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Archive for the ‘colonna sonora’ Category

015-finestra-e-temporale

Finestre e temporale: elaborazione fotografica di MDG

Robert Wyatt, pseudonimo di Robert Ellidge (Bristol, 28 gennaio 1945), nasce cantautore il 1 giugno 1973, quando durante una festa, cade da una finestra al terzo piano di un palazzo, rimanendo paralizzato dalla vita in giù. L’anno successivo, ancora ricoverato in ospedale, incide il suo primo e forse più importante disco, quel Rock bottom dal quale abbiamo scelto Little Red Robin Hood Hit The Road. Nella “vita precedente” aveva avuto il tempo di essere uno dei più grandi protagonisti della scuola di Canterbury in quella grande stagione in cui si affermò il progressive.
Nel 1963 era stato tra i fondatori del psichedelico Daevid Allen Trio con Daevid Allen e Hugh Hopper. Nel 1964, dopo l’abbandono dell’australiano Allen (che darà vita ai Gong) bloccato alla frontiera per una questione di documenti, i sopravissuti del gruppo daranno vita ai Wilde Flowers dal scioglimento dei quali nacquero i Caravan e soprattutto, con lui, i Soft Machine. Wyatt è uno dei progetti di rock progressivo più influenti in assoluto. In una parentesi del 1970 incise il suo primo vero disco solista: The End of An Ear. L’anno successivo abbandonerà la Macchina soffice per dar vita all’ennesimo grande gruppo: quei Matching Mole che incideranno due splendidi album: Matching Mole (1972) e Little Red Record (1972). Poi la disgrazia.

Rock bottom: Little Red Riding Hood Hit the Road
http://www.youtube.com/watch?v=a2TUb51oukc

Little Red Robin Hood Hit The Road

Il piccolo pettirosso si mette in viaggio

(Gioco di parole con Little Red Riding Hood che significa cappuccetto rosso)

In the garden of England dead moles lie inside their holes
The dead-end tunnels crumble in the rain underfoot
Innit a shame?Can’t you see them?
Can’t you see them?
roots can’t hold them
Bugs console themI fight with the handle of my little brown broom
I pull out the wires of the telephone
I hurt in the head and
I hurt in the acting bone
Now
I smash up the telly with remains of the broken phone
I fighting for the crust of the little brown loafI want it I want it I want it give it to me
(I give it you back when I finish the lunchtea)
I lie in the road try to trip up the passing carsYes me and the hedgehog
We bursting the tyres all day
As we roll down the highway towards the setting sun
I reflect on the life of the Highwayman yum yum
Now I smash up the telly and what’s left of
The broken phone
Nel giardino d’Inghilterra talpe morte giacciono nei loro buchi
I tunnel ciechi crollano nella pioggia sotto i piedi
Non è una vergogna?Non le vedi?
Non le vedi?
Le radici non riescono a trattenerle
Gli insetti le consolanoHo lottato con il manico della mia piccola scopa marrone
Ho tirato fuori i fili dal telefono
Ho sbattuto la testa e
Mi son fatto male un osso
Adesso
Ho spaccato la televisione coi resti del telefono rotto
Sto lottando per la crosta di quel piccolo pane marroneLo voglio, lo voglio, lo voglio, dammelo
(te lo ridò indietro quando finisco il pranzo-tè)
Mi distendo per strada cercando di far inciampare le macchine che passano
Sì, io e i ricci
Facciamo scoppiare le gomme tutto il giorno
Mentre rotoliamo sull’autostrada verso il tramonto
Io rifletto sulla vita dei briganti a cavallo gnam gnam
Ora finisco di distruggere la televisione e ciò che è rimasto del telefono rotto

Ringrazio della splendida traduzione l’amico Marco Sacco

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Restiamo in Italia. Cercherò ancora una volta di spiegare quello che fatico a dire (“…è difficile a spiegare, è difficile capire se non hai capito già…Francesco Guccini: Vedi cara). A volte la storia di un emozione, il suo orizzonte, il suo improvviso abbagliante espandersi si nasconde per velarsi inaspettatamente tra poche note e un titolo o una semplice frase che si fa storia, universo di un momento. Magari per accompagnarti per mano a tornare su qualcosa su cui avevi sorvolato e non è obbligo che l’autore ne sia stato completamente consapevole nel momento in cui ha partorito i suoi versi. Cerco di spiegarlo con dei piccoli e forse banali esempi che mi vengono velocemente alla mente tratti da alcuni dei più celebri scrittori di parole in musica.

Caro amico: elaborazione fotografica di Mario DG

Caro amico: elaborazione fotografica di Mario DG

sembra di sentirlo ancora dire al mercante di liquore «Tu che lo vendi cosa ti compri di migliore? »” (Fabrizio De Andrè: Dormono sulla collina).
E poi la cena a casa sua, la mia nuova cortesia, stoviglie color nostalgia…” oppure “noi corriamo sempre in una direzione, ma qual sia e che senso abbia chi lo sa…” (Francesco Guccini: Incontro).
I matti non hanno il cuore o se ce l’hanno è sprecato” (Francesco De Gregori: I matti).
Senti che fuori piove, senti che bel rumore…” (Varco Rossi: Sally).
Chi non si è fermato dietro i vetri malinconici a guardare una volta la pioggia pensando senza pensare al suo strano bel rumore? O aprendo la finestra si è riempito del suo gradevole odore di erba infradiciata o sotto la pioggia del proprio olezzo di cane bagnato? “Come si cambia per non morire“.
Gianfranco Manfredi è un cantautore che non c’è più anzi è un non cantautore. Dopo aver fatto anche l’attore, se si cercano notizie su di lui nella rete sai incontra un Gianfranco Manfredi scrittore. Personalmente penso sia più difficile scrivere un buon testo di canzone, stretto nello spazio e condizionato dalla musica, che un libro decente. Manfredi scrittore è potabile, almeno non incespica nella lingua. Ma qui lo vediamo come cantautore e mi preme premettere altresì che non faccio un credo della canzone militante ma se non ricordiamo quegli anni, non contestualizziamo, è impossibile capire i suoi dischi e questo pezzo.
E’ l’epoca de “la musica ribelle che… ti urla di cambiare / di mollare le menate / e di metterti a lottare” (Eugenio Finardi: Musica ribelle). Dove è ancora vivo il ricordo di Piazza Fontana (1969) e ci si va per esserci e “ci passai con la barba lunga / per coprire le mie vergogne, / ci passai con i pugni in tasca / senza sassi per le carogne.” (Claudio Lolli: Piazza, bella piazza. In Ho visto anche degli zingari felici – 1976).
E’ l’Italia del movimento, dell’autonomia e della P38, dei bulloni a Lama, de “la cultura è di tutti”; dove ancora chi non canta solo “bandiera rossa” è ben, che vada, un traditore. E’ l’Italia della fantasia al potere e degli anni di piombo. E’ l’Italia di una generazione tradita. Quella che cerca nella cenere della rivoluzione mancata una nuova prassi e trova i dubbi.
E’ Ricky Gianco a spiegarci: “ci si trova meno uguali / torna l’ordine e il decoro / non si può più stare in piazza / «Tutti al posto di lavoro».” (Rock della ricostruzione – 1974). Il verso finale virgolettato, come quello di ogni strofa, è proprio di Luciano Lama.
E’ tutto qui perfettamente riconoscibile o sintetizzato in brevi immagini o come nella canzone che da il tiolo all’album (Zombie di tutto il mondo unitevi del 1977) che è un poco una sorta di “Manifesto” rivisto o in questi versi: “La Giunta ci ha concesso il prato e l’acqua no / la Giunta è di sinistra lo sporco non lo so” (Un tranquillo festival pop di paura). E inoltre c’è tutta la lotta di quegli anni tra politico e privato. Poi verrà il riflusso; solo un anno dopo il delitto Moro, con il quale si concluderà la grande ubriacatura rivoluzionaria di quel sessantotto. Paolo Pietrangeli aveva già cantato (1969): “Manifesto, manifesto, meglio dir manifestavo / or son diventato bravo e non manifesto più“. E forse è proprio Manfredi l’inizio della fine; la fine delle illusioni. E’ lui stesso a spiegare che “così mentre da un lato facevo come mai prima il cantante militante iperincazzato, dall’altro lavoravo come autore a testi di canzonette“. E’ la solita questione del rapporto tra intellettuale e potere che torna.
Gianfranco Manfredi: Dagli Appennini alle bande

DAGLI APPENNINI ALLE BANDE

Lui cercava per il mondo la famiglia
e di notte lavorava alla candela
difendeva sempre il nome dell’Italia
e la nonna dai briganti proteggeva
e saliva sopra gli alberi più alti
per pigliare al volo i colpi dei nemici
ragazzini come lui ce n’eran molti
scalzi e laceri eppure eran felici.

E parlavano di lui, scrivevano di lui
lo facevano più bamba che bambino
e parlavano di lui, scrivevano di lui
si ma lui rimane sempre clandestino.

Ora pare che il suo nome sia teppista
fricchettone criminal – provocatore
pare che ami travestirsi da sinistra
ma sia un docile strumento del terrore
e lo beccano ogni tanto che si buca
o maneggia un po’ nervoso una pistola
o che lancia da una moto sempre in fuga
una molotov sull’uscio della scuola.

Ora parlano di lui e scrivono di lui
lo psicologo, il sociologo, il cretino
e parlano di lui, e scrivono di lui
si ma lui rimane sempre clandestino.

E si dice: se ci fosse più lavoro
se il quartiere somigliasse meno a un lager
non farebbe certo il cercatore d’oro
assalendo il fattorino delle paghe
ma è la merce che c’è entrata nei polmoni
e ci dà il suo ritmo di respirazione
il lavoro non ci rende mica buoni
ci fa cose che poi chiamano “persone”.

E se parlano di lui, se scrivono di lui
è che il nostro sogno è ancora piccolino
se parlano di lui e scrivono di lui
è che il nostro io ci resta clandestino.

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Visto che in questo spazio, ultimamente, si fa un gran parlare di mistica e di fede; non di quella che si porta al dito. Per essere coerente e ricordare che anche nella fede più tenace ci può essere spazio o si può insinuare un dubbio, e che il dubbio non sempre ha torto, oggi posto una canzone incisa, a quanto mi risulta, per la prima volta nel 1964; qui nella registrazione dal vivo dell’anno successivo di Enzo Jannacci: Prete Liprando e il giudizio di Dio
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Foto storica di un amico relativa a Forte Sirtori.

Testo di Dario Fo e Enzo Jannacci
Musica di Enzo Jannacci
Album: “E allora…concerto”

(parlato): Landolfo, cronista del Millecento, ci ha tramandato le “Storie del Comune di Milano” fra cui questa del giudizio di Dio, protagonista prete Liprando. Noi abbiamo cercato di musicarla con un certo impegno, e la dedichiamo a tutti quelli – e sono tanti – che pur essendo testimoni di fatti importantissimi e determinanti dell’avvenire della civiltà, neanche se ne accorgono!

Prete Liprando, ben visto dai poveri Cristi,
andò dall’arcivescovo Agiosolano, in Sant’Ambrogio:
“Sei ladro e simoniaco, – gli disse –
venduto all’Imperatore, quel porco..” “Cus’ee?!?
– disse l’Arcivescovo infuriato –
Come ti permetti, prete? Sono ex-combattente;
ho fatto la prima crociata, e anche la terza!
(…la seconda no, perché ero malato…)
Prete Liprando rispose: “Lo so, più d’una città hai conquistata;
lo so, più d’una città tu hai insanguinata;
e adesso, Milano tu vuoi, incatenata, vederla prostrata!”
“Liprando, a ‘sto punto esigo il Giudizio di Dio:
dovrai camminare sui carboni (s’intende, ardenti!);
le fascine di legna, quaranta (“Quaranta?”)
s’intende, le pago io.
Se tu non uscirai per niente arrostito,
io me ne andrò dalla città solo e umiliato,
e per giunta, appiedato!
“Prete Liprando, domani, al calar del sole
affronterà il Giudizio di Dio in Piazza Sant’Ambrogio!”
Quaranta fascine furono ammucchiate in una catasta;
la gente veniva fin da Venegòno e da Biandrate:
“Indietro, su, non spingete, per Diana!
C’è il fuoco, non lo vedete? ” “Ma io non vedo niente;
non vedo un accidente! Son venuto da Como per niente!”
“Tornate tutti a casa! Non se ne fa più niente!
Il Papa, da Roma l’ha proibito: lo spettacolo è finito!”
“Ed io lo faccio lo stesso! – disse prete Liprando –
ma le fascine, quaranta!- io non ce le ho!…”
…La gente portava le fascine fin da Biandrate;
facevano un sacco di fumo: la gente tossiva,
tossiva e piangeva, ma non si muoveva!
Che popolo pio! Voleva vedere il Giudizio di Dio!
“Eccolo là!… Liprando è già pronto…” “Dove l’e?”
“L’è là in fondo… È pallido, ha paura!…
Ha i piedi spogliati!… Che piedi lunghi!…”
La brace è rossa, e rosse son tutte le facce…
stan tutti con gli occhi sbarrati…
“Anch’io li ho sbarrati, però non vedo niente!”
È entrato in mezzo ai carboni senza guardare:
è dentro, è tutto sudato, ma non è bruciato…
due donne son svenute! Una ha partorito,
ma in buona salute…
“Dai, non spingete!” “…ma io non vedo niente!”
“Ecco, è arrivato; Dio l’ha salvato!”
“Gloria a Liprando, che Milano ha salvato!”
“L’arcivescovo è scappato” (“Gloria a Liprando!”)
“L’avete veduto!” (“Gloria a Liprando!”)
“Il cavallo s’è impennato!…” (“Gloria a Liprando!”)
“Ecco, è cascato!…” (“Gloria a Liprando!”)
“S’è mezzo massacrato!” (“Gloria a Liprando!”)
“…e io non ho visto niente!” (“Gloria a Liprando!”)
“Non ho visto un accidente!” (“Gloria a Liprando!”)
“Son venuto da Como per niente! Per nienteeee!” (“Gloria a Liprando!”)

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Fin dai vecchi tempi del rock’n’roll e di Elvis Presley, e sempre più nel tempo, la presenza del cantante o di quanto avviene sul “palco” fa parte integrante della musica stessa. E’ difficile riascoltare Jimi Hendrix a Woodstock senza che gli occhi della mente non lo vedano chinarsi e dar fuoco alla sua stratocaster. Molta della musica di allora è molto palco, se poi pensiamo all’hard è soprattutto palco. I grandi concerti. Fin a toccare il Kitch. Io consiglio sempre di trovare il momento per ascoltare la musica in un rapporto uno a uno, da vinile o da cd che sia, ma di ascoltare la musica. Il resto è contorno. Che poi l’immagine, il contorno, facciano parte di una storia e di una generazione è indiscusso. Qui però, anche per i limiti del mezzo, ma sarebbe una scelta comunque, si parla, appunto, solo della musica.

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Finestra 2: Finestra e camicia.

Questa musica è piena di leggende e le leggende del rock diventano ancor più leggende quando il protagonista muore. Se poi muoiono [?] in tre (Jimmi Hendrix [18.09.1970], Janes Joplin [4.10.1970] e infine Jim Morrison [4.06.1971]), in un relativamente breve lasso di tempo, allora niente resta più indelebile della loro memoria, ben oltre la musica che facevano, che per altro era gran buona musica.
Molta parte della leggenda dei Doors, se non tutta, è legata al carisma del cantante Morrison, uno dei più celebri frontmen del rock anni ’60 e ’70, e forse di sempre. Il grande idolo delle ragazzine, e non. Il corpo del rock. L’intellettuale-prostituto della scena americana e insieme il più europeo degli americani. Il grande sciamano della musica. Colui che sente la fine corrergli dentro. Quello che si da tutto dal palco. Il poeta. In una sola definizione che lui stesso si è scelto: Il re lucertola (King Lizard) .¹
Quando canta lui la scena è solo sua e si assiste a vere scene di delirio almeno finché (come succedeva di frequente) non interviene la polizia per interrompere lo spettacolo considerato osceno. E’ la sua fisicità, la sua presenza sul palco ad essere considerata tale. Così successe, ad esempio, nel famoso concerto del 3.8.68 al Singer Bowl di Queens. Ma lui consuma in fretta la vita. A volte è talmente “fatto” da non essere in grado di salire sul palco. Ad Amsterdam, dovevano esibirsi dopo gli Airplane, ma Jim si accasciò vicino alle quinte e fu trascinato via in stato semicomatoso. Su di lui e il suo mito, rafforzato (come detto) dalla morte prematura, è stato anche girato un noto film.
Un po’ di tempo fa, un’amica di rete ha scelto il video di YouTube “Touch me“, brano certamente più aderente, anche se non completamente, alla cifra musicale dei Doors². Non potendo qui fare ascoltare interamente i primi due albums, abbiamo preferito ricordarli con un brano insolito per loro, inciso nel primo disco del 1967, che porta semplicemente il loro nome. Il brano è: Alabama song (Whiskey bar) ancora nientemeno che Bertolt Brecht e Kurt Weill.

Alabama song (whiskey bar) Canzone dell’Alabama

Well, show me the way
To the next whiskey bar
Oh, don’t ask why
Oh, don’t ask why

Show me the way
To the next whiskey bar
Oh, don’t ask why
Oh, don’t ask why

For if we don’t find
The next whiskey bar
I tell you we must die
I tell you we must die
I tell you, I tell you
I tell you we must die

Oh, moon of Alabama
We now must say goodbye
We’ve lost our good old mama
And must have whiskey, oh, you now why

Oh, moon of Alabama
We now must say goodbye
We’ve lost our good old mama
And must have whiskey, oh, you now why

Well, show me the way
To the next little girl
Oh, don’t ask why
Oh, don’t ask why
Show me the way
To the next little girl
Oh, don’t ask why
Oh, don’t ask why

For if we don’t find
The next little girl
I tell you we must die
I tell you we must die
I tell you, I tell you
I tell you we must die

Oh, moon of Alabama
We now must say goodbye
We’ve lost our good old mama

Bene, mostrami la strada
Verso il prossimo whisky-bar
Oh, non chiedere perché
Oh, non chiedere perché

Mostrami la strada
Verso il prossimo whisky-bar
Oh, non chiedere perché
Oh, non chiedere perché

Se non trovassimo
Il prossimo whisky-bar
Te lo dico, moriremo
Te lo dico, moriremo
Te lo dico, te lo dico
Te lo dico, moriremo

Oh, luna dell’Alabama
Ora noi dobbiamo dirci addio
Abbiamo perso la nostra buona vecchia mamma
E abbiamo bisogno di whisky, oh tu sai perché

Oh, luna dell’Alabama
Ora noi dobbiamo dirci addio
Abbiamo perso la nostra buona vecchia mamma
E abbiamo bisogno di whisky, oh tu sai perché

Bene, mostrami la strada
Verso la prossima ragazzina
Oh, non chiedere perché
Oh, non chiedere perché
Bene, mostrami la strada
Verso la prossima ragazzina
Oh, non chiedere perché
Oh, non chiedere perché

Se non trovassimo
La prossima ragazzina
Te lo dico, moriremo
Te lo dico, moriremo
Te lo dico, te lo dico
Te lo dico, moriremo

Oh, luna dell’Alabama
Ora noi dobbiamo dirci addio
Abbiamo perso la nostra buona vecchia mamma
E abbiamo bisogno di whisky, oh tu sai perché.


1] Jim così spiegò la sua attrazione per i rettili: «Non si deve dimenticare che la lucertola e il serpente s’identificano con l’inconscio e con le forze del male. C’è qualcosa di profondo nella memoria umana che è fortemente reattivo ai serpenti. Credo che il serpente incarni tutto ciò che si teme».

2] Il poeta visionario William Blake scrive: “Quando le porte della percezione sono spalancate le cose appaiono come veramente sono, infinite”. L’autore inglese Aldous Huxley, ispirato dalla citazione di Blake, intitolò “Le Porte della percezione” il suo trattato sugli effetti della mescalina. Da qui la scelta di Jim Morrison di chiamare la band The Doors.

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Nell’enciclopedia multimediale Wikipedia inizia così la voce relativa a Charlie Haden: «Charles Edward Haden (nato il 6 agosto 1937) è uno dei più importanti contrabbassisti jazz contemporanei, reso famoso probabilmente per la sua lunga collaborazione con il sassofonista Ornette Coleman.» Ma Charlie Haden è nella musica, come si può facilmente vedere, qualcosa di più di un semplice ottimo strumentista. E’ quello spazio (nello specifico si parla di New Thing, a cui ci si può avvicinare anche attraverso un romanzo) tra il free jazz (anche se si parla ancora di free jazz) e ciò che verrà dopo. A suo nome si ricordano tutta una serie di splendide perle ma forse il suo merito maggiore è stato nell’essere titolare dei dischi della Liberation Music Orchestra.

014-senza-titoloSenza titolo per Lorca. Tecnica mista su cartone telato di Mario DG

Dietro il maestro di cerimonie che prende la titolarità del disco c’è, a mio avviso, una corresponsabile con non meno “colpe”, una musa che risponde alla splendida figura di Carla Bley. Credo che il suo peso sul progetto sia almeno pari a quello del contrabassista.
Il prodotto del sodalizio è una musica prettamente politica e di recupero della musica popolare o semplicemente di alcune sue sonorità, come frequente nelle incisioni di Haden e della stessa Bley e di altri musicisti dello stesso entourage come Don Cherry. Nel disco preso in esame la prima facciata è occupata da brani dei resistenti nella guerra civile spagnola. Nel retro si ripropongono brani celebri della canzone politica internazionale come una struggente “Song for Ché“, sicuramente il brano più celebre di Haden che prende spunto da “Hasta sempre” di Carlos Puebla (con un campionamento dell’originale del 1969) o come “We shall overcome“, ma per qualche dettaglio in più sul disco siete pregati di fare almeno un salto qui.
E’ questo comunque un disco che segna un’epoca e, a mio avviso, se non il miglior disco degli anni settanta certamente uno dei migliori in assoluto. Il brano scelto è per intero tutti i 20 minuti e 48 di quella meravigliosa sorta di mosaico (si dovrebbe dire medley) che è: “El Quinto Regimiento (The Fifth Regiment – trad., arr. Bley) / Los Cuatro Generales (The Four Generals –  trad., arr. Bley) / Viva la Quince Brigada (Long Live the Fifteenth Brigade – melody trad., words Bart Van Derschelling)“.
Il cantato sembra venire direttamente da lontano, dal dolore, dalla strenua resistenza delle Brigate Internazionali. Dall’Alkazar. La guerra, tutte le guerre, sono un momento di barbarie; non è possibile cercare un ordine e un etica, ma spesso c’è una parte giusta e loro erano dalla parte giusta, dalla parte dell’uomo.
Liberation Music Orchestra: El Quinto Regimiento-etc.

Per chi non si accontenta del semplice ascolto la formazione è la seguente:
Perry Robinson: clarinet
Gato Barbieri: tenor saxophone and clarinet
Dewey Redman: alto and tenor saxphones
Don Cherry: cornet, indian wood and bamboo flutes
Mike Mantler: trumpet
Reswell Rudd: trombone
Bob Northem: french horn, hand wood blocks, crow call, bells and military whistle
Howard Johnson: tuba
Sam brown: guitar, tanganyikan guitar, thumb piano
Carla Bley: piano, tambourine
Charlie Haden: bass
Paul Motion: drums, percussion instruments
Andrew Cyrille: drums, percussion instruments

Un disco assolutamente da ascoltare e più volte.

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Da quali esperienze proviene quel filone musicale della nostra musica di cui si accennava la volta precedente e che è stato definito come musica progressiva? Si inserisce nella musica, soprattutto inglese di quegli anni, che vede tra le sue espressioni massime Pink Floyd, Traffic, Jethro Tull, Genesis, Van der graff generator, etc. Io preferisco ricordarla con una pietra miliare fin troppo nota (ma non forse la più nota) del 1969 dei King Crimson: Epithaf presente nel primo album della band In the Court of the Crimson King, vero emblema del genere.

013-ragazzini02Composizione grafica di Mario DG

Spesso, nel tracciare la storia di questo movimento, si inseriscono al suo interno esperienze che niente hanno a che fare con lo stesso come, per esempio, l’Hard rock che ne è l’esatto contrapposto sulla scena. Io invece tenderei a lasciare fuori anche quelle esperienze, come la scuola di Canterbury, più influenzate da un approccio jazzistico alla musica che non dalla mediazione con una musica di impronta colta se non addirittura sinfonica cioè intente in una vera e propria contaminazione con la musica classica. Si dovrebbe dire che infondo tutto inizia dall’inizio. L’idea in embrione è già nei primi Procol Harum con la loro hit A whiter shade of Pale del 1967 e poi nei Moody Blues, negli E.L.O. e nei Move fino ai Nice di Keith Emerson (poi in Emerson, Lake e Palmer), correndo spesso il rischio di cadere nel virtuosismo, prima di prendere la forma definitiva e matura degli esempi che ancor oggi vengono ricordati, come quello qui presentato.
Con il tempo diventerà una musica sempre più “complessiva” fatta di suoni, di luci, di colori. Con le grandi amplificazioni. Con la presenza sul palco di veri “attori” come Peter Gabriel. Con tourné mastodontiche e palchi senza fine. E’ la musica della mente. Fino ai mena concerti degli stessi Pink Floyd.
Il quartetto che incide il disco è composto da Robert Fripp, Greg Lake, Mike Giles e Ian McDonald a cui si aggiunge con il contributo di idee proprie e geniale creatività poetica Peter Sinfield, ma il Re cremisi è e resterà soprattutto il chitarrista Robert Fripp, comunque il risultato di tale connubio è assolutamente eccezionale.
Epitaph anche se qui non c’è tutta la cifra stilistica della musica di Fripp ma si è cercato di evitare la scelta più scontata e questo è comunque l’epitaffio dell’uomo schizoide.

Epitaph

Epitaffio

The wall on which the prophets wrote
Is cracking at the seams.
Upon the instruments of death
The sunlight brightly gleams.
When every man is torn apart
With nightmares and with dreams,
Will no one lay the laurel wreath
As silence drowns the screams.

Between the iron gates of fate,
The seeds of time were sown,
And watered by the deeds of those
Who know and who are known;
Knowledge is a deadly friend
When no one sets the rules.
The fate of all mankind I see
Is in the hands of fools.

Confusion will be my epitaph.
As I crawl a cracked and broken path
If we make it we can all sit back
and laugh.
But I fear tomorrow I’ll be crying,
Yes I fear tomorrow I’ll be crying.

Il muro su cui i profeti hanno scritto
Si sta spaccando alle giunzioni
Sopra gli strumenti di morte
Brilla la luce del sole
Quando ogni uomo è fatto a pezzi
Dagli incubi e dai sogni
Deporrà qualcuno la corona d’alloro
Mentre il silenzio affoga le urla?

Tra i cancelli di ferro del fato
Furono piantati i semi del tempo
Ed innaffiati dalle gesta di coloro
Che conoscono e sono conosciuti
La conoscenza è un amico letale
Quando nessuno fissa le regole
Io vedo che il destino dell’interà umanità
E’ nelle mani di sciocchi

La confusione sarà il mio epitaffio
Mentre striscio su un sentiero accidentato e in rovina
Se ci riusciremo potremo tutti sederci
E ridere
Ma temo che domani piangerò
Sì, temo che domani piangerò


Se non sapete cosa regalare a Natale cercate questo disco: Fab Ensemble – 2008 – Storia di un impiegato. Se invece avete già tutti i regali pronti, regalatevelo. Credetemi: ne vale la pena.

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Quella che facciamo in questa sede è un po’ un’operazione all’incontrario. Nei primi anni ’70 anche la nostra musica smette di essere semplicemente una riproposizione di brani stranieri (spesso malamente tradotti ed altrettanto banalmente eseguiti) e arriva, in alcuni casi, ad avere un respiro europeo. Dall’Europa trae linfa e riesce a trovare una propria autonomia e crescere.

012-muralesMurale realizzato da giovani di Spinea (Ve) e “rimbiancato” dagli anziani.

Sulla scena si diffonde quella che verrà etichettata come “musica progressive” e anche da noi si affacciano nomi interessanti. Inizieremo con un nome non proprio scontato di uno dei nostri complessi non abbastanza stimato. Si tratta degli Stormy Six in quello che io considero un loro piccolo gioiello, L’orchestra dei fischietti, compreso nell’album L’apprendista del 1977.
Il complesso che ha una lenta maturazione, mentre si affermano altri nomi come la Premiata Forneria Marconi, Banco del mutuo soccorso, Area, Osanna, Napoli centrale, etc. (su alcuni di questi nomi varrebbe la pena tornare), proviene da pallide esperienze beat, prima di approdare al successo con l’album L’unità del 1972 e affermarsi definitivamente nel 1975 con Un biglietto del tram che contiene il loro brano certamente più celebre, Stalingrado, che recita:
Fame e macerie sotto i mortai
Come l’acciaio resiste la città
Strade di Stalingrado di sangue siete lastricate
Ride una donna di granito su mille barricate
Sulla sua strada gelata la croce uncinata lo sa
D’ora in poi troverà Stalingrado in ogni città.

La memoria dimentica certe loro politiche evasioni leggere in una musica beat che si avvicinava ai cantacronache. Quasi più conosciuti ed apprezzati all’estero, come in Germania, che in Italia gli Stormy Six sono certamente tra i complessi più politicamente impegnati e sono molto “interni” ai movimenti che attraversano quegli anni. La loro è una musica più “cameristica” che “sinfonica” e si apre raramente ma procede a singhiozzi con insoliti riferimenti e cambiamenti di ritmo per quello che si scrive da noi.

L’orchestra dei fischietti

Quando meno te lo aspetti
è scoppiata la realtà,
è l’orchestra dei fischietti
che dà la sveglia alla città,
dà la sveglia coi tamburi
e nessuno dormirà,
scrive in rosso sopra i muri
e spacca il mondo in due metà.

Non è un coro di cherubini sul tapis roulant
salta e fischia con la forza del sogno
e con la semplicità del bisogno
Non è un coro di cherubini sul tapis roulant
salta e fischia con la forza del sogno
e con la semplicità del bisogno

Niente resta uguale a se stesso,
la contraddizione muove tutto.
Niente resta uguale a se stesso,
la contraddizione muove tutto.
Niente resta uguale a se stesso,
la contraddizione muove tutto.
Niente resta uguale a se stesso,
la contraddizione muove tutto.

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Da questo mese è terminata la mia collaborazione con il sito-rivista-amicale fulminiesaette e pertanto anche l’appuntamento mensile del 15 con La colonna sonora proseguirà qui per i post che erano già stati, in anticipo, preparati.

Musica e dada

musicaAncora un modo diverso di fare musica e di approcciar visi e riferimenti diversi da cui partire per una musica che l’autore stesso definisce come “stupide canzonette”. Coretti alla Beatles, irriverenti, cambi di ritmo e armonici, rumori mescolati ai suoni come in Stockhausen; è già presente tutta la sua filosofia musicale. Quelle stupide canzonette vengono da lontano e cambiano, a modo loro, il modo di fare musica.

col11musica1Maschere per un dialogo. Tecnica mista su cartone telato di Mario DG

Ancora una volta il riferimento, il passato, viene da un ambiente a suo modo estraneo a quello dell’industria discografica del momento e della “musica leggera”. Certamente memore di un mondo blues ma contestualmente amante della musica contemporanea e in particolare, in modo evidente, delle esperienze di Edgar Varèse, etc. il suo modo di concepire e proporre musica richiama lo sberleffo iconoclasta dell’esperienza del dadaismo. Spesso il suo è un prendersi gioco dei miti del momento (anche discografici; vedi We’re Only in It for the Money del settembre 1968, da cui è tratto il pezzo che ho scelto). Ci raggiunse prima la sua immagine seduta sul water della sua musica allora con la sua creatura, i Mothers of Inventions, parliamo di Frank Zappa (Baltimora, 21 dicembre 1940 – Los Angeles, 4 dicembre 1993).
Chitarrista ma soprattutto maestro di cerimonie. Costruttore di un universo di musica assordante e debordante, a velocità spaventosa. Fin troppo prolifico fin quasi a rischiare di apparire prolisso eppure mai scontato o banale.
Sfrontato fustigatore e fustigato: spesso, anche a suo dire, la casa discografica interveniva in fase di missaggio nascondendo le parole dietro la musica perché le sue stupide canzonette graffiavano davvero quella AmeriKa perbenista. Troppo curioso per essere facilmente etichettabile.
Chiunque lo accompagni rischia d’essere un comprimario. Qui, Frank Zappa (guitar, piano, lead vocals), lo troviamo con Billy Mundi (drums, vocals, yak), Bunk Gardner (woodwinds), Roy Estrada (electric bass, vocals), Don Preston (retired), Jimmy Carl Black (drums, trumpet, vocals), Ian Underwood (piano, woodwinds), Motorhead Sherwood (soprano, baritone saxophone), Suzy Creamcheese (telephone), Dick barber (snorks).
Frank Zappa and The Mothers Of Invention: Mom and dad:

Mom and dad

Mamma e papà

Mama! mama!
Someone said they made some noise
The cops have shot some girls & boys
You’ll sit home & drink all night
They looked too weird…it served
Them right

Mama! mama!
Someone said they made some noise
The cops have shot some girls & boys
You’ll sit home & drink all night
They looked too weird…it served
Them right

Ever take a minute just to show a real emotion
In between the moisture cream & velvet
Facial lotion?
Ever tell your kids you’re glad that
They can think?
Ever say you loved ‘em? ever let ‘em
Watch you drink?
Ever wonder why your daughter looked
So sad?
It’s such a drag to have to love a plastic
Mom & dad

Mama! mama!
Your child was killed in the park today
Shot by the cops as she quietly lay
By the side of the creeps she knew…
They killed her too.

Mamma, Mamma
Qualcuno ha detto che hanno fatto un po’ di rumore
La polizia ha sparato a delle ragazze e a dei ragazzi
Tu stai a casa e bevi tutta la sera:
Sembravano degli strambi
Serviti a dovere.

Non hai mai trovato un minuto per mostrare un’emozione sincera
Sotto la crema detergente e la lozione per il viso?
Non hai mai detto ai tuoi figli che sei contenta che abbiano la testa a posto?
Non gli hai mai detto che gli vuoi bene non gli hai mai mostrato che bevi?
Non ti sei mai chiesta perché tua figlia è sempre così triste?
E’ così noioso dover amare una Mamma e un Papà di plastica.

Mamma! Mamma!
La tua bambina è stata uccisa oggi nel parco
Le hanno sparato i poliziotti mentre era sdraiata tranquillamente
Vicino alla gentaglia che frequentava…
Hanno ucciso anche lei.

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Fino a questo momento abbiamo visto quasi sempre esempi di cantanti che scrivono la loro musica ma ci sono anche coloro che reinterpretano canzoni di altri e voci che ispirano la scrittura di musica. La canzone è un’alchimia strana e resta importante il modo in cui se ne prende possesso a come la si fa propria o la si “consuma”. Ricordo una lontana arguta argomentazione del prof. Massimo Cacciari sul perché della definizione di popolare per la musica.

Composizione grafica di Mario DG – Spazio scenico: Omaggio a Erwin Piscator.

Per parlare di interpreti di canzoni di altri per la prima volta ci siamo affidati ad una donna. Una donna che in vari modi attraversa tutta la scena, anche temporale, di questa musica. Questa musica che non è solo semplicemente musica, dal beat degli anni sessanta, anzi già da prima, fin dal Rock and roll, cioè dagli anni cinquanta, dal primo dopoguerra, è modo di essere, mondo, appartenenza, sentire comune. Magari anche di questo aspetto ne riparliamo.

Solo una sacerdotessa del rock eccessivo e coraggioso come Marian Evelyn Gabriel (Marianne) Faithfull (Hampstead, 29 dicembre 1946) poteva permettersi grandi dischi seguiti da silenzi da sembrare interminabili. Solo lei, lei la vestale del rock, lei che sembrava lasciarsi cercare indifferente, lei figlia della baronessa Eva Erisso (ballerina e attrice proprio della corte di Bertolt Brecht e Kurt Weill) discendente diretta del Conte Leopold von Sacher-Masoch; solo lei, dicevamo, poteva uscire dopo tre anni di silenzio con un pezzo come Sex with strangers, dove, se vogliamo, gli estranei sono un manipolo di giovani talentuosi musicisti del circuito alternativo coinvolti nella sua ultima fatica Kissin’ time; e la vecchia interprete ruggisce ancora. Questo e altro è permesso alla signora Marianne Faithfull, la diva, l’appassionata di Rimbaud e l’interprete, appunto, di Kurt Weill; la splendida sopravvissuta agli eccessi degli anni d’oro e d’inferno del rock, la donna passata sulle cronache di tutti i tabloid del mondo per essere stata la groupie amante (tra gli altri) di Mick Jagger, dunque, come vuole la letteratura, la sua dea.
Mica cosa da poco “fare sesso” con i giovanotti che potrebbero essere i propri figli (e metaforicamente lo sono): Beck, l’ex Smashing Pumpkins Billy Corgan, Damon Albarn dei Blu, Jarvis Cocker dei Pulp. Eppure c’era da aspettarselo: la grandezza di Marianne sta nell’essere stata sempre capace di vivere con aderenza invidiabile il tempo, seguirlo e modificarlo con il portamento di una diva, reinventarsi, scegliendo la crema dei musicisti di sempre, conducendoli per mano con la sua eleganza atemporale. Quel Kissin’ time di Marianne (uscito il 4 marzo 2002) non è un capolavoro assoluto, ma è un graffio alla pochezza di tanta musica dei nostri giorni: un esempio di grandezza interpretativa (chi non è stato turbato dalla sua voce calda e inquieta che si muove sinuosa attraverso gli ultimi trent’anni di musica?), di fantasia e di languida verve compositiva.
Quando il cinema la cerca si fa trovare da grandi registi o interpreti. Lei ci passa attraverso come non fosse altro che vita. Come è passata attraverso il tunnel della droga; è lei Sister Morphina. Come ha attraversato la storia di questa musica lasciando in mille modi il suo segno; forse altrettanto distrattamente; sempre lei la voce (con Anita Pallenberg) dietro Sympathy for the Devil. Come ha continuato guardando un cancro diagnosticatole nel 2006; con la voce piegata e tormentata dal suo male di vivere e dal suo vizio. Esisterebbero il pop e il rock se, fin dagli inizi, non fossero esistite figure come lei? Certo sarebbero musica e mondo diversi. E’ la vita che la consuma e quel vivere la storia di quel mondo.
Certamente le sue cose migliori stanno da altre parti. Agli inizi o, in epoca più matura, in dischi come, ad esempio, Dreaming my Dreams del 1977 (dopo essere stata costretta a vivere in un tugurio a Chelsea senza acqua né elettricità) o Broken English del 1979. Il tempo è sempre un giudice molto severo. Qui torno indietro al 1996 per frugare in 20th Century Blues e scegliere, per oggi, la conosciutissima Pirate Jenny. Rimando magari ad altro post una riflessione più articolata sul tema ma comincio a chiedermi se le parole di Bertold Brecht e la musica di Kurt Weill (dei quali risentiremo parlare) sono localiste o universaliste, comunque questa Marianne Faithfull, che sputa in faccia come uno schiaffo e un rimprovero, a piena voce, le parole di Brecht è la stessa dolce e calda e delicata voce di ragazzina che rese famosa la “As Tears Go By” dei Rolling.

A chi ha avuto la pazienza e l’affetto di seguirci fino a questo punto regaliamo la splendida versione (Lampante) che Lella Costa dà nell’album “Danni collaterali” della canzone della cantautrice Ani DiFranco: Self Evident

E per non farci mancare nulla posto sotto l’originale di Ani DiFranco:

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Vorrei che fosse un invito a leggere o rileggere musica, questa musica, queste pagine, e comunque la musica. A fermarsi ed ascoltarla con le orecchie, con la mente, col cuore, e a lasciarsi andare. Ad acquistare il disco perché credo che il disco vada ascoltato per intero, soprattutto quelli di cui si sta parlando. Anche perché, in questi casi ogni scelta è molto dolorosa.

Fotocomposizione Mario DG

Come s’è detto è una musica prevalentemente cantata e una delle ragioni di questa musica sono le storie che riesce a disegnare; con cui parla all’ascoltatore (oltre alle atmosfere in cui riesce ad immergere l’ascoltatore). Quelli che vengono chiamati impropriamente cantautori nei casi più fortunati sembrano dar voce a noi stessi, cantare quello che non riusciamo ad esprimere (qualcuno li ha definiti come i nuovi poeti). A volte disegnano ritratti. A volte si confessano e l’ascoltatore si trova nel ruolo di colui che si denuda. A volte riescono a regalare emozioni e sentimenti.
Come in una buona pietanza devono risaltare tutti gli ingredienti così ci sono gioielli che riescono a fondere varie radici mantenendone inalterata la fragranza. Spesso la musica diventa un’esperienza personale che viene condivisa, una sonorità ed un mondo unico. Qui parliamo di un’altra donna di musica: Joni Mitchell, pseudonimo di Roberta Joan Anderson (Fort Macleod, 7 novembre 1943).
Joni Mitchell non è solo nota per la sua musica e i suoi testi estremamente ricercati e poetici, ma anche per la sua passione e talento per le arti pittoriche. È lei stessa infatti a dire: “Sono prima di tutto una pittrice, poi una musicista…”. I critici l’hanno definita la prima donna ad aver avuto il coraggio di imbracciare una chitarra e cantare della vita dal punto di vista femminile.
Sarebbe una semplice cantautrice di ispirazione folk se la sua memoria non orecchiasse a Schubert e Mozart (compositori molto amati) e non fosse affascinata dai confini che esplora e travalica il jazz che le gira intorno (all’epoca di parla di Hard bop). Alla fine, a nostro modesto avviso, lei inventa un modo di scrivere musica molto distante da quello usato fino ad allora dagli altri cantautori e le contaminazioni si fondono in un risultato pieno di fascino.
Per queste, e per tante altre ragioni, artisti anche molto differenti tra loro, come Björk, Tori Amos, Cyndi Lauper, Prince, K.D. Lang, PJ Harvey, Ani DiFranco, Diana Krall, Elvis Costello hanno spesso fatto riferimento a lei come fonte di ispirazione; traguardo da raggiungere.
Volutamente non è stata scelta una delle sue canzoni più celebri come Woodstock ma un pezzo dall’album meno fortunato della sua carriera ma non per questo il meno bello (l’unico a non aver venduto almeno mezzo milione di copie) ne meno suo. Un album, Mingus del 1977, per il quale le musiche sono state scritte non da lei ma dallo stesso Charles Mingus e che il grande Jazzista non fa a tempo a vedere realizzato. Joni alla fine scarta l’idea di una band acustica, nonostante quello fosse il desiderio del compianto Mingus, e si serve di una formazione comprendente: Herbie Hancock alle tastiere, Wayne Shorter al sassofono, Don Alias alle percussioni, Peter Erskine alla batteria e Jaco Pastorius al basso. Si potrebbe tranquillamente dire: il meglio che poteva offrire l’ambiente jazz del momento.
Per questo ascolto abbiamo scelto “God must be a boogie man” (Dio deve essere nero) di cui proponiamo una traduzione che cerca di rispettare il più possibile lo spirito del testo originale. Mi piace pensare che qui Dio non sia solo nero ma che sia un suonatore nero di boogie.


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