccarlo mai da lì.
Un giorno non lo vidi più al suo posto. Gliene chiesi ragione. Mi mentì che l’aveva prestato per una mostra. Scoprii che lo aveva messo in soffitta a farlo soffocare di polvere. Per un attimo mi sentii tradito, percepii che tutto stava precipitando e che niente sarebbe più stato come prima. Lo pulii, lo ingrassai, lo lucidai e lo avvolsi in un panno morbido. Tutto senza essere visto. Mentre lui andava al lavoro. Lui sicuramente se avesse sparato per terra avrebbe mancato il bersaglio. Io insolitamente uscii. Elsa non mi chiese niente. Tornai nel bosco a passare le dita sulla ferita di quel vecchio leccio. Sulla corteccia qualcuno aveva scritto, dentro un cuore: Marta ama Pierino.

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robin-hood-proposes-to-maid-marian-robin-hoodVedi Quella strana magia del mattino
Era ancora sdraiata nel suo enorme divano sprofondata nella sua più cupa tristezza e immersa nella profonda solitudine. In quella cucina affollata solo di quella folta schiera di fantasmi muti. Impugnando il cellulare muto in una mano e uno yogurt senza calorie nell’altra. Era ancora da lavare, da pettinare e da truccare. Puzzava di sonno.
Alla televisione stava andando un episodio di quella stupida serie, piena di malattie e di storie tra le corsie, a cui lei non stava dedicando la minima attenzione. Certo che quei dottori erano proprio tutti dei gran fighi. Magari poteva farsi venire la varicella. Denunciare un mal di pancia. Si portò la mano alla fronte, quella con il vasetto di yogurt. Stava per combinare un vero disastro. Stava bene come un pesce con una salute di ferro, non fosse stato per l’umore nero. Era già decisa di voler annegare dentro un barattolo enorme di Nutella, quando all’improvviso le vibrò e suonò il cellulare. Dalla sorpresa lasciò cadere il barattolo di yogurt combinando quella catastrofe che in precedenza aveva solo rinviato.
Ciao Susan, sono Maggie. Volevo solo ricordarti che ci vediamo domani alle otto. In punto. Cerca di essere puntuale”. Era Maggie, cioè Margherita. Ma quella ragazza non aveva altro da fare che passare da un avventura ad un’altra. Eppure lei un uomo lo aveva. Era tutta emozionata, non era nuova al mondo del porno, ma lei era la prima volta che si faceva disegnare. E quella parte gliel’aveva trovata lei. Bo avrebbe voluto doversene pentire.
Era stata l’ultima trovata di quel cogliocello di Luigi: lavorare ai disegni per un cartone animato. Ci si era buttato a capo fitto. Non aveva trovato nessun Susanna nei fumetti. Alla fine aveva pensato ad una revisione di Robin Hood, naturalmente un Robin Hood per adulti. Per lui era facile trovare gli interpreti tra gli amici. Diversamente a volte pregava lei se aveva qualche amica bella e disponibile, eppure non era poi così difficile trovare ragazze disposte a tutto per illudersi e sentirsi attrici.
Lei, Margherita, doveva essere Lady Marian, bella si poteva dire bella, ma era una Lady Marian fin troppo smilza. Avrebbe dovuto mettere su qualche chilo, benedetta ragazza. Era secca come un chiodo. Alta sì, quasi quanti lei, ma le mancavano proprio le forme. Non aveva fianchi. Non aveva seno. Riempiva a stento una prima. Aveva sì occhi grandi facili a riempirsi di stupire come di delizia. Un bel ovale. La bocca forse era un po’ troppo larga e i piedi da fica Solo che… era fin troppo sfacciata, la ragazza; senza coda. Al di là di quello che richiede la parte una vera donna dovrebbe mantenere sempre un certo contegno, la sua dignità. Alla fine sarebbe stata lei a sposare il principe. In fondo non ci vuole un corso di recitazione drammatica per una parte come quella. Non aveva che due cose da dire. Era certa che sarebbe potuta andare bene. Come era certa che lo avrebbe riempito di corna. Certo il pane ce l’ha sempre chi non ha i denti.
René, cioè Renato, aveva le doti giuste del vero attore, una enorme passione. Sarebbe stato lui a fare l’arciere di Sherwood. Aveva una faretra gonfia e un dardo che colpiva diritto al cuore e al ventre. E lo sguardo da lupacchiotto. Non le era piaciuto solo quel commento sul suo didietro. Avrebbe avuto modo di fargli ingoiare quella leggera critica, di farlo pentire. Ma si trovava bene con lui e con tutti loro, si era trovata subito a proprio agio. E Margherita non poteva certo fingere gelosia se si prendeva un passaggio. Che lei ancora manco lo conosceva. Mentre lei la parte la conosceva a menadito, somigliava a tutte le altre, ma si poteva prendere il lusso di qualche improvvisazione. Mentre lei l’aveva già assaggiato.
Lei sarebbe stata una lady Cocca affamata e mai sazia; già senza penne. Glielo avrebbe fatto vedere a quella sciacquetta. Ornai non aveva patemi e sapeva muoversi disinvolta. Tonino avrebbe fatto Tonto. Era assolutamente adatto a quel ruolo. Doveva annusare prima di assaggiare e non capiva una pippa nemmeno dopo che gliel’avevi messa sotto il naso. Francesco sarebbe stato un credibile Little John, era grande e grosso come quello vero. Luigi si era dato la parte dello sceriffo di Nottingham. Era sempre tra i piedi, quello. Forse si credeva un Hitchcock. Gli stava bene il ruolo del vigliacco, solo che se toglieva gli occhiali andava a sbattere da per tutto. Nessuno avrebbe fatto nemmeno Re Riccardo né il Principe Giovanni. Era una produzione a basso budget, naturalmente. Cinque attori e noi due. Almeno si sarebbe distratta un po’.
Succedeva. A volte qualcuno, o qualcuna, si lasciava prendere la mano. Era per questo che Luigi preferiva per certe scene scattare qualche foto, e poi disegnare dalla foto. A lei non piaceva essere fotografata in quei momenti, in quelle pose. Si sentiva meno naturale. Temeva anche che lo stronzo facesse del commercio di quegli scatti. Potevano persino finire in mano a dei ragazzini. Cosa ci poteva fare? E poi… un indomani… Non si sa mai. Era decisa a godersi la sua tristezza aspettando la sera. Sarebbe rimasta così: acqua e senza nemmeno sapone. Certo che quella cioccolata spalmabile era una vera goduria. Magari si sarebbe fatta due uova e una bella fetta di pancetta. Poi, a letto, Susanna aveva un appuntamento con Ned Willard e Margery Fitzgerald[1]. Andava pazza per quel romanzo, l’aveva presa proprio di brutto. Lei amava le grandi storie d’amore; lei che non ne aveva una. Aveva deciso: doveva perdere almeno un paio di chili.

[1] Personaggi di La colonna di fuoco di Ken Follett.

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Quella strana magia del mattinoVedi: Tre arance
È sempre triste prendere un caffè da sole. Anche a venticinque anni. Perché non ti senti più una ragazza. Perché non sai se sei già una donna. E ti sembra che qualcosa manchi. Che ti sia sfuggito tra le dita. Guardi il letto disfatto, vuoto. Pensi al libro che hai appoggiato al comodino. Ascolti il silenzio nelle stanze. Senti l’aroma che dalla moka si sparge in cucina. E allora pensi.
Vorresti tornare su quel letto e lasciati piangere sul cuscino. Tiri su con il naso. Tante storie e nessun amico a consolarle. Troppe storie o troppe poche che non vorresti raccontarti. Forse quel Carlo avrebbe potuto salvarti. Sapevi che aveva la fede al dito. L’avevi notata subito. Cosa importa? Ti sei detta. Non l’hai fatto, ma è come se l’avessi fatto.
Aveva quel maledetto anello anche il professore di “Economia aziendale”. Non lo ha fatto desistere. Non è stato d’impiccio. Non ha fatto differenza. Con quella voce piena di paroloni ti ha solo aiutato a lasciare quei banchi. Non ti ha mai mentito. Lo sapevi che non l’avrebbe mai lasciata. Non te ne sei data cruccio. Anche se non hai ancora capito cosa ti sarebbe servita quella maledetta materia nella vita. E hai continuato ad essere solo Susanna. Con quel corpo pieno di voluttà e di lusinghe. I tuoi chili in più. Sempre con quell’espressione offesa di disprezzo. In mezzo a quegli uomini vecchi. Sempre nel gesto di essere pronta a coprirti. E sempre già nuda. Forse era stato quello a tradirti.
Una storia, ogni storia, comincia prima; poi ti spogli. Farti trovare già nuda forse non è un buon inizio. Dovrebbe essere una fine. Quando non lo è forse è un disastro. L’annuncio della disgrazia. Chissà? Certo è che sei solo quella che sei. Che non ti è rimasto null’altro che ricordare e rimpiangere. Forse è stata tutto colpa di quell’imbecille di Luigi. Forse è inutile cercare sempre la colpa negli altri. Lui si è limitato a non dire che fare la modella per quella vignette era spogliarsi. Forse era convinto che lo sapessi da sola. Troppi forse per una mattina in cui anche il sole si mostrava pigro. Certo, Luigi non ti aveva dato il tempo di pensare. Nemmeno tu ti sei lasciata il tempo di pensare. Ti sei tolta tutto quasi prima che lui te lo chiedesse. Spiata, lusingata, sdegnosa e sempre desiderata. E sei rimasta vestita e spogliata solo di un lenzuolo, e solo perché lui te l’ha detto; quello stronzo del grande artista.
A volte le donne, tutte le don ne, sono le più grandi nemiche di se stesse. Forse lui, quel Luigi, voleva solo quello. Il resto era una scusa. Forse lui non ti avrebbe voluto dividere con nessuno. È sola tua la colpa se non sai dire di no. Certo non era un dongiovanni. Non poteva essere un Narciso. La storia sarebbe finita comunque, anzi non è nemmeno mai cominciata. E certe idee son venute in testa proprio a te. Volevi sentirti bella. Fingere di desiderare per essere desiderata, ma eri solo disperata. Disposta a tutto pur di non essere ignorata, una semplice nessuno. Pur di non tornare quella ragazzina grassa che nessuno invitava. Un poco principessa e un poco cortigiana. Lo hai sempre saputo che non era quello Amore.
Lui, Luigi, ti aveva spiegato chi era quella Susanna. Un nome conta poco. Era solo casuale. Lei era casta. Lui non ti ha spiegato il significato. E non ti vedeva grassa. Forse è per questo che hai provato della tenerezza. Che ti sei inventata dell’affettuoso desiderio. Mai del vero calore. Nemmeno per un attimo. Era tutto finto. Tutto una messa in scena. E certe idee gliele hai messe in testa proprio tu. Che forse lui nemmeno avrebbe voluto. E probabilmente, anzi quasi sicuramente, Ernesto era stato solo il mezzo per toglierti d’impiccio. Non avevi il coraggio di dirlo; di dire basta. Il coraggio non ti è mai mancato e non l’hai mai avuto. Per un sì sei sempre stata audace, per un no sempre vigliacca. E sapevi prima che cominciasse che anche con Ernesto non sarebbe durata. Nemmeno te lo sei chiesto. Eri già nuda. Un’altra storia cominciata dalla fine.
Forse avevi fatto anche del male. Certo quello che hai sempre ricevuto non ti ha mai fatto star bene. E queste mattine ne sono la conseguenza. Sdraiata sul divano, col caffè che ti si fredda in mano; sola. Sola come l’ultima delle donne. Girando il cellulare tra le dita. Incerta tra tanti nomi. Tanti nomi e nessuno. In una giornata feriale. In un mattino già inoltrato. Nomi non possono lenire le tue pene solo per un attimo. Darti un attimo di passione; o di distrazione? Frena le tue dita, sai già che sarebbe inutile; che non ci riusciresti. Ferruccio non è stato che una parentesi, un intervallo. Ti resta l’abito che hai messo per la festa del loro anniversario. L’abito di una segretaria, che giace là, nell’armadio, tra tanti altri. Certo sono quei nomi che ti hanno permesso di piangerti addosso in questa stanza. Che ti hanno pagato l’affitto.
Anacleto ti aveva chiesto di sposarlo. Persino il nome era ridicolo. Aveva fatto perfettamente la parte di uno di quei vecchi. Non sai ancora come sei riuscita a non scoppiare a ridere. Nemmeno si comincia solo per una cosa tanto banale. Lo avevi lascito frugarti. Non ti toccava l’anima, questo era il punto. Non aveva visto il tuo volto annoiato. Quella smorfia di insofferenza. Forse aspetta ancora quella risposta. Forse ha capito e non ti aspetta più. L’uomo non è poi così stupido. È in grado di capire anche senza un no, forse. Amedeo aveva una bella macchina. Non si può vivere solo in macchina. Non puoi aspettare che torni. Restare in ansia per un suo ritardo. Mettere le ciabatte dalla tua parte. Stare tranquilli mentre ci si spoglia. Leggere un buon libro. Non si può cucinare. Cercare uno yogurt nel frigo. Non si può guardare spaparanzati la tivù. E poi era una bella macchina ma con i sedili scomodi e poco bagagliaio.
Sono sempre le domeniche le giornate più atroci. Non voleva dividersi più per nessuno, e con nessuna. Era facile solo a parole. Tommy, cioè Tommaso, era caro ma non ci sapeva proprio fare. Avrebbe potuto imparare? Gli avrebbe potuto insegnare? Quando lo aveva incontrato aveva troppa fretta di vivere, bisogno di tutto, per avere la pazienza di aspettare. Forse, poverino, aveva scelto solo il momento sbagliato. Ma non sempre si può scegliere anche il momento. Certe cose corrono troppo. È questione di un attimo. Quando l’attimo è passato non c’è più nulla da fare. Resta solo il rimpianto. A volte nemmeno quello. Però le sue labbra avevano sempre un buon sapore. E usava un dopobarba, non aveva mai saputo il nome, veramente intrigante e di buon gusto. Peccato. Forse era lui il caso in cui le era veramente dispiaciuto. Peccato. Troppo tardi.
Era stata una sfortunata coincidenza che l’avesse vista con Gabriele. Gabriele era solo il figlio di una cara amica di sua madre. Era così giovane. Così inesperto. Aveva voluto solo essere gentile. La gentilezza non è mai ricompensata, si paga sempre. E poi come spiegare ad un uomo cosa vuol dire essere gentile? L’uomo pensa solo che devi essere solo sua. È essenzialmente egoista. Non era mai riuscita a essere solo di uno. Non ne era mai stata capace. Non si era mai sentita di poter appartenere ad uno solo. Nessuno l’aveva fatta sentire così sicura da essere disposta a rinunciare a tutto per lui. Da estorcerle quella promessa. La verità era che sognava solo dopo e da sola. Non era mai riuscita farlo veramente tra le braccia di uno. Un bacio non aveva mai suscitato alcun suono di campane. Forse aveva sempre preteso troppo. Il fatto è che in qualunque letto ti trovi poi il mattino ti svegli.

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Tre aranceSusanna Satta era una ragazza sui venticinque anni. Una ragazza con già una storia alle spalle. Maledetto quel nome. Aveva cominciato senza pensarci. Per curiosità. Per raggranellare quattro soldi, una vera miseria. Colpa di Luigi, quel gran bastardo figlio di meretrice, che non è cresciuto mai. Bell’amico. Era l’eroina di fumetti comix un po’ osé che lui disegnava. Anzi proprio spinti. Poi, sempre per una delle sue strampalate idee, avevano fatto delle tavole ispirate, per il pubblico eccitato, ai grandi quadri. Rubens, Guido Reni, Anthony van Dyck, eccetera, nomi così, aveva detto il carogna. Lei gli credeva, non poteva fare altro, lei aveva fatto ragioneria e si limitava a spogliarsi. Maledetto quel nome. Diceva che era la sua musa e lo ispirava. Stare lì nuda non la imbarazzava, ma cominciava ad infastidirla, ad averne abbastanza. In fondo era lei a mostrare le tette, e tutto il resto. E l’opera del grande artista cominciava a girare e se ne cominciava a parlare e sparlare.
Certe risatine e certi bisbigli, che le inseguivano le spalle, non avevano bisogno di indagini. La storia fra loro due era durata poco ed era finita quasi subito. Con la penna e la china era una mago, a mani nude era una vera delusione. Occhiali profondi e un inizio di pancetta; un vero nerd che da sfigato anche si vestiva. Braghe di velluto e giacche sgualcite. Cicca sempre in bocca. Era rimasta solo quella, come dire? Collaborazione. Lui diceva che erano rimasti amici. Ma quel giorno era tutto per lei e solo per lei. Non aveva altri impegni. Aveva dovuto decidersi di far visita al supermercato. L’alternativa era trovare qualcuno che la invitasse o digiunare. Nessuna delle due opzioni la allettava, aveva voglia di godersela e restare sola. Si sentiva libera. Si era impigrita a letto. Aveva bisogno anche di riposare. Usciva da una storia burrascosa e da un periodo faticoso.
Si era soffermata tra i scafali con la tranquillità di non avere nessuna fretta. Fingendo di controllare i prezzi. Solo che, mentre usciva, dopo aver pagato, quel maledetto sacchetto di plastica si era sfondato. Tutto il suo contenuto era precipitato a terra. Si era immediatamente chinata senza avere la minima idea di come comportarsi. Con un diavolo per capello. Lui, il tipo, era accorso premuroso in tutta fretta: “Posso aiutarla”? Lui, il tipo, aveva già afferrato tre arance e gliele stava porgendo con un sorriso sicuro. Una era rotolata giù del marciapiede finendo per essere schiacciata da una macchina che passava. Aveva avuto l’impressione che le sbirciassi sotto la gonna. Scontrosa gli aveva risposto stizzita che gradiva essere lasciata in pace. Nel frattempo alcuni passanti si erano bloccati curiosi solo per godersi la scena. L’uomo aveva insistito offrendosi di andare a prendere una borsetta nuova alla cassa. Si era sentito rispondere che lei preferiva si facesse gli affari suoi. Allora lui rassegnato aveva poggiato a terra le tre arance e aveva fatto il gesto di tornare a quello che stava facendo.
Lei aveva alzato lo sguardo. Sembrava indispettito. Si sentiva in colpa, era stata proprio maleducata e scortese. Cosa le era preso? Probabilmente lui voleva solo essere gentile. Avrebbe dovuto essergliene grata. Lo osservò meglio, con cura. Gli avrebbe dato quarant’anni, chilo più, chilo meno. Vestito con curata eleganza; con un abito perfetto nello stiro. Una cravatta di buon gusto. Mocassini in morbida pelle di manifattura italiana. Sicuramente non era uno sfigato, anche per la macchina su cui stava per salire. A quel punto lei si sentì in dovere di cercare di farsi perdonare e richiamò nuovamente l’attenzione dell’uomo: “Mi scusi”… Lui, naturalmente, tornò sui suo passi con un ampio sorriso sereno. “Credo di essere imperdonabile. Lei è stato gentilissimo”. Aveva anche degli occhi belli. Si era presentato come Carlo.
Frettolosamente si allontanò e rapidamente ricomparve con il nuovo sacchetto. “Ecco fatto”. Si sistemò i calzoni sulle ginocchia per non sgualcirli e si chinò nuovamente e riprese nel palmo quelle tre sfortunate arance. Fece il gesto di porgergliele e il gesto rimase sospeso. Lei lo fissava, non era niente male -convenne Susanna. Voleva solo essere garbata: “Non so come ringraziarla. Posso offrirle un caffè. Magari, se è così cortese di accompagnarmi, saliamo a prenderlo da me”. Pensava di portarsi addosso qualche chilo di troppo. Ma, quei chili, erano tutti nei posti giusti e opportunamente strategici, e Luigi le aveva sempre assicurato che era una perfetta Susanna. Che avrebbe potuto fare anche una splendida Giunone, che cioè aveva quelle curve abbondanti che tanto piacciono a tutti i maschi. Con il tempo era diventata sicura di sé. Non che lo fosse sempre stata, da ragazzina si sentiva ignorata, evitata. Poi di storie ne aveva vissute abbastanza per sapere che quello che portava sotto gli abiti era la promessa di una favola che tutti avrebbero voluto svelare.
Ma lui, quell’uomo, doveva essere diverso. Diverso in tutto. Non aveva mai frequentato uno così elegante. Così a modo. Con una voce così suadente. Che conoscesse così le buone maniere. Anche quella gentilezza che aveva dimostrato immediatamente non era ricorrente da trovare. E lei riconosceva l’orologio che lui portava al polso. Per essere più persuasiva indossò il suo sorriso più luminoso, e poi quello più ammiccante. Schiuse leggermente le ginocchia nel gesto di poggiare un paio di barattoli sulla gonna. Sicura di sé, sapendo come trattare con un vero signore. Ora era certa che lui la stesse spiando sotto la sottana. Ebbe un piccolo scatto d’orgoglio. Sulla faccia le si dipinse un’espressione di padronanza soddisfatta. Poi lui alzò gli occhi e il suo viso si trasformò in un sorriso strano che lei non seppe interpretare. Sentì quegli occhi scorrerle addosso come se la stesse valutando. Si sentì chiaramente sotto esame e restò stupita quando il signor Carlo aveva appoggiato di nuovo le tre arance su quel marciapiede e si era scusato ricordandosi solo allora che doveva scappare per un appuntamento importante. Peccato, era proprio una gran bella macchina.

 

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BoeraÈ bastato un attimo, vedere Boera e perdere la testa. Non notarla non era possibile. Era entrata da sola. Era entrata sicura di sé, come una soubrette, e si era presa il palco. Troppi occhi si sono voltati a guardarla. Con quella spanna di tacchi. Con le spalle scoperte. I capelli come una nuvola profumata. Con quel sorriso a diecimila watt. È così che l’ho invitata a ballare.
Un gran gesto audace il mio. Era già la mia regina. In quell’istante. Ero certo che le sua labbra avrebbero trovato una scusa. Un modo gentile per un diniego. In un certo modo restai favorevolmente sorpreso del suo Sì. La musica era lenta e le luci soffuse. L’ho abbracciata stretta e ho cominciato a sognare. Galleggiavo nell’aria immerso nel suo profumo dolciastro. Quella musica suonava soltanto per me, per noi. Le ho spiegato quanto era bella, e mi ha permesso di baciarla prima ancora che le chiedessi il suo nome. Avevo trovato un coraggio che non avevo mai avuto; che non era mio. Mi ha guardato con orgoglioso rimprovero quando le mie mani hanno provato a farsi audaci.
Poi hanno acceso le luci senza che lei si staccasse da me. Ero prigioniero dell’indagine dei suo occhi. Tra le labbra le era sfrigolata una risatina di biasimo e di orgoglioso consenso. Almeno così io interpretai il suo vocabolario facciale. Feci per accompagnarla a tavolo, non si mosse. Le chiesi se potevo andare a prenderle da bere, mi disse, con una voce dolcissima e suadente, che non aveva ancora sete. “Magari dopo”. Queste sono state, lo ricordo bene, le sue prime parole. Le tenevo la mano. Poi aggiunse che preferiva restassimo lì, nel mezzo di quell’arena. Nascosti dagli altri in quella folla.
Tutto e cominciato lì, quella sera, come d’incanto. Ricominciammo a ballare e non ci saremmo stancati mai. I suoi occhi non trovarono più rimprovero per la sfrontatezza delle mie mani. Mi assolvevano e mi lusingavano invece con la luminosità serena di un tacito gradimento e un soddisfatto orgoglio. Non diceva null’altro per non Interrompere il momento, quella malia. Con il cuore e le mani gonfie mi comunicò che forse era ormai il momento di andare. Temetti ed ebbi un tuffo al cuore, ma la sua mano riprese la mia, si intrecciarono le dita e mi trascinò con sé. Quando gli confessai quell’attimo di incertezza mi diede dello sciocco e del povero stupido e mi sfiorò dolcissimamente le palpebre con le labbra.
Di tutto quello che successe in seguito, quella stessa sera, preferirei non parlare. Ero curioso di tutto di lei. Come mi ha spiegato in seguito l’origine dell’insolito nome non è stata una questione di colore o di terra. Molto più semplicemente suo padre aveva preso uno di quei cioccolatini ed era stato la sua fortuna. L’aveva offerto a sua moglie ed era scoppiato l’amore, cioè a quella che non era ancora sua moglie e che ancora non sapeva che lo sarebbe presto diventata. Lei aveva vinto e scartato un altro bacio e trovato il bigliettino che le spiegava che quella era la sua giornata fortunata, in cui avrebbe trovato l’amore. Era tutto vero. La madre era una tipa decisa, che sapeva quello che voleva. E non era più una ragazzina. E tutto questo era successo esattamente vent’anni fa.
Poi era stato il caso perché era come se il nome fosse diventato una specie di marchio. Era stato quasi come se lo avessero sempre saputo, anche se all’anagrafe non ne potevano essere che inconsapevoli. Non potevano immaginare. Trovava che per lei, probabilmente, non sarebbe mai esistito un nome più appropriato. Boera, ogni volta che vuole, sa essere dolcissima. Boera ha un deciso sapore d’avventura e di arance. Boera è una donna ad alto tasso alcolico. Come la assaggi ti fa girare la testa. Era stato subito così, dopo quel nostro primo bacio. È così in ogni bacio. Mi perdo in lei e mi ritrovo affogato nei suoi umori.
Non mi ha mai lasciato il tempo di pentirmi di quel mio gesto precipitoso. Mi ha dato subito una ragione e un posto, anche se sono sempre stato un tipo un po’ nomade. Però Boera non è mai la stessa, e lo è sempre. È sempre nuova e sempre una certezza. Non so come spiegarlo. Basta vederla e vederci. Non sempre le cose si spiegano con le parole. Quando non è qui mi sento in ansia e non faccio altro che aspettarla. Ha dita lunghe a mani rapide. Ha sempre le unghie curate e lo smalto colore del sangue appena sprizzato, o di un ottimo cabernet. Anche nelle mie serate sfortunate quando scarto Boera vinco sempre il primo premio.

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LionellaÈ un mondo pieno di esperti. Di cosa? Non lo so. Di tutto. Probabilmente c’è un manuale anche per andare al bagno. Non mi serve, grazie. L’ho appena fatta. Tu sai come la penso. Da quanto mi conosci? Da sempre. Sì! lo so. Non serve che lo dici. Probabilmente lo sai. Lo hai immaginato. O lo hai capito. Se è così non dirlo. Non serve. Fammi parlare. Io credo nella coppia. Sono sempre stata un po’ moralista. Se vuoi un poco bigotta. Ho sempre odiato quelli che vanno anche con altre. E pure quelle. L’amore si vive costruendolo. Giorno per giorno. Ora per ora. Altrimenti sarebbe troppo facile. Non credi? Ma io non sono mai caduta in tentazione. Anche quando si presentavano spesso. Io non hai mai tradito mio marito.
E allora?
Ti prego, non interrompermi, fammi parlare. Sii cortese. Altrimenti perdo il filo. E non ci resta molto tempo. O non riesco più a dirlo. Non è nemmeno facile. Dovresti capirlo. E non fare quella faccia. Non chiedermi quale faccia. La tua. Adesso. Non può una donna… e una come me. Insomma. Allora… Da quanto ci conosciamo? Da una vita. Esatto? E forse sai che quando ti ho conosciuto avevo un po’ di simpatia. Non aggiungo altro. Non mi eri indifferente. E tanto basta. E questo è quasi tutto. E amavo ancora divertirmi. Senza esagerare. Quello non l’ho mai fatto. Non è mai stato da me. Non ho mai ecceduto. In niente. Tanto meno in amore. Un paio di ragazzi. Storielle brevi e confuse. Ed ero ancora tanto giovane. Forse anche queste storie le sai tutte. Ma non mi hai corteggiato. Invece mi hai presentato Camillo. Ti ricordi? A sentire il nome m’è venuto pure un risolino. Non volevo offenderlo. E l’ho ingoiato. E il mio mondo è cambiato. Ho capito subito che era l’uomo giusto. Me ne sono innamorata. Sono passati ormai quasi vent’anni e siamo ancora assieme. E lo dico con orgoglio: non c’è mai stato nessun altro. Ce stato solo lui. E non mi pento nemmeno di un minuto. Solo che sai come sono le donne. E anch’io, a modo mio, sono una donna. Le donne sono curiose. Imprevedibili. Un poco capricciose. Oggi non è più ieri. Ero dalla parrucchiera quando mi son trovata a pensarci.
Perché lo dici a me?
Speravo lo avresti capito da solo. Chi più di te. Gli hai fatto da testimone anche al matrimonio. Eppure… Forse mi son invecchiata più di quanto credevo. Mi sono sciupata. Scusa. Dimmelo se è così. Lo so che dovevo pensarci prima, ma non c’è nessun prima. C’è solo oggi. E oggi siamo qui. Io e te. Soli. Perché lui è in missione. Ma non solo per quello. Perché ne avevo voglia. Avevo voglia di vederti, e fare queste due chiacchiere. Di un consiglio. Non ero sicura di volerlo, ma lo dovevo fare. Insomma ero dalla parrucchiera quando m’è venuto questo stupido dubbio. E mi sono data dell’idiota. E mi son chiesta cosa andavo a pensare. Ed ero certa che se ne sarebbe andato. Così com’è venuto. Invece il pensiero m’è rimasto in testa. Come un tarlo. Ed è per questo che siamo qui. Ora lo sai. Cioè… non c’è stato nessuno e allora mi son detta: Lionella, non ti sarai mica persa qualcosa? Sai la curiosità? Poi ti rode dentro. È facile essere bravi a rinunciare a ciò che non si sa. Ci ho pensato solo dopo. Non ci crederai, ma non ci avevo mai riflettuto. Così è fin troppo facile. Finché non assaggi la cioccolata non sai a cosa rinunci. Non ti viene l’acquolina in bocca quando la vedi. Te ne stai a dieta senza soffrire. Per quello sai che non ho problemi. Io non ingrasso neanche con i bombolotti. Ma era solo un esempio. Una cretinata. Però puoi controllare.
Cosa ti devo dire?
Forse non hai capito. Mi sento di averlo tradito proprio perché non l’ho fatto. Un sacrificio vale nella misura in cui… Voglio dire… non so nemmeno io cosa voglio dire. Insomma… Non è stato nemmeno un sacrificio. Mi son data a lui e solo a lui. Completamente. Bella vigliacca. E fuori che lui non c’era altro. C’era lui. C’era il suo mondo. Le sue abitudini. I suoi pensieri. Un solo mondo, il suo. E io ho vissuto solo di quel mondo. Me ne sono saziata. Mi è bastato. Me lo son fatto bastare. E m’è anche pure piaciuto. Non lo nego che abbia i suoi lati positivi. Quasi tutti. Poi incespichi su una virgola. E ti accorgi che questo andava bene ieri. E ti accorgi che non ti basta più. Solo perché non sai e invece vorresti sapere. E le cose non le puoi leggere sui libri. Non è la stessa cosa. Certe cose le devi vivere. Si dovrebbero fare. Mi sono chiesta se anche lui se lo è chiesto. E anche se mi ha tradita. Credo di no. Spero di no. Ma non si può mai sapere. Se lo ha fatto non lo voglio mai scoprire. Potrei impazzire. Potrei anche fare… Non so cosa farei. E allora ho deciso che dovevo affrontare la mia ignoranza. I mie fantasmi. Che dovevo scoprire di cosa si trattava.
Perché lo dici a me?
Se mi fai parlare poi lo capisci. Forse. Non sei bravo ad ascoltare solo, e tacere. Dov’ero rimasta?… Spero che tu non te ne stia approfittando. Che non fai finta. Saresti troppo ingenuo per essere vero. Certo che devo dire tutto. Ma se lo devo fare allora lo faccio. Da allora ci ho pensato molto. Certo ci sarebbe qualcuno. Ecco perché lo sto dicendo a te. Un collega. Un amico. Insomma… un paio. Sono sicura che loro… Almeno qualche volta mi hanno degnata di uno sguardo. Ma non sarebbe vero. Non so come dire. Sarebbe come una goccia di rugiada mentre muori di sete. Lo so che è un esempio stupido. Una analogia che non regge. Prova a pensarci? Vado con un altro. Sarebbe solo come andare con un altro. Una cosa squallida che non si merita. Che non mi merito. Non sarebbe nemmeno. Sarebbe solo una pausa. Una cosa di sesso. Ma con lui, con Camillo, non c’è solo quello. C’è molto di più. Ci sono vent’anni. Vent’anni di tutto. Vent’anni da quando ci siamo conosciuti. Come con te. Anche se sono vent’anni differenti. Lo ammetto. Lui non potrebbe capire. Ma penso che tu possa farlo. Penso che tu possa cominciare a capire. Scusa se te lo dico, ma tradire è tradire. In un tradimento dovrei coinvolgere tutta me stessa. È per questo che ho pensato di parlarne con te. Non lo nego di essere ancora confusa. Poi mi puoi dire. Poi ti posso dire. Ci possiamo confrontare. Non sei come uno che passa.
Ma Liona…
Adesso dov’ero?… Mi fai perdere il filo. Se non lo dico ora non troverò il coraggio di farlo più. Credo. Te l’ho detto. Mica è facile. Nemmeno per me. Insomma… Non far finta di non capire. Se non ti va dillo subito. Non mi offendo. Mi alzo e saluti e baci. Amici come prima. Non sono più una ragazzina. E non devi pensare a Camillo, non è obbligatorio. Lo so che non son bella come allora. Mi vedo da sola. Li ho gli specchi in casa. Ma, credimi, qualcuno ancora mi guarda. Sempre meno. Certo. Ma c’è ancora qualcuno. E qualcuno che me lo fa qualche complimento. Insomma, guardami. Ormai i miei anni li ho e li so contare. Come so che se non lo faccio ora non lo farò mai. Non ritroverò mai tutto questo coraggio. Se ti crea imbarazzo puoi non chiamarmi Liona. Puoi usare qualsiasi nome che ti va meglio. Magari Salomè o Sonya, per la fantasia. Non importa. E puoi anche non pensare che sono io. Fare finta che non ci conosciamo neanche. Che sia una qualunque. Che passa. Che ci incontriamo per la prima volta ora. Basta lo sappia io. E’ sufficiente. Non pretendo un vezzeggiativo carino. Cerca solo di non essere volgare, ma se ti viene e ne hai bisogno, quello che viene non importa.
Non è per quello…
Ti capisco. E non badare al vestito. Sotto c’è solo profumo. Credimi, non è un capriccio. Arrivano certi momenti. Forse per tutte. Ti ringrazio di non avermi fatto pregare. Non sarebbe stato gentile, da parte tua. Mi sarei sentita umiliata. Certo temevo che Camillo sarebbe stato d’impiccio. O che anche tu, come me, fossi fin troppo fedele. Incapace di sentirti libero. Ero proprio disperata. Mi sentivo inutile. Fallita. Meno di un niente. Più di così sarebbe stato troppo. Speravo che bastasse a lusingarti. Mi sentivo già accaldarmi dentro. Sotto. Le vuoi vedere ora? Non mi hai mai nemmeno sfiorata. Sei toppo buono. Forse troppo onesto. Va già meglio. Sapevo che eri un amico. Che avresti capito. Anche se non potevo esserne certa. Che ci potevo contare. Che non mi avresti tradita. Che non mi avresti delusa. Che non ti saresti tirato indietro. Quando un’amica ha un bisogno. Speravo…
Mi sono chiesto perché lo facevi?
Almeno te ne seri accorto. Ho fatto di tutto… E’ stata una promessa. Se tu avevi ancora un dubbio. Non c’è una ragione. Non sapevo cosa mettere. Non c’è mai un’occasione. Non volevo si vedesse troppo, ma nemmeno troppo poco. Insomma l’ho messo e basta. Ti ringrazio per la cena. È stato bello. Naturalmente il conto è mio. Ti ho invitato io. E poi mi sento in colpa. È stato come un tranello. Un’imboscata. Spero che non lo pensi. Spero non me ne vorrai. Non era questo che volevo. Ma è tutto così difficile. E nemmeno io so cosa volevo. Ma sono certa di sapere cosa voglio. Almeno non hai più bisogno di fingere di non capire. Le carte ormai sono tutte in tavola. Ci stai o non ci stai. So solo che le cose vengono così. E a volte vengono mangiando. Davanti ad una buona cena. O perché è il momento. O solo perché se ne vengono per conto loro. Insomma… non so come si dice. Sono una donna, ma… Non me lo fare dire… Lo vorrei tradire. E lo vorrei con te.
Ma che ti salta in mente? Non siamo neanche soli.
Dice uno scrittore che amo, ma forse nemmeno è farina sua, che il desiderio viene quando vuole. La scintilla. E non importa se è la sera giusta o quella sbagliata. Se si è in un bel posto o in uno orrendo[1]. Questa sera, noi, tutto, dimostra che ha ragione. Lo è per me. Voglio che lo sia. Se hai bisogno di aiuto basta chiederlo. Non te ne devi vergognare. Sono qui, pronta a fare quello che posso. Se ti è d’aiuto te lo faccio vedere. Te lo faccio vedere… il culetto. Purtroppo è un po’ ossuto. Naturalmente non qui. Non sono matta. Ma quello sì. Se vuoi quella te la posso anche mostrare. Se è utile possono tirarla fuori, una tetta. Anche qui. Davanti a tutti. Non sarebbe nemmeno troppo fatica. Nessuno baderebbe troppo a noi. E se lo fa è perché non sa farsi gli affari suoi. Comunque tanto Camillo non lo verrebbe a sapere. E se anche fosse non ci crederebbe. Nemmeno io ci credo a quello che sto dicendo. È un’altra quella che parla. Credo che te ne sarai accorto. Non devi fare niente. Mi devi solo dire sì. Faccio tutto io. Non sono più così bella, ma ora so cosa fare.
***
Basta alzarsi. Lei comprende immediatamente. Paghi il conto e lei ti trottola dietro. Ancheggia e le resta la sfacciataggine di fare anche la smorfiosa soddisfatta. Nessuno a quel punto avrebbe potuto negarle quel piccolo aiuto. E l’amica che credevi di conoscere la conosci davvero. Ti chiede se hai ancora tempo anche dopo. Ha troppa fretta anche per prolungare un bacio. Quel seno l’ha già tirato fuori. Si è presa la tua mano. E, mentre sospiri Liona, scopre di non avere più nessun tempo né pazienza. Si alza il vestito e ti sbatte contro la macchina. Hai già le sue mani che ti cercato ansiose. Non vuole avere nemmeno la pazienza di salire. Il rischio della paura di poterci ripensare. Si alza il vestito ed è tutto vero, sotto ha solo il profumo, e ti fa entrare. E allora continui a sussurrare nel buio il tuo Liona. E quel buio ti nasconde a tutti e anche a te stesso. Non sai se hai tutte le risposte per tutte quelle sue domande. E anche per le prossime. Sai solo che ci sono sempre tanti altri giorni per vivere e capire.

[1] Stephen King: Il bazar dei brutti sogni. Sperling & Kupfer – Milano pag. 340. 2016

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George BrownVe lo ricordate Giorgio Marrone? No! nessuna parentela con Emma. Magari solo un paio hanno memoria di lui. Amici di scuola, elementari e medie. Ma se dico: George Brown, forse qualcuno in più alza la mano, perché quel nome gli dice qualcosa. Si chiamava Giorgio prima di diventare George. Prima di assumere quel nome d’arte.
Per un tratto è stato qualcuno. Prima con i “Reprobi”, poi ha raggiunto un certo successo col complesso de “I colombi sporcano i marmi”. Era chitarra solista e voce. Hanno inciso anche un disco, forse un paio. Li devo ancora avere, magari in soffitta. Dovrei cercarli. Da parte mia l’ho incontrato solo un paio di volte con la sua prima band. Poi… più visto. Solo qualche chiacchera. Sembrava scomparso. Un poco diverso lo è sempre stato.
Aveva messo presto su famiglia. Aveva avuto presto una figlia. Poi aveva mollato tutto. Quando già era finita l’estate dei “Colombi”. Quando le sbarbine fans, che gli si affollavano intorno ad ogni concerto, s’erano fatte molto più rare. Stavano diventando donne, e in qualche caso mogli e madri. Loro sì! ancora se lo ricorderebbero, se solo volessero. Insomma, era solo una pagina di quel diario del passato che non è mai stato scritto.
A luglio ero a Praga. Lo ritrovo là e lo riconosco subito. Un po’ invecchiato, ma ancora lui. A suonare e cantare per i passanti sul ponte Carlo, il famoso ponte di pietra sulla Moldava. Con un barattolo arrugginito attaccato all’accordatura della sua chitarra. La sorpresa non è abbastanza. Suona ancora divinamente il suo strumento. La voce è solo un po’ più roca, ma ancora affascinante. E sta cantando le sue solite canzoni. Mi fermo incantato con la sua versione di Hallelujah. È cagato e sputato il grande Jeff. Sono rapito.
Poi fa uno struggente Donovan, un paio dei Beatles, una buona dei Beach Boys, e naturalmente attacca Dylan. C’è la stessa magia. Sono persino commosso. A questo punto mi chino e lo chiamo per nome. Lui s’interrompe per me. E perché sente il suono della stessa sua lingua. Apparteniamo alla stessa generazione. Quei brani sono pezzi di cuore. Mi riconosce solo dopo un po’ e previo ricorso a memorie comuni. E per un paio di minuti parliamo delle stesse identiche cose. E di ricordi.
Mia moglie sbuffa, ma con me la fortuna è stata benigna. Vorrei poter fare qualcosa. In qualche modo. Gli spiego quello che sa. Che anche da noi campare di musica è sempre più difficile. Che però ho un contatto con una radio a grande diffusione, e persino con una televisione. Ci posso provare. Sono quasi certo di riuscirci. Potrei occuparmi per il viaggio. Con la sua conoscenza e la sua passione potremmo far innamorare delle stesse cose altre intere generazioni. Lo prego di tornare. Gli voglio lasciare il mio numero di cellulare. Mi guarda perplesso e un po’ stupito. Poi… Ma io sono felice così, con la mia musica. Allora, di nascosto per la vergogna, gli ho lasciato una monetina.
È stata notizia di pochi giorni fa. George era tornato. Mi sono illuso che sia stato per quello che ci siamo detti. So che non è così. L’hanno trovato all’angolo di una strada, ormai senza vita. Sembrava addormentato. La chitarra ancora stretta in pugno. Era ancora giovane. Troppo giovane per un addio improvviso e così. Forse una pera assassina. Non si sa. Non lo credo. Per quanto ne so non c’era mai cascato. Forse semplicemente aveva esalato l’ultimo respiro. Spero in serenità e senza provare né rimpianti né dolore.
Addio mio caro George Brown, riposa in pace e, se un paradiso c’è, suona la tua musica agli angeli. Spero la sappiano apprezzare.

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L_amore miopesegue: Carlo Spaghetti
L’amore può avere sempre mille facce. Quella di Carlo è una. Forse nemmeno la migliore. Ed è una faccia miope. Può fidarsi più del tatto e dell’udito, ma mai della vista. Comunque mi incuriosisce. Anche se non credo funzioni con tutti. Con lui tutto appartiene ad una dimensione sua. Tutto sembra vagare su spazi mai facili da definire. Comunque con le tipe ci sa fare. Lo accompagno in macchina fino a Pedavena. Pare debba rabboccare la sua scorta di birre. Io guido e lui ascolta musica dalle cuffie e fuma. Poi me la passa. Mi tengo a freno per un po’ di chilometri. Poi non ci riesco più. Era da molto che glielo volevo chiedere e colgo l’occasione. Vorrei una diritta. Lui acchiappa come un coniglio. Non posso dire lo stesso per quanto mi riguarda. “Come fai? Dimmi la verità”.
Come faccio cosa”? “Con le tipe. O hai un culo bestia o… ti ronzano sempre intorno”. “Più che fare lascio fare”. “Ho provato. Nisba”. “Vuoi sapere la verità, ma tutta la verità”?
È in vena di confidenze. “Sputa”. “Non so se ti sei accorto ma io non vedo proprio molto”.
Sono in un periodo di crisi nera: “E allora”? “Cerco di usare il fiuto. Ma la mia vera arma, la mia tecnica, è che ci provo con tutte. Come andare a sogliole e sardine con la rete a strascico. Se vai con la lenza, cazzo! le probabilità di pesca di dimezzano, sono poche. Mi sembra ovvio. Cazzo”!
Intanto la macchina va. “E funziona”? “Abbastanza”.
Dimmi”. “Se c’è laguna pescosa nei dintorni, preda, mi avvicino e dico a tutte, in separata sede, naturalmente, è fondamentale, la stessa cosa. Belle o brutte non importa. Lavoro al buio. Se sono cessi poi mi avvertono gli amici. E allora taglio”.
Ci fermiamo in un autogrill e non mi lascio distrarre. Deve pisciare e aspetto. Ha sete e aspetto. Poi una cicca e aspetto. Sono impaziente e stanco di aspettare. Appena siamo ai nostri posti di crociera gli faccio segno di uscire dalle cuffie e riprendo esattamente da dove eravamo rimasti: “Cosa”?
Devo spiegare la domanda dettagliatamente. Sollecitare la risposta. Lui ci mette un bel po’ ma poi fa mente locale: “Le solite cose. «Come sei bella? Mi hai rubato gli occhi e il cuore. Ho perso la testa. Ti amo da impazzire. Spassionatamente. Sembri un’attrice. Che ne diresti se ti chiedessi… di una sveltina. Vorrei che fossi la madre dei miei figli». Insomma. Cazzo! Solite cose. Menate, insomma. Cosa sto qui a parlare”?
Funziona sempre”? “Abbastanza, cazzo”.
Qualche tratta di strada è dissestata: “Qualche buca”? “Normale. Ma anche qualche topa, cazzo”.
Non mi sento troppo convinto: “Ma ci sarà qualche volta?”… “È il rischio del mestiere. Funzionare funziona, solo che… per esempio: Stavo recitando la solita litania del «Sei una gran figa.» a Renata e lei era là, in piedi, già furente, perché io stavo limonando, senza saperlo, cazzo! con Susanna, sua sorella. Certo le donne son tutte delle gran puttane. Per dirne una. Per dirne due: stavo lì tranquillo con Filomena. Questa è anche peggio. Ero già a buon punto. Le avevo messo una mano al culo e mi allungo per baciarla. Hai presente? Devo farti un disegnino? Mi sembrava strano. Ho avuto un po’ di sospetto quasi subito, perché mi sembrava che la dentiera ballasse. Pensavo ai denti. A un inizio di piorrea. Come potevo pensare?… cazzo! Mi ha risvegliato il grido allarmato della Filomena: «Cazzo fai con mia nonna»? Per farla breve, mica lo sapevo che s’era portata anche lei, la nonna. Chi è quella che va ad accalappiare con l’antenata? Me lo sai dire? Se non è sfiga quella… E quella, cazzo! se ne stava zitta e mi lasciava fare e pareva pure gradire. È stato orrendo”.
Mi crolla un mito: “E cosa hai fatto”? “Nel primo le ho prese. Di brutto. Mi brucia ancora la guancia. Anzi entrambe. Renata ha le mani pesanti, sembra un peso medio, e sua sorella Susanna pure. Nel secondo me la sono filata. E sono corso a sciacquarmi la bocca. Però vuoi mettere… perché dovremo parlare anche dei successi”.
E Filomena”? “Non l’ho più vista”.
L’ho sempre incontrato assieme a ragazze. Sospetto che a volte fossero solo quelle di qualche amico. Intanto siamo arrivati. È più la birra che ha assaggiato che quella che ha comprato. È un poco brillo e nel ritorno non riprendo l’argomento. Me ne guardo bene. È una di quelle occasione in cui sarebbe inutile. Parliamo di musica e del suo vecchio complesso. Mi ricordo di noi alle Zattere. Si corregge che in Spagna si era fermato a Malaga. Non ci capisco più niente. Mi sono perso tra i meandri delle sue storie e anche nell’atlante. Tutte le strade portano a Roma, tranne le sue. Possono portare da qualsiasi parte. Poi lo lascio dentro alle sue cuffie. Ci salutiamo e credo che la sua tecnica non potrà servirmi a molto. Ho anche il sospetto che rischi di portarlo diritto verso risultati persino catastrofici (vedi foto). Solo il tempo potrà dire se ho ragione.

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Il tempo è inesorabileTu ci credi? Io non ci credo più. Tutti lo declamano tanto. Io comincio a sospettare che ben pochi l’abbiano trovano. Come l’araba fenice.
Il grande amore è l’ultima frontiera dei sogni. Ne ho passate talmente tante che non riesco nemmeno più a illudermi. Con Carmela è finita com’è finita. A grida e schiaffi, naturalmente si fa per dire. Mai alzato le mani su una signora. E lei signora non lo è mai stata molto. Sempre lì a brontolare. A sbottare. E come moglie era proprio un disastro. Le altre, poche, erano solo interessate ai miei quattrini. O si accontentavano solo di quello; più disperate di me. Poi incontro lei. Disposto a ricredermi.
È lei che mi fa il caffè ogni mattina. Sempre molto gentile. E io qualche volta le lascio il resto. Le prime volte fingendo di scordarmi le monetine. Poi palesemente, ormai l’avevamo capito entrambi. E lei mi ringrazia. Il nome non è una promessa: si chiama Maria. Lo trovo un po’ ordinario. Pazienza. Non è l’abito… insomma, quella cosa lì. A volte Maria il caffè me lo porta al tavolo. Poi una volta l’ho pregata di sedersi e lei l’ha fatto. Poi l’ho invitata anche altre volte. Lei accetta spesso volentieri, se non ha da fare. Ma siamo quasi sempre soli nel locale. Non c’è la coda.
Insomma, un po’ alla volta credo di essermene un poco innamorato. O almeno ho cominciato a provare qualcosa per lei. Non la trovo né bella né brutta. È un tipo. Bionda. Sembra interessante. E forse interessata. Curiosa e intelligente. Una con cui viene voglia anche di fare due chiacchiere. Questo venerdì ho trovato finalmente il coraggio. Le ho chiesto se potevamo vederci, magari dopo la chiusura. Lei mi ha detto distratta: Forse sì, forse no, prova a passare. Poi è entrato un tizio che ha preso una grappa, di mattina. Passando ha sussurrato, sogghignando con la mano che le nascondeva le labbra: Finisco alle sei. Sono tornato ed ero lì con una buona mezzora di anticipo. Avevo conservato un poco di quel coraggio e l’ho invitata a casa mia. Mi ha guardato stupita, le è venuto da ridere, ha fatto spallucce e ha accettato dicendo: Perché no?
Eccoci qui. È sciocco da dire, lo so, ma la prima cosa che mi viene in mente è di prepararle un caffè. Lei accetta con garbo. Le chiedo se è comoda. Se non ha troppo caldo. Se vuole che apra la finestra. Se non trova che il tempo non sia più lo stesso. Se ha sentito dell’attentato. Non deve avere molta voglia di parlare, mi risponde a monosillabi. Però non mi nega mai un sorriso. Io domando e lei sorride gentile. È arrivata con un abito nero. Forse un pochino elegante. Sta proprio bene. Guarda l’ora. Porco di quel porco. Non vorrei che avesse fretta. Che dovesse andare in qualche posto, dopo. Ho fatto tutta la spesa pensando di chiederle di fermarsi a cena.
Intanto tiro fuori i pasticcini. Preparò un tè. Le chiedo se non staremmo più comodi di là, in salotto. Mi risponde rifacendo le spallucce. Le fa in quel suo modo molto carino. Ci prendiamo le tazze e andiamo. Lei scansa i leghi di mio nipote e popola il divano. Mia sorella è passata ieri con la belva, la peste. Naturalmente non s’è data la fatica di riordinare quel disastro. Maria si sfila le scarpe. Le chiedo se sta comoda. Mi risponde appena irritata di sì. Almeno così mi sembra. Forse sono un filino curioso. Sono fatto così. Sono uno gentile. Le chiedo se vuole vedere qualcosa. Ascoltare un po’ di musica. Io sono un appassionato di classica, ma ho anche qualche pezzo leggero, certo di quella buona. Le metto vicino, sul tavolino, i telecomandi. Lei non ha voglia di nulla. Sembra le basti la mia compagnia. Starsene un attimo tranquilla. Parla poco, a monosillabi, ma sorride d’incanto.
Resto a guardarla. A coccolarmela con gli occhi. Torno a chiederle se sta comoda. Che mi dica lei se posso fare qualcosa. Mi informo del suo lavoro. Tanto per essere gentile. Se le pesa tanto; a me sembra pesante. Se è sodisfatta degli orari e del salario. Se la trattano bene. Mi racconta che con le mance se la cava, ma che quelli sono sempre appena sufficienti. A questo punto è lei a chiedermi se è tanto che vivo solo. Se non mi manca una compagna. Certo che mi manca, ma ho imparato a cavarmela anche così. Lei sbuffa e torna ad aspettare e pendere dalle mie labbra. Le ripeto che se vuole guardare la televisione può guardare quello che vuole. Ho anche la parabola. Mi ripete che non ama molto quell’affare.
Gli argomenti si stanno esaurendo. Le accendo una sigaretta. È la terza. Devo frugare febbrilmente per inventarmi altre cose. Altre curiosità da chiederle. Sposata non è sposata, questo lo so, o almeno credo. Gli anni mi guardo bene dal chiederli. Ecco… le chiedo dove abita. Se la casa è grande. Se è in affitto. Se si trova bene in quel quartiere. Se non la conoscessi direi che mi manda a fare in culo. Per la faccia che fa. Forse è solo colpa di una folata di puzza entrata dalla finestra aperta anche per far uscire l’odore di fumo. La chiudo. Le porto la copertina azzurra, se mai dovesse venirle freddo. La sera è sempre malandrina e qualche volta anche un poco umida. Tradisce. Mentre le davo le spalle lei si è messa comoda. Si è stravaccata.
Guarda il soffitto. Sembra una madonna che prega. Non vorrei sembrare inopportuno. Il solito cafone. Che pensasse che sono di quelli che si divertono a guardare. Le gambe le si sono scoperte. Direi che le ha belle. Quel vestito era corto anche quand’eravamo in cucina. Le calze sono tenute da un reggicalze con i gancetti rosa. Mi si mozza il fiato. Non vorrei metterla in imbarazzo, ma, per quanto faccia, un po’ gli occhi mi cadono là. E cerco di non darlo a vedere. Non vorrei metterla in imbarazzo. Sarei contento se si sentisse a proprio agio. Proprio come a casa sua. Ora viene il bello, o la va o la spacca. Sto per chiederle se si ferma a cena. Prima di farlo decido di assentarmi giusto il tempo per mettere in frigo una di limoncello. Forse indugio troppo nello scegliere le parole e la forma per chiederglielo.
Ho cercato di essere carino. L’ho trattata con massimo rispetto. Forse ho esagerato? Quando torno ho l’impressione di aver domandato troppo alla sua pazienza. S’è alzata e ricomposta. Ha spento il suo sorriso. Smania. Le chiedo se dopo vuole fermarsi a cena. Mi dice che non può, che ormai è già anche troppo tardi. Sembra infastidita; e quel fanculo me lo dice proprio. Io le donne non le capirò mai. Uscendo sbatte la porta con energia. Mi accendo la tele. M’è già passata la voglia. E da domani cambio bar, è deciso.

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