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Archive for luglio 2017

Ogni tempo ha il suo tempo. Inesorabilmente tutto passa e tutto cambia. A certe cose è più facile adattarsi, anche velocemente, per altre la cosa può risultare un poco più complessa. La gente preferiva la città, ma la viveva chiusa dentro i muri di casa. E ormai il fascino irresistibile delle immagini aveva sostituito ogni comunicazione, anche i dialoghi famigliari. Prima era morta la radio. Poi il cinema. Poi la televisione. Il tutto sostituito dalla programmazione della rete. Da quella sorta di grande fratello che di fatto decideva per tutti, e dei gusti di tutti.
Ho cominciato a presentire l’enormità del problema una sera al ristorante, forse in modo falso, scorretto e approssimativo. Ma a volte bisognerebbe dar retta anche alle sensazioni e quella era in verità forte. Stavo tranquillamente mangiando con Claudia quando li ho visti. Nel tavolo vicino al nostro era seduta una famiglia di quattro persone. Il padre, la madre e la giovane figlia avevano tutta la loro attenzione rivolta verso i minuscoli schermi dei loro smartphone, il ragazzo invece stava smanettando indaffarato con il suo iPad cercando di portare un boccone alla bocca senza distrarsi da quello che vedeva e ascoltava attraverso gli auricolari. Nessun’altra comunicazione interagiva tra loro. Sul momento mi sono augurato che avessero una semplice digestione.
È spaventoso pensare che oggi si possa racchiudere tutto il mondo, una vita intera, in una piccola pennetta. Credo che siano fantastici i racconti senza nessuna interruzione pubblicitaria. Ne ho parlato anche con la mia compagna. Temevo che quello sarebbe stato l’ultimo libro, ne avevo quasi la certezza. Oltre le copie omaggio del povero autore l’unica incredibile vendita si era verificata in una banlieue, e il cliente non aveva voluto lasciare il nome. Era un romanzo con una storia d’amore e di follia ambientato nel 2017. I giornali in rete ne avevano parlato solo come di un povero svitato anonimo. L’editoria era definitivamente finita e nessuno sarebbe stato più disposto a metterci il becco di un quattrino.
Mi sono ricordato di fahrenheit 451, un vecchio film lungimirante di molti anni fa. Se non sbaglio di François Truffaut del lontano ‘66, da un libro che, se ben ricordo, doveva essere stato scritto nel 1953 da Ray Bradbury. Il titolo credo si riferisca alla temperatura a cui comincia prendere fuoco la carta. E ho anche ricordato famosi roghi antichi ma anche relativamente recenti. Anche nel nostro parlamento è stata recepita in legge quella che era stata fatta passare come una semplice indicazione di diritto internazionale. Era stata adottata anche la plausibile motivazione che la decisione era atta a preservare la restante flora del pianeta, cioè a combattere la sua desertificazione e l’abbattimento di quel gran numero di piante a fusto alto, soprattutto nella foresta amazzonica, ma non solo. Di era anche detto anche per ridare respiro al globo. Così, per legge, sono stati invitati tutti i cittadini a liberarsi di quegli ormai inutili oggetti, residui del passato, che consistevano nei libri. Senza roghi né troppo chiasso.
Il buon popolo ubidiente aveva subito dato seguito alla disposizione. Nessuno aveva voluto essere meno alacre di altri o ritrovarsi additato a pubblico ludibrio, oggetto dei pettegolezzi. Io ho preferito inscatolare i miei volumi sopravvissuti, invero non pochi, che tanto mi avevano dato e che spesso avevo così violentemente e incondizionatamente amato e nasconderli giù in cantina. Ho ripreso in mano e ricominciato a leggere quella stupenda storia contenuta nelle pagine ormai stropicciate del “Don Chisciotte”. Mi è stato riferito che pare ci sia un popolo che legge ancora, ma solo “Il corano”. Il risultato delle disposizioni legislative è visibile nella foto.

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Non mi aspettavo di vederla arrivare. Invece è venuta spesso a trovarmi in ospedale; preoccupata. Inizialmente con circospezione. Mi ha portato anche i saluti di Giangi. Una scatola di biscotti secchi. Da allora non mi ha più abbandonato. Si è presa cura di me. Non mi ha lasciato mai da solo. Mi ha seguito in tutto e per tutto. Mi ha fatto da infermiera. Mi ha riempito di attenzioni. Anche e soprattutto quando mi ha riportato a casa. Un poco si sentiva anche in colpa. Un poco era preoccupata. Ho cercato di rassicurarla. Di tranquillizzarla. Consapevole dei sacrifici che faceva. La prima parola che son riuscito a dire chiaramente ancora ricoverato, senza incespicare e sputacchiare, è stata Marisa. Mette sempre poco trucco. Non è questo che la fa bella. Mette sempre una maglietta e i jeans, o quasi sempre. A volte indossa la gonna ma mai troppo corta. Dice che non si sente sicura. Che non si sente bene. Libera. Che non si piace. Che così è più pratico, anche e soprattutto per badare a me.
Non mi fa mancare niente e nemmeno io lo faccio. In realtà è una vera ghiottona, anche in fatto d’amore. In un certo senso la mia disgrazia è stata anche la mia fortuna. La nostra fortuna. Le cose vanno a meraviglia. Non potevo e non potrei chiedere di più; di meglio. Mi spinge con la carrozzina in salotto. Mi si china davanti per fissarmi negli occhi. Mi invita a indovinare. Non riesco ad immaginare cosa possa avere per la testa. Si ricorda e mi ricorda che poi non siamo mai arrivati alla casa al mare. Lo ricordo bene anch’io, con un tuffo al cuore. Non mi aspettavo certo che me lo chiedesse. Dev’essere in un disordine incredibile. In completo abbandono. Le dico che non è più stagione. Alza le spalle. Dice che non fa niente. Perché no? Che è curiosa. Che gliel’ho promesso. Che magari possiamo fare solo due passi sulla sabbia anche se il mare è cupo. Starcene lì buoni e tranquilli a goderci la pace. Con malizia: “A godercela tutta”.
Per lei non mi sento mai stanco. Stavolta prende su un po’ meno bagagli e sembra avere meno fretta. Le ricordo del telo mare. Mi ricorda che non abbiamo poi perso molto. Ci siamo semplicemente risparmiati la pioggia. E ride. Anche se era piena estate. Forse sarebbe stata la mia grande occasione. Di occasioni ce ne sono state altre. Senza che nemmeno dovessi cercarle. Mi ha riportato a casa e si è stabilita con me. Poi la frequenza, la presenza, tutto ha fatto il resto. Ricordo come ora il nostro primo bacio. È stato casto. Era ancora solo una ragazza. Si era abbassata per pulirmi le labbra col tovagliolo perché avevo un po’ sbavato. Dopo un secondo ne ho approfittato e lei ha chiuso gli occhi e spento la televisione. Avrebbe dovuto aspettarselo. Avevo resistito anche troppo avendola così vicina. Certo forse aiutato dalla malattia. L’innocente morigeratezza è durata un attimo. Mi sono accorto che ne avevo voglia e subito che quella voglia era destinata a non estinguersi mai. A non darmi tregua. A non trovare pace. Incredibile. Non posso certo lagnarmi. Il tempo è passato e con lei è volato via. Come potrei rifiutarle qualcosa. Sta sacrificando l’intera vita per me, ma quando lo dice lo dice senza rimpianti: “Ormai siamo una coppia”.
Voglio guidare io la macchina. Non ho ancora smesso la carrozzina e non so se potrò mai farlo, ma posso mettermi al volante. Alla fine cede. Fa fatica a sistemarla nel bagagliaio. Infila la cyclette nel sedile dietro. Amo troppo essere coccolato. Le sue attenzioni. La sua passione. Tutto di lei. In verità col bastone potrei camminare e muovermi indipendente, almeno per casa, però sono troppo legato alla mia dipendenza. Per leggermi al mare si è portata: Il caso Malaussène-Mi hanno mentito[1] appena uscito. Ha preso anche un altro paio di libri che non ho fatto a tempo a vedere. Non so quanto si voglia fermare. Non me l’ha comunicato. Spero mi abbia portato tutte le medicine.
Come prende posto alla mia destra qualcosa cancella gli ultimi tempi, tutti i brutti momenti, la sofferenza, il ricovero, le cure, le menomazioni. Lei ridiventa la ragazzina di allora. Sembra impossibile. La stessa e con la stessa spensieratezza. Io ritrovo energie perse. Tutto il resto è semplicemente cancellato. Non è poi cambiato così tanto. Continuo a pensare che ha un sorriso fresco. Ma è anche carina. Penso meno che sia fin troppo giovane. Però non è tutto. È come se fossero passati solo quindici giorni in più. Forse nemmeno quelli. Dovrei essere prudente, e guido prudente, per il resto lei è più forte di qualsiasi mio proponimento.
Ti ricordi di quella volta? Sai, è stato buffo. A parte il finale. Non me lo sarei aspettata. Ce l’hai ancora quella fotografia nel cellulare? Hai visto, ho messo gli stessi abiti. Stessa maglietta. Stessi jeans. Credevo di averli buttati. Uguale anche tutto il resto. L’ho deciso mentre ti preparavo l’iniezione. Sai, penso di tenerle come sono. Di non farle ridurre. In fondo non mi dispiace. Ci sono abituata. Ho capito e non mi da più fastidio se non fanno altro che guardarmele; anzi. Che poi che male c’è. Non è un peccato distribuire un poca di gioia. Di fantasia. Non mi costa quasi niente. Forse è solo perché so quanto piacciono anche a te. Proprio per questo. Vorrei farle vedere solo a te. Ancora e ancora. Ora come stai? Come ti senti? Un po’ d’aria non può farti che bene. Farci bene. Ho già appetito. L’odore del mare. Vediamo. Subito. Non farmi ancora qualche scherzo. Avvertimi se… Ma il medico ha detto che ti sei ripreso del tutto. Che posso stare tranquilla. Non che gli abbia… Insomma è fiducioso”.
Stavolta non mi chiede di fermare la macchina. Se per un attimo non fosse insolitamente silenziosa rischierei di non accorgermene. I gesti sono gli stessi. Ride. Ha sempre quei due lapislazzuli. Tira su la maglietta e le estrae dal reggiseno. Tutto come la prima volta. Non alza gli occhi, anzi si guarda compiaciuta, mentre quelli di quei due enormi meloni guardano ognuno dalla parte opposta; dondolanti. Sembra anch’essa affascinata da quelle meraviglie. Forse non ha ancora vinto un ultimo residuo di imbarazzo. Certo non sono più una novità. Da allora li ho visti spesso. E mi hanno riempito le ore. Rallegrato e sostenuto. Sono stati una consolazione nei momenti bui. Comunque sono sempre un’emozione. Anche stavolta resto senza parole e senza fiato. Non ci farò mai l’abitudine alla sua disinvolta monelleria: “Però così mi fa un po’ di pancetta; non trovi”?
Resta così a parlarmi mentre continuo a guidare. Si è riproposta di portarmi a visitare una mostra su Max Ernst e le avanguardie del novecento. È una minaccia? Io povero invalido. Quando torniamo. Se ne avremo tempo. Sono un sempliciotto. Amo il realismo. Vorrei vivere dentro un quadro di cui capisco quello ch’è ritratto. Ne “L’origine del mondo”. Se lo dico mi chiede se non riesco a pensare ad altro. Stavolta sta leggendo “L’amica geniale[2]”. Crede sia il primo di Elena Ferrante. Come se potessi non essere estremamente attento a tutto quello che fa. Che ha sopra il comodino. Anche questo non sa se è adatto ad un uomo. Mi parla di un film dei Coen, ma forse è un serial televisivo. Ora sa che sono della vergine. Non so che dire. Vorrei che si riempisse la bocca solo di me. Meglio che faccia attenzione solo alla strada. Mi suona il cellulare. Guardo: è Enza. Non mi va di risponderle. Le avevo detto di non chiamare. Che ero in una clinica, credo di essermi inventato Bosconuovo, se ricordo bene, per degli esami di controllo. Che sarei stato irraggiungibile. Forse le dovrei delle spiegazioni. Quasi quasi lo spengo quel maledetto telefonino. Suona anche il suo e lei risponde civettando. Poi si scatta un selfie e lo invia. Intanto un paio di macchine ci sorpassano. I guidatori non restano indifferenti quando sorpasso io. Gli altri non possono vedere e nemmeno immaginare. Me ne rendo conto.
Sempre impaziente? Avrei potuto almeno lasciarmi il tempo di toglierlo il reggiseno. Lo so. Volevo rivedere quella faccia. Coglierti di sorpresa. Ti spiace? Sei contento? Allora ha funzionato. Mi sento com’ero. Come se riavessi i miei diciott’anni. Avvertimi però subito se qualcosa non va. Non farmi stare in pena. Voglio essere tranquilla. Mi viene da ridere. Mi ero fatta una strana idea di te. Ti credevo… si insomma… Ti credevo uno a cui piace la gnocca. Ma non così… Così. Scusa. Che mi avessi invitata al mare solo per quello. Ero decisa a dirti di no. Forse. È buffo, abbiamo avuto così tanti ricordi e nessuna concretezza. Quel mare l’ho visto solo in cartolina. Posso dire che il nostro è stato un incontro molto casto. Anche se non abbiamo deciso solo noi. Se ci ha messo lo zampino il destino”.
Non vorrai farti vedere da tutti? Che tutti ci guardino”?
E perché no”?
Ride e sembra divertita dall’idea. So che è mia. Si toglie il reggiseno. Lo stesso a fiori. Senza acrobazie, le basta slacciarlo dietro. S’è ricordata proprio di tutto. Del minimo dettaglio. Rimette la maglietta. Peccato. Le sue due giganteschi montagne di delizie, quelle due meravigliose meraviglie, dondolano in libertà sotto la leggera stoffa. E dondolano dolcemente ma nervose e molto dinamicamente, con una certa energia. Sobbalzano. Sbatacchiano. I suoi gonfi sorprendenti airbag. Dovrei non pensarci ma come posso farlo? Se me li sbatte sotto il naso? Io non ne sono insensibile. Spero solo non provi freddo. Lo so che lo fa solo per me. Forse dovrei dirle che è bella. Che non si deve preoccupare. Credo sia del tutto inutile. Naturalmente viaggia senza cintura. Spero non ci fermino per quello. Diversamente non si potrebbe muovere con quella disinvoltura. Anzi starsene così ferma e così comoda. Appoggiata alla portiera e con le braccia allargate. Non sarebbe riuscita a rispondere.
Alla radio danno un bel programma di musica anni ottanta. Lei preferisce Rachmaninov. Pazienza. Mi chiedo ancora, come allora, se è soda e morbida allo stesso tempo. Allora non abbiamo avuto il tempo per niente. E forse nemmeno lo avremmo mai avuto. Sono stato lì lì per morire per cominciare a vivere. Per fortuna. Ora è tutto uguale e tutto diverso. Ora ci conosciamo. Ora conosco tutto di lei. Non conosco quei suoi diciott’anni. Quest’età come per miracolo ritrovata. Ho tutta l’intenzione di conoscerli tutti. Bene. Senza rimpianti. Senza fretta. Non capita tutti i giorni di avere una seconda occasione. I jeans sono bassi; pieni. La corda è tesa. La prego di slacciarla: “Voglio vedere”…
Se ho gli stessi slip? Ho fatto una fatica infernale per infilarli. Non so se ci riesco di nuovo. E poi non lo potresti sapere. Allora non hai fatto a tempo a vederli. Però… perciò… Non li ho messi. Se vuoi lo slaccio, però non vedi che cose che hai già visto. Però allora”…
Non c’è un allora. C’è solo un’ora. Un adesso.

2. Ancora una volta mi trovo a continuare io, ma stavolta nessuna tragedia. Per fortuna nell’occasione non è stato il male a togliere la parola a Niero. Era meglio che si limitasse a fare solo quello che stava facendo. Che non si distraesse troppo. Ero in ansia. Stavolta semplicemente perché era meglio che pensasse solo a guidare. E poi è di là finalmente che dorme il giusto riposo del guerriero dopo l’aspra battaglia. Perché, testardo, ha voluto guidare lui. Non che mi fidi troppo. Preferisco avere in mano pienamente il governo delle cose, come per la casa. È stato irremovibile. O guido io o mi riporti in camera. È stata una scelta difficile, dolorosa, ma poi ho scelto il mare. Ma andiamo con ordine, perché è certo che chi legge vorrebbe anche sapere. Ma non so se il pudore mi consente di ammettere che averlo sempre lì così… entusiasta è una cosa entusiasmante. Che non avrei mai creduto possibile. E forse avevo ragione. Ma lui non è come gli altri. Ero curiosa. Mi ha spiegato che lo è stato, come gli altri. Fin prima di restare invalido. Ma gliel’ho chiesto con il dovuto tatto. Con quel minimo di pudica delicatezza che si addice ad una ragazza, ad una donna.
Eravamo rimasti in viaggio. Voleva che li togliessi. Ho fatto una fatica di Sisifo, il figlio di Eolo e di Enarete, per infilarmi in quei jeans come un’anguilla. Sarei dovuta sbroccare per farlo, in piena autostrada. Che poi è solo una semplice provinciale. Col rischio di dover scendere e raggiungere casa svestita. Ma un uomo come lui avrà anche dei limiti ma ha anche dei pregi, e molti. In più a una donna da sicurezza: lei sa che comunque lui è lì, sempre lì per lei. Non può scappare. Se ne sta buono in casa anche davanti alla televisione. Oppure dietro ad un giornale. Mentre io fatico. Se gli serve chiama. A mia completa disposizione. Però questa cosa straordinaria di essere tornata quella di un tempo non so ancora come la saprò gestire. Gli dico che dovrà avere pazienza. Che se mi vuole così ragazzina dovremmo ricominciare tutto da capo e mi dovrà insegnare nuovamente tutto: “Scorda tutto. Sarà la nostra vera prima volta”.
Orami lo conosco bene. A volte fatico ma non mi sta ad ascoltare. Anche quando parlo solo per il suo bene. O con la “p” che sostituisce la “b”. So bene che avrebbe voluto che mi riempissi la bocca solo di lui. Che lo riempissi di cose gentili. Che lo lusingassi. A volte non mi va proprio di farlo. Anch’io ho i miei momenti no. Non sono una macchina. Posso avere dei pensieri e dei grattacapi. Delle preoccupazioni. Già lui me ne ha date, fin dal nostro inizio, sempre tante. Anche senza volerlo e non per colpa sua. Debbo stare sempre all’erta. So anche com’è lui quando si annoia ed è nervoso. Quando è irrequieto e impaziente. Non sta più sulla pelle. Come al chilometro ventisette.
Riesco a trattenerlo fino all’autogrill, dovrò pure fare la spesa se vogliamo metterci qualcosa nello stomaco quando arriviamo, e per riassettare un po’. Ingerire. Potevo usare quella invece di mettere. Ingurgitare. Mi mette in testa una buffa idea. Perché no? Spero non gli faccia male. Faccio gli acquisti in fretta per tornare da lui che aspetta. La sa bene che non mi piace il turpiloquio, le sconcezze. Devo rimproverarlo spesso. Qualcuna gliela perdono. So che non lo fa per cattiveria, che non le pensa veramente, gli vengono dal cuore; spontaneamente. A volte persino come veri complimenti.
Per farlo stare buono gli prometto la più meravigliosa irrumazione della sua vita. Dalla buffa faccia che fa capisco al volo che non ha capito. Gli dico che sarò la sua Linda Susan Boreman, ovvero la sua Linda Lovelace e che gli interpreterò tutte le scene del film fino al nostro arrivo. Sono praticamente certa che non sa nemmeno chi sia. Eppure dovrebbe essere una pellicola dei suo tempi. Si è fatta fotografare anche con i Kiss. Eppure lui è appassionato di quel cinema e quella musica. Anche lei ne aveva tante, se ben ricordo, ma non così tante. Non so se sono brava come lei ma ho tanta voglia di imparare. E ho proprio tutto quello che aveva lei; come lei. Lo metto buono. Sono una che mantiene le premesse e le promesse. Forse di questo sarei più assennata a non parlarne. Spero non gli faccia male. Continuo il resto del viaggio accovacciata senza vedere la strada. Sto scomoda, con una pazienza penelopea, da madre di Poliporte eccetera. Non sono una che se la tira e si da arie: “Però stai tranquillo”.
Smetto solo quando lui frena. Spero che stia bene e non sia troppo stanco. Lo sistemo nella sua carrozzina e un po’ un po’ alla volta porto lui e poi tutto il resto fin dentro casa; cyclette compresa. Sono proprio affaticata e avrei bisogno di una bella doccia e dal tanto parlare ho le mascelle indolenzite. La casa è un vero macello. Lo so che potrebbe tranquillamente deambulare, magari aiutandosi a un bastone. Gliel’ho preso. Gli ho preparato il regalo per il nostro ritorno. Ormai ha ritrovato quasi completamente anche la sua forza nella muscolatura dei suoi organi inferiori. Me l’ha confermato anche il suo medico e la fisioterapista che lo segue. A quella certe volte vorrei strapparle gli occhi. Per lui ho lasciato gli studi e tutto il resto. Studi e studenti. Anche se l’anatomia è sempre stata la mia passione. L’eterno immortale turgore del suo organo erettile, come dire? quella fantastica tumescenza, che in primis mi ha lasciata senza fiato, mi ha ripagata di tutto. È la conclusione dei miei studi. Mi rende felice. Non mi lascia spazio per nessun rimpianto. Anche se a volte sono quasi stoltamente tentata di pensare ad una pausa, di prendere fiato.
Lui non s’è ancora acquetato, non trova pace. Lui non trova mai pace. Vado su e giù a fare un minimo d’ordine e di pulizia e devo fare attenzione quando sono costretta a passargli vicino perché debbo continuamente scansare le sue mani rapide ad afferrarmi e trascinarmi a distrarmi dalle mie incombenze. Cerca di muovermi a pietà. Mi ricordo che debbo aver dimenticato il reggiseno in macchina. Mi implora ricordandomi che sono stata io a tirarle fuori. I miei maestosi airbag tornati come nuovi. Lo sa che li esibisco così solo per lui. Sarei una scimunita se lo facessi per altro. Spero non gli faccia male. Non lo volevo provocare. Non era nelle mie più recondite intenzioni. Non ne ha sicuramente bisogno. Mettono allegria ad entrambi. L’ho fatto per quello. In modo puramente innocente. Senza alcuna malizia. Volevo rendere leggero e allegro il viaggio. E rivedere quella faccia. La faccia di quella sua maschera. Ma appena entrati li vuole provare. Tolgo la maglietta perché ormai è tutta sudata. Pazienza, finirò più tardi.
Non c’è più molto da spiegare. Tutti sanno come funzione. Si accoccola e immerge nel mio abbraccio cercando di non soffocare, subito estasiato e sognante. Bofonchia alcune parole dai suoni gutturali e le ingoia subito per non farmi adirare. Mi incita come se ne avessi bisogno. Sono quella ragazzina ma certe cose vengono naturali anche a diciott’anni. Una donna le sa da sempre. Le sue dimensioni non sono proprio del tutto trascurabili, tutt’altro, ma in questo caso e in ogni caso non sono proprio un problema. Sono una risorsa. Sono una grazia. Spero che si metta finalmente tranquillo per un po’. Spero che mi chiederà finalmente di sposarlo. So che lo vuole. Forse si fa riguardo. Forse non ha trovato ancora il coraggio. Forse pensa alla sua condizione e crede che non potrei sopportare il sacrificio ancora per molto, in eterno. Ma lui mi da tutto quello che una donna può desiderare.

[1] Il caso Malaussène di Daniel Pennac. Narratori Feltrinelli, Milano – 2017
[2] L’amica geniale di Elena Ferrante. Edizioni e/o, Roma – 2011

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A sera a casa di Santina. Lei sembrava distratta. Smaniosa. Per tutto il tempo se n’era rimasta in silenzio. Senza ascoltare. Mentre noi parlavamo di niente e di tutto. Qualcosa la preoccupava. Era strana. Era agitata. Si dimenava a scatti. Aveva caldo. Aveva sete. Non aveva appetito. Poi aveva ancora caldo. L’abito era scollato. Se si abbassava si vedeva tutto. Le si era risollevato. Non ci aveva fatto caso. Non l’aveva abbassato. Le si vedevano quasi le mutandine. Forse facevano anche capolino. Guardava di fuori. Non c’era una nuvola. Il buio tardava. Era quasi ora di andare. Speravo di non trovare traffico. Poi ho deciso di fermarmi per la partita. E siamo passati in divano. Io, lei e Antino. Con Antino in mezzo. Ha acceso l’aria condizionata. Aveva ancora caldo. Il vestito era tornato là, a mostrare le gambe. Lui l’aveva pregata di ricomporsi. Lei, con gesto di dispetto, lo aveva tirato su e poi rimesso com’era. E s’era chinata a versarsi un brandy dorato.
All’intervallo le squadre sono ancora sullo zero a zero. Non è stato un gran primo tempo. Anche Antino è d’accordo. Niente è cambiato. Nemmeno lei. Ma non sembra nemmeno lei. Lei è… più che Santina è proprio una santa. Mai lasciato adito al minimo sospetto. Sempre composta. Sempre irreprensibile. Prima di… Stasera sembra un’altra. Sembra non si faccia riguardi. Si gratta una chiappa. Annoiata. Le si scoprono ancor più le lunghe gambe. Lui si alza per andare in cucina. A prendere due birrette. Mi sento a disagio. Dovevo andarmene prima. Lei è una bella donna. Lo è sempre stata. Lui è fortunato. Non l’ho mai guardata con quegli occhi. E terreno di caccia dell’amico. Non mi permetterei mai di tradire la sua fiducia. Non lo farei mai. Sono fatto così. E non ce n’è mai stata occasione. In tanti anni. Però… non avevo mai notato che anche di seno non è proprio messa male. Quel vestito le dona. Ma la sembra soffocare. La fa sudare. Le sta stretto. Tutto il mondo sembra le stia stretto.
Così… ecco un’altra lei. Appena uscito lui mi mostra la nuova maschera. Oppure toglie quella vecchia? Con le donne, con donne come lei, non si finisce mai di conoscerle. E non si può mai sapere. Affermare di capirle veramente. Ora mi spiego il prurito che aveva dentro. So che di questa sera mi resterà impressa, in modo indelebile, per sempre quella sua ultima frase. Quella che non ti aspetti mai di sentire uscire dalle labbra di una donna. Anche bella. “Lo so, Giaro, che non lo dovrei fare. Scusa se te lo dico. Ho aspettato. Ho pazientato. Fin troppo. Non lo posso più fare. Mi debbo liberare. Non so tu ma io… Ho bisogno di scopare”.
È il suo compleanno. Non è proprio il regolo che uno si può aspettare… Che gli venga richiesto. Sono arrivato solo con una bottiglia di Barbaresco. Forse non sono stato carino. Forse il tono della sua voce nasconde comunque un senso di rimprovero. Non lo afferro. Forse avrebbe gradito di più delle rose. Un complimento giusto al momento giusto. Non me lo può rimproverare. Non è quello il mio ruolo. Con lei. Non la capisco perché forse non l’ho capita mai. È assurda. E del tutto inaspettata. Questa confessione. Sono troppo amico di lui. Ormai abbastanza anche di lei. La credevo felice. Li credevo una coppia affiatata. Non sono domande che mi potevo porre. E non mi aspettavo tanta confidenza. Non vorrei dirle di no, ma non posso dirle di sì. “Ma Antino”?
Tutto è incredibile. Mi guardo intorno e guardo la porta. Può entrare da un momento all’altro. La partita sta per ricominciare. Lei la mette in pausa. Mi sorride con un sorriso diafano, distante. Un sorriso che si aspetta poco e non si aspetta niente. Rassegnato. Annoiato. Alza le spalle come un singhiozzo. Non fossi certo direi di aver sognato. Più che un sogno sembra un incubo. Una grande confusione. Un pasticcio. Da cui non so come uscire. Non lo doveva dire. Stasera non doveva essere questa lei. Doveva essere sola la solita Santina. La interrogo anche con gli occhi. Non ha bisogno di pensarci. Ha un’aria rassegnata. Sbuffa. “Con lui non c’è niente da fare. Sarebbe inutile”.
Mi accendo una sigaretta per tenere impegnate le mani. Sudano. Tutto io sudo. La guardo con occhi diversi. Cerco di non guardarla. Cerco di capirla. Di capire la situazione. Di crederci. Cavolo. Siamo qui noi due, e lui è di là. È assolutamente imbarazzante. Non so cosa le passi per la testa. Non so perché me l’ha detto. Che cosa spera. Già noi due bastiamo e la stanza è anche troppo affollata. Perché poi confessare quello che non si può avere? Che non può essere? Che è impossibile? Proprio a me. Grida al marito ancora nell’altra stanza, strizzandomi d’occhio: “Caro, fai un po’ di caffè? E ricordati di portare lo zucchero”. –credo si voglia accertare che ci lasci ancora qualche minuto. Poi lei, guardandomi negli occhi, sussurra e mi mette una mano sulla coscia. “Se non ne hai voglia te la faccio vedere. Vedrai che dopo la voglia viene”.
C’è il fondato rischio che venga anche senza essere ulteriormente invitata. Cerco una calma perduta che non trovo. Sembra non se ne renda conto. Se voleva sbigottirmi c’è riuscita. Deve essere impazzita. Non c’è altra spiegazione. Non esiste nessuna soluzione. Reso perplesso: “Come potremmo fare? Con lui”…
Di certo che non possiamo chiedergli il permesso. Ignorarlo. Nemmeno. Nemmeno mi immagino come. Invece sembra averci pensato e aver anche scovato un’idea. Non è granché. Lo dice anche lei. Però, anche questo lo dice lei, tutto è sempre meglio di niente. Tentare non nuoce. Ma crede che potrebbe funzionare. Il suo viso cambia. Diventa d’un tratto furbo. Il sorriso è tutto per me. Dice che, se vogliamo, si può fare. A lei sembra semplice. A me no. “Andiamo in soffitta. Con una scusa. C’è un po’ di polvere, ma c’è anche un materasso. Si può fare”.
Lui ritorna prima che possa risponderle. Meglio, non avevo nessuna risposta. Forse semplicemente avrei rifiutato. In un qualche modo. Forse le avrei chieste se è pazza. Pazza lo è ma… Mette in atto il suo piano subito. È diabolica nella sua candidezza. Glielo comunica quand’è ancora sulla porta. Con le birre e quei caffè nel vassoio con lo zucchero e i cucchiaini. “Caro, ti ricordi quel vecchio album di foto? Volevo farlo vedere a Giaro. Credo sia rimasto di sopra. Vado a prenderlo. Ti spiace? Giaro, mi dai una mano? Vieni.” –e mi prende per mano. Non l’accompagno, mi trascina. Prima che il marito abbia avuto il tempo di aprire bocca. Solo di protestare perché i caffè si sarebbero freddati. E riceve come risposta seccata che faremo in un attimo. E che i caffè possono aspettare. Di fare andare pure, intanto, la partita. E in corridoio si ricorda di prendere un paio di candele perché, mi spiega, sopra s’è fulminata la lampadina. “Così sarà anche meglio”.
Stasera è un film. Ma è solo il suo film. “Però non abbiamo tutto il tempo che vorrei”.
Mi sembra di navigare verso l’ignoto. Sballottato. Cerco di non pensarci. Ci penso. Non è un pensiero preciso. Sono ancora assente. Non la guardo tanto non la riconoscerei. Riconosco però la sua voce, nitidamente. Non mi lascia dire una parola. Non ci provo nemmeno. Intanto si giustifica e si spiega. “Non è che… Potevo chiederti se hai un amico. So quanto ci tieni. Magari ne parliamo un’altra volta. È che… Ne avevo proprio bisogno subito. Scusa”.
Non so come scusarla. Se scusarla. Se scendere in fretta le scale e prendere quella maledetta porta. Che una scusa se la trovi lei. Forse è tutto solo uno stupido scherzo. Al buio incespico e rischio di cadere. Ritrovo l’equilibrio appoggiandomi a lei. Al fianco. Poi la mano scivola e trova la natica. È un gesto d’istinto. Non voluto. Dettato da troppo. Quasi casuale. Quasi naturale. Faccio per toglierla subito. Vedo che lei non reagisce e la lascio. Lei si sorride volgendo leggermente la testa e mi lascia fare col suo consenso. Intanto accende le candele e mi invita di non aver fretta. Perché basta la sua. Continua a farmi strada. Sposta col piede alcune cose. L’aria è poca e rarefatta. C’è un enorme disordine di cose buttate alla rinfusa e poi dimenticate. Se ne scusa senza preoccuparsi più di tanto. Anche meno.
Intanto è tutto precipitato. Comincio ad essere presente. La mia mano continua ad interrogare quella sua geografia segreta. La polvere non è solo un pochina. Il materasso è lì in un angolo. Allarmante. Squallido. Sembra non sia stato utilizzato da un secolo. Non ha nemmeno la pazienza per spogliarsi, si limita a sollevare l’abito e se le toglie. Poi si stende e aspetta. Fiduciosa. Mi guarda. Non pensa di nascondere gli occhi. Mi invita anche con lo sguardo. È troppo tardi. Nel dubbio fa come aveva detto. Preoccupandosi della mia voglia. Non ne avrebbe bisogno. È troppo tardi. Batte il palmo e si alza una nuvoletta. Reprime un colpo di tosse. È troppo tardi. È troppa la voglia di conoscerla. Le faccio uscire un seno. Mostra di non aver tempo per quelle frivolezze.
La bacio e la sua bocca sembra mi voglia ingoiare. Mi guarda con due occhi… Poi ha un tono amaro. Poi ne ha uno dolce. “Sarò io, ma nessuno sembra più voler suonare la mia chitarrina. È che… è passato un sacco di tempo. Non mi ricordo nemmeno quanto. Né come mi dovrei comportare. Fare. Per fortuna che ci sei tu, stasera. Mica avrei potuto chiederlo ad un estraneo”.
È troppo tardi. Il tempo delle parole è ormai passato. Nemmeno io stasera sono io. Non mi credo. Non sono là. Con lei. Cerco di sbrigarmi. Vorrei che almeno ora stesse zitta. Santina, e anche Incoronata (è questo il suo nome per intero), sembra non volersi zittire mai. Avere troppe cose da dire e da rimpiangere. Ma sembra decisa. Finalmente sostituisce le parole ai lamenti e ai sospiri e, alla fine, ai rantolii. E si prende anche il tempo di incoraggiarmi. “Vai che seri bravo”. È la fine. Prima di abbandonarsi ad un grido stridulo. Per fortuna lui non sale vedendoci un poco tardare. O per vedere cosa stiamo combinando.
L’album non lo cerchiamo nemmeno. Non le importa di dire che non l’ha trovato. Magari di dire anche solo qualcosa. Vuole ancora un ultimo attimo per noi. Per una sigaretta. Mi accorgo che assomiglia un poco a Faye Dunaway. Non l’avevo notato. Me le infila in tasca per ricordo. Aspirando sogna, gli occhi al soffitto; persi: “Credo di essermi innamorata. Non di te, sciocco. Tranquillo. È che l’amore finisce sempre in noia. Anche quello più grande. Era da un po’ che avevo pensato di farmi l’amante. Con lui… niente. Con te è stato diverso. Molto diverso. Complimenti. Sei stato proprio un… giaguaro. Conosci Jawaad? Pensavo… perché non mi prendi con te”?
Credo sia meglio che continuiamo ancora con questo discorso. Certo. Non sarebbe educato limitarmi ad una sola volta. Non sarebbe… È troppo bella per non riprovarci. Credo così che sia anche salutare che continuiamo a vederci. Che farà bene a entrambi. Magari una sera alla settimana. Se non è possibile anche più spesso. Mai troppo. Se è possibile anche passare qualche notte assieme. Se la fortuna lo vuole anche qualche fine settimana. Con il marito se la sbrighi da sola. Per me resta un amico. Inutile fare ora troppi piani. Qualsiasi cosa posso programmare sarà questo perché è quello che deve essere. Sarà questo il nostro futuro. Ormai siamo legati per sempre.
Ma, appunto, ogn’uno a casa propria. Credo… Ora che mi sono fatto l’amante… Farebbe male ad entrambi voler cambiare le cose. Questo rapporto. È nato così ed è meglio che così rimanga. Inutile corre il rischio di trasformarlo in noia. Credo avesse ragione lei. Riesco solo ad essere laconico: “Ora credo che dovremmo scendere”.

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Era un po’ che stava li seduto. In quella sala. Che lo guardava con la massima attenzione. Che lo ammirava. Era talmente perfetto che gli era sembrato che alcune delle figure ritratte si muovessero. Un po’ per la curiosità e un po’ per l’ammirazione si era avvicinato. Aveva cercato li leggere la firma del pittore. Ancora più vicino. Si era avvicinato un poco troppo. Certo nessuno ci crederà. Si era improvvisamente, prima ancora di rendersene conto, ritrovato dentro quel quadro. Non aveva notato l’avvertenza: Pittura Fresca.
Da prima incredulo. Poi sbigottito. Si era guardato intorno. Che posto era? Che mondo era? Forse nemmeno era mai esistito. Forse era solo nella fantasia dell’autore. E di certo parlava un linguaggio di un lontano passato. A guardare meglio… In verità le case non erano del tutto proporzionate, ora risultavano un po’ più piccole di quanto sarebbe stato vero. La collina la poteva toccare. Era tutto piatto. C’era poca profondità. Da così vicino poteva notare le macchie di colore; le pennellate.
Aveva ripensato a Dorian Grey, ma la sua era veramente tutta un’altra storia. I cavalli erano imbizzarriti ma immobili. Il villano, sotto il cappello, sembrava non saper come governare i buoi. Un cammino fumava ma non era stagione per avere il fuoco acceso. La macina macinava ma l’acqua era immobile. Sottigliezze. Aveva notato una contadina, carina. Non molto lontano. Vestita e non vestita. Un po’ discinta. I capelli nascosti sotto un fazzoletto. Con la camicetta scollata in modo benevolo. E un sano seno rigoglioso. Insomma era proprio carina. Non sembrava sudata, tutt’altro. Sembrava accettare il suo compito con molta pazienza. Aveva cercato di raggiungerla per chiederle come e dove fosse. Gli aveva subito dato un senso di fiducia. Pensava che lo avrebbe aiutato. Che ne sarebbe stata lieta. Aveva mille altre domande da farle.
Si rese subito conto che poteva muoversi solo in modo lentissimo. Insieme a tutto il resto. Come incollato allo sfondo. Era solo una presenza tra tante. Una figura minuta tra una folla di figure minute. Distinguibili solo da molto vicino. E per quanto cercasse di richiamare l’attenzione della giovane lei non lo notava. Non avrebbe fatto un passo per andargli incontro. A complicare ancor più le cose c’era il fatto che per quanto si provasse a gridare la sua bocca non emetteva un suono. Era muto in un mondo muto. Forse almeno questo se lo sarebbe dovuto aspettare. Non si è mai sentito di un dipinto che parli o che suoni. I quadri sono solo immagini, anche quando sono riproduzioni quasi perfette. Quando sembrano più reali del reale.
Dopo tre giorni e due notti d’immane fatica era finalmente riuscito a raggiungerla, o quasi. Era lì a due passi da lei. Come ebbe modo di scoprire, troppo tardi. Il tempo di miseri, anzi miserandi convenevoli. Di guardarsi. Di scambiarsi le loro opinioni sul tempo e su cosa poteva riservare. In verità lei lo trovava un approccio inusuale e divertentemente assurdo. Lì il tempo non cambiava mai. Di chiederle il nome. Di dirle il proprio. Di sbirciarle brevemente nella camicetta. E lei di assumere molto lentamente un’aria compiaciuta e provocante. Di chiederle se poteva accompagnarla almeno per un breve tratto. Che, ancor prima di poterle chiedere in che posto era capitato, lei gli spiegò che non si muoveva di lì da quasi vent’anni. Che quella era solo una copia. Che avrebbe dovuto sbrigarsi. Arrivare prima. Allora sarebbe stato tutto diverso. Ora non poteva rimanere un istante di più.
“Scusami, devo andare”.
Dove”?
Devo posare in un quadro tutta nuda”.
Posso venire anch’io”?
Mi spiace ma non puoi”.
Perché”?
Per te il maestro ha già in mente un altro soggetto”.
Cioè”?
Lui sa che sarai un perfetto san Sebastiano”.
Dimmi almeno chi è”?
Sei solo una figura a olio. Non sei più umano. Hai esaurito le domande che potevi fare”.
Lui non lo aveva notato, ma vicino c’erano degli spazi vuoti che attendevano altre opere dell’artista. E non aveva la più pallida idea di chi fosse questo santo. Sperava in un santo libertino; senza troppe speranze. Il quadro era veramente realistico, assomigliante al vero, da lasciare senza parole.

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Narrano le cronache del cinquecento (ma anche in tutto il medioevo) le storie di masse in movimento. Di viaggiatori pellegrini. Di un paese attraversato da vere schiere di veri fedeli che per fede o per disperazione con tutti i mezzi raggiungevano o cercavano di raggiungere Roma. Pezzenti. Ignoranti. Coperti malamente di stracci e pene. Di donne abbandonate e di altre vittime. Di orfani che non avrebbero mai conosciuto un padre.
L’Italia è sempre stata un paese di santi, artisti e viaggiatori e ancora lo è. Non solo di viaggiatori informatici ma soprattutto e sempre più di viaggiatori stagionali. Tutto è cambiato e ben poco lo è. Come se il tempo avesse ingranato la retromarcia per tonare a frugare nel proprio passato. La fede è sempre forte solo che di frati se ne trovano sempre meno. E anche di conventi, se vogliamo ricordare, come quello dove allora cercò rifugio e salvezza la bella Catherine Trillet (soprannominata Justine)[1]. Storie troppo spesso di virtù e di violenza e abusi, fin troppe volte tradite o taciute.
Ma la memoria non è né sempre né spesso un rifugio sicuro, confortevole e fedele. Nel paese di Vattelapesca il convento c’era e c’è ancora, quello di Santa-Maria[2]. E anche una basilica dove i buoni monaci Recolletti recitano messa e impartiscono la confessione. E non c’era e non c’è molto altro se non il solito chiacchiericcio di paese atto a condire la vita e fuggire dalla noia. Ma la piccola frazione si va svuotando. Si vedono sempre meno uomini e, anche nei campi, quasi solo donne che hanno rimesso il fazzoletto in testa. I mariti e i compagni continuano a fuggire non per andare a vedere il santo padre ma alla ricerca di un minimo per riempire la pancia e comprarsi il cellulare. Straccioni erano e straccioni restano; con i pantaloni strappati. Nuovi poveri e ugualmente ignoranti. E forse avrebbe voluto chiamarsi Justine ma si chiama Lorna, così avevano deciso i suoi genitori senza chiederle né consiglio né permesso.
E come ogni paese anche il nostro ha le sue saghe e leggende e alla festa del patrono si fa la fiera con le giostre. E il sabato le donne si trovano dal parrucchiere per raccontarsele tra un rimpianto e una risata grassa. Proprio là dove non ci sono le orecchie degli uomini a poterle ascoltare. E allora lasciano ogni riserbo e ogni pudore e spesso fanno uso finanche della loro fantasia illimitata. Era così che era venuta a sentire alcuni aneddoti piccanti, sordidi, squallidi, immorali, e tresche di alcune e molte delle clienti e dei buoni frati. Storie raccontate per biasimare le altre, ma molto più frequentemente di quanto si possa pensare anche storie che le vedeva volgarmente protagoniste di sé stesse. Lei stava ad ascoltare e non aggiungeva fiato, ma, a solo sentirle, avrebbe voluto gridare forte e con orrore: “Io mai”! E poi lei non credeva nemmeno ai rotocalchi.
In verità quelle povere donne altro non fanno che cercare conforto nella confessione all’assenza prolungata del proprio compagno, anche se le colorano un po’ per renderle meno crude. E a sentirle tutte lo fanno per amore e con amore, ma anche, perché no, per trarne un po’ di diletto. E lei, Lorna, ci credeva e non ci credeva; il suo Iunior manteneva ancora aperta la sua officina ed era un esperto bestemmiatore. E qualche sabato saltava la messa in piega per risparmiare e risparmiava per quanto poteva e il suo confessore, fra Raffaele, era un santo e pio servo di Dio. Non ricordava l’ultima volta che era andata dalla sarta per farsi risistemare una gonna, ma ricordava bene tutte le avemarie che le aveva comminato. E per un peccato da poco, un peccato di orgoglio e un paio di calze. Non la scorderà mai quell’ultima volta.
Ancora non credeva a tutte le parole delle sciagurate. Ma c’è la storia delle pentole e dei coperchi. L’autofficina se n’è andata in malora e, come tanti altri, anche il suo Iunior era dovuto partire. Mentre mi racconta sono ormai tre mesi che se ne sta distante e lei nemmeno sa dove. Nemmeno una riga e non ha più credito nel cellulare. Si era messa a dieta e ora è entrata in digiuno. Ha cercato di lavare scale, fare il bucato, stirare o tenere i cani, cose così, niente da fare, non c’è di che sperare, si è trovata ultima di una lunga fila senza fine. Da quelle donne era anche venuta a sapere che i buoni frati danno consolazione e un piatto caldo per lenire la fame. Solo per questo, per disperazione, va e cerca consiglio dal suo buon confessore e si inginocchia davanti a lui: “Ho bisogno di conforto, padre mio”.
Hai peccato”?
Non ho peccato, e come potrei”?
Perché allora vieni davanti a me nell’inginocchiatoio di questo confessionale”.
Buon padre, vedete, sono in una condizione di bisogno”.
Vedrai che c’è sempre la buona provvidenza per una donna che crede e chiede il perdono di nostro signore Gesù cristo”.
Ma come vi posso ringraziare, buon frate”?
“«Vedrete, angelo mio, che non siamo poi così bigotti come sembriamo, ma sappiamo spassarcela con una bella figliola[3]», purché abbia fede e il suo uomo si sia assentato per pellegrinaggio. Solo se lui è in pellegrinaggio”.
Lei non ebbe esitazione e si diede la forza del bisogno: “Certo, padre santo, è in viaggio per Roma per il Giubileo e per chiedere perdono di tutti i suoi peccati alla Madonna”.
Da quanto è in viaggio”?
Ormai sono tre mesi”.
Il padre sogghignando la guardò bene: “Che strada ha fatto? Non ha preso certo una freccia”.
Il poveretto s’è dovuto vendere anche la macchina”.
E cosa gli dirai quando tornerà, se tornerà, e ti vedrà la pancia piena”?
Non potrò che dirgli di ringraziare voi e i vostri fratelli”.
Povera piccola e innocente creatura, voglio dire piena e anche gonfia”.
Intendete dire… ma io non sono in cinta”.
Ma non è ancora suonato il vespro”.
Lorna principiò a capire solo quanto il confessore principiò a sollevarsi la tonaca e la spronò con la sua forte mano ad abbassare la testa invitandola ancora a fare penitenza. Ma lei era una brava moglie e una donna assennata, timorata di Dio e onesta, e scappò scandalizza piangendo con le lacrime agli occhi e gridando che non avrebbe spento quel cero per tutti i peccati del mondo. Quel frate era un uomo brutto e vecchio, che lo chiedesse alla contessa. Ai tempi d’oggi non ci si può fidare proprio più di nessuno. Ma chi come me conosce le storie sa che la fiducia è sempre stata un bene da dare con parsimonia ed estrema attenzione. Lei non aveva mai tradito il marito, per interesse, e mai lo avrebbe fatto. Non sapendo dove andare a cercare rifugio è corsa qui. Le ho spiegato che i frati sono tutti uguali. Io sono macellaio, veramente garzone di macelleria, ma ho un cuore d’oro, e una stanza per studenti tutta per me dove l’ho accolta.
Vorrei poter fare di più ma anch’io devo partire.

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Justine,_ovvero_le_disavventure_della_virt%C3%B9
[2] http://lafrusta.homestead.com/rec_sade_justine.html
[3] http://www.rodoni.ch/busoni/sade/sventure.html

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Corteggiava quella donna ormai da secoli. Non che lo avesse fatto invano. Ne era stato ricompensato. Agrippina non si era nemmeno tanto fatta desiderare. Gli aveva concesso tutto. Tutto tranne quello. E lui lo voleva. Voleva il culo. Quel culo. Gli aveva consesso la mano. Subito. Prima ancora che gliela chiedesse. Prima della prima sera. Che la invitasse a pranzo. Le labbra in modo seducente e con paziente perizia. Ancora in macchina. Con abilità da contorsionista. Le tette con generosità. Appena entrata in salotto. Ancora sul divano. Con la luce accesa. E la televisione che trasmetteva per nessuno. Senza difficoltà anche l’intimità della sua… natura. Trascinandolo lei. Sbattendolo subito sul letto. Ma quello mai. Si era sempre rifiutata. Aveva sempre trovato una scusa.
Non poteva nemmeno fargliele una colpa. Rimproverargli nulla. Era quasi sempre lei a provocarlo. E cosa poteva farci, un povero uomo come lui, se lei era stata così fornita. Se la natura era stata tanto generosa. Se il suo era una meraviglia simile. Non c’era un maschio al mondo che non si girasse ad ammirarglielo. E quand’erano soli lo dimenava con quella disinvoltura. E poi il modo in cui si muoveva e girava per casa. Quando non era nuda era poco vestita. Vestita per farsi guardare. Con tutte le sue trasparenze. Scomposta per mostrarsi. Lo faceva impazzire. Finiva sempre che lo trascinava ancora a letto. E ancora. A volte svuotato di tutte le energie. Basta vedere nella foto come si affacciava dalla terrazza. Sembrava chiederglielo. Implorarlo. Per poi dirgli di no. Come per dispetto. Sarebbe stato un pazzo a non fantasticarci sopra, anche la notte. Avendolo vicino. A portata di mano.
Non era certo una bigotta. Doveva aspettarselo. Quanto sperava che lui sarebbe stato in grado di pazientare? Con una scatenata come lei accanto, che lo faceva per il suo sommo piacere. Sempre pronta. In fondo gli doveva essere almeno un poco grata. Ma quella sera sarebbe stata l’ultima. O cedeva o avrebbe chiuso la storia. Era deciso. E anche quella sera aveva cercato di fare la preziosa e la sdegnosa. Mai! e aveva, come al solito, cercato di sedurlo in qualsiasi altro modo. Aveva elencato tutte le cose e le posizioni in cui era una vera esperta. Gli aveva fatto il lungo menù di cosa gli poteva offrire e di cosa poteva avere. Un film a luci rosse condensato in poche succinte frasi. Mai eleganti ma sempre inequivocabili e volgari. Ma gli sembrava meno capricciosa. Meno decisa. Un po’ più arrendevole. Più ragionevole.
Alla fine era sembrata cedere davanti alla sua insistenza e risolutezza. “Se è proprio quello che vuoi”… certo che era proprio quello che voleva. “Se è proprio quello che desideri”… certo, non l’aveva ancora capito o faceva la finta tonta? “Se è proprio quello che sogni”… ogni giorno e persino la notte. “Se non puoi farne a meno”… ancora un se e… aveva già l’istinto di affibbiarle un pugno in bocca. Quanto poteva essere paziente? “Se non ne puoi farne a meno”… era l’ultimo se che lui avrebbe sopportato. “Lo faccio per te, anche se non vorrei. Solo per te”. Lui non trattenne un sospiro di sollievo e si lasciò sfuggire un’entusiasta “Finalmente”! Ma la lunga ed estenuante trattativa non era finita. Aveva, la bella culona Agrippina, delle condizioni da porre. “Tu fai il bravo bravino. Fai fare a me. Ti dico io quando sono pronta”. Gli aveva chiesto di aspettarla di là, in camera. Lui si era preparato già nudo per non perdere altro tempo.
Era entrata con una vestaglietta corta e trasparente che non le arrivava alle mutandine. Tanto non le aveva. Sotto non aveva niente. E con un lungo tubo di lubrificante. Lo aveva ammanettato alla testiera. Non era la prima volta nei loro rapporti. Gli aveva bendato gli occhi. Nemmeno questa era una novità. Lo spalmò davanti e anche dietro. Lui non era certo di capire ma la lasciava fare, tanto era l’entusiasmo di aver raggiunto finalmente l’agognata meta. Quel tanto desiderato e agognato trofeo. E lei per i giochini e le fantasie era una vera maestra. Non aveva nulla da imparare. Poteva insegnare anche alla donna di piacere più esperta. “Ora rilassati.” Disse. Non era facile. Era al colmo dell’eccitazione.
Lei cominciò a massaggiargli la schiena. Lui affondò la faccia sui cuscini. Le mani di lei lentamente, molto lentamente, scesero. “Ora sono pronta.” gli annunciò e gli spiegò che avrebbe avuto la migliore penetrazione anale della sua vita. Quindi lo allargò con destrezza e lo infilò con un corpo molto lungo e molto grosso. Poi avrebbe scoperto che si trattava di una bottiglia. “Spero non la preferissi gassata”. Inizialmente lui provò un lancinante dolore. Cercò di ribellarsi, ma lei lo aveva immobilizzato. Pian piano il corpo estraneo si fece spazio e strada. Pian piano il dolore diminuì. Non scomparve mai, ma si mescolò a una sorta di strano diletto. La sentiva ridere alle sue spalle. “Era questo che volevi”? Non era precisamente quello. Non lo avrebbe mai raccontato a nessuno. Non avrebbe mai ammesso cosa avesse sofferto e provato. Tra loro era tutto finito.
Lei se ne andò senza voltarsi indietro. Senza slegarlo. Senza liberarlo da quella situazione. Senza nemmeno domandargli se gli era piaciuto.

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Io non rinuncio mai alla pennichella. Soprattutto quando il sole picchia, d’estate. Niente al mondo riuscirebbe a tenermi in piedi. Dopo un buon pasto mi prende l’abbiocco. Mi si chiudono gli occhi. Mi si svuotano le membra. Mi avvio che sto già dormendo. Distratto vuoto la vescica. Sarà una questione di digestione. E solitamente dormo pesante. Della grossa. E anche, a volte, sogno. Infatti ho creduto di sognare.
Vengo svegliato da una sorta di miagolio Ps! Psss!… È Marina. in piedi in fianco al mio letto. La sua figura. Nella penombra. Stagliata. Nel barlume di luce. “Fammi posto”!
Cerco di convincermi che è ancora sogno. Per cautela bofonchio: “E Marisa”?
Comincio a dubitare che qualcosa non vada. Di non stare più dormendo. Che ci fa lei qua. Sono ancora assonnato. Cerco di mettere le cose a fuoco. Mi stropicciò gli occhi. E’ proprio Marina. “L’ho lasciata cinque minuti fa. È in giardino a prendere il sole. Non si alzerà presto. Sai com’è”?
È un casino con due nomi così simili. È una vecchia tradizione. Secondo me sono manie. Parli di una e ti sembra di parlare dell’altra. Eppure i nomi le tradiscono. Non sono così simili. Una è castana. Marina s’è fatta bionda. Una è leggermente più alta. L’altra ha un paio di anni in più. Non ho mai guardato troppo alle differenze. Ci si frequenta. Ci si vede spesso. Anche a cena. Come tutti i parenti. Non potrei mai sbagliarmi, è lei. E non potevo certo immaginare… Scosto le lenzuola. Si sfila il bikini in fretta e viene sotto. “Spero di non averne preso troppo”.
Nella penombra non ho distinto nulla. La sento che vuole provocarmi. Schiocca delle rapide risate: “Non ne hai nemmeno un pochino di voglia. A me è venuta. E delle fantasie… Fantasie al sole”.
Lentamente mi sveglio. È tutto ancora incerto. Non so se ho voglia di lasciare quel mondo. Comincio a sapere per certo che voglio entrare in questo mondo Mi dico di fare presto. Le dico di fare in fretta. Mi allungo per baciarla. Non è questa la sua idea. Precipito. Succede tutto molto rapidamente. Vuole giocare con me. Mi dice cosa fare e me lo spiega. Senza nemmeno giri di parole. Nel sesso non sono un erudito come lei. Come scopro in questo momento che è lei. Non sapevo nemmeno che c’è un nome a tutto.
Mi chiede se non è una magnifica rana, ma la sua risata trattenuta sembra più un pigolio. La afferro per le tette. Ne ha meno della sorella, ma mi sembrano più sode. Forse la situazione rende tutto più bello. È complicato. Mi scosta le mani dandomi del birichino. Naturalmente siamo come due estranei. Non c’è sincronia nei nostri gesti. Non può esserci nei nostri pensieri. Resterei qua a lasciarla fare. Per il resto dei giorni. Vittima di quelle fantasie.
Rapida scende e mi dice che vuole scontare tutti i suoi peccati, che è un missionario dell’Africa. Che sono io che mi devo dare da fare. Che non posso stare solo a guardare. E far fare tutto a lei. Mi canzona come fosse un complimento. È impaziente. Sembra instancabile. Inappagabile. Invece… dopo poco… Poi mi spinge via. Si stanca abbastanza presto di tutto. Sembra che per lei non sia mai abbastanza. Ha subito un’altra idea. Voglia di cambiare. Non ho mai conosciuto una donna simile. Non la pensavo certo capace. Pare scatenata. Non smette mai di divertirsi. Per lei è tutto come un gioco. Senza nessun limite.
Mi spiega che vuole tutto. E vuole darmi tutto. È la mia schiava. Se voglio essere il suo principe. Il suo padrone Il suo. Re. Accenno di sì, ma non mi bada. Mi dice anche che è così che mi vuole adorare. Mi chiede se lo fa lei e lo fa. Lo fa proprio. Cioè mi dice di farlo e di sbrigarmi e me lo lascia fare. Stento a crederlo anche quando le sono dentro. E mi chiede anche “Cos’è? Non ti piaccio”? Non capisco la domanda. Per piacermi mi piace anche troppo. In questo momento anche più della sorella. Dalle sue labbra esce una sorta di nitrito strozzato. Sembra scatenata. Si agita. Sfrenata.
Poi si ferma. Sospira. Mi dice: “Ora toglilo”. Non sono mai stato io a governare niente. Le chiedo premuroso se vuole fumare. Si terge il sudore. Pensa in silenzio. Penso semplicemente che voglia fare una paura. Penso a Marisa e tremo. Non potrei fermarmi. Niente mi può far dire di no. Lei non accetterebbe mai un no. Ne sono certo. E non voglio deluderla. Aspetto. Mi dice divertita: “Non c’è tempo per i giochini. Per le sciocchezze. Per le piccole cose c’è sempre tempo. C’è tempo dopo. Un’altra volta. Magari. Ora voglio fare solo quello che ho voglia di fare. Quello che m’ero chiesta”.
Mi dice di stare buonino, e che ora beh! gliene è tornata voglia e vuole smorzare la candela. Per la verità lei dice. “Questo mozzicone di candela”. Di lasciar fare ancora a lei. Non ho lamentele. Sono sempre stato un tipo accomodante. E amante delle comodità. Lei torna a salirmi sopra. Mi ero ripromesso di fare presto. Le avevo detto che ci dovevamo sbrigare. Non so quanto tempo è passato. Troppo. Più del previsto. Sicuramente molto. Siamo proprio in quella posizione, io prigioniero sotto di lei. Immobilizzato dal suo morbido e meraviglioso peso. Intrappolato in lei. E la mia Marisa, che ormai s’era svegliata, entra. Non ha nemmeno un attimo di perplessità. Istantaneamente va su tutte le furie. “Che cazzo stai facendo; puttana”?
Il dialogo, cioè la zuffa è rapida. Nemmeno Marina è una da mandarle a dire. Ma tanta volgarità non l’avevo mai sentita nelle labbra della mia signora. “Ma sono tua sorella”.
Tanto grida che rischia di strozzarsi: “E quello è mio marito. E tu fermati coglione”.
Sono già immobile e ridicolo con quella faccia esterrefatta. Marina non è nemmeno spaventata. “Che sarà mai”?
Certe porcherie falle col tuo, baldracca”.
Ero qua. Insomma. E poi modera i termini che anche tu”…
Con l’indice indica perentoria la porta rimasta aperta. “Io cosa? Scendi… cioè esci… insomma vieni di là. Sei sempre stata una zoccola”.
La sorella non s’è fatta smontare. Almeno così sembra a me. Non ha perso il suo giovale buonumore. “Per così poco. Non potevi aspettare solo un altro attimo”?
Però ubbidisce e scende. Io resto impietrito. Le lascio andare. Sarei pazzo a cercare di trattenerle. Sprofondo nel mio abisso. Nelle mie colpe. Nel mio rimorso. Ormai è tardi. Mi riparo sotto le coperte. Il piacere lentamente se ne va. Svanisce. Le sento gridare come delle forsennate. Stavolta si ammazzano. Invece smettono dopo poco. Penso che Marisa abbia messo la sorella alla porta. È così che si sfascia una famiglia. Cosa ci potevo fare? Non è tutta colpa mia. Certo che uno coi coglioni dovrebbe dire di no. In certe situazioni. Cerco una scusa per quando esco. Perché prima o dopo dovrò pure uscire. Non la trovo. Mi aspetta l’inferno; ne sono certo. Poi sento ridere. È strano. Trovo il coraggio. Mi infilo le ciabatte e le mutande ed esco. Che sia quello che deve essere. E loro sono in salotto che se la ridono di gusto. Le due sorelle. Resto inebetito a guardarle. Muto.
Sai cosa mi ha detto la porca? Ma io la conosco bene. So bene di cosa è capace. Tu non lo sai. Nemmeno lo immagini. Mi ha detto che sei stato tu. Che gli hai detto che ne aveva il permesso. La mia autorizzazione. Che te l’ho data io. Gliel’hai giurato. Nemmeno questo l’avrebbe convinta ma… Sembra che, tu, grande cornuto, le hai giurato e le hai spiegato che è per un’opera quasi caritatevole. Buona. Che il medico avrebbe detto, a me, che quella posizione può aiutarti. E aiutarci. Che un po’ alla volta te lo può far crescere almeno un po’. È vero? Come hai fatto a inventarti una balordaggine simile”?
E ride guardando la sorella e la sorella ride con lei. Poi escogita quella che pare una vendetta. Si guardano e sembrano inventarla entrambe nello stesso istante. “Vediamo se è vero? Se funziona”?
Noto che Marina s’è ricoperta, per discutere. Continuo nel mio silenzio a stare immobile. Gli occhi sgranati. Ma Marisa lo ripete come un ordine. Con un tono che non concede replica. E alla sua insistenza si aggiunge la sorella. Ma Marina ha un tono alquanto ironico. “Tira giù quelle cazzo di mutande”!
Non posso che obbedire e fare. Controvoglia. Mi sento ridicolo, con lo slip sulle caviglie. E loro che guardano e tirano gl’occhi. “Te l’ho detto, non c’è niente da fare”.
Beh! poverino. Forse è perché siamo stati interrotti”.
Interrotti un cazzo. Così è e così rimane”.
Forse è solo spaventato. Se gridassi meno forte. Non cambia il fatto che ci hai interrotti. Prova a essere più carina. In fondo è come non l’avessimo fatto. Nemmeno cominciata la tigre accovacciata. Scommetto che lui ha ancora tutta la sua voglia. Vero piccolino”?
Non c’è vero affetto nella sua voce. Solo una parvenza di derisione. Cos’ho fatto? Credo che Marisa non mi ami più come una volta. È un po’ che ho questo sospetto. Bada a tutto. A troppo. È irascibile per niente. Mi dice: “Sai che niente è ancora qualcosa di più”. Le sue parole leggermente mi offendono. Eh! che cazzo. lo dico io stavolta. Penso: Non è un po’ tardi. Forse… comunque… mi dovrei scusare? Con chi?
Sono confuso. Penso a Marisa. Alla ex incavolata Marisa. Penso a Marina. Quella svagata. Quella senza freni né riguardi. Mi faccio confusione. Penso alla Marina che ho scoperto. Che non conoscevo. Non si può fare confronti tra due sorelle. Non sarebbe bello. Leale. Però è una vera acrobata. E… Maurizio non me l’ha mai detto. Non sono cose che si dicono; della propria moglie. Magari nemmeno lo sa. Non sembra tra i più svegli. Mi accorgo di essere ancora lì, con gli slip abbassati. Ridicolo. Così mi sento. Come un imbecille. Certo che fa un gran caldo. Tanto vale… Li tolgo e mi tuffo in piscina. Tanto senza nulla addosso m’hanno visto entrambe.
Mi son fatta mia cognata. Beh! quasi. Spero che almeno lei si sia divertita. Mi faccio una birra. Spero che si fermi per cena. Mi ignorano e se ne stanno tra loro. Alla prima occasione provo a toccarle il culo. Riesco a fare quasi solo il gesto. Salta inviperita: “Che cazzo fai”? Signora la signora. Non ci capisco niente. Solo una mezzora prima… È stata lei ed è stata una prima. Non so se lo sa. Forse ho sbagliato qualcosa. Lo guardo. Da moscio non fa una gran bella figura. Ma è meglio se se ne sta buono.
Marina si ferma ma arriva anche Maurizio. Non so che cosa dire, preferisco tacere. L’imbarazzo è di tutti. Il silenzio è ingombrante. Non trovo nemmeno il coraggio per chiedere quando si cena. Mi alzo e, di mia iniziativa, vado a preparare degli aperitivi. Marina mi chiama con un “Vieni qui anche tu, frocetto”. Questo non lo doveva dire. E poi davanti agli altri. Mi incazzo veramente. Maurizio prova a ridere. Subito ripreso dalla moglie. Li sento.
Temo sempre quando una donna dice che ti deve parlare. La faccio espettare un paio di minuti prima di tornare. Loro, le sorelle, ridono assieme e assieme ce lo comunicano all’unisono: “Abbiamo pensato di dirlo a tutt’è due. Andate pure a fanculo. Col cazzo che le misure non contano”. Poi prosegue solo la mia gentile padrona di casa: “Tu puoi andare a fare le valigie. Non ti voglio qui un attimo di più. Tu invece puoi fare un po’ più con comodo, perché Marina si fermerà almeno un’altra settimana. Lei è d’accordo”.
Per quanto un uomo si possa sforzare non le capirà mai le donne. In caserma è diverso, tutti mi trattano col massimo rispetto. E li faccio scattare. Perdio, sono il colonello Spingardone.

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Enrico Mazzucato 10501585_802104063173588_6744078126351244203_nEra la classica ragazza di campagna di quattordici anni. Non si poteva dire una bellezza. Con le guanciotte tondette piene di panne e tutto il resto pienotto, e con il torace desolatamente piatto. In verità era anche la mamma che la vestiva come un salame. Ma gli occhi erano di un bel colore e curiosi.
Quand’era più piccola ci aveva pensato qualche volta. Non la convincevano certe relazioni. Ad esempio: i mussulmani sono tutti terroristi. Non era così sciocca da pensarlo. Ad esempio; la purga fa sempre bene e serva prenderla ogni primavera. Ad esempio: Il buono è sempre bello, il cattivo è brutto. Ad esempio zio Augusto era cattivo, ma mamma diceva che non era niente male. Il giusto è bianco, il peccato è nero, come l’uomo nero. Il giorno è sempre fruttuoso, anche quando piove, perché dissenta i campi e aiuta i raccolti, invece la notte è sempre paura; nasconde gli assassini. I bambini, quando sono neonati, sono tutti belli anche quando non lo sono affatto, e sono solo mocciosi e piagnucolosi. Il diavolo naturalmente, per forza di cose, è condannato ad essere orribile.
Mamma le aveva detto come aveva corna. Il papà aveva sbuffato: so io chi ce l’ha. Zia Elvira le aveva spiegato che aveva gli zoccoli da capra e che puzzava di zolfo. Ma l’aveva sentita dire al suo papà, nella stalla: Tu sì che sei proprio un diavolo. E il suo papà non puzzava di zolfo. Lei rideva sotto i baffi pensando a quella zia Elvira; lei sì che sapeva puzza, anche in bocca. Si alzava presto ed era sempre tra i piedi. Sempre pronta a dire la sua. Veramente sempre piena di parole per brontolare. Mamma diceva che bisognava avere pazienza perché era sola. Anche se non era mai sola perché era sempre con loro. Si era anche chiesta perché le zie si chiamassero quasi sempre Elvira. Alla fine aveva deciso che lei non credeva più all’inferno.
Erano tutte stupidate quelle. Era cresciuta e aveva smesso di pensarci. I bambini non sono sempre buoni. Lei, Erica Nove, lo sapeva bene. L’aveva imparato nella sua pelle. Fin dai primi anni di scuola. Avevano presto cominciato a canzonarla chiamandola Erica Nova, che dalle loro parti, si sa, aveva il significato di nuova. E negli ultimi tempi avevano preso a beffeggiarla con Erica Quasi Nova. Ma non era vero. A lei i ragazzi non interessavano; forse solo un po’. Ma non era mai stata chiamata a fare la principessina, o Biancaneve, alle recite, e nessuno la invitava mai alle feste. Se avessero potuto l’avrebbero esclusa anche dal suo compleanno. Sollevò le spalle, rassegnata. Gli occhi intristiti. Lei aveva da fare in casa, e nell’orto.
Era in giugno. Era seduta sull’erba. L’aveva visto avvicinare. Biondo con gli occhi azzurri. Era bellissimo, da togliere il fiato. Elegante. Sembrava un tipo di città. Un forestiero di passaggio. Forse persino un principe. E odorava di buono. “Ciao”! Lei era rimasta con la bocca spalancata, dove entrava l’aria ma non uscivano parole. E si era fermato proprio lì, davanti a lei. Sotto l’ombra della quercia. Guardandosi intorno e poi chinandosi. Anche la voce era… suadente. Le disse alcune cose che lei nemmeno sentì. Era da un’altra parte. Era come stregata. La sua testa viaggiava tra le nuvole. Era bello come un attore. Come quelli di Teen Wolf. Adorava quella serie. Non se n’era persa una. Come Josh Holloway. Anche di più. Affascinante. Magnetico. Forse lo era un attore.
La pregò della gentilezza di un bicchiere d’acqua. Lei tornò con i piedi per terra e si offrì di portargli una birra, se la gradiva. Voleva solo essere cortese. Lui ammise, ringraziandola anticipatamente, che la birra era certo meglio. Il padre era dietro casa intento a governare le mucche. Lei corse dentro e tornò con una lattina fresca imperlata di goccioline. L’attraente straniero la bevve con avidità. Doveva essere proprio assetato. E il caldo era arrivato presto. Poi non si scordò di ringraziarla una seconda volta. Era anche molto educato. Non avrebbe dovuto parlare con gli sconosciuti. Era stata ammonita fin da bambina. Non era mai riuscita a essere diffidente, non era nella sua natura. E poi era a casa sua, cosa mai le poteva succedere? Non era nemmeno un vero sconosciuto. La dava una strana fiducia. Le sembrava di conoscerlo da sempre. E poi si presentò quasi subito.
Restò sorpresa, e un pochino delusa, quando gli aveva detto di chiamarsi Samaele[1]. Proprio così. Si sarebbe aspettata che anche il suo nome fosse altrettanto bello. Tipo Michele o Gabriele. Anche le persone belle possono avere un nome brutto. Anche se non sarebbe giusto. Quello dell’incantevole giovanotto non era certo un nome carino; ed era un nome buffo. Cosa avevano avuto in mente i suoi? Ma lei poteva chiamarlo Lello. Ed era solo… stupendo. Anche se si chiamava così. Lello era un nome che lo faceva sentire un suo amico, anche di più. Era confidenziale. Provò a farlo cantilenare nella testa. Le piaceva. Intanto lui aveva estratto un soldino dalla tasca e lo aveva messo sull’erba. “Guarda la moneta”. Lei si mise a osservarla con molta attenzione. Lello ci passò la mano, sopra di un palmo, e moneta si capovolse. Dov’è il trucco? Non c’è nessun trucco. Lei non era più una ragazzina, ormai era una signorina, non gli aveva creduto. Non lo disse per non offenderlo, ma era incuriosita da quello strano tipo di ragazzo che conosceva i trucchi. Che le prestava attenzione. Che stava lì a parlare con lei. Anche se era così bello. Splendido.
Lui rimase a guadarla, con degli occhi curiosi e deliziosamente intriganti. Lei continuava a sentirsi in un grande imbarazzo. “Vediamo… tu sei Erica, Enrica Nove?”… Come poteva conoscere il suo nome? Lei non glielo aveva mai detto. Era un vero mistero. La incuriosiva sempre più. Che poi non era abituata che qualcuno avesse tanto tempo per lei; mostrasse tante attenzioni. E poi un ragazzo così… così… cioè un uomo giovane. Un signore. Così… attraente. Se lo sarebbe sognato. Ne era certa. E in più sapeva anche il suo nome. Avrebbe scoperto che sapeva molte cose di lei. Al momento non ci pensò. Pensò solo di godersi di poter stare lì a guardarlo. A sbranarselo con gli occhi. Fosse stata un poco più grande, solo un poco, avrebbe fantasticato. Si sarebbe sognata con lui. Probabilmente si sarebbe immaginata di essere donna. Di prenderlo per mano e farsi accompagnare a scoprire l’amore. La sua fantasia stava scappando troppo. Se le avesse chiesto un bacio cosa avrebbe fatto? Sarebbe riuscita a dirgli di no? Probabilmente lo avrebbe fatto. Temeva che la giudicasse una ragazzina. Inesperta. Magari lui avrebbe insistito. Si era solo distratta. Tornò rapidamente nuovamente sbattuta nella realtà. Nella realtà di quello che lei era. Si era guardata bene allo specchio.
Allora perché era lì? Lui estrasse dalla tasca uno smartphone ultimo modello, bianco. Rapidamente trovò quello che cercava. Quel tipo, era proprio figo, assolutamente, straordinariamente, la affascinava e la continuava a sorprendere. La incuriosiva ma anche le metteva un po’ di apprensione. Come poteva conoscere il suo profilo in facebook? Perché? Non gli aveva mai dato l’amicizia. Non che si ricordasse. Non si poteva scordare un viso così. Certo lui poteva avere un’immagine dell’account dove non era lui. Perché? Troppe domande. Inutili. “Guarda la fotografia”. Odiava quella foto. Odiava tutte le foto. Non che fosse riuscita particolarmente male, solo che… era lei. Non ci poteva fare niente. Non era fotogenica. Ma lui era bellissimo. “Questa sei tu; ora. Ti prego di fare molta attenzione”. Lei nemmeno respirava. Passò la mano sopra il minuscolo schermo del suo telefono intelligente, come aveva fatto con la moneta, senza nemmeno sfiorarlo. L’immagine come d’incanto improvvisamente mutò. Le assomigliava, almeno gli occhi erano i suoi, ma quella era bella. Molto più bella. Era veramente forte. Come poteva fare quei trucchi?
Sicuramente sotto c’era un artificio diabolico. Magari era solo una app. Ormai l’informatica e la telefonia facevano cose incredibili. Cose che nemmeno il Padreterno si sarebbe potuto aspettare. “Vorresti essere così”? Peccato che lei… cioè… fosse così bella solo intrappolata dentro quell’inutile aggeggio. Con uno scattò di stupido orgoglio mentì e disse che si piaceva com’era. Certo che quella lei, che non poteva essere lei, era un’altra e proprio… più che bella. I capelli lunghi e lisci, non più crespi in quel disordine assurdo. Le labbra appena sottolineate da un velo di rossetto. Gli occhi resi interessanti, e ancora più grandi, da un sospetto di trucco. Magra ma con il seno che era un seno, e anche un bel seno. Impertinente. Persino un po’ troppo. Ed era vestita come una principessa. “Sei sicura”? lui sogghignava sotto i baffi. “Sicura”! ancora un briciolo di quello ottuso e inutile senso di dignità. Ma la sua voce non mostrava la stessa sicurezza. E poi chi non ha mai desiderato, almeno una volta, di essere diversa? In un altro posto? La sua insistenza non era stata gentile. Era crudele.
Se ne pentì nuovamente quasi subito, ma era già tardi. Certo che tutti i ragazzi l’avrebbero guardata con ben altri occhi. Diversi. Si sarebbero girati. Forse l’avrebbero invitata a tutte le feste. E anche solo per fare due passi. Anche quelli più grandi. Magari avrebbero anche provato a baciarla. Puah! Che schifo. Magari anche a toccarla. Stupidi. Villani. Zoticoni. Anche se lei sapeva come fare. Era giovane ma non era più una bambina. Aveva fatto le prove con la cuginetta Maddalena, anche con la lingua. Con lei, con Maddalena, si confidava. Aveva un anno più di lei, ma era più carina. E la invitavano ai festini. Diceva che l’aveva già fatto, e non una volta sola. Che poi… Loro due avevano provato nel fienile, naturalmente di nascosto. Non le era piaciuto. Ma forse con uno come lui sarebbe stato diverso. Ma uno come lui non pensava a quelle cose con una come lei. Non le pensava e basta.
Le spiegò che per un po’ si sarebbe fermato in paese. Lei non riuscì a farsi dire quanto. Forse lo avrebbe incontrato di nuovo. Forse. Intanto avrebbe voluto tenerselo stretto. Come il suo bambi di peluche. E si godeva il momento. Sognava che durasse. Per sempre. Sperava non terminasse. Sapeva che sarebbe rimasta delusa quando si fosse allontanato. Era consapevole che doveva succedere. Prima o poi. Meglio poi. Doveva essere stanco di stare in quella posizione; accucciato. Le chiese se poteva entrare. Anche un solo attimo. Per riposare le gambe. Per sederti al fresco. A malincuore dovette dirgli di no. Per papà? No! non possiamo disturbare il nonno. Sta male? Molto male, poveretto. Il suo Lello sembrò fin da subito dispiaciuto. S’interessò della salute del vecchio: “Nonno Giovanni, vero”? Come poteva conoscere anche il nome del nonno? Certo tanti nonni si chiamavano Giovanni. Sapeva troppe cose. Forse era amico di papà. Forse della mamma? Le sembrava impossibile. Gli amici del padre li conosceva tutti. Erano tutti tipi da osteria. Nemmeno poi tanto amici. La mamma non era il tipo. Cioè lui non era tipo da fare complimenti a una come sua madre. Una spiegazione ci doveva pure essere.
Alla fine si fece convincere. Lui sembrava avere una risposta per ogni domanda. Una soluzione per tutto. Il nonno dormiva e si lagnava molto nel sonno, disperatamente. Era attaccato alla vita solo da orribili sondini. Faceva pena, il poveretto. “È molto che sta così”? Soffriva maledettamente. Era un vero calvario, per lui e per tutta la famiglia. “Moltissimo, il dottore dice che non c’è più niente da fare”. Ogni giorno poteva essere fatale; l’ultimo. Ma i giorni passavano tra sofferenze atroci. Lui chiedeva spesso pietà. Aiuto. Non era vita quella. Implorava di essere liberato da quegli orribili patimenti. Ma nessuno aveva il cuore di farlo. E poi non era giusto. Mamma ripeteva che sarebbe finito all’infermo. Che, se Dio ci mette alla prova, noi dobbiamo rispettare il volere del Signore. Lui, il suo nuovo affascinante amico, le spiegò che erano solo stupide superstizioni. Che il dolore non è mai giusto. Che lei poteva porvi rimedio. Bastava che chiudesse quella valvola. Che staccasse quella cannula. Il nonno avrebbe riposato la pace dei giusti. Finalmente. E le prese la mano e guidò quella mano.
Lei cercò di resistere blandamente ma poi cedette. Sette minuti dopo il nonno non c’era più. Il suo volto aveva ritrovato tranquillità. Serenità. Il padre di suo padre era morto. Lello rimise le cose come stavano quando erano entrati in quella stanza, nella camera. Poi le ricordò che doveva avvertire il genitore. Solo allora Enrica trovò l’ardire di chiedergli cosa lo aveva portato là e cosa voleva da lei. Lo aveva fatto con il timore di sbagliare; naturalmente. Lui le spiegò da dove veniva, cioè che era il figlio prediletto di Lucifero. L’angelo tanto bello da avere la superbia di paragonarsi a Dio, e per questo scacciato all’inferno e trasformato in diavolo. Che non voleva da lei più nulla perché aveva già ottenuto la sua anima. Senza doverle promettere nulla in cambio. Ma lui era generoso. “Nella realtà sei stata tu ad ucciderlo, anche se per pietà, anche se te l’ha chiesto”.
Lei lo guardò sorpresa. Questo certo non s lo sarebbe aspettata. Nessuno. In una rapida carrellata le tornarono alla mente tutte quelle riflessioni che aveva fatto fin da bambina, sul diavolo e sull’inferno. Sulle stupidità popolari. Lo vedeva ancora bello, ma con occhi diversi. Era stata messa nel sacco. Dal bel tomo. Non aveva venduto la sua anima. L’aveva proprio regalata. Poi il suo sguardo lentamente si trasformò in un’espressione di furbizia. Forse a scuola non andava proprio bene, ma non era nemmeno stupida. “Tecnicamente non sono colpevole perché in un certo senso era già morto”. L’incantevole visitatore si mostrò contrariato e la salutò dalla porta. “Ci rivedremo”. Lei si guardò allo specchio, non era più lei. Era proprio come quella che gli aveva fatto vedere nel cellulare. Era quella. Bella come una principessa. Come un’attrice. Altrettanto elegante. “Non credo”. La cosa più gravosa era dire a papà del nonno. Nessuno avrebbe saputo mai che lei ci aveva messo mano. Che l’aveva aiutato. Per tutti, semplicemente, era arrivata la sua ora.
I diavoli, quando sono in giro, non sono come nei racconti. Non hanno corna né zoccoli. Non sono tutti uguali. Non si assomigliano affatto. Tante volte nemmeno vanno d’accordo tra loro. Puoi trovarli ovunque. Non si riescono a riconoscere. Sono tra noi e non li possiamo vedere. Magari è proprio quello zio che ti offre la pastarella. L’inquilino dalla porta accanto. Il contadino che non perde mai il raccolto. Quello che sta sistemando il tetto della sua abitazione. Chi è tanto carino e si offre di accompagnarti per un tratto di strana. Insomma sono persone come le altre. Una cosa è sicura: solo alle donne è stato concesso di essere diavoli e angeli allo stesso tempo.

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Lista_di_demon%C3%AE
http://www.latelanera.com/divinita-demoni-personaggi/dio-demone-personaggio.asp?id=279
http://www.mariavaltorta.it/Ribellione%20di%20Lucifero.html

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Il Vero Premier (da questo momento nominato come solo il Premier, senza dati privati o fiscali) era rimasto ottuso e attonito. Sei donne. Una banda di donne. Tutte donne. Perché aveva l’impressione che anche i clown Pennywise fossero donne; se non erano trans. Per le loro movenze aggraziate. Una l’aveva chiamato carino. Con una voce da sesso e un accento da extra. La reazione degli altri presenti non era stata diversa. Lo si leggeva in tutte le loro multiformi facce. Sulle loro maschere. Eppure erano politici di lunga milizia ed esperienza. Proprio per quello. La First era sbiancata e poi svenuta. Premurandosi di cadere sul soffice divano. Le parole erano diventate parche e spilorce. A parlare era stata quella che sembrava il capo, la Betty Boop: “Se fate i bravi non si farà male nessuno”.
Titolo del telegiornale andato in onda a reti unificate come fosse il discorso di fine anno «La “Banda delle maschere” o “Brigate Rosa” è tornata in azione e stavolta con un colpo di mano eclatante. Vi terremo aggiornati» Il paese era in agitazione, sembravano tutti impazziti. Tutti volevano dire la propria e tutti i mezzi di comunicazione, compresi i blog, erano tempestati di suggerimenti. A questo punto la mancanza di pazienza inviterebbe ad andare direttamente alla fine della trattativa, saltando il successivo prossimo interminabile paragrafo, poiché, tra tante alzate d’ingegni, nessuna sembrava completamente e immediatamente praticabile ed efficace.
La polizia aveva suggerito l’intervento rapido dei loro Nocs (Nucleo Operativo Centrale di Sicurezza) e persino e assieme della Celere da Padova e dei tristemente famosi RoboCop di Genova. I carabinieri di allertare tutti i G.I.S (Gruppi di Intervento Speciale) e anche i RIS (Reparto Investigazioni Scientifiche), ma questi ultimi magari solo dopo, a crisi conclusa. I finanzieri i loro esperti ispettori (orrore e terrore tra tutti i sequestrati) con tutti i registri; quest’ultima proposta era stata immediatamente respinta non dai sequestratori ma dalle loro vittime. Per l’esercito il Napoleone di turno aveva minacciato di mandare le truppe scelte d’assalto appoggiate da uno sbarramento di artiglieria, ma leggera, e mettere a disposizione tutti i loro mezzi corazzati; e nel frattempo munire tutti i sequestrati di elmetto protettivo attraverso un pertugio aperto con la dinamite. La proposta di Icaro Scavafossi, un nome, una missione, un destino, era stata più sbrigativa: un semplice, rapido, indolore (?) bombardamento a tappeto dell’intera area, solo che era perplesso su come quei quattro anarchici di giornalisti avrebbero accolto tale soluzione. Il Piccolo Grande Uomo cominciava veramente a preoccuparsi, e se nessuno avesse ascoltato le sue opinioni: “Bocce ferme”! Maga Magò guardò soddisfatta le sue e sorrise divertita. Per la marina si era fatto vivo il vice-ammiraglio perplesso, certo gli aerei avrebbero potuto decollare dai ponti delle loro portaerei, ma loro avevano una difficoltà logistica sulla tempistica, la flotta non era in loco ma stanziata lontana, e non sapeva dove farla ormeggiare per avere più rapida operatività di intervento, però si poteva sempre far risalire, ad uno stormo di mezzi da sbarco, il Tevere. Tempi preventivati per l’efficacia dell’azione: 2 (due) ore circa; minuto più, minuto meno. Non disponevano di tutto quel tempo vista l’impazienza dell’Uomo più importante dello Stato. Commento con gesto onomatopeico: “Tiè”! Uno stormo di colombi viaggiatori lasciò cadere, a mo’ di pioggerellina di maggio, le loro deiezioni su tutto lo stato maggiore schierato in tenuta di gala in irrigidita parata.
Sul momento il comandante dei Vigili Urbani, strappato dal Foro Italico, preso alla sprovvista, aveva prospettato di isolare il quartiere con barriere stradali mobili chiodate e di multare tutte le vetture in sosta nella provincia, ma era stato frettolosamente conciso perché doveva andare, che quel pomeriggio avrebbero premiato la Vigilessa dell’anno. Gli uomini rana avevano attraversato la Fontana di Trevi a nuoto sincronizzato e si stavano dirigendo sull’obiettivo, con passo paperato con le pinne ai piedi, maschere e boccagli e muta intera; furono fermati e accampati in una scuola in attesa di ulteriori istruzioni. La forestale tutta aveva protestato offesa per essere stata messa da parte e dimenticata, ma si era detta pronta a porsi al servizio, in quel momento di crisi, e aveva suggerito l’immissione di diserbanti, in quantità industriale, attraverso i condotti dell’aria condizionata, non nascondendo il dubbio sul loro grado di tossicità. La forestale tutta era stata fancullata in coro. I vigili del fuoco invece erano propensi a creare un grande panettone di schiuma ignifuga, che avrebbe ricoperto tutto il palazzo, che poi avrebbero perforato e attraversato loro stessi muniti delle loro amatissime maschere antigas; prevedevano un risultato del cento per cento, ma non erano certi se avrebbero recuperato individui o salme. Commento con gesto delle corna: “Tiè”! Le guardie carcerarie erano disposte da subito a prendere in custodia tutti gli autori dei pacchi e mettere a disposizione il numero necessario di trombette, ma non avendo precise idee d’intervento avevano già cominciato a intervistare gli inquilini dietro i cancelli nel tentativo di identificare le generalità degli artefici del vile atto.
Una folla enorme di fedelissimi, con le braccia tese verso il Padreterno e le foto minaccianti come santini, di quelli che già additavano per i nuovi futuri martiri, si era intanto radunata supplicante in campo San Pietro ed ebbe la benedizione del Santo Pontefice visibilmente emozionato e preoccupato. I servizi segreti avevano già il loro migliore agente all’interno, ma gli era stato permesso di uscire fin dall’inizio della crisi per rilasciare le dovute interviste sullo stato delle cose prima dell’avvio di eventuali improbabili trattative. Il console di un paese amico sionista aveva fatto il diavolo a quattro per rendersi utile proponendo l’uso di un piccolo ordigno nucleare intelligente, ma non era in grado di garantire l’incolumità di tutti i segregati. Anche questa telefonata fu passata sulla linea rossa, poiché anche il nostro mini-mega Preside aveva scalpitato capricciando per avere il suo telefonino rosso, era stata premiata con il più roboante: “Ma ‘ndate a fare in culo tutti”. 17.513 (avete capito bene, diciassettemila-cinquecento-tredici) giornalisti accreditati si erano offerti per interpretare la parte dei sequestrati aggiuntivi e ognuno voleva l’esclusiva; naturalmente la proposta non era nemmeno stata presa in visione ed era stata immediatamente cassata per mancanza di spazio nella stanza della riunione.
Se solo avesse ancora potuto Bartali sarebbe stato disposto a vincere ancora il Tour di Francia, ma come ben noto a tutti non era in grado di presentarsi all’appello perché ucciso dalla vita. I romanzieri avevano suggerito il Commissario Montalbano e/o il Commissario De Luca e/o Kay Scarpetta; in alternativa, come ipotesi sostitutiva, Sandrone Dazieri, tramite l’autore o rintracciandolo eventualmente direttamente dal Leoncavallo. Il Premier in persona aveva invitato tutti a mantenere il sangue freddo, o almeno tiepido, e lasciare libera l’area senza esagerare; cercando di tranquillizzare l’intero Paese. Una tale, in uno stentato italiano, aveva proposto di ricorrere ad Auguste Dupin; parve a tutti inutile trasformarlo in un incidente internazionale. Sarebbe servito solo a dare pubblicità agli aggressori. Il Primo Ministro in persona aveva nuovamente invitato tutti, cittadini e burrini compresi, a mantenere la calma e non fare gesti avventati.
(reprise) L’estenuante trattativa era terminata in un baleno. Il Premier e l’intero Consiglio di Amministrazione (CdA) avevano accettato immediatamente; calato subito le brache. Si era deciso di accogliere in toto le richieste. Da quel preciso momento in poi, con un Decreto Legge Celere, la Banca Centrale avrebbe dato disposizione a tutte le altre banche, che sarebbero state dichiarate private, che gli sportelli bancomat accettassero solo ed esclusivamente le nuove tessere sanitarie già distribuite. I prelievi potevano esser eseguiti fino a un massimale di cento euro giornalieri. Erano state poi aggiunte, in calce, le norme applicative e finali, mentre le donne che li tenevano segregati controllavano e espettavano il buon fine completo delle trattative. Per un computo sommario cento euro ammontavano a tremila euro mensili. Forse troppi? Bastavano cinquanta. Forse? Cinquanta facevano circa approssimativamente millecinquecento euro mensili. Sì! potevano bastare. Salvo le spese mediche certificate e solo presso strutture pubbliche, naturalmente. Alla fine si decise per la prima ipotesi, cento per tutti, ma senza le domeniche. Poi si volle precisare ed entrare nel dettaglio.
Fino a un tot e oltre un tot. Fino a un tot, si legga una pensione o un salario medio, il soggetto avrebbe mantenuto il Contratto Bancario in essere. Sotto un tot, diciamo un poco sopra la cosiddetta Soglia di Sopravvivenza (SS), e oltre un tot erano, applicabili le nuove norme dei cento al giorno. Chi nascondesse capitali o tentasse di portarli all’estero sarebbe stato considerato un terrorista e un traditore, ricadendo sotto la normativa già vigente, aumentata per anni: un ergastolo, da scontare interamente senza possibilità di riduzioni della pena. Le accuse avrebbero privato altresì i soggetti incriminati di usufruire delle tutele sugli espatri, di poter richiedere cittadinanza per motivi speculatori, anche come Asilo Politico, in altro paese terzo. La segretaria e stenografa corresse il testo in: per i soggetti è fatto espressamente divieto all’espatrio in qualsiasi altro paese, senza nessuna eccezione, pena l’immediato rimpatrio e un aumento della pena, anche pecuniaria, da stabilirsi a breve, in seguito. Sarebbero stati condonati anni: uno a fronte del rientro di qualsiasi capitale. Condono non cumulabile. Per quelli accertati il governo avrebbe fatto ricorso al proprio diritto e tutela. Le norme avrebbero avuto valore immediato in tutto il Regno ovvero in tutta la Repubblica ovvero in tutto il Paese. Firmato il Premier in persona e controfirmato da tutta la sua Corte. Logorato il Premier si era fatto servire due uova all’occhio di bue e s’era medagliato sulla giacca e sul panciotto. Alla fine avevano pensato bene di imbavagliare provvisoriamente quel Capo, cervello e voce, per non correre il rischio di assopirsi vinte dalla sua logorrea. E tutto si era concluso nel giro di quel paio d’ore necessarie.
Il piano era filato liscio. Erano uscite tra una folla acclamante. In verità c’era una moltitudine altrettanto numerosa, e forse anche di più, e almeno altrettanto vociante, non inaspettatamente comprendente molti soggetti che si potrebbero definire partoriti illegittimi dal sottoproletariato e dalle baracche, o usciti squittenti dalle Case-Pound (messe, con altro decreto immediato, fuorilegge e definite “Bordelli-Pound”. Da CP a BP), con l’aggiunta di solo alcuni sparuti blazer blu in fresco-lana. Le nostre profittarono dei loro sostenitori e si eclissarono nel marasma e nella massa per raggiungere le loro auto; loro per modo di dire. Tutto è bene quello che finisce bene, ma nemmeno nelle favole è garantito il lieto finale. Può esserci un imbecille a non capire e rovinare finale, qualcuno che vuole fare l’eroe, qualcuno che non sa nemmeno leggere, qualcuno che non ascolta neanche le indicazioni date dall’autore della Favola o della commedia. Il solito intraprendente impulsivo. E anche in questo caso. Il solito pula ligio e cretino. Quando non serviva. Era già tutto già quasi finito. Sotto controllo. Se la stavano già filando. Meritatamente. Ogn’una in una macchina rubata diversa. Tranne Paolina che non aveva ancora la patente. Insomma Maga stava salendo, la portiera aperta, e quello aveva esploso il colpo. E tutto era precipitato. Era diventato confusione. Non avrebbe colpito il Pantheon da dentro, e probabilmente avrebbe sospettato di essere l’autore del buco là, sullo zenit della conca della cupola. Ma la sfiga nera aveva voluto metterci lo zampino.
Tutto era successo a una velocità strabiliante. Da formula uno. Il coglione aveva proditoriamente esploso un colpo e l’aveva colpita, del tutto casualmente, in pieno petto. Il proiettile era stato deviato da un sampietrino con un’angolazione acuta di circa quarantacinque gradi. Lo stesso proiettile era entrato diritto in una tetta, perforandola. Forse la grande massa l’avrebbe fermato. Avrebbe salvato l’eroina. Decisamente quel giorno la fortuna non era dalla sua parte. Era destino. Era una cartuccia a espansione o una pallottola a fungo. Probabilmente a punta cava. Micidiale. Nemmeno una corazza. Aveva attraversato quel chilometro di soda delizia, poi si era disintegrata e le aveva sbriciolato il cuore. Era morta all’istante. Prima ancora di dire: “Ahi”! Era caduta in un mare di sangue. Un oceano rosso. Non fosse stato all’istante probabilmente sarebbe morta annegata. Nel vedere la scena, la sua amica, a Virginia era salito il sangue alla testa, si dice così, metaforicamente, il sangue agli occhi, insomma s’era proprio incazzata di brutto. Era andata via per la cucuzza. Aveva fatto la più rapida inversione a U che si sia mai vista. In uno stridio di gomme aveva inchiodato sull’asfalto. Come impazzita. Era scesa che era una furia impugnando la sua 98-FS. Aveva svuotato il primo caricatore, 15 colpi calibro 9X21IMI, una tempesta di proiettili sull’idiota malcapitato. Stava inserendo il secondo caricatore al riparo di una siepe. Doveva averlo centrato almeno tre volte, ma quello continuava a rispondere al fuoco.
Un attimo di stupore. Nel bel mezzo della lotta. Si era sentita sollevare da dietro il vestito. Fu solo un baleno. Nemmeno questione di secondi. C’era ben poco da sollevare, e aveva ricominciato a bestemmiare, a ripararsi, a mirare, e il suo ferro a sputare fiammate e piombo. Si era sentita abbassare le mutandine. Non aveva tempo da perdere. Nemmeno quello per pensare. Era tutta tesa. Impegnata. Troppo presente e troppo impegnata. E si era sentita impalare da dietro. Ma come si permetteva quel buzzurro. Sconosciuto. L’anonimo arrapato. Ma la cosa non la distraeva. Non le dava alcun fastidio, anzi, a dire il vero, non le dispiaceva. Affatto. Per quello lei era sempre pronta. Si mise comoda, continuando imperterrita a combattere. Il ritmo le parve noto. Torse la testa, non senza sforzo. Era solo il suo grande amore; era Baldo a darsi da fare alle sue spalle. Il suo gran trombone. I suoi occhi erano eccitati. Qualcosa in lei, là sotto, si stava eccitando. “Sei tornato”? “Sembra”. “Come mai qui”? “Ho sentito la tele. Non potevate che essere voi”. “Perché di ritorno”? “Mi sono pentito, voglio tornare a fare il gioielliere”. “Ti fermi un po’”? “Almeno finché non ho finito qui”. “E poi”? “Chissà! Forse torno a casa”. “Stronzo”. “Mignotta”. “Infame”. “Bigotta”. Orami l’altro non rispondeva più al fuoco: “Sbrigati che dopo debbo andare”. “Me lo dai almeno un bacino”? “Ma vaffanculo”. “Signora”. “Bastardo”. Questo sarebbe rimasto l’ultimo saluto di Virginia a Baldassare, almeno per quella vita.
Come dice la canzone Soli si muore, ma nemmeno la compagnia può garantire il contrario. Anche con l’amore. Beh! quello lasciamo stare. Un ingrato. Un degenerato. Un vero pezzo di merda. Si era rimessa le mutandine e diritta al punto di ritrovo. “Perché questo ritardo”? “Volevo dire le ultime parole di saluto a Maga”. “Perché non è qui”? “Non sapete”? Davanti ad un ampio coro di no con sorpresa, già preoccupati: “Aprite la tele. La nostra cara Maga c’è rimasta”. “Impossibile”. “Per sempre”. “Non ci posso credere”. “Devi”. “Veramente”? “Davanti ai miei occhi. Pace all’anima sua”.
I notiziari a raffica riportarono immediatamente la notizia particolareggiata di tutto quello che era successo. Meticolosamente. Dei momenti di panico. Dell’ansia di tutti. In modo molto dettagliato della scomparsa del povero giovane pulotto caduto eroicamente nell’adempimento del proprio dovere durante un conflitto a fuoco. In modo un po’ più succinto e sarcastico della morte di una delle bastarde terroriste, nella fattispecie di quella mascherata da Maga Magò. Si erano persino dati la briga di contare i bossoli della breve ma intensa sparatoria; e i danni. Individuato e riportato che a sparare era stata quella che pareva, a detta di tutti, il capo, Betty Boop. Merda! Sottoposta a cardiogramma rapido, e poi a tutti gli esami necessari, prima la First e poi tutti gli altri tenuti sotto criminale sequestro, che avevano protestato ignorando il cavalierato. Lo spavento era stato tanto. Si erano permessi di scrivere e dire che quella, la sosia della Maga, se l’era proprio meritata quella fine. Salvo poi, due righe dopo, senza rettifica, riportare che tolta la maschera alla criminale si erano sorpresi nello scoprire che sotto quel travestimento c’era la vera Maga Magò.

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I tempi sono quelli che sono. A diciott’anni dicevano che ero una promessa. Prima punta. Centravanti. A venti avevo già appeso gli scarpini al chiodo. Poco fiuto della porta, dicevano. La ricordo ancora bene quella partita; l’ultima. Ci giocavamo la salvezza. Il passaggio filtrante era un vero invito a nozze. Mi sono trovato solo io e il portiere avversario. Ho mandato un’altra volta il pallone in tribuna. L’allenatore mi ha richiamato in panchina, e non era ancora finito il primo tempo. Saluto, non del tutto contento, il compagno che mi deve sostituire e sento un gran colpo che mi fa piombare a terra. Ho ricevuto un sasso in piena fronte, e dal settore dei nostri tifosi. Da quel pomeriggio maledetto è cambiata la mia vita. Ho chiuso con il calcio.
In seguito ho fatto di tutto, mille lavoretti. Tutte cose prive di importanza. Mal retribuite. Finché non ho trovato la mia strada: Rappresentante di commercio. Nel giro di tre mesi mi sono comprato la macchina, naturalmente in leasing. Non potevo continuare ad approfittare di quella di Gaetana. Non che fosse stato tutto facile nemmeno allora. Inizialmente le vendite erano scarse. E i clienti sempre così pretenziosi. Dovevo ancora imparare. Trattavo confezioni, soprattutto campavo con i jeans. Poi mi fu offerta la marca giusta e di jeans cominciai a venderne parecchi. A vedere i tabulati con cifre confortanti. A fare i conti per il mio futuro. Erano soldi sulla carta ma erano soldi veri, o quasi. E tanti, almeno nominalmente. Poi la verità è che nel nostro mestiere arrivano sempre tardi e ci si trova davanti sempre ad anticipi. Non ci volevo pensare. Andava bene anche così. Sempre meglio che fare l’eterna promessa come calciatore dilettante.
Nel duemila ebbi il mio gran colpo di fortuna. Su suggerimento di un amico, e previa telefonata un po’ gaglioffa, ottenni la rappresentanza di una grande marca. Una griffe che si vendeva da sola, nonostante i prezzi esorbitanti. Cambiai clientela. Entrai nelle boutique. E in alcuni grandi magazzini, ma molto su. Con una clientela di classe. Un solo capo costava molto di più di quanto avessi guadagnato in un mese anche nei miei periodi più fortunati. Il primo cliente che ho visitato mi ha fatto un ordine stratosferico. Ero al settimo cielo. La percentuale della commissione di mia spettanza era più del doppio di tutte le mie vendite delle due precedenti stagioni. L’ho incorniciata e appesa al muro quella commessa, ed è ancora lì. La mia vita era cambiata. Cominciava veramente a sorridermi. Ma sul più bello tutto si è sgonfiato. È proprio vero che le cose belle sono sempre destinate a durare poco. Un paio d’anni da nababbo e poi… una pugnalata alle spalle. Mi è stata revocata la rappresentanza. Delle mie spettanze ne ho portate a casa poco meno della metà. L’unica gioia era che intanto avevo messo da parte qualche soldino. Anche se avevo speso forse un po’ troppo e sempre prima di averli in tasca.
Ho cercato di resistere in un mercato che si faceva sempre più difficile. Ogni mattino mi svegliavo pieno di buona volontà e di speranze. Ogni sera mi coricava deluso. Le cose continuavano a peggiorare come nel detto, coniato non so da chi, da qualche disgraziato, probabilmente: “Oggi meno di ieri, ma più di domani”. E non era solo il lavoro. Sono dovuto tornare in affitto, rinunciare al gommone e alla roulotte, vendermi la collezione di farfalle e chiederle indietro l’anello per impegnarlo. Dovevo spegnere il riscaldamento prima di uscire. Pian piano stavo rinunciando a tutti i miei sogni e salutavo le poche cose che avevo realizzato. Eppure c’è ancora chi si fa una fortuna, nel nostro mestiere. Ma chiudono sempre più negozi. Gaetana si era stancata di aspettare e la sua macchina era ridotta ad un catorcio impresentabile.
Pian piano mi trovai costretto ad offrire solo bottoni, e rocchetti di filo per cucire, e magliette di seconda scelta. Naturalmente cambiai ancora clientela. I miei clienti erano mercerie. La vita tornava a diventare dura ma riuscivo, seppure a malapena, a finire il mese. Racconto tutto questo solo per dire come sono arrivato a questo periodo. Tra ditte che falliscono, prima di consegnare e saldarmi il dovuto, e ditte che devono limitare le spese. Passerà. Intanto la crisi continua e sembra essersi sistemata per restare sulle nostre spalle. Quei pochi risparmi rimasti erano finiti. È difficile poi adattarsi, abituarsi ad avere meno. Di cambiare macchina non se ne parlava, anche se quella che avevo succhiava come portarsi appresso un vampiro. Era sempre assetata di metano e si prendeva gran parte delle provvigioni; sempre presunte.
Erano quasi più le spese dei soldi che avrei dovuto intascare, e da lì a sei otto mesi. Il mattino mi alzavo senza la voglia e la forza di farmi almeno la barba. Me ne sarei volentieri rimasto a letto. La giacca blu cominciava ad essere lisa; le scarpe sformate. E per un agente la presenza è molto se non tutto. Il cliente ti controlla da capo a piedi. E se non hai tutto a posto non è disponibile a concederti fiducia. Ti tratta come un pezzente. Avevo un appuntamento quel pomeriggio e uno in zona il mattino seguente. Giocoforza e malvolentieri ero costretto a cenare e pernottare fuori. Non serve aggiungere altro per capire che non potevo permettermi di pretendere troppe stelle. Dovevo accontentarmi un po’. Cercare qualcosa per le mie tasche. Mi avevano parlato tutti bene di quella pensione. Decisi di pernottare lì e per una cena frugale.
Il posto non era come me lo sarei immaginato. Non riuscivo a capire il consiglio dei colleghi. Era un po’ più scadente e sciatto di quanto mi aspettassi, e non troppo pulito. Pazienza. Nemmeno la cucina era granché. Pazienza. Era venuto al mio tavolo il locandiere e si era seduto per un bicchiere di vino, del mio, e quattro chiacchiere in compagnia. Era un uomo gioviale che andava subito in simpatia e per le spicce. Mi ha chiesto cosa mi aveva spinto fino a là e quanto avevo intenzione di trattenermi. Gli ho detto una notte o due. Su sua richiesta gli ho spiegato il perché e del mio lavoro, anche se ho esagerato un po’ su come stava andando, e da dove venivo. Mi ha chiesto se mi era piaciuto quello che avevo mangiato. Ho dovuto mentire dicendogli che era tutto buono. Mi ha annunciato facendosi un po’ più serio: “Fanno trenta a notte, colazione compresa”.
Poi si era avvicinata la locandiera con un sorriso ammiccate; anzi proprio porco. Non vorrei mai essere io a mettere malizia sulle cose. È stata la mia prima e fuggevole impressione. Lui l’ha guardata soddisfatto orgoglioso della bella moglie che attirava gli sguardi dei clienti e di tutti. Lo ha anche ammesso. Poi ha osservato me con attenzione ed è scoppiato in una risata soddisfatta e fragorosa: “Lei è mia moglie. Mia moglie. Si occupa della contabilità e solo di quella. È bella, non trovate? Bella e fedele. Io dico sempre scherzando: «Sono trenta a notte, ma se infastidite mia moglie fanno trecento e senza colazione». Naturalmente sto scherzando. Nessuno si prenderebbe la briga di sfidare la fortuna e correre inutilmente questo rischio. Lei sa difendersi bene e da sola. Non ho modo di essere geloso. A parte gli scherzi. È una brava donna. Di quelle all’antica. Non corro certo questo pericolo. Non tradirebbe mai suo marito”.
Lei, disinvolta e solare, come se non avesse ascoltato una sola sillaba di quello che aveva detto il marito: “Gedeone, non mi presenti il signore. Posso portarvi ancora qualcosa”?
Mi presentai da solo alzandomi e porgendole la mano. Lei: “Cosa posso offrile”? Io: “Niente, grazie. Sto bene così”. Lei: “Offre la casa”. Io, non potendo tornare sui miei passi per quel minimo di orgoglio che ancora mi è rimasto: “Grazie”. Lei non nascondendo quella che sembrava una leggera parvenza ingiustificata di delusione: “Non sia timido”. Io: “Allora… se proprio insiste… facciamo un grappino”. Gedeone: “Ne prenderei uno anch’io”. Lei, allontanandosi indispettita: “Allora potevi alzare le chiappe”.
Bevuta la mia grappa gli dico che sono proprio stanco e allora lui mi fa strada e mi accompagna fino davanti alla porta della mia camera: “Si chiuda bene a chiave e faccia sogni tranquilli. Sentirà che silenzio”. Il silenzio era anche troppo. Era un silenzio che faceva male. Era assordante. Noi di città non siamo più abituati a sentirlo. E non avevo poi così tanto sonno. Volevo sistemare la valigia con i campioni e piangermi un po’ addosso: Non avevo venduto uno spillo, quel pomeriggio. Avere il tempo per pensare a tutto e a niente. A Gaetana. Era andato in bagno. Mi ero preparato ma non avevo ancora voglia di mettermi a letto. Mi sono ricordato che non avevo ascoltato il suo consiglio e mi ero scordato di chiudere a chiave. Avevo noleggiato un film, uno di quelli. Tanto me lo avrebbero messo sul conto anonimo e io avrei potuto scaricarlo dalla dichiarazione delle tasse. Ho voluto farmi un regalo e mi son preso una mignon dal frigo bar e acceso una sigaretta che ho lasciato che si consumasse nel posacenere ancora rapito dai fantasmi dei miei pensieri.
Mi ero assentato completamente. Nemmeno il film riusciva a catturare il mio interesse. Un vero spreco. Sento bussare. Domando chi è? Mi sento chiedere: “Posso”? Prima che riesca a rispondere sento aprire la porta, con la tessera magnetica, ed entra lei: la locandiera. Sorride: “Sono io”. Io mi sento naturalmente in imbarazzo: “Entri pure”. Lei ammiccante, guardandosi intorno, ancheggiando e sollevando, per non inciampare, leggermente la gonna troppo lunga fino a mostrare il ginocchio entra: “Sono venuta a rifare il letto. E a sentire se ha bisogno di qualcosa per la notte”. Ci penso un attimo e finisco col dirle: “È tutto apposto. Ma lei faccia pure”. In verità se ne resta diritta davanti alla porta a guardami sorridente, poi chiude l’uscio e gira la chiave: “Mi sembra strano che uno ancora giovane come te non… Non si senta solo e”… Lei guarda cosa sto guardando e si mette a ridere. Poi assume un tono materno e appena rattristato con compassione: “Dev’essere brutto sentirsi soli distante da casa”.
Io: “Credo di sì. È il mio lavoro”. Lei: “Avrà anche i suoi aspetti belli ma credo ne abbia anche di brutti, se ti ha portato qui… così… e da solo”. Io mentre cerco di imparare a mentire: “Il lavoro è lavoro. A volte non lo scegli, è lui a scegliere te. Ma il mio mi piace. Anche se ha degli inconvenienti”. Lei sorridendo gioviale: “Spero di non essere io uno di quegli inconveniente”. Io, guardingo: “No, certamente”. Lei disponibile: “Ti dispiace che resto a farti ancora un po’ di compagnia”? È una bella donna, non lo posso negare. Non fossi in questa situazione probabilmente ci avrei provato io. Avrei preso l’iniziativa: “No! certamente. Ma no vorrei… Non si dia pena per me”. Lei divertita: “Vuoi che ti rifaccio il letto? Sarebbe unna fatica inutile. Non è stato sfatto. Magari lo rifaccio dopo. E ti rimbocco le coperte”. Mi faccio due conti in tasca e non faccio fatica a capire che non posso rischiare. Vorrei che almeno non insistesse. Balbetto non del tutto convinto né convincente: “Veramente… sarei un po’ stanco. Stavo andando a dormire”. Lei: “Non sei bravo come bugiardo. Mi sembri ancora bello sveglio. Sarà per quello che stai guardando”.
Me ne ero completamente scordato e spengo furtivo la televisione anche se il film praticamente non l’ho visto e l’ho già pagato. Ma sono tutti uguali quei film. Me ne do pace “Mi deve scusare”. Lei invitante sembra leggermi nel pensiero, o ha già capito come me la passo: “Non badare a quello che ha detto mio marito. Io… mi accontento di un regalino. E la cosa resta tra noi”. Io, cercando di giustificarmi della meschinità: “Mi creda, era l’ultimo dei miei pensieri. Non che io… È una bella donna, certo. Anche di più. Non volevo… Non volevo offenderla. È solo… che non volevo… Non volevo disturbare. Non potevo immaginare”… Lei: “Disturba pure”. Io: “Posso chiede”… Lei ansiosa mi interrompe: “Puoi. Te ne do il permesso”. Io, sarà stupido ma lo dico perché non trovo nulla di meglio: “Lei è un raggio di so”… Non ho più vent’anni e mi sono fatto più serio. È un po’ che non mi posso permettere un’avventura. Credo di averne avuto poche anche allora come questa. Lei provocante, senza farmi terminare, mentre si sbottona già la camicetta: “Sei anche tu nella moda”?
In questo momento vorrei ricoprirla d’oro, d’oro e di gemme. Io, con un po’ di delusione in corpo giacché ormai la desidero: “Certo… in un certo senso. Potrei offrirvi, naturalmente gratuitamente, una fornitura di bottoni, ma di madreperla”. Ci pensa e mi dice mentre comincia a riabbottonare quella camicetta: “Un po’ pochino, non trovi? Ma… in fondo sei ancora un bel giovanotto. E puoi anche darmi del tu. Mi fa pena vedere che guardi gli altri. Se ti piace il gioco potremmo anche giocare”. Ma poi mi guarda e sorride provocante ricominciando a slacciare i bottoni: “Magari… è meglio se… ci pensiamo dopo”. Io titubante: “E lui”? Lei decisa: “L’ho lasciato a rassettare in cucina. Pensa che stia in studio a sistemare i conti. Nemmeno si darà la pena di venirmi a cercare”. Mi faccio coraggio, cerco di alzarmi ma resto paralizzato. A bocca aperta. Quasi non ci posso credere. Ho l’istinto di pizzicarmi e mi obbligo a non farlo per non rischiare di svegliarmi. Ha già sfilato velocemente la camicetta. Fa scendere la gonna. È un miraggio del paradiso. È un sogno dopo tante disgrazie.
E maledico la mia sfortuna quando irrompe all’improvviso nella stanza un irato signor Gedeone. Lei è praticamente nuda davanti a me. Io non ho più saliva in bocca e i miei occhi sono incollati sulla moglie e non riescono a staccarsi. Il poveretto, gl’occhi fuori dalla testa, non sa che dire e come commentare quello a cui si trova davanti. Batte un pugno sull’infisso. Lei lo invita a calmarsi. Lui gli dice che è furibondo e ha un diavolo per capello. Mi sembra di essere caduto servito nel piatto di una pièce della commedia dell’arte. Che tutto questo sia opera di quel gran drammaturgo veneziano di Goldoni, a cui la serenissima orgogliosa ha persino dedicato una statua. Lei alzando la voce non trovando modo per inventare una scusa o per giustificarsi: “Gedeone!… non essere ridicolo. Non farti riconoscere dal signore. Sei… sei solo un gran… un gran cafone”.
Lui con gli occhi sempre più fuori dalla testa. Vorrebbe dire ma non riesce a dire quello che pensa. A esprimere tutta la sua rabbia. E livore. E ingiuria: “E tu… tu… un gran… Non me lo sarei mai aspettato da te”. Lei resoluta: “Non ti permetto”… Lui, non riuscendo ad averla vinta con la moglie si rivolge verso di me: “Ora facciamo i conti noi due, bel tomo”. Lei decisa: “Vuoi saperlo?… Sono stata io. È colpa mia. Non prendertela con questo poveretto Se solo tu fossi almeno un marito”… Il locandiere guardandomi senza simpatia: “Credo che una notte posso bastare. Forse è stata anche una notte di troppo. Preparate le valigie”. Lei: “Ti ricordo che il posto è a nome mio”. Lui: “E allora tieniti stretto il tuo ganzo”. Lei indispettita: “Gli ho promesso che avremmo disfatto insieme il letto e poi glielo avrei rifatto. E che gli avrei anche rimboccato le coperte. E ogni promessa è un debito. E io sono una donna di parola”. Vorrei poter sparire invece l’oste se ne va uscendo brontolando: “Sai solo pensare a te e ai tuoi interessi”. Lei alza le spalle ed esclama rassegnata: “Qualsiasi cosa è meglio del peggio”.
È così che ora mi trovo ad imparare a fare il locandiere. Vorrei arrangiarmi di tutto io, della cucina, dell’albergo e del resto, da solo. E che lei se ne restasse tranquilla in casa a fare la regina. Ha assunto anche un cuoco per aiutarmi e una donna per le camere. Ma quando lei è stata essente, quei pochi giorni, la clientela è subito rapidamente diminuita. Ho dovuto essere a malincuore io a pregarla di tornare. Ora è tornata per occuparsi solo dei conti. I bottoni? Mi ha detto che non sapeva che farsene. Ho buttato il campionario alle ortiche.

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