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Archive for febbraio 2018

La strada

La stradaIl mostro non è solo la crisi che semina la povertà e ulteriori ingiustizie. Che toglie lavoro e sussidi. Nemmeno questa immigrazione selvaggia. Nemmeno le guerre, inutili, spudoratamente giustificate come pace. Nemmeno il vigliacco e dinamico e efficiente sviluppo tecnologico selvaggio che divora spazio e tempo. Non una sola di queste cose. Forse tutte assieme e forse nemmeno sarebbero bastate. Il ricco ha sempre avuto bisogno del povero per godere pienamente dei suoi privilegi.
Nella vita ci vuole anche un po’ di culo. Forse ci vorrebbe anche un bel poco di quello sullo stomaco; una bella pelliccia a pelo lungo. Il mondo è dei lupi e delle iene. Lo è sempre stato. Solo che gli avanzi e gli spazi non sono mai stati così scarsi. Non c’era mai stato, che potesse ricordare, tanto poco per tanti. Se ci fosse un Dio non lo permetterebbe. Ormai si chiedeva, sempre più raramente, dove se n’era andata a finire la sua dignità? Eppure… ma di questi tempi la dignità è un lusso che non ci si può più permettere. O almeno se lo possono permettere solo i soliti pochi.
No! non c’era più nemmeno decoro. Nemmeno nel frugarsi in tasca in cerca di spiccioli. Ci sono sempre quelli che nel farti la carità ti offendono con la loro arroganza. Solo perché loro credono di potersi ancora permettere la loro dose di superbia. Poveri stupidi. Per quanto? Quelli che sono veramente al sicuro non fanno l’elemosina; non scendono dalle macchine. Oppure, se non riescono a soffocare i rimorsi, mandano l’autista. In fondo ci si sente bene a sentirsi buoni. Per tutti gli altri stavolta la grande sfiga ha già cominciato a non guardare in faccia nessuno. Non lo sanno ma domani o dopodomani si possono trovare loro al suo posto.
Era stato così anche per lui. Non era nato pezzente e nemmeno moccioso. Non aveva mai girato con le pezze al culo. In casa avevano anche una donna di servizio. E non aveva ancora il cervello bruciato. I suoi avevano una fabbrichetta, scarpe, non se la passavano male. E avevano anche un po’ di terra. E si erano potuti permettere, come tutti allora, di farlo studiare.
Valle a sapere prima le cose. Di studiare e faticare non ne aveva mai avuto troppa voglia. Era solo uno stupido. C’erano i soldini di papà e mamma. C’erano le vacanze a Ibiza. C’erano le vetrine piene; le novità e le macchine. E c’erano le ragazze. Un gran coro di ragazze. Uno stormo. Splendide passere. Sbarbine che gli correvano intorno. Disposte a tutto. E poi c’erano tutte quelle feste. Con i deejay. Come si faceva a non essere distratti?
Poi, senza avvisare, i tempi erano cambiati. Dapprima sembrava che tutti avessero deciso di andare in giro a piedi nudi. Poi le scarpe avevano cominciato a farle i cinesi. Pian piano anche il padre aveva dovuto ingoiare i suoi rospi. Aveva dovuto, con fatica, rinunciare a quella sua rispettabilità tanto sudata. Aveva cercato di salvare l’attività liberandosi della terra. Poi ricorrendo alle banche. Era stata la sua messa funebre. Quelle lo avevano strozzato. La mamma era morta di crepacuore. Il papà appeso a una trave.
Di feste nessuno ne aveva più voglia. Gli amici erano spariti. Le ragazze non lo cagavano nemmeno di striscio. Certo puttane erano e puttane erano rimaste. Sempre golose, ma solo un po’ più cresciute, e un po’ più gelose della loro fortuna. Di averla gratis non se ne parlava più. L’unico risultato era sentirsi mandare via e dare del pezzente. Erano quelle le prime volte che era stato apostrofato così. Con la stessa superba cattiveria.
Si era detto che gliel’avrebbe fatto ingoiare, a loro e a tutti. Aveva ancora il rispetto di se stesso. Allora era stato costretto a cercarsi un lavoro. E il lavoro lo aveva trovato. Suo padre aveva ancora un amico. Niente di che, quello che bastava. Doveva sporcarsi le mani, e se le era sporcate. Cucire tomaie non era il massimo. La vergogna era durata meno di un mese. Forse non aveva mai provato la fatica. Forse semplicemente la dea bendata gli aveva girato le spalle. Certo non era sempre puntuale. Certo riusciva meno bene di altri. Però non era giusto. L’amico lo aveva chiamato in ufficio e gli aveva detto solo che gli dispiaceva.
Quell’amico gli era sopravvissuto sei mesi. Ora si sbatte anche lui in una strada a Weimar con le vene gonfie. A raccattare tra le immondizie pieno di eroina. Lui invece era andato al mercato a scaricare cassette. Era durato sei mesi. Sei mesi durissimi. Forse avrebbe resistito anche qualche ora in più. Ma la gente aveva cominciato a risparmiare anche sul cibo. Era disposta a digiunare, o a rubare, per uno stupido cellulare. Lui nemmeno come ladro era mai stato un granché. Al primo scippo si era trovato in gabbio. Non era vita quella e non è vita questa.
La casa di giornali e mille ore al giorno senza sapere cosa fare. Cercando solo di svuotarsi la testa. A stare seduto in un angolo con la mano tesa. Ma ci si abitua a tutto, anche a non aver niente. Nemmeno un posto dove farla tranquillo. Ormai era tra quelli di più lungo corso. E alle donne non ci pensava nemmeno più. Certo se ne ricordava. E a volte rimpiangeva con malinconia certe gallinelle e certe scopate. A volte piangeva senza nemmeno sapere perché. E allora cambiava strada.
Qualche volta era costretto a farlo. Si faceva ricoverare così che per un po’ di pasti aveva qualcosa da mettere nello stomaco. Solo che lo lavavano. Lo mettevano a posto. Erano gentili, ma per un po’ di giorni non aveva più l’aspetto del barbone che era. Si sentiva tornare persona; fiero. E non raggranellava nemmeno il becco di uno spicciolo. E si trovava punto e a capo. Senza nemmeno il quanto per un bicchiere.

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Carlo SpaghettiCosa potrei dire di me? Sono seduto sulla piattaforma di un bar che galleggio sul canale della Giudecca. È bene spiegare ai non veneziani che la Giudecca è un’isola, originariamente destinata alle… vacanze un po’ forzate dei giudei. E che questo canale è il più largo e profondo di Venezia. In quel punto forse più di duecentocinquanta metri. Era appena passata una di quelle maledettissime Grandi Navi. Come stavo per dire… Lo vedo arrivare mentre bevo un’aranciata. Consapevole solo di sé e del nulla. Lo chiamo altrimenti sono certo che passerebbe diritto. Ciabatte infradito ai piedi. E lui si viene a sedere con me. E sorseggia dal mio bicchiere.
Esordisce con un “Come ti butta”? Non credo mi abbia nemmeno riconosciuto. Carlo, Carlo Spaghetti, per tutti Spiga, è amico di mio fratello. Ha un paio d’anni più di me. M’è sempre sembrano strano e da strano credo di avere un po’ di ammirazione per lui. Ha lunghi capelli fin quasi alle spalle. Scuri. Diritti come detta il suo cognome. È magro, appunto, come un chiodo. Gli occhi non sono piccoli, sono solo stretti come fessure. E praticamente cieco, ma non se n’è accorto e tenacemente non porta occhiali. Solitamente veste come un alternativo trasandato, ma a volte è solo trasandato. E, se non fosse per le attenzioni della madre, potrebbe dimenticare di vestirsi. Lui vive costantemente da un’altra parte. Forse questo s’era già capito. Abita sulla luna. Ma anche Venezia è un paesaggio ben strano. Adatto. Sembra fatta su misura per lui.
Gli dico che non va malaccio. Lui rolla una canna senza che glielo chieda. Forse non è nemmeno buono, ma è generoso. L’accende, e dopo un paio di tirate me la passa. Parla poco anche se interrogato. Devo togliergli sempre le parole di bocca. “Dove sei stato”? “Qui e là, in tanti posti”. “Ma dove”? “Se lo vuoi sapere, cazzo! non lo so nemmeno io”. Non sempre riesce ad essere abbastanza preciso. “Ti sarai fatto una cazzo di idea”? Quando sono con lui prendo questo cazzo di intercalare da lui: “Più o meno”. “E allora”? “Cazzo, ora che mi ci fai pensare: parlavano spagnolo. Doveva essere Madrid o Barcellona. Conosco una tipa là. E anche là”. A lui le ragazze non mancano mai. “Pensa alla tipa”. “Non serve a nulla. Devo aver sbagliato Dolores con Carmen. Cazzo! non so se ho chiamato Dolores Carmen o Carmen Dolores. Dici che se la sarà presa”? Sospetto di sì ma non glielo dico. “Avrai pure fatto il biglietto”. “Naa! Ci sono andato in bici”. Non finirà mai di stupirmi: “In bici”? “Sì! ma cazzo mica potevo far la strada diritta. Son passato da Bruxelles. E visto che c’ero, cazzo! ho fatto un salto in Olanda. Conosco una tipa, ma è italiana. Di nome credo faccia Marchina. Forse Martina”. “Ma come fai a non sapere il nome”? “Mica lo chiedo ogni cazzo di volta”. “Certo… Cazzo! Sei forte”. Tace. “Tutta quella strada”? “Ma mica ero solo. Mi ha fatto compagnia il mio cane. Cazzo”!
A Carlo si può chiedere ogni cosa. Basta accontentarsi delle risposte che ti dà. Lui è così. Se non fosse così non sarebbe più Spiga. Lo sanno tutti. Sto già frugando per trovare un altro argomento intanto l’aranciata l’ha finita. Vedo dalla sua espressione che ha ricordato qualcosa. Mi dice: “Lascia stare, offro io”. Posa sul tavolino cinquanta centesimi che non basterebbero per una misera mancia. Fa cenno al cameriere e mi spiega: “Scusami, ho appuntamento con una tipa e devo andare”. Quello che fa dopo è un’altra di quelle sue imprese che tra i giovani di Cannaregio non verrà scordata e passerà alla storia. Si alza e si tuffa vestito com’è.
Solo qualche giorno dopo mi ha ricordato un fattarello legato alle leggende sul grande Franz[1]. Sembra che anche il suo amore, Milena, scorgendolo sull’altra riva, si sia tuffata e l’abbia raggiunto a nuoto. L’eccezionalità dell’impresa è stata perché l’acqua della Mòldava, secondo Max Brod, non supera mai la spanna o poco più. In quel momento sono stato solo a guardarlo esterrefatto, nuotava con lunghe bracciate incurante delle barche di passaggio. Mi è sembrato dopo di vederlo, solo perché ho una buona vista, a differenza di lui, piccolo, dall’altra sponda agitare le mai per salutarmi. Certo. Dovevo parlare di me e invece ho parlato solo di Carlo Spaghetti. Ma l’occasione era troppo ghiotta per lasciarsela scappare.

[1] I due protagonisti sono naturalmente Franz Kafka e Milena Jesenskà

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L_ultimo viaggioClinica Santissima Maria Crocifissa (Paola) Di Rosa Vergine; nel bresciano. All’esterno si presentava come una villa, tenuta bene, con un bel giardino. Non era un rifugio per poveri, ma alcuni ospiti beneficiavano della carità cristiana e l’istituzione li sopportava amabilmente, in cambio solo della loro pensione. Molto spesso questi ospiti, alla loro morte, ricompensavano quella generosità lasciando al pio istituto tutti i loro averi; non certamente benedetti dai propri cari.
Nadežda ci lavorava da un paio d’anni. Da quello stesso periodo circa Pietro, novantacinque anni portati nemmeno tanto male, era ricoverato e ormai era immobile nel suo letto. Intorno ai due protagonisti si muoveva quell’universo che è solito popolare posti simili, cioè uomini e donne anziani, che non avevano più, molto da aspettarsi dalla vita, se non ricordi spesso sbiaditi, naturalmente in stanze separate, anche quando si trattava di coniugi. Un passato che a volte diventava nebbia. Una memoria che, in molti casi, non era più nemmeno presente.
Neanche più persone, ma individui. Parcheggiati là da famigliare che non potevano o non volevano accudirli di persona. Fantasmi di antichi affetti o doveri. Sarebbe persino inutile dire queste cose e descrivere quel paesaggio, così comune a tutti gli altri. Le attese di quelle persone pazienti. Già tutti sopravvissuti. Affetti disperati. La delusione delle frequenti mattine in cui all’appello qualcuno mancava di presentarsi e mandava al suo posto solo la stessa, sempre triste, giustificazione.
Il posto è bello, ma, come sempre, aleggia quell’odore di disinfettanti e di crisantemi in putrefazione. Olezzo che persiste e resta appiccicato a pigiami e a vestiti. Come già un odore di camposanto; nell’aria immobile e stagnate, sempre viziata. È un mondo dietro le mura. Un mondo che sa di chiuso anche con le finestre spalancate.
Si sa che i vecchi non hanno bisogno di molto sonno. Dormono poco. Anche Nadežda, che quel giorno compiva i suoi primi trent’anni, lo sapeva. Non si era mai chiesta perché prima di quella sera. Non aveva saputo darsi nessuna risposta. Sapeva solo che era così e aveva alzato le spalle. Poi era tornata a pensare solo al proprio lavoro, e a occuparsi di tutti i suoi vecchietti.
Ce n’era uno in particolare, sempre gentile e educato, che aveva riscosso un tozzo ulteriore della sua simpatia. Quel vecchio, appunto, si chiamava Pietro, e lui non dormiva mai. A Nadežda faceva una gran pena. Spesso, la notte, quando tutti gli altri riposavano, si sedeva vicino al suo letto e si fermava a parlare, o gli leggeva qualcosa per fargli passare quelle ore. Molte volte il giornale con le notizie sportive. Quella sera qualcuno lo aveva preso e lei non aveva niente da leggere. Le sembrava di essere già al capezzale di un moribondo. A volte salutavano il mattino e la fine del turno assieme. Altre volte veniva chiamata e allora si doveva allontanare. Si sa com’è quel lavoro che ti ghermisce l’anima. Quella volta decise di inventarsi una storia. Era l’undici novembre del 2011.
Pietro aveva una grande simpatia per la sua infermiera. Erano tutte gentili con lui, ma lei, quella straniera, lo era anche di più. Riusciva a starlo ad ascoltare e soprattutto gli parlava, quando era libera e nessuno la reclamava. Dopo aver fatto anche l’ultimo giro. Senza mostrargli sopportazione. Gli raccontava di lei. Gli chiedeva di lui e della sua famiglia. Gli leggeva il giornale. Aveva una grande pazienza. Con lei, Pietro, si sentiva sereno e tranquillo, anche se continuava a non riuscire a prendere sonno. Si sentiva sereno e ancora vivo. Ma come poteva riposare se l’unica cosa che faceva era solo riposare, tutto il santo giorno.
Lei era veramente premurosa. Come con un vecchio padre. Lei era la sua compagnia. Soprattutto da quando i figli e i nipoti avevano cominciato a essere assenti. Lo faceva sentire come se fosse quasi a casa. Non un peso. Non una cosa inutile. Gli aveva raccontato del suo paese, lui non ricordava nemmeno quale. Che il suo nome, Nadežda, nella sua lingua, significava speranza. E tante altre cose. Piccole o grandi. Per lui erano tutte importanti. Anche la sua voce era dolce come lei.
Non importava ciò che dicevano i dottori. Probabilmente era solo compassione, viltà della casa, ma lui sapeva che davanti non gli restavano ancora molti giorni. Era arrivato a quell’età, si potrebbe dire, senza troppa fatica. Ma ogni giorno era un giorno rubato. Non dormiva nemmeno quel poco anche perché appena socchiudeva gli occhi la vedeva là, ai piedi del letto, la dama in gramaglie. Quella vecchia signora che taceva e lo aspettava. Non ci si abitua mai. Quella sorta di timore continua ad aumentare con l’andare dei giorni, delle settimane, dei mesi e degli anni.
Da quando aveva perso sua moglie era solo. Niente lo teneva ancora aggrappato a una vita che non era più vita. Che era solo attesa. Aveva solo Nadežda. Non fosse stato per lei avrebbe saputo cosa fare. Invece cercava di guadagnare anche quegli ultimi spiccioli. Solo per sentire la sua voce. Solo per godere di averla accanto al letto. C’erano troppi e tutti undici quella notte. Come in un presagio. Era curioso di sentire quella storia. Che, come gli aveva detto la sua cara confidente, non era nemmeno una storia della sua terra. Era solo una storia. Che procedeva così come le veniva. Lui cercò di mettersi comodo per ascoltare, e lei per narrare; a voce bassa e nel buio per non disturbare nessuno. E allora:
«C’era un giovane principe in un ricco palazzo. Il giovane principe non voleva invecchiare. La sua giovane moglie, ancora troppo ragazza, giaceva in un letto, e nessun medico la sapeva guarire. Lui temeva le malattie e la morte. La malattia che vedeva. La morte che era lì in attesa. E che prima o dopo avrebbe bussato anche per lui. Che poteva coglierlo in ogni momento. Anche per mano delle belve che vivevano nei giardini della sua reggia. Cercava l’elisir della vita eterna. Cercava quella fonte che in tanti avevano inseguito ma nessuno aveva mai trovato.
Ma quello era un paese di grande fascino e di lontane tradizioni. Un paese dove tutto era niente e niente era tutto. E dove tutto sembrava possibile. E per ogni quesito c’era un responso. Così il giovane chiese a tutti e riempì l’intera isola di domande. Non trovava la risposta che cercava. Alla fine era stato il cuoco a parlargli di quel saggio che si diceva avesse una soluzione per ogni cosa. Ma abitava in un eremo molto lontano. E chi si metteva in viaggio, doveva farlo da solo. E lui, da solo, attraversò il mare. Incontrò villaggi sconosciuti e altre lingue. Guadò torrenti e navigò fiumi rabbiosi. Camminò faticosamente per settimane intere. Infine, salì fino alla cima più alta del monte più alto.
Nadežda si scusò se quella storia Pietro l’aveva già sentita o in qualche modo la conosceva già. Che lui glielo dicesse pure. Ma lui rapito tacque e lei proseguì. Così come il viaggio del principe era proseguito insegnandogli molte cose. E aveva perso molto del suo egoismo e della sua arroganza. Era un paese povero quello che aveva attraversato. Per dormire si era dovuto accontentare di posti poco meno che malfamati, e persino anche di niente. Con un soffitto fatto di stelle, o di nuvole nere.
Era stato bagnato varie volte dalla pioggia. Aveva mangiato quello che aveva trovato. In vecchie bettole puzzolenti e fumose. Della carità di qualche contadino. In alcune occasioni anche solo con qualche frutto caduto, o rubato. Da solo aveva guarito le proprie ferite. Aveva sofferto e aveva consolato. Le sue belle vesti si erano sporcate delle intemperie e delle sofferenze. Ormai erano lacere. Ormai i capelli e la barba erano lunghi, sporchi e trasandati. Finché, nella grotta, non si presentò al cospetto di quell’anziano saggio, provando rispetto e vergogna.
L’uomo sapiente, malfermo e raggrinzito, che pareva avere tutti gli anni del mondo, gli aveva chiesto cosa lo avesse spinto fin lì. Poi era stato in silenzio solo ad ascoltare. Sembrava assopito. Infine, per giorni erano stati entrambi senza emettere suono. Sospesi tra il presente e i loro pensieri. Ascoltando solo quel frusciare di foglie che arrivava da fuori. Il grido di qualche uccello. Poi un dì, che sembrava come tutti gli altri, decise di non finire e non farsi scovare dalle ombre della notte. Alla trentaseiesima ora il vecchio saggio gli aveva annunciato che però c’erano delle prove da superare. Delle terribili prove dalle quali nessuno era mai tornato. Lui si sentiva pronto. Il suo cuore era indomito e non temeva tentennamenti né dubbi.
Il giovane principe si preoccupò solo del passare delle cose; temeva che non avrebbe più rivisto la sua cara moglie bambina. Che avrebbe ritrovato la sua reggia vuota e in rovina. Il vecchio saggio lo tranquillizzò spiegandogli che in quel posto, fuori da ogni altro posto, il tempo sarebbe passato inesorabilmente solo per lui. Oltre quei confini, in tutto il resto dell’universo, la grande clessidra della vita non avrebbe fatto cadere un solo granello di sabbia. Per tutti gli altri esseri umani, tranne lui, tutto si sarebbe fermato immobile e sarebbe rimasto uguale.
Il giovane principe si sentì rassicurato, ma anche si lasciò a un piccolo dubbio. Dubbio del quale fu rimproverato con uno sguardo, ma credeva a quel vecchio, seduto su quel sasso, che sembrava leggergli nel pensiero. Ormai si era convinto che fosse proprio così, che qualunque cosa dicesse o chiedesse lui la sapesse già, e con largo anticipo. Già quella era stata la prima prova».
Prima di proseguire la giovane donna guardò il vecchio amico. Aveva occhi spalancati e attenti. Le labbra dischiuse per la ritrovata meraviglia. Sembrava tornare bambino, disposto a lasciarsi affascinare, anche da una cosa semplice come quella. In fondo le prove, nelle grandi fiabe e leggende simili, si assomigliano tutte. Tanto varrebbe nemmeno darsi la pena di elencarle o raccontarle. E la notte di Nadežda e Pietro lasciava inesorabilmente scorrere le proprie ore. Eppure, nessuno dei due aveva fretta.
«Le fatiche del suo viaggio sarebbero sembrate nulla al confronto di quello che attendeva il principe. Doveva far visita al grande sultano del deserto che aveva nascosto anche la più piccola pallida ombra. Il caldo era tremendo, sbriciolava le pietre come un martello gigante. E lui non aveva nemmeno né un mantello né il suo turbante. Dopo doveva recarsi dalla grande signora del ghiaccio, che lo avrebbe ospitato fuori dalle sue mura, finché la sua pelle non fosse diventata dura come corteccia e poi sottile fino a creparsi. E i suoi denti non si fossero frantumati nel battere. Dopo doveva fronteggiare i morsi dell’irascibile belva della fame che avrebbe affondato gli artigli fin dentro le sue viscere.
Il giovane principe si rese presto conto però che ad ogni prova lui invecchiava. E più invecchiava e più paure incontrava. Chiese al saggio perché i suoi anni corressero con quella velocità affannata. Allora il saggio gli spiegò, con la massima calma, che ogni prova lo avvicinava alla conoscenza. Ogni prova lo aiutava a capire che cosa lo aspettare, nella vecchiaia. Prima i fastidi. La progressiva diminuzione della vista, e dell’udito. Poi i veri dolori.
La fatica nel fare quello che era sempre stato semplice. I nipoti che crescevano, e lui che si curvava. Gli amici perduti e quelli che lo salutavano per l’ultima volta. La solitudine. La fragilità del suo corpo. L’affollarsi di ricordi che si confondevano e diventavano difficili da riordinare e rammendare. I figli che pian piano venivano sempre meno. E venivano non per ascoltare, ma per raccontare dei loro problemi. Dipendere dagli altri. Dipendere da quattro pastiglie, ogni benedetto giorno che gli concedeva la provvidenza, e un’iniezione, uno sì e uno no. L’umiliazione del pannolone e del catetere. Tutte cose che il paziente Pietro conosceva bene.
Ma la lotta per l’ardimentoso principe non era ancora finita. Dopo quello con la fame veniva l’incontro con l’egoista padrone dei mari, dei fiumi e delle piogge, che aveva leccato via persino la rugiada dal mattino. È comunemente risaputo che la sete è la sofferenza più atroce. E che porta alla morte più dolorosa. Il principe, non più tanto giovane né vigoroso, pensava che sarebbe stata la fine. Era solo l’inizio. Ciononostante non aveva ripensamenti.
Dopo era stato invitato a contendere alla morte la vita, nella malattia più grave: la sindrome del morto vivente. Il valoroso non si lasciò abbattere. Affrontò anche quel cimento e vinse. Ancora una volta confidava di poter tornare al vecchio per la sua risposta. Si trovò davanti invece alla tigre albina che sfoderava i suoi temibili artigli e le sue mostruose zanne. Lui non aveva che le sue stesse mani nude. Alla fine, dilaniato dalle ferite dell’aspro combattimento, con una selce affilata scuoiò la belva del suo manto per coprirsi e poi portarlo come prova e trofeo. Per concludere lo aspettava la prova più ardua: doveva ascoltare i lamenti di dieci mogli. Quando si credette sul punto di impazzire le donne gli annunciarono che poteva far ritorno alla grotta.
Alle numerose domande, dell’ormai vecchio discepolo, il paziente maestro rispose con la massima calma. Il vecchio saggio gli rivelò che, in verità, le prove non erano propedeutiche a nulla. Solo a quello, a visitare tutto ciò che lo aspettava. A renderlo edotto che il futuro è quella stessa condanna quasi per tutti, e gli altri erano solo stati meno fortunati. Poi lo restituì ai suoi anni. Infine, il vecchio saggio, gli diede la risposta che cercava. Non c’era una soluzione alle sue paure. C’era solo la consapevolezza di sapere che il paradiso, per chi se lo merita, è esattamente come ogn’uno ha saputo immaginarlo.
E il principe, nuovamente giovane, ripartì per tornare alla propria reggia, e dalla sua tenera moglie, non del tutto soddisfatto. Ma se ci avesse pensato bene, e di tempo ce n’era, aveva tutto quello che serviva. Ora sapeva che dopo la vita c’era un’altra vita. E che quella vita doveva cercare di guadagnarsela immaginando come la voleva. Forse quelle che lo aspettavano erano prove ancora più dure di quanto già affrontato e superato».
Pietro aveva sempre provato, con tutta la propria buona volontà, Nadena cioè Nadsa, poi aveva borbottato e alla fine si era arreso. E l’aveva apostrofata con l’unico nome che gli riusciva di pronunciare. Oltre a tutto, senza i suoi denti in bocca, le sue parole diventavano sputi: “Nadia, puoi essere così gentile di passarmi la dentiera”. Faceva fatica ad allungare quel maledetto braccio e ad afferrare le cose con la mano destra. Lei gliela porse nel bicchiere.
L’aveva ringraziata e ancora aveva vinto, dopo molta fatica, il suo riservo e la sua progressiva timidezza. Si era fatto coraggio: “Me lo daresti un bacio”?
Perché no”?
Lei, con la massima delicatezza, accostò le labbra a quello del povero vecchio. Quando le staccò lui era sorridente e i suoi occhi mandavano lampi benevoli ma accecanti. Gli ci vollero alcuni minuti per ritrovare fiato e voce: “È proprio vera. La storia, voglio dire. Ecco, io ci sono appena tornato, dal paradiso”.
Nadežda aveva finito il suo raccontare e, dopo il bacio e quelle parole, guardò il vecchio Pietro che finalmente si era addormentato sereno. In cuor suo sapeva che da quel sonno ristoratore non si sarebbe risvegliato. Finì il suo turno e tornò a casa con il cuore triste, ma gli occhi rallegrati.

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Siamo donnesegue: Ritorno al presente [15]
Era stanca di quell’esistenza. Di quella inutile ricerca. Di quella continua fuga. Di una fuga che l’aveva portata a scappare anche da se stessa. Forse aveva sbagliato tutto, fin dall’inizio. Forse la donna non è fatta per cercare di sostituirsi all’uomo. E poi perché? Aveva sfiorato varie volte la morte, e se ne era fatta beffe per caso e per fortuna. Aveva rischiato ripetutamente la galera. Niente intorno a lei, tranne lei, le sembrava cambiato. Non si sentiva più libera di prima. L’unico risultato era stato crearsi il deserto intorno. Piangere amiche che amava. Rimpiangerne delle altre. Non aveva più nessuno. Non aveva più un luogo, una casa. Si muoveva guardinga tra sconosciuti.
Si rendeva conto che non era più la stessa Betty Boop. Non era nemmeno tornata Virginia. Era un’altra cosa. Il mondo l’aveva cambiata e lei ormai aveva un conto in sospeso con il mondo. Un sordo rancore. Non aveva trovato rifugio nemmeno in Dio. Non aveva trovato nessuna assoluzione, nessuna pace. Era un mostro. Aveva dentro di sé solo risentimento. Odio e disprezzo, per l’Uomo. Si stava trasformando in una belva assetata solo di vendetta e di sangue. Scelse la stazione. Malefica lo avrebbe fatto contemporaneamente alla Gare di Lyon, perché Parigi le appariva più chic. L’Ultimo-It Avrebbe fatto lo stesso alla stazione di London King’s Cross. Un altro paio di amiche a Milano Centrale e a Firenze Santa Maria Novella e a quella di Abbiategrasso. E la popputa Julie Corrençon avrebbe fatto il botto, naturalmente, in pieno centro di Belleville. Su lei si poteva sempre contare. Bettina si sentiva pronta, ma un poco nervosa.
Mescolata a tutta quella confusione si sentiva al sicuro. Ormai era decisa, ma le cose non vanno mai come dovrebbero. Si avvicinò uno strano tipo vestito come un agente di commercio che pareva averla riconosciuta: “Sei un vero amore… Bettina”. Lei gli fece l’occhiolino, non si nega nemmeno al condannato a morte, appunto, e lo invitò. La seguì dietro quel suo accentuato e voluttuoso scodinzolare, e frettolosamente la raggiunse ai bagni delle donne. Si privò del suo garbo e di tutta quella noiosa parlantina. Cercò di essere veloce, l’illuso, ma lei lo fu di più. Lo colse con i calzoni già abbassati. Lo strozzò con la catenella dello sciacquone per non far rumore. Era stata rapida a girargliela torno il collo. Anche se era minuta e lui abbastanza più grosso, si era appesa con tutto il peso. Lo lasciò scivolare sulle piastrelle umide e sporche.
Gente che va, gente che viene. Nessuno faceva caso a nessuno. Tutti andavano di fretta. Tutti sembravano inseguire il treno del destino, anche i mariuoli, i borseggiatori, il popolo dei miseri e quello dei senza dimora e dei perdigiorno. Forse fosse stara una valigia abbandonata, ma nessuno aveva fatto caso a lei. Nessuno poteva notare l’assenza dell’anonimo sconosciuto. Non finché qualcuno non fosse andato in quel cesso che aveva lasciato come occupato, magari qualcuno per fare le pulizie o per impazienza. In fondo quella era una stazione. Un posto che non è mai un posto. Così andava distratta come senza meta, trascinando il suo borsone.
Si era soffermata alla libreria. Aveva preso alcuni volumi in mano. Sembrava semplicemente indecisa. Di alcuni aveva letto anche la quarta di copertina. Era uscita com’era entrata, facendo un leggero cenno al cassiere, un giovane ragazzo che non era nemmeno male. Aveva fatto una colazione abbondante con cappuccino e un paio di bomboloni gonfi di crema. Era dovuta salire per ricorrere ancora al bagno perché l’attesa le faceva sempre quell’effetto; sempre con il suo borsone. Si era fermata per scambiare poche parole con un marinaio, che annegava gli occhi dentro una zuppa di lenticchie e pistacchi, e con due suore, di cui una albina. Sembravano non avere fretta. Avevano parlato delle solite cose banali e dei problemi della capitale. Non faceva che guardare l’ora e lo schermo gigante con gli orari delle partenze. Poi aveva raggiunto il centro del salone.
Siamo donne Betty BoopAveva poggiato a terra prima la sua cara Beretta 98 FS inox, poi la Glock 17 Gen 4, assieme al borsone, tra l’indifferenza generale. L’estemporaneo pubblico sembrò non farci caso. Probabilmente nessuno aveva ancora notato le due armi. A quel punto principiò a dimenare le anche e a cantare come quella sciacquetta della Minnie Minoprio, un’imitazione veramente deludente. Prima di una, poi dell’altra, cominciò ad attirare su di sé l’attenzione e la curiosità delle persone e dei viaggiatori. In breve, si stava radunando una piccola folla. La gente si gustava quello spettacolo improvvisato, insolito e gratuito. Attenta. E si faceva via via più numerosa. “Lustrateveli bene, maledetti. Scattate. Vi odio tutti”.
Non abbastanza attenta alle sue parole. Più attenta a quello che succedeva. Non che le dispiacesse come gli uomini la guardavano, quegli occhi, ma non aveva mai provato così, ad esibirsi. In tutto il suo splendore. Davanti ad una platea. A tutti. Ed era tardi per tutto. Anche per una banale lusinga. Sfilata la maglia si denudò il seno. Si coprì con le mani, poi si lasciò guardare. Ci fu un sordo boato di stupore e apprezzamento. Qualche commento. Qualcuno trattenne il fiato. Un anziano, che a spintoni era giunto in prima fila, si sentì venir meno. Poi con calma, come una vera professionista, lasciò scendere un petalo alla volta, gli short, le calze, la giarrettiera, gettò le scarpe lontano fino a rimanere nuda. Solo Betty Boop in tutto il suo splendore. Uno schianto. Un vero incanto.
Una donna corse a cercare un poliziotto o un carabiniere, o comunque un tutore della legge, per fermare quello scempio. “Sei la migliore”. “Ahhh!!! bella”. “Fata”! “Mignottona”! “Ce l’avresti un minuto per me”? “Sei una santa”. “Chiedimi quello che vuoi”. Un poliziotto era presente mescolato al pubblico improvvisato, ma non mostrava nessuna intenzione di voler intervenire. Lo schianto doveva ancora succedere. Betty sorrise e si chinò lentamente sulla borsa, mostrando in tutto il suo splendore, in bella vista, la perfezione delle sue natiche, e tutto il resto. Una strana sensazione la pervase: era soddisfatta di sé. Con ritrovata calma diede il via al breve timer. Si udirono ancora un paio di fischi e poi solo il grande boato. Le ultime donne davano l’addio all’ultimo spettacolo.

FINE

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Ritorno al presenteSegue: Il richiamo della fede [14]
1. Era proprio lui quello che se la suonava e cantava. Era proprio lui quello che aveva ucciso Kafka. La signorina Boop sperava che non avesse intenzione di riservare lo stesso trattamento anche a Woody Guthrie o a Lightnin’ Hopkins. O ad altri. Di veri lutti, e presunti tali, ne aveva avuto abbastanza. Quell’artista (?), cominciava a dubitarne, era un vero diavolo. Un vero assassino. Aveva ucciso anche i suoi ultimi sogni. E non aveva ancora visto tutto. Intanto lui si leggeva e se la rideva. In quel mondo non facevano fatica a riconoscerla. Anche se lei faceva fatica a farsi ascoltare perché tutti si davano un gran da fare. Tutti si mettevano il dito davanti alle labbra. Tutti sotto di sé nascondevano una donna. O più spesso erano nascosti o sovrastati da lei. O solamente la portavano attaccata ai pantaloni. La nostra Betty non si demoralizzava. Sapeva che le sue misure perfette lì non erano così perfette. Era una donna troppo normale, troppo minuta per i gusti degli abitanti del luogo. Forse non abbastanza sfacciata. Forse non abbastanza remissiva; tra quegli amanti della porta sul retro. Credeva così di salvarsi, povera illusa. Probabilmente il nostro “poeta” pensava che quando un culo parla, in modo così convincente, inutile cercare di non ascoltare o di fare l’indifferente.
Lui ripeteva che dove c’è fumo c’è ciccia. Che era di papille buone e generoso. Aveva dieci dita, spesso sporche d’inchiostro, ma sembravano mille. Sembrava un polpo, e con i polpastrelli pieni di ventose. Ne era infastidita. Sospettava che la raccontasse. Che si vantasse. Forse per lui era un complimento: “Sei piccola ma nel tuo piccolo sei soda”. Quando non cercava di trascinarla a letto o era comunque impegnato in un letto qualsiasi, o sul divano, o sul tavolo, o in qualsiasi posto capitasse, allora uscivano. Si rendeva disponibile a farle da anfitrione. Un ospite alquanto strano e informale. L’accompagnava a conoscere quei luoghi. Le parlava guardandosi attorno. Pronto a saltare addosso, letteralmente addosso, alla prima che passava: “Vedi, quella è Maggie”. Detto fatto. Mentre ancora la indicava già le era sbalzato in groppa. Nessuna donna dovrebbe sopportare un simile peso.
Questo, a dire la verità, un poco l’aiutava a sentirsi meno diversa. Con l’inglese d’America non aveva mai avuto difficoltà. Poteva dire con orgoglio che era quasi la sua prima lingua. E sapeva dove e da chi andare. O almeno lo aveva creduto. Per il resto… Continuava a sentirsi una nana. Lì un po’ spariva e non richiamava troppi entusiasmi. Non che le fosse sgradito. Anche quei pochi erano troppo. Troppo per il suo gusto. Troppo per com’era lei. Non riusciva a sfuggire a tutte quelle imboscare. S’era anche sparsa la voce che lei era stata un sex-symbol. Di male in peggio. Magari lo facevano solo per poi poter andare a raccontarlo. Come un sacrificio. Eppure, con insolito entusiasmo. Non era certo una santarellina, ma nemmeno era certo come quelle lì, tutte quelle donne dissolute, pronte a tutto. O come quelle suore sodomite, ma anche sadiche. Pronte a tagliare di netto il peccato dell’uomo. E altrettanto lussuriose e inclini a peccare. Ma non era abbastanza rapida per sfuggire a quelle attenzioni troppo veloci, a quegli approcci così impazienti, e sempre un po’ frettolosi. Mai accompagnati da un poco di sentimento. Da qualche parola carina.
Lui aveva le sue idee; nuove idee per un nuovo vivere. Poteva realizzare, con carta e penna, ogni suo sogno e ogni vizio. Il mondo se l’era disegnato così, come voleva. Con lui protagonista o interpretando un altro dei suoi scostumati personaggi. Senza freni. Ad esempio: Provare una bella combinazione di madre e figlia! «La famiglia che sta insieme resta unita!» Stanze come vignette, senza vergogna. Padre e madre sul divano, fratello e sorella sul tappeto, nonno e nonna in cucina, con la porta aperta sfornando una torta, la più piccola, vittima consapevole e contenta, col cane “Goo”; persino il quadro che ritraeva due ragazzini. A tutto c’è un limite, pensava la nostra protagonista. Non per essere una bacchettona moralista… Questo era proprio troppo. Era solo un gran porco. E lei era precipitata in quella dimensione amorale. Persino a Fritz, il gatto di casa, doveva stare attenta. Conosceva il suo dialetto. Le si strofinava sulla gamba. E se abbassava un attimo la guardia la toccava e le infilava la zampa nella scollatura. E avrebbe voluto farle vedere quanto era maschio. Era una cosa oscena, ma in quel paese sembrava tutto normale. E tutto morale. Avrebbe dovuto forse saperlo, ma non se lo aspettava; certo. Non aveva mai visto tanta impudicizia e tanto sesso. Anche se di cose non ne aveva viste poche.
Ritorno al presente2.jpg2. Lei era una buona spanna, forse due, troppo piccola per i gusti dell’universo Crumb; e aveva qualche decina di chili in meno di ciccia muscolata. Lì andava per la maggiore il tipo Nia Jax. La donna forzuta. Forse era un bene, ma, come detto, non bastava per salvarla. Certo che in mancanza di meglio né l’eroico Robertino né gli altri personaggi del fasullo paese si facevano schizzinosi e disdegnavano qualsiasi rapida variante del piacere, qualsiasi congiunzione e amplesso. Anche con lei. Cose che una donna per bene non dovrebbe nemmeno pensare. «Va dunque cercata tra un paio di cosce tutta quell’energia che rivoluzionò il fumetto d’autore negli anni ‘60 e che lo ridisegnò totalmente come forma di comunicazione[1]»?
Era sorpresa che tutto, anche quel Dio, fosse proprio uguale come nelle vignette. Così come anche il suo paradiso, e quel paradiso in terra. E tutti gli esseri che lo abitavano. Con le donne sempre gigantesse e robuste. Tits & clits. Piene di curve e prive di inibizioni. Possibilmente giovani. Con culi enormi e tette enormi; con cosce muscolose come sequoie, come corpulente morse. Con appetiti pantagruelici. Pronte a togliere qualsiasi sfizio anche allo stesso disegnatore. Con le facce colme di ingenua stupita sorpresa e di rabbia indispettita. Come se tutto fosse solo riscatto e/o vendetta. Un riscatto frustrato. Come ossessione. Come se quello dell’uomo fosse un gran regalo. E due di più. Come per tutti quei personaggi sconci da vignette. Con Pluto, Peg-Leg Pete. Con Donald Trump. Come in un blues. Con Janis Joplin e Bobby McGee.
E lui che, per quei pochi minuti, si innamorava di tutte. Lui non ne aveva mai fatto mistero. Per lui il sesso era da sempre un’ossessione. Tra sogno e realtà. Magari solo per un breve attimo di avventura, magari solo fantasticata, per poi trovarsi a interpretare se stesse in una striscia o una vignetta. Erano, come sosteneva, soprattutto ebree, che pare vadano pazze per gli artisti pazzi. E il nostro artista pazzo per loro. E si proponeva; con scarsi risultati finché non divenne Robert Crumb: «mio fratello Max un giorno mi disse: Bob, le donne ti uccideranno!Sono sicuro che ha ragione, ma non m’importa… Ne vale la pena… quei magnifici culi dei miei sogni sono stati miei, tutti miei, tante volte e sono felice e grato»…Un tormento frequentato fin da bambino. Con Sheena, l’avvenente regina della giungla, vestita discinta con pelle di tigre. Nei banchi di scuola con la compagna di scuola dai calzettoni bianchi, Jeannette Beates, che ritornava spesso a frequentare e ad abusare. E poi le altre. In una lunga processione. Qualcuna piena di sorprese e brividi imprevedibili, totalmente impenetrabile, ma così differente. Qualcuna, o un paio, era un problema. Qualcuna lunatica. Qualcuna lunatica ma adorabile. Alcune completamente fatte. Donne senza veli né inibizioni. Senza dignità. Come la cara Sally Blubberbutt. Donne alla finestra che sognano come Ruth Shwartz. Bruttina più che mai con quegli occhiali e i denti come rostri in avanscoperta. Tutte sempre pronte alla prima occasione, anche per una improvvisata gang-bang in programma. Insomma, un vero pandemonio di casino. Non si riusciva a spiaccicare una parola senza che qualcuno allungasse la mano. Provasse a frugarti sotto e dentro le mutandine.
Tutte le donne del principe sporcaccione. Chissà quanto c’era di vero? Tranne quello che poteva vedere con i suoi occhi. Era un mondo parallelo. Con la dolce Maggie. Con femmine sempre disponibili e a disposizione: “È carina… siamo solo due grandi animali sudati che ci danno… come una vacca e… un maiale…”. Misure smisurate. Curiosi impenitenti coscienziosi sfacciati che allungano le dita e vogliono controllare anche per strada. Con tutti i diavoli in corpo e senza nessuna pazienza, anche rischiando di perdere l’autobus.: “Excuse me!”. Con la donna forzuta e quella famelica vorace. La nostra si sente confusa. È un sesso violento o la violenza del sesso? L’amazzone con le trecce disposta a fargli anche da baby-sitter, quella ragazza della porta accanto, quella piena d’amore per i suoi gattini, le donne pelose che ai passanti mettevano orrore, la ragazza con gli hot-pants pieni da scoppiare, le ballerine corpulente regine della spaccata, la centuriona che suonava meglio di Miles Davis, l’ambasciatrice serena del Fitness, le sorridenti giocatrici di calcio, la Jewish cowgirl pronta a impugnare la pistola, la snodata Beverly, la biondissima Eden Brower, il culo generoso di Mary che ha perso la testa, Dale la ciclista folle, Winona “la sceriffa”, la poliziotta pronta a corrompere e farsi corrompere, l’infermiera premurosa con tutti i pazienti, le donne avvoltoio come maiali con le ali, la giunonica Li’l Cute con la sua faccia da ragazzina e il nastro rosa in testa, ma anche lei con quel corpo gigantesco vestito solo di mutandine e calze nere a rete con reggicalze.
Una Li’l Cute che era così giovane e già l’immagine della depravazione. E ancora Wendy la golosa, e la ciclopica Rebecca, Mildred l’intrattenitrice dei fratelli Ellington, Connie la diga e la piccola Lulù, la signorina Martha Wanwright, Margaret con il suo Harold, la sofisticata e masochista Marie, Cerisette Desbois che c’era rimasta, Geraldine Gardner, Tonja Buford, Janette “Janin”, Sylvia “Roba etnica”, Barby “Big Baby”, Susan, Jean, Shialeys, Barbara, Nancy, Eloise, Naomi, Dolly, Brigitte, Jaded, Monica, Miss Updyke, Irene, e tutto il magnifico harem di Hugh M. Hefner, senza scordare quel piccolo dolcissimo favo di miele della vorace Aline Kominsky, e soprattutto Duda, sua moglie. Alla fine la nostra Bettina Boop aveva perso il conto. E le girava vorticosamente la testa. Tutte pronte a sacrificarsi e sacrificare tutto per un uomo, anche il primo che passava.
E c’era quella ragazza di colore, che non si era lasciata né incantare né comprare, ma il suo forse era veramente amore: “Sono appiccicata al mio bello come una lettera al francobollo ~ come una cravatta intorno al collo”. Lei, una cosa più unica che rara. Per il resto… Lì era tutto pace e amore. Le donne non disprezzavano i maiali se avevano un buon manganello. Insomma, disdegnare non era ben visto. Era stato tolto dal vocabolario. Con Dicknose: “Mamma! Ti prego”… Con due, con tre, con cento. Così la ninfomane Harriet incontra il suo Gesù, e si sposa, mentre il testimone le rovista sotto la gonna. Come detto, e ripetuto, a tutti piacevano le forme abbondanti. E più ce n’erano e più erano contenti. Nell’altro mondo Betty poteva essere e sentirsi quasi il massimo. Lì un po’ meno. Aveva conosciuto una ragazzina, Candy. Era bionda ma non troppo attraente. Anche lei aveva intorno la sua bella ciccia. E gonne scozzesi corte sulle gambone come querce. Poi Betty aveva conosciuto anche la famiglia; da non credere. La ragazza aveva fatto molta esperienza con papi, che la chiamava Popsy, cioè Bambolina. Joe Blow aveva sorpreso la giovane Figlia: “Che stai facendo, ragazzina?” “Uh… ehm… ehm…” Sì! certo, il sesso è più bello almeno in due. “Tesoro, vieni qui, davanti a me, subito.” “Che cosa c’è paparino??” “Non giocare con me, Figliola!” “È tutto! Fai finta che sia Candy!”…(silenzio) “Pat pat (golosamente!)” “Piccola, sei una dolce ragazza! Non è una bugia!” “Oh Dio… mmm… pant (ansimando)… grunt (grugnendo)… nnh … baby… tu…”. E Lois, la mamma, aveva pronta una risposta per la sorpresa del giovane Junior: si fa fetish per lui. Tutto è bene quel che finisce bene; o quasi. Una vera famiglia modello.
Nemmeno lì farlo era solo allegria e sempre, o quasi, una gran festa. Come cani e cagne in calore, anzi veri cani. Qualche volta a loro piaceva anche un tantino violento. Lei non aveva tante curve come quelle già ritratte, un culo così abbondante, anche se nessuno fino ad allora aveva potuto lagnarsene, ma i frequentatori di quel regno dei cieli e della terra non andavano troppo per il sottile. Erano sempre pronti. Si aspettavano che fosse lei per prima, ma non abbondavano in pazienza. Erano tutti una proposta, un invito. Sarebbe potuta passare per un’educanda. C’erano… signore per cui uno alla volta sembrava poco. Sprecare tempo. Poveri maschi. Insomma, era una pentola sempre in ebollizione. Era un inferno di paradiso. E tutto il resto. E nemmeno quella fede spiegava tutto. Tutta la rabbia che aveva dentro. Una bella scopata non la disdegnava. Ma non viveva solo per quello. Non era nata per aprire le gambe, a comando. Quella rivoluzione non aveva cambiato una virgola. Anche in quel mondo la donna doveva essere solo pronta ad essere sempre usata.
Per quanto si ritraesse e disdegnasse non aveva mai fatto tanta ginnastica in tutta la sua vita come in quei pochi giorni, con o senza la cara biancheria. Non era per nulla soddisfatta. Non era quello che credeva. Sua madre ci aveva creduto. Lei sì! Forse. Altri tempi. Aveva avuto tutto il tempo per pentirsene. La cosa era libera solo per lui. Il resto era tutto a pagamento. E non restava un centesimo in tasca a lei. Già! il divorzio era alle porte, ma lei, sua madre, era donna all’antica. E lui se li beveva e poi era anche cattivo. E di notte cercava lei. Era sempre ubriaco e ripugnante. Chissà se sua madre sapeva? Forse era quello. Niente le era stato facile, ma nemmeno in quel mondo si sentiva più libera. Non era il suo posto. Tra tutte quelle corazziere lei era come una tazzina di porcellana. Finì che le aveva mandato in frantumi il cuore l’affascinante mister Whiteman, con la sua aria da intellettuale hippie, ma lui le aveva preferito una ciurma di marinai giamaicani, così poteva avere anche della roba buona.
Andate tutti al diavolo. Decise di riprendersi la sua vita. Impugnò in una mano la sua cara amica, la sua Beretta 9×21 mm IMI mod. 98 FS inox a 15 colpi, 945 grammi, e nell’altra mano l’affidabile compagna, la Glock 17 Gen 4 calibro 9×21, 17 colpi, e fece secco Robert, il vero responsabile di tutta quella tregenda, e anche quel grande trasformista di mister Natural, con la sua aria di pazzo vecchio saggio, e anche lo scabroso Papi, e anche quel Jhwh, e tutto quel puttanaio. Preferiva fare rapine che passare tutto il tempo in un letto, o a esser sbattuta dove capitava, magari anche in un posto scomodo. Da tipi che appena conosceva. Che subito ti si aggrappavano alla gonna e ti saltava addosso. Tipi che nemmeno sanguinavano. Gli restava addosso solo un grande buco con i bordi bruciacchiati. Già ma erano solo tutti personaggi di carta.

[1] http://maniphestovecchiato.blogspot.it/2012/09/testosterone-crumb.html

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Il richiamo della fedeSegue Quaccherando [13]
1. La nostra Virginia Betty Boop –ormai definitivamente solo Betty Boop– se pensava alle amiche, quelle lontane e quelle che non c’erano più, tutte nate a Pietralata, nessuna di loro aveva avuto un’infanzia facile. Se riassumeva tutto quello che aveva visto nella sua vita, dalla perdita dell’innocenza e dall’entrata tra gli adulti, si fa per dire, temeva che non ci fosse fede che potesse salvare l’umanità. Era stato un certo Signore Dio a sbagliare creando nell’uomo l’unico animale che viveva per sopraffare i suoi simili. Si trovò a riflettere che se qualcuno cercava la fede e il paradiso tanto valeva farselo come si vorrebbe fosse. Perciò… Se voleva trovare Dio, o una ragione qualsiasi, non poteva cercare che tra gli uomini. Perciò… Doveva rintracciare Dio, ovunque lui fosse.
Si ricordò dell’opera di un autore[1] che un amico di suo padre, ma anche della mamma, soprattutto della sua mamma, le aveva fatto conoscere, troppo presto, da ragazzina. Allora non era certa di averlo capito. Non aveva trovato una vera ragione. Era un ricordo vago ma le bastò. Per quanto ricordasse vagamente inizialmente il suo le era sembrato un Dio ragionevole, del tutto simile al mister Natural il santo –che non voleva più indossare mutande– gran predicatore che predicava bene e razzolava meglio, con la non tutta sua Ruth, proprio per questo. Forse in un universo un non poco troppo libertino, per i suoi gusti di allora, e anche per quelli che pensava di ora; le sembrava molto umano. Pieno di… quell’amore e anche di qualche bollore; forse anche immorale e un tantino dissoluto. Quanto s’era ingannata. Onestamente le parve che quel disegnatore disegnasse solo la propria lussuria e non cercasse la donna, ma una madre. Una femmina da cui farsi guidare e dominare. Onestamente voleva essere solo se stessa. Non era arrivata fin là per quello.
Aveva faticato ma alla fine lo aveva trovato, quel posto del peccato. Era un altro piccolo buco di culo di un mondo ancora rurale. Così lontano da Filadelfia. In un altro universo anche da Boston. E lei era ancora ignara. Forse solo ancora un poco ingenua. Sperava ancora di non aver fatto tutto quel viaggio invano. Il mondo è vario ma poi e sempre uguale a se stesso. Per un poco Betty era tornata Virginia, ma non in Virginia. Per l’occasione aveva indossato maglietta a righe e jeans, per mescolarsi agli usi del posto. E per integrarsi si era trovata a fare anche di peggio. Non avrebbe mai immaginato che il grande autore fosse un omino così magro e piccolo proprio come si raffigurava. Un essere insignificante, a vederlo, nascosto dietro a quegli occhiali, con la bava alla bocca. Vittima delle proprie manie e delle proprie pulsioni: “Mi scusi se la disturbo mentre lavora”.
L’aveva controllata con cura; non sembrava soddisfatto. Nemmeno lei ne aveva avuto questa grande impressione. Comunque, estrasse il suo pennello: “Cosa cerchi, piccola porca”? Scoprì prima di subito che non era tipo da andare tanto per il sottile. Non era certo l’estasi. Aveva capito l’antifona. La strada per il paradiso è sempre lastricata di sacrifici: “Cerco Dio”. Era passata da “Figliola” a “Piccola porca”. Volente o dolente, ma non gaudente, aveva cominciato a darsi da fare. Non era la prima, non sarebbe stata l’ultima. Era una vignetta ricorrente. Lui era instancabile. Per quello e per tutto i jeans erano scomodi. Le venne da vomitare, le sembrò di soffocare. Lei avrebbe rimesso i suoi vecchi panni. Per una buona occasione sarebbe stata disposta a toglierli. Dubitava già che fosse quella una buona ragione. Solo che non aveva la forza di tirarsi indietro, dopo essere giunta fin là.
Certo che le sembrava strano. Lui con i calzoni abbassati impugnando la penna. Con quella faccia da cretino gaudente. Lei lì, sotto, scomoda, che bofonchiava bestemmie tra i denti. Forse per lui non era la prima volta, anzi è certo, ma lei non l’aveva mai preso in bocca a un uomo di carta, accovacciata mentre lui si disegnava. Ancora una volta in ginocchio. E a dire il vero sapeva d’inchiostro. In un altro mondo avrebbe provato vergogna. Ma una donna, che vuole ritrovare se stessa e la propria dignità, deve pure rinunciare a qualcosa. Fare qualche sacrificio. E quel piccolo uomo, Robert, doveva tenerselo molto buono. Le poteva essere utile. Anche se non aveva mai fatto niente per interesse. E lui sembrava non averne mai abbastanza. Snicker… chuckle… hyuk… tee hee… giggle… hyuk! Un vocabolario tipico per quei posti. Sarà anche il più grande autore di fumetti underground del mondo, ma… Forse era quella sua fantasia depravata da vignettista a dargli tutta quella vigorosa energia.
Robert Crumb: A Chronicle Of Modern Times - Press & Private View2. Come riuscì a liberarsi e poter riprendere fiato e voce lo seguì, quel suo eroe, nella sua Bibbia. Ma quel posto non era diverso da tanti altri posti simili che le erano stati raccontati. Certo anche il suo Dio Jhwh, come ogni Dio che si rispetti, era poco paziente e spesso si incazzava. Faceva e disfaceva. E anche lui aveva fatto i suoi Adamo ed Eva, e li aveva messi assieme. Nello stesso Eden. Sotto lo stesso melo. E li aveva fatti fighi e robusti. Senza vestiti; che erano un gran bel vedere. A dirne un po’ sembrava prendere tutto come un gioco, per il proprio svago. A dirla tutta pareva anche un pochino dispettoso. Lui era Dio, ma un poco anche serpe. Provava invidia? Sotto la barba nascondeva la sua arroganza. E sempre lì a guardare, a spiare, come un qualsiasi guardone; a giudicare.
Senza un lavoro. Senza altro da fare, se non godersi quel posto e quello che c’era da godere. Cosa potevano fare in un universo dove non c’era nessuno nemmeno per parlare o fare una briscola? «Quindi un uomo lascia suo padre e sua madre e si aggrappa a sua moglie e diventano una sola carne. E i due erano nudi, l’uomo e la sua donna, e non si vergognavano». Loro due nemmeno ce l’avevano né un padre né una madre, essendo le due prime creature create. Comunque ci mettevano tutto il loro impegno per essere una sola carne. Che poi, se li aveva fatti a sua immagine e somiglianza, doveva avere anche lui il suo bel cosino, le sue vergogne e le sue belle voglie. Betty sospettava che anche quel Dio Jhwh non restasse indifferente, che, in mancanza della televisione, li avesse fatti così anche per proprio piacere. Per battere la noia.
In fondo chi la fa se l’aspetti. Forse si era distratto. Non l’aveva detto proprio Lui: Andate e moltiplicatevi? Il serpente poi era un gran pezzo di serpente, un vero ganzo, e sì sa che è la tentazione che fa la donna puttana e l’uomo cornuto. Era possibile incazzarsi per così poco, e portare tanto rancore per una stupida mela? Il frutto del peccato? Un pomo. E duemila anni dopo, anche Lui, era ancora fuori di sé e continuava a fare dispettucci. Qualcosa a Betty puzzava. Doveva saperlo benissimo che Eva non avrebbe resistito. Non ne aveva mai fatto mistero. Sapeva com’era fatta quella. Non si sarebbe limitata ad un semplice assaggio del frutto proibito. Avrebbe voluto mangiarselo tutto quel gran pezzo di mela. L’aveva fatta con le tette e porca anche per questo. Così quei due presero a puzzare di sudore.
Certo che quando si incazzava lo faceva proprio di brutto. In fondo chi la fa se la deve sbrigare. Chi l’ha fatto lo disfi. Bel modo di vedere le cose: “Sterminerò dalla faccia della terra l’umanità che ho creato… E con gli uomini anche i quadrupedi, i rettili e gli eccelli del cielo, perché mi sono pentito di averli fatti”. Quali fossero state, per esempio, le colpe della gallina non è mai stato dato sapere. Per dirla tutta quel Jhwh da giornalino satirico era di quelli che detto fatto. Si era già preso avanti e aveva subito cominciato da quelli fatti prima di fare l’uomo. Poi se l’era presa con il grifone, il drago, l’unicorno, il dodo, il –o la– quagga, il leone marsupiale, il milodonte, il sivatherium giganteum, il ranforinco, il diprotodon, lo scelidotherium, il chupacabras, per non parlare del povero Sid[2], che non avrebbe fatto del male ad una mosca, eccetera… che a continuare non si finirebbe mai. Non che, almeno alcuni, gli fossero venuti proprio bene, ma per tutti e nemmeno con il resto, e l’uomo stesso, le cose erano andate molto meglio. Non fosse stato per Noè avrebbe distrutto tutto, e altro ancora[3].
Non c’era mai pace neanche in quel Paradiso. Quando l’uomo si alzava dall’alcova non aveva altro per la testa che ammazzare l’uomo. E, non essendo la resistenza del maschio così duratura, oltre quel paio di minuti gli restava il giorno intero per dedicarsi al massacro, che era diventato lo sport più in voga. Molto più del calcio, che il Signore non aveva ancora inventato, né dello stesso sesso. Forse aveva scambiato il mondo reale con quello virtuale del Risiko. E non c’era una volta che si distraesse e non fosse lì tra i piedi. Non sarebbe nemmeno da raccontare certe imprese che tutti dovrebbero rammentare. Quegli uomini non li aveva ancora chiamati ingegneri e quelli già avevano l’insolenza di alzare costruzioni fino al cielo[4]. Che male c’era? O forse era solo perché amava le beffe che creò quel caos. Probabilmente quel giorno era di buon’umore; non capitava spesso.
Forse l’umore era meno buono quel giorno, chissà, certo le guerre sono sempre state le stesse e non sono mai cambiate. Lot aveva provato a parlare a quelle genti rabbiose e infoiate: «Fratelli miei, vi prego, non comportatevi da malvagi! Sentite, io ho due figlie che non hanno ancora conosciuto uomo; ve le porterò e fate loro quel che vi pare»… Certo il suo era un enorme sacrificio, o meglio il sacrificio era quello delle figlie. Forse per loro non era nemmeno un sacrificio. Ma quegli uomini preferivano gli uomini. E anche i pretesti rimanevano uguali. Eppure, la finanza non aveva ancora fatto il suo arrivo al mondo: «La valle di Siddim era piena di pozzi di bitume; i re di Sodoma e di Gomorra[5] si diedero alla fuga e vi caddero dentro; quelli che scamparono fuggirono al monte». Certo è che neanche quel Dio, anche in quel caso, se la mise via: «Jhwh fece piovere dal cielo su Sodoma e Gomorra zolfo e fuoco»… Quel Dio le sembrava molto uomo.
Ma gli anni passano per tutti. Bettina nutrì il sospetto che forse stesse invecchiando. La vista non doveva più essere buona come un tempo, forse già non lo era quando aveva messo al mondo quella prima coppia. E il grande autore la prima vignetta. Sempre forse –ma era solo una ipotesi impertinente– avrebbe fatto meglio a mettersi sul naso due fondi di bottiglia come il suo disegnatore. Infatti, ne aveva distrutte tre di città prima di distruggere quelle due città del peccato. Se era il Signore dell’universo e aveva creato tutto il creato non poteva che aver creato anche il peccato. E dove finiva l’odio iniziava la libido. Betty le aveva viste proprio con i suoi stessi occhi le figlie di Lot, nella grotta, coricarsi col padre. Prima la maggiore, poi la più piccola[6]. Certo non gliela dava a bere nemmeno quel padre che, seppure ubriaco, sembrava non accorgersi di nulla. Può un uomo…? E con gli stessi occhi aveva visto Onan darsi da fare con la cognata vedova[7], e la punizione esagerata dell’onnisciente. Perbacco! da non crederci. Valli a capire gli uomini. Si incazzano per niente e poi, magari, alla fine si accorgono di esser stati loro. E ce ne sarebbero tante da dire che si dovrebbe avere tutto il tempo del tempo, e nemmeno basterebbe, e si dovrebbe essere eterni.
I temi erano sempre gli stessi: la guerra e l’amore. Già allora quel Signore sembrava solo intento a creare lo stato di Israele, con la forza o con la forza. Si spinse fino a Gerico[8], la città delle palme, o meglio spinse i suoi prodi. E non andò meglio delle volte precedenti: «Il Signore diede anche quella città con il suo re nelle mani d’Israele, e Giosuè la mise a fil di spada con tutte le persone che vi si trovavano; non ne lasciò scampare una, e trattò il suo re come aveva trattato il re di Gerico». Fu fin troppo difficile per la nostra signorina Boop reprime una risata e non pensare alla frustra e vecchia barzelletta sconcia. Non è dato sapere cosa suonasse Raab, la prostituta, ma Giosuè la tromba; e la meretrice Raab così si salvò da quella rabbia divina. Ma per salvare l’onore della donna senza onore il generale abolì le penne per cento anni e tagliò le mani a tutti gli scrivani; ma di questo nessuno ha mai parlato. E poi Abramo, e Sarah, e Isacco, e Rebecca, e Abimelec, e Giacobbe, e Dinah, e Giuda e Sua[9], e ancora Tamar, e tutti, ma proprio tutti, tra tradimenti e sotterfugi. Insomma, una vera odissea continua di massacri e coiti.
E lui, quel tale Jhwh, doveva nutrire una vera fobia verso torri e grattacieli. Lo dovevano fare veramente infuriare. Mica Betty poteva scordare che non era più una novità che una bella pira gli dovesse mettere allegria. «Tutti tagliarono dei rami, ognuno il suo, e seguirono Abimelec; posero i rami contro al torrione e lo incendiarono con quelli che vi erano dentro. Così perì tutta la gente della torre di Sichem, circa mille persone, fra uomini e donne[10]». Ma questa è un’altra storia. Bettina aveva già smesso di ascoltare, assistendo al ripetersi di tutte quelle dispute che aveva sentito fin da bambina, e che già allora l’avevano inorridita. Nella sua testa canticchiava sommessamente: “Mentre fra gli altri nudi io striscio verso un fuoco che illumina i fantasmi di questo osceno giuoco[11]“. Ne aveva viste abbastanza. Di cotte e da cucinare. Tutto come nell’altra Storia. Anche lì un vero schifo. Quel paradiso era un vero inferno. Si mostrò indignata e espresse al suo anfitrione la voglia di andarsene, di fuggire. Quello scoppiò in una sonora risata. Era stata lei a sbagliare tutto. Lui disse –quello screanzato del Roberto– che era lui quello che lei cercava, perché Dio lo aveva fatto lui.

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Robert_Crumb
[2] Personaggio della saga L’era glaciale. Film d’animazione del 2002 diretto da Carlos Saldanha e Chris Wedge, basato su un racconto di Michael J. Wilson, realizzato dai Blue Sky Studios per la 20th Century Fox.
[3] Genesi 6:7 «Perì in questo modo ogni carne che si muoveva sulla terra: uccelli, bestiame, fiera, rettili di ogni sorta striscianti sulla terra, e tutti gli uomini. Morì tutto quanto era sulla terra asciutta e aveva un alito di vita nelle narici».
[4] Genesi 11:1-9
[5] Genesi 14:10
[6] Genesi 19:35 «E la minore andò a coricarsi con lui, ma lui non se ne accorse, ne quando lei si coricò, ne quando si alzò».
[7] Genesi 38:9 «Ma Onan, sapendo che la discendenza non sarebbe stata sua, ogni volta che si univa alla moglie di suo fratello disperdeva per terra, per non procurare una discendenza a suo fratello. Quanto faceva era male agli occhi di Jhwh, che fece morire anche lui».
[8] Giosuè 6:25
[9] Genesi 38:1 “Ecco, ti prego, lasciami venire a letto con te!” “Cosa mi darai per venire a letto con me?”
[10] Giudici 9:49
[11] Fabrizio De Andrè: Cantico dei drogati. Da Tutti morimmo a stento. Bluebell Records, 1968.

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QuaccherandoSegue: La spesa [12]
1. Era stato un viaggio lungo. Non una fuga. Non si sentiva al sicuro nemmeno lì. Forse non era nemmeno quello… Usciva lo stretto necessario. Per il resto se ne stava in quella stanza che odorava di piscio e di fumo. Le mancavano le amiche. Si sentiva desolatamente sola. Un po’ le giravano. Nel mondo, per quante opere buone fai, c’è sempre qualcuno che ha qualcosa da dire. Pronto a criticare. Che non si fa gli affaracci suoi. Anche se quello era proprio un altro mondo. Si hanno presente i paesaggi del Far West? Le strade polverose e i rovi trascinati da un vento caldo, anch’esso polveroso? I rodei e gli abiti di Frenchy, di Bella del saloon, ma coi due meloni incredibili come quelle di Jewels Jade? Per i nostalgici di Alamo. Con la bandiera confederata. San Antonio non era niente di che, anche meno. Era andata a visitare quelle quattro pietre.
Tutto senza Il mucchio selvaggio. Le era anche rimasta la colazione sullo stomaco. La sabbia sin dentro in gola. Non c’era abituata. Quel nuovo mondo non le sembrava migliore di quello vecchio, anzi, per molti versi peggiore. Era il paese dove non avevi faccia. Dove potevi girare nuda che nessuno ti riconosceva, e allo stesso tempo quello dove c’era sempre qualcuno pronto a guardarti di traverso e ad insegnarti come vestire. Un paese per ricchi, ma affollato di poveri; e di afroamericani. La terra delle opportunità. Pfui! Il luna-park dei santi sporcaccioni. Che si mangiava anche male, e il caffè era un vero schifo. Si dovrebbe sempre diffidare immediatamente e allarmarsi quando… dove cercano di sostituire il presente con il passato presentandolo come futuro. Non spettare dopo. Eppure…
Era il paese dell’avventura. Della frontiera. Degli Oscar e di Gola profonda. Di Yellow Kid e dei Funny animals. Di Mickey Mouse ma anche quello di Hollywood babylon. La terra dei Tijuana Bibles, dove Popeye si spupazzava allegramente la sua Olive Oyl, usando spinaci come viagra prima del viagra. Dove quella Olive Oyl scatenata se la faceva impunemente alle sue spalle, disponibile per tutti, anche alle cose maggiormente turpi, anche con J. Wellington Wimpy e Bluto, persino con un Swee’ Pea che tanto Pisellino non era; mentre il Marinaio si divertiva persino con Sea Hag. Dove il Dick Tracy di Chester Gould era sempre alle prese con mille donnine e una Mozzafiato Mahoney senza mai uno straccetto addosso, nemmeno al Club Ritz. Dove un Flash Gordon impenitente era instancabile con la sua Dale Arden, ma anche con Ondina, e con qualsiasi troietta gli passasse accanto; persino con la moglie del principe Ronal, cugino di Barin, e quella di Gundar. Dove il cazzuto emigrato irlandese Jiggs, il nostro Arcibaldo, rincorreva una Maggie (Petronilla) sempre in fregola, disposta a qualunque cosa, e lo provocava dentro vesti trasparenti. Dove nessuno era immune al richiamo dei sensi e di quella cosa. Né Li’l Abner Yokum con la sua splendida e formosa Daisy Mae Scragg, né Dagwood Bumstead e la sua biondissima Blondie Boopadoop, che non disdegnava nemmeno le donne. Dove a Linda piaceva fare le capriole con quello di Robert Mitchum, in Goof Butts, che pure disegnavano enorme, tanto da diventarne pazza. Dove non si salvava dal peccato nemmeno la povera Little Orphan Annie. Di Mae West. Eccetera. Insomma, un paese con tutti subito pronti a sfilarsi le mutande. Anche solo per una particina nell’ultima produzione, o per omaggiare di un bacio il presidente. Ma lì anche i presidenti li prendevano dal cinema, e dagli stessi fumetti.
Poi, magari, correvano a confessarsi. Insomma, un mondo che c’era e non c’era più. Dove nessuno sembrava fare caso a nessuno. Non tanto diverso dal nostro, ma un altro mondo. Un giorno si era in prima pagina, quello seguente si tornava nell’anonimato. Si spariva agli occhi e all’interesse degli altri. Non si era più notizia. Dalla porta basculante le sembrava di aver visto uscire Calamity Jane, ma anche a lei nessuno aveva fatto caso. Eppure lei, Betty, era ancora l’eroina dei fumetti più famosa e sexy. La preferita degli americani. C’erano gadget da per tutto, e strisce con lei in tutte le pose, vestita in tutti i modi, che festeggiava qualsiasi evento, religioso o laico o pagano. Che ancheggiava e faceva l’occhiolino. Tazzine, accendini, portachiavi, penne, persino in cui si spogliava o era nuda.
Pensino… se ne vergognava a dirlo. Ottantacinque anni portati con disinvoltura, ed era sempre uguale. Con i suoi occhioni e quella boccuccia rossa. Già! ma quella era solo un vecchio fumetto che non stancava mai. Invece lei era uscita dalle strisce, dalla carta, era lì in carne e ossa. E tutto il resto; quella piccola grazia di Dio. Avrebbe voluto essere così disinvolta, così disponibile. Per piacere le piaceva, e anche abbastanza. Solo che… In fondo lei non era così, e se ne stava andando per la sua strada. Curiosa di tutto. Persa nei suoi pensieri. Persa in quel paese che non si premurava di voler conoscere. Non interessata, e nemmeno incuriosita. Era solo una grande bolla di plastica. Non cercava nulla. Non si aspettava di poter trovare il serpente; lì. Non lo aveva cercato. A volte è proprio chi ti dovrebbe salvare, quello che ti offre spontaneamente il suo aiuto, senza che tu glielo chieda, senza che lo cerchi, senza che ne provi il bisogno, a volte è proprio quello a spingerti sotto e a farti affogare.
Quaccherando22. Stava semplicemente bighellonando senza meta. Camminava, sicura sui tacchi, cercando di non farsi notare; guardinga. Un ultimo stupido scrupolo. Un ingiustificato timore. Forse il sopravvivere della sua ultima timidezza giovanile. Che ne potevano sapere della cronaca del nostro paese, se non ne avevano parlato nemmeno i nostri media. Per loro eravamo solo gli spaghetti, la chitarra, e la moda. Lei era vestita normale, come ci si può vestire; mica come lui. Per quelle strade potevi imbatterti, nello istesso istante, nelle astronavi come in una carrozza sgangherata trainata da cavalli. E lui era sceso da uno di quei sgangherati barrocci, lasciando la sua… compare ad aspettarlo[1].
Sì! la gonna forse era un po’ corta, ma non si vedeva niente. La maglietta un po’ scollata, un piccolo top, faceva così caldo. Forse potevano essere le calze a rete. Forse era solo vittima di se stessa. Delle sue forme tornite. Dell’applicazione della mamma. Che poi il peccato non è nella nudità, ma negli occhi di chi guarda. La libido non è un gesto, ma una lettura. In quel momento non aveva certo voglia di malizia. Avrebbe voluto farsi trasparente. Aveva voglia di una granita, in quel momento. Era stato lui, quello, a guardarla con quegli occhi. Lei osservava semplicemente le vetrine. Un vestitino che pensava le sarebbe stato d’incanto. E lui continuava a fissarla. Che ci faceva lì, così lontano dalla Pennsylvania? Dannazione, non riusciva a capire il valore di quei prezzi. Pensava solo che la vita era proprio matrigna. E lui, cosa aveva da guardare tanto? Neanche fosse uno splendido esemplare femmineo di Milo Manara; o una Bayba, o una di quelle scostumate donnine di Roberto Baldazzini, con frusta e lingerie fetish; o una di quelle mammine sempre in calore. Che fanno figli coi figli. Lei nemmeno aveva figli. Che, se era per lei… lei andava pazza per Alack Sinner. E prima per i Peanuts. Invece erano per strada. Eppure, lo sapeva: i suoi occhi l’avevano già spogliata. La vedevano nuda. Forse solo perché si era chinata ad accarezzare quello stupido cane; che era anche scappato.
Le venne istintivo cercare di coprirsi, di nascondersi. Solo che non c’era nulla da nascondere. E lui aveva la voce roca: “Una ragazza così carina non dovrebbe mai girare in modo così scostumato. Con la testa scoperta e i capelli tagliati corti come un ragazzo. Con occhi così grandi che non riconoscono la vergogna. Che non mostrano umiltà. Curiosi. Che guardano altrove e non a terra. Mascherare il proprio volto e travisarlo con tutto quel trucco. La donna dovrebbe avere sempre la faccia e l’anima pulite. Senza pensieri impuri. Non dovrebbe mostrare le gambe. Tutte quelle gambe. Vestire in modo così… indecente, spudorato. Come… come una donna di malaffare”. Nessuno che si facesse quelli suoi. “Ma… secondo lei… sant’uomo, una ragazza d’oggi come dovrebbe essere”? “Non sono un sant’uomo ma solo un povero e umile servo del Signore”. “Smisi di essere serva quando uscii di casa e riuscii a fuggire da quel padre”. “Non bestemmiare, figlia di Belzebù. E onora il padre”.
La stava importunando e già annoiando. A lei non importava cos’era, se era santo o cosa. Sembrava più un satiro. Spalancò due occhi enormi di meraviglia da Tim Burton: “In fine, di cosa dovrei provare vergogna, Vostra Penitenza? Troppe regole possono diventare nessuna regola. Fare unicamente confusione. E non tutte hanno il padre che meritano”. Anche loro erano diventati business. Si erano spinti a vendere zuppe, e mille altre stupidaggini. Eppure, non avevano perso la voglia di pontificare e giudicare. Non abbandonavano la missione di condannare: “La strada è nella bibbia. Non c’è nessun altro posto. E nessuna confusione Dovresti stare al tuo posto”. “E quale sarebbe”? “C’è una sola strada, un solo posto, un’unica verità. Non ci si può sbagliare”. “E quale sarebbe”? “Pregare e chiedere perdono. Tornare in grazia di Dio. Piegare la testa. Prega, figliola”. “È quello che ho sempre fatto”. “Non vedi, figliola, che ti si vede il culo”? “E allora? basta non guardarlo”. “Non ti imbarazza”? “Perché dovrebbe”? “Perché sei sotto gli occhi di tutti”. “Ho le mutandine”. “Appunto”. “Non è colpa mia se la mamma me l’ha fatto”. “Ma la mamma non ti ha insegnato”? “Non è colpa mia se il vestito me l’hanno fatto corto”. “Tua è la colpa se lo porti in giro. Se lo indossi. Se è tuo. Nessuno ti ha costretta”. “Se non si guarda non si vede”. “E non esser impertinente, figliola”. “Mi hanno disegnata così”.
Betty non era la sua figliola. Lo vedeva per la prima volta. Sarebbe stata a guardarlo per ore, in posa, divertita. Curiosa. Lo avrebbe persino fotografato. Per riderne con le amiche per i tempi dei tempi. Strano personaggio quel personaggio. Come tutti quelli che sbucano dal passato. Che si sopravvivono per sopravvivere a tutto. Sarà anche stato quacchero, ma gli occhi erano molto laici. E laidi. E le sue voglie molto poco quacchere. Anzi… avrebbe detto… affrettate. Non fosse stato per quel Dio avrebbe potuto essere forse molto d’accordo con loro. Non fosse per quel radicalismo. Per il puritanesimo. Per tutto quel loro buffo modo di vestire. E di far vestire le loro donne. Per i buffi cappelli. Spuntati da Salem. Da La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne. Avrebbe fatto bene a non scordarsi quest’ultimo riferimento. A prenderne debita nota. Insomma, anche per tante altre cose.
Per essere precisa precisa cosa le avrebbe dovuto insegnare quella mamma? Lui nemmeno la conosceva. Parlava senza sapere. Anche lei era stata solo una vittima. La vita non era stata una passeggiata nemmeno per lei. Intanto il tipo non si schiodava di lì. E le mostrava sempre più interesse. Voleva salvarla, ma salvarla da cosa? Dall’inferno? Lei era già all’inferno. E quell’uomo si pavoneggiava di una santità falsa e di occhi da porco. Sbavava come un ripugnante pedofilo. “Come ti chiami, Figliola”? Voleva dirglielo che non sopportava che la indicasse come la sua figliola. Avrebbe voluto chiedergli a cosa era dovuto tanto interesse. Voleva dirglielo che aveva già avuto un padre, e anche quello era stato di troppo. “E lei… Padre”? “Beh! io sarei… sono il reverendo Dimmesdale[2]”.
Non era certa di sapere cosa fosse veramente un padre, ma lui non era sua padre. Forse non ne poteva avere solo l’età. Certo non il diritto. Forse ne aveva anche le stesse voglie. Un padre non dovrebbe averle. Un padre dovrebbe avere delle qualità, una morale. Mostrare alla figlia le strada. Avvisarla dei pericoli. Non essere i pericoli. Essere severo, non solo nell’aspetto. Ma non dovrebbe nemmeno tingersi di ridicolo ogni volta che indossa un abito al mattino. Girare con quella faccia e quei capelli lunghi e candidi legati da una ciocca. Vestito da becchino come un becchino; che persino l’odore era quello da camposanto. Per fortuna l’aveva importunata in una stradina deserta, distante da occhi indiscreti. Frequentata solo da gatti che frugavano disperati tra i rifiuti. Da qualche folata di vento e da qualche topo. Lì, aveva potuto limitare la propria vergogna.
La nostra Betty, che era di buon cuore, alzò le spalle e la gonna e fu mossa a compassione. La faccia del reverendo sembrava quella del re delle rinunce. Aveva la maschera del tormento e della tentazione. Per quanto cercasse di resistere, e di scacciare il suo satana, quei pensieri, gli occhi di quel reverendo Dimmesdale erano lo specchio della cupidigia, della libidine. E allo stesso tempo quegli occhi erano rancorosi. Ed erano accusatori. La biasimavano. Volevano negare di desiderare quello che desideravano e avrebbero voluto. Tutti profeti e fustigatori dei costumi e dei peccati degli altri. Come spesso accade l’uomo è duplice. Invoca Dio e supplica Satana. E dentro i suoi calzoni, trattenuti su da una cordicella, era evidente come quei due si stavano dando battaglia. E non era certo il Bene che stava vincendo. Anche una sciocca ragazzina se ne sarebbe accorta e avrebbe provato almeno un filo di vergogna.
Perché, figlia di satana, vuoi indurre in peccato questo misero servo del Signore”? L’uomo sembrava prendere coraggio dal suono stesso della propria voce. “Veramente, Reverendo Padre, sarebbero i suoi occhi che peccano guardando. Io non volevo proprio niente. Niente di niente. I potrei solo… perdonarla. Assolverla. Ma.. È… è la sua mano che pecca toccando”. Si era guardato intorno e, tranquillizzato, s’era fatto più intraprendente: “La mia mano non è la mia mano. Non esiste il peccato se non lo si conosce. Se non si affronta la tentazione lottando e resistendo. È la mano del signore. Che controlla e assolve dal peccato. È il segno della verità”. Intanto proseguiva imperterrito nella sua coscienziosa indagine, del peccato. “A me sembrano proprio le sue dita. E non sembrano fuggire ma frugare. Mi sembra che… la prego, non così impaziente”.
Ormai era evidente che dentro il santo c’era un uomo. “Sei tu che mi tenti. Che mi spingi al peccato. Che mi condanni. Col tuo comportamento. Con la tua arroganza. Con la tua mancanza di pudore. Sei tu il diavolo. Anch’io sono solo un povero uomo. Cosa credi? La carne è carne. Che Dio mi perdoni. Sei tu la colpa”. “Credo che si stia già perdonando. E… Lei, comunque, Reverendo, poi potrebbe assolvere anche me e il peccato dai miei occhi”. “Dio è misericordioso, ma non è così che funziona”. Era solo infastidita. E spazientita. E imbarazzata. Quelle mani la frugavano come non era mai stata frugata: “Non posso pentirmi prima”? Quel Dio era un vero rompicapo: “Non ti indurrebbe a peccare”. Gli sputò in faccia la sua rinuncia: “Fa nulla, lo farò durante. Intanto mi mostri la penitenza”. Ormai era diventata impertinente. Davanti a Satana quel maschio non riusciva a porre molta resistenza. E si sentiva nell’intimo sfidato: “Figlia di Belzebù. Con me avrai più di quello che cerchi”. Certo che lei non lo voleva, ma le parole gli uscirono dalle labbra. E poi voleva solo che la smettesse. Con quelle mani e quel sermone: “E allora muoia Sansone e tutti i filistei. Si sbrighi. Mi faccia peccare”.
Dio, Satana, il peccato, il perdono, ecc. non potevano stare tutti lì. Come ogni uomo anche il sant’uomo amava menarsi a gloria. Vantarsi, che di per sé sarebbe di già da solo un peccato. Decantarsi. Promettere più del dovuto. E di quanto potesse mai essere in grado di mantenere e dispensare: “Ti farò ingoiare tutto… tutta la tua arroganza”. A parte quel suo nome così altisonante e la superbia delle sue parole, quell’uomo di fede non aveva null’altro di cui andare fiero. Forse era stato un essere forte e robusto, con un verbo tuonante. Era solo un povero vecchio, con le carni flaccide. E flaccido da per tutto. “Anche Lui era figlio dell’uomo. Tu, figlio di Maddalena, un piccolo miracolo, no! Vero”? Per fortuna lei aveva sempre con sé la sua gentile 98-FS, pronta a dirgli una parola di conforto, ad assolverlo e a dargli l’ultimo saluto. Appena lui si abbassò le brache lei non gli diede il tempo per nessun altro peccato, solo quello di un pensiero impuro, e fu lei a salvarlo dall’inferno, e gli infilò in bocca tutta la lunga e robusta canna. Prima che si aprisse il baratro della perdizione eterna. Lui ebbe un attimo di stupore, in quell’attimo a lei sembrò simile a quelle donne di malaffare fin troppo impegnate in una delle loro imprese. Le sarebbe anche venuto da ridere, ma prima di pensarci lasciò parlare solo la sua Beretta. Amen.

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Quaccherismo
[2] http://www.wuz.it/riassunto-libri/8883/lettera-scarlatta.html

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La spesaSegue: Una canzone per Betty [11]
Qui l’avventura, galante (?), si cerca di raccontarla così come la racconterebbe lei, un po’ divertita. Parola per parola. Senza ironia. Solo i fatti nudi e crudi. Dopo una eternità chiusa in casa. A frequentare solo un’ostinata e affollata solitudine. A chiacchierare e litigare solo con se stessa. Senza togliersi le mutandine che per andare al bagno.
Il frigo era più deserto della calotta polare e la pentola canticchiava, con gli ultimi aneliti di vita, Ricky Gianco: “Sola, son rimasta sola”. L’ultimo yogurt si era suicidato rattristato. Il ghiaccio si faceva compagnia con un ghiacciolo disperso. Doveva proprio uscire. Fare un poca di spesa. Se voleva mangiare. Non che ultimamente avesse troppo appetito. E c’era anche la storia della dieta. Ma almeno un tozzo di pane. Non poteva evitare. Meglio andare a quello più vicino. Il supermercato era a due fermate da casa. Subito dopo la curva. Non valeva la pena prendere la macchina. I biglietti li aveva. Un viaggio di un paio di minuti. Giusto il tempo di spazientirsi un po’. “Mi faccia passare”. “Sa che è un bello screanzato. E tolga quella mano”. “Crede di averlo solo lei”. “Solo che questo è il mio”. “Tutte con questo senso di proprietà”. “Certo non è quello di sua moglie.” ed era sceso; indignato. Lui. Un altro: “Hai visto quella?”, ma era poco più di un sussurro detto all’amico vicino. Neanche il tempo di sedersi ed era già scesa già pentita.
Non c’era molta gente. Dopo aver un po’ bighellonato in giro incerta aveva incontrato il tipo al banco dei formaggi e affettati. Bellicapelli. Il suo PigMalione. L’Alain Delon de borgata. Il sospetto che l’avesse già notata. Puntata. Forse quel vestitino era veramente un po’ troppo striminzito. Ma cos’hanno gli uomini? “Mi affetta un etto di crudo, per cortesia”? Lei si guardava bene da chinarsi. Non era certo in vena di civettare. Forse aveva ancora speranza. “San Daniele”? “Quello mi sembra in una posizione migliore”. Gentile: “È quello che le avrei consigliato io”. “Tagliato sottile, per cortesia”. Salumi & salamelecchi: “È un piacere servire una graziosa cliente come lei”. “Guardi che”… “È un po’ abbondante. Qui è tutto… abbondante. Va bene lo stesso, vero”? “Grazie”. “Serve altro. Sono tutto per lei”? “Un po’ di gorgonzola”. “Bellissimo. Ha la lacrima”.
A lei cominciavano già a lacrimare le palle. Per i suoi gusti si erano scambiate fin troppe parole. E poi doveva essere prudente. Diventare trasparente. Passare inosservata. Non poteva certo sentirsi tranquilla. E se l’avesse riconosciuta? Finito di servirla lei se n’era andata. Cercando di non ancheggiare troppo. Ritta come un palo. Lasciandosi quella “affettata cortesia” dietro le spalle. Almeno così si era creduta. Invece lui aveva lasciato il banco. Aveva cominciato a seguirla fingendo noncuranza. Ne era certa. Nonostante quell’aria fintamente distratta. Qua e là allineando qualche barattolo o capovolgendo qualche etichetta. Cominciava a sentirsi, non proprio impercettibilmente, un poco a disagio. Pedinata.
Si sentiva i suoi occhi addosso. Curiosi. Indagatori. Ed era sempre là. Lui, che la guardava tutta. Dalla testa ai piedi. A poca distanza. Solo un poco più distante. Un baleno di prudenza. Attraverso uno scaffale. Completamente disinteressato. Intensamente interessato. Incurante di farsi scoprire. Cercando anzi la sua attenzione. Cosa starà cercando? Cosa vorrà mai? Cosa le potrà ancora raccontare? Un predatore da alimentari. Lei prese due pacchi di pasta: spaghetti e maccheroni rigati. Poi si avviò al banco della frutta e verdura.
Le avances:
Lei stava attenta a non chinarsi. Lui si manifestò all’improvviso accanto a lei sorprendendola. Credeva di averlo seminato. O che si fosse stancato, anche per quel suo bighellonare indeciso. “Le consiglio le zucchine. Da consumarsi anche crude. Ma anche le melanzane. Le ha viste? E di là ce n’è una anche più bella grossa. Polposa. Proprio come dovrebbe piacere a una signora come lei. Gradirebbe. Ne sono certo”. Lei stava pensando piuttosto a dei peperoni. Prese alcuni kiwi e un avocado e li mise nel carello. Soppesò le banane. Si pentì subito mentre lo faceva. Ce l’aveva ancora dietro le spalle. “Ha visto quanto son lunghe e… grosse?” era per questo che era incerta. Era una presenza imbarazzante. Aveva una risata sdentata e sguaiata. Sgangherata. E quelle erano troppe per lei. Si stava annoiando. Seccando. Non riusciva a liberarsene. Orgoglio. Puntiglio. Pareva farsene una questione d’onore. Eppure, le sembrava di essere chiara anche nei gesti. Col suo testardo silenzio. Aveva ben mostrato di ignorarlo. Avrebbe voluto dirgli che doveva farsene una ragione. A becco asciutto. Rinunciare. Non era cosa per lui. Tenerlo nel nido. In gabbia. Anche evitando troppo la gentilezza. Non era così crudele. Non era nella sua natura. Natura? Quand’era in quelle situazioni non aveva mai un pensiero per volta. Era un acquazzone impazzito e impaziente.
Era furibonda. Nella confusione le era scappata una tettina. Poco importava. Niente di che. L’aveva rapidamente infilata nella sua nera saccoccia. Era bastato quel poco per incoraggiarlo ancor di più. Per dargli altra energia. Altro coraggio. Faccia-tosta. Per ingalluzzirlo ulteriormente. Per farlo sentire più vispo. “Certe primizie sono una gioia per gli occhi”. “Non era voluto, abbia pazienza”. “So che una signora come… comunque sono un incanto. Lasci che glielo dica. Guardi che me ne intendo di… meloni”. “Non sia volgare”. “Questa la metta direttamente in borsa. È un omaggio”. “Non posso…”. “Certo che può”. “Non deve…”. E ancora più rospo. Ormai niente al mondo poteva contenerlo. “Posso consigliarla”? “Vorrei?”… “Ora che siamo amici… So io di cosa avrebbe bisogno una bella signora come lei”. “Sono una frugale. Mi basta poco”. Era ormai aumentato di un paio di centimetri. “Non si dovrebbe limitare. Mai accontentarsi del poco”.
Lui era ormai scatenato e lei ormai curiosa, voleva vedere fin dove avrebbe osato cercare di spingersi: “Sentiamo”? “Mica… Qui?… Per certe cose ci vuole… un po’ di intimità. Lo saprà bene anche lei. Guardi che un buon boccone le può riempire la panzetta, e anche la… tutta. Se è buono”. Voleva stare al gioco: “Dov’è il reparto della carne. E dei surgelati”. Era diventato raggiante in viso. Era la sua grande occasione: “È proprio il mio reparto. La carne è la mia specialità. Ho un pezzo davvero straordinario”. “Lei è stato proprio gentile. Ora posso fare da me”. “Non tradirei mai una cliente come lei”. “Come vuole”. “Qui è tutto fresco. Come si dice… Dal… produttore al consumatore. Pronto per… essere consumato”. Ormai era una specie di gioco. Da giocare in due. A rimpiattino. Si stava quasi divertendo. Lo sbirciò con fare malandrino: “Mi sembra un po’ grassa”. “Non guardi troppo i prezzi. Poi ci si può sempre mettere d’accordo”. Cercò inutilmente di fingersi offesa e allibita. Lui non sapeva leggere le espressioni; questo era certo. Forse nemmeno i giornali. Probabilmente conosceva solo i numeri. Buzzurro. “Cosa”? Ed era deciso a non arrendersi fino a quella fine che ormai gli doveva sembrare vicina e ineluttabile: “Eh! Eh!”. Fece la sua migliore faccia innocente e al contempo provocatoria. Se voleva giocare lo poteva accontentare: “Credo di non capire?”… “Ha capito bene”.
Alla cassa, prima:
Stava per prenderlo di punta quando vide la sua ancora di salvezza. Finalmente la farsa sarebbe finita. Finalmente era arrivata alla cassa. Il carrello pieno anche di cose che non avrebbe mai preso. Nella fretta. Pur di uscire. Lui aveva spinto via la cassiera con un gesto maleducato. “Faccio io. La signora la servo io.” Arrogante. “Se lei dà qualcosa a me io do qualcosa a lei. Con soddisfazione di entrambi. Garantito. Noi ci teniamo a soddisfare le clienti. Contenta lei contento anche il Luigi. Il biscotto. Nel senso del prosciutto. L’ha capita”? Aveva il senso innato naturale dell’umorismo. E fin troppa sicurezza in sé. Un vero Adone, con baffi e una buffa pancetta. “Del mio anche le cassiere ne vanno matte. A ruba. Come le offerte speciali. Provare per credere. Lo sa che potrebbe risparmiare e un bel po’. Una bella pollastrella come lei”. Era ferocemente imbarazzata, altri avrebbero potuto anche sentire le sue stupidaggini. “Vorrei pagare solo quello che devo”. “Non sia scontrosa”. “Non sia… inso… insolente. Insomma, cosa vuole da me”? “Non si agiti”. Si fece inutilmente indignata. “È lei che mi fa agitare”. “Dicevo solo per lei. Nel suo interesse”.
Le suonò il cellulare, le solite offerte commerciali. Lo spense. Guardò quella cassiera avvilita che si era messa da parte, scacciata malamente dalla sua posizione. Lei era ancora aggrappata al suo carello. Forse si poteva risparmiare altre rogne. Si poteva limitare ad un brutto ricordo di un semplice dialogo con un cafone. Uno scambio di battute. La ragazza le fece pena. Pena e rabbia. Nell’altra fila: “Signora, cosa fa”? “Tocca a me”. “C’ero prima io”. “Solo due cose, faccio presto”. “Questo non è mio. Qualcuno l’avrà infilato per sbaglio”. “Siamo sicuri che sia proprio fresco”? “Pescato questa notte”. Lui, sul cartellino c’era cognome e nome, e sottocapo reparto. E le sue battute salaci e volgari. Non ne poteva proprio più. La dipendente era subito svanita. Lei ci aveva pensato un attimo e in quell’attimo la stizza si era sostituita all’impazienza. L’aveva sopraffatta.

Aveva ripreso il controllo di sé. Avrebbe smesso di tartagliare. Si era chinata un po’ e per un po’ lo aveva lasciato sbirciare. Soddisfatto. “Ci sono delle offerte speciali. In promozione. Anche una grossa sorpresa. Vuole che glielo mostri”? Aveva tracimato. Passato ogni limite. “Dove lo posso vedere? Mi ha convinta. I suoi occhi assassini. Lei sì che sa… venderlo bene anche in omaggio. Gradirei assaggiarlo. Intero. Tutto”. Lui si fa tutto soddisfatto: “Ai suoi ordini. Ogni desiderio è un odine”. “Allora dove? Dove me lo fa vedere”? Non ci pensò un istante. Non doveva essere la prima volta: “In cella frigorifero”? “Sarà freddo”. “Solo un attimo. La scaldo io”. Così lui aveva lasciato la cassa. Aveva richiamato la cassiera. E quella era tornata mogia. Figura di merda. Gran figura di merda. Così lei, non ancora del tutto sicura, lo aveva seguito. Per ripicca. Strizzando d’occhi alla giovane. Lui le faceva strada e le parlava come probabilmente dava le disposizioni alle sue sottoposte. Era passato al tu: “Il carello, puoi metterlo lì. Tranquilla. Poi lo ritrovi. –risata soddisfatta– Nessuno lo porta via”. Comunque, a lei, la situazione sembrava tragica ma non seria. “Se lo dice lei”. “Dove hai lasciato il passeggino”? Nel medesimo istante che capisce che non ha capito, si limita a seguirlo. Era uno senza speranza. Si sentiva l’imperatore del filetto: “Le vuoi, dopo, due belle costatone, tenere tenere, ma dopo”? Dentro il freddo era proprio freddo. Pungente. Il gelo le entrava da per tutto.
In cella:
Era proprio un vero PigMaialone. Non sono ancora entrati e già si slancia ai complimenti. Ed era uno che quelli, i complimenti, li sapeva proprio fare. Non riusciva a tenerli a freno. Un raffinato. Un fine dicitore. Un vero galante: “Sei tutta filetto.” e “La mia bella manza… maiala.” e, come un’apoteosi piena di compiacimento in sollucchero: “Ho, solo per te, un vero cannone. Vedrai. Tutto per te. Mia mozzarella. Una soppressa. Ti vedo impaziente. Mia bella porcona”. Lei è fredda più della temperatura che le sta intorno: “Io solo una calibro nove millimetri”. “Ti va di scherzare”? Poi le vede la mano, e soprattutto vede il ferro: “Sei pazza”? Lei ha tutta l’ironia negli occhi e le scappa da ridere: “Siamo pari. Solo che… la tua è a canna corta”. Un serpente di ghiaccio gli scivola lungo la schiena. La sua interpretazione del panico mette ilarità. Non è credibile. È terrorizzato e buffo e ridicolo allo stesso tempo. “Gesù! Pietà!
Gli slacciò la cinta. Assieme ai pantaloni era precipitato tutto il suo mondo. La sua arroganza, il suo orgoglio era diventato immediatamente un misero niente. In un meschino tentativo di corromperla: “Ti posso dare un kilo di buoni sconto. 2 kili”. “Spero ti piaccia il sigaro”. “Non fumo”. “Spero lo gradirai lo stesso”. Lo legò ai polsi. Lo appese al gancio. Non senza fatica lo issò con la catena assieme agli altri quarti di bue. A stento si poteva notare la differenza. “Mi faccia la carità!”… Non si sentiva un ente assistenziale. Una onlus. Una benefattrice. Provava solo quella sorda rabbia. Nemmeno sentiva la sua voce. Senza piacere era costretta a fare solo quello che si doveva fare. “Cosa si prova a stare sotto”?
Lo sodomizzò con perizia e con un altro dei suoi cari costosi Habanos Montecristo. Stava diventando quasi un rito. Un vizio. A quel ritmo avrebbe dovuto ricorrere ancora dal suo tabaccaio di fiducia. Ritmo. Passione. Si intrattenne nell’operazione forse più del tempo necessario. Voleva farlo con diligenza. Con dovizia. Con perizia. Meticolosamente. Che lui capisse. Se c’era una speranza sola, era quella. Si ripeteva. “Basta, ti prego. Fallo per i miei due bambini. Pietà!”. Se lei non avesse già visto lo spavento quegli occhi erano lo spavento. Dopo. Lasciò al suo posto il suo Habanos Montecristo. Il foro in fronte sanguinava solo un poco. Una bava ghiacciata. Un rivolo subito secco. Gli occhi vuoti erano rivolti al cielo come in un’ultima preghiera blasfema. Forse un grido muto di perdono. Almeno non sarebbe andato a male. Da consumarsi entro i prossimi dieci anni. Ben frollato. A sorata. Saluti alla stupida che ti sta aspettando a casa. Sezione insaccati. Forse brodo di prima scelta. Era colpa del mondo degli uomini se si era dovuta trasformare in quello in cui si era trasformata. Senza nessun piacere.
Alla cassa, dopo:
Si era infilata un paio di occhiali da sole che aveva rubato dalla rastrelliera. Dietro la lente blu notte alla cassiera aveva nuovamente strizzato d’occhio. E le aveva sussurrato: “Per un poco almeno la lascerà in pace. Non ha avuto nulla. Solo ciò che si meritava”. Lei sogghignava. Sotto i baffi non strappati; non cerettati. “Io la voglio pagare la mia spesa. Ora”. “Ha buoni sconto”? “No! Tutto in contanti”. “Le faccio portare la borsa”. “Basta così. La mia borsa me la porto da me. Io la mia borsetta me la tengo stretta”. I gesti consueti. Di sempre. La ritrovata normalità. “Come preferisce”. Tra donne ci si capisce. “Grazie”. La ragazza pareva regalarle simpatia: “Torni presto”. “Mi saluti il signore”. “Non la usi troppo”. “Arrivederci”. La nostra Bettina stava pensando che Se non mi intrigassero gli uomini, credo che potrei preferire le donne. Gran male l’educazione.
Fermati, tu. Lì”. Era già sulla porta. Né dentro né fuori. Non si può negare che abbia avuto un attimo di panico passato immediatamente. Invece le grida inseguivano una giovane zingara che accelerò il passo. L’allarme urlava. Le sporte con le spese le erano cadute di mano. Scivolate. Un po’ di trambusto. Un “Ci faccia passare, signora!”, un “Si scosti un po’!” e una spintarella seguita da uno spazientito “Per favore!” e quella era già sparita tra la folla “Prego.”. Le cose che aveva preso si erano sparse intorno. Rassegnati l’aiutarono a raccoglierle. Tranne il vasetto di marmellata che si era frantumato sulle scarpe della guardia giurata. Pesavano, ma preferì fare la strada a piedi. Era il mondo il vero circo.

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Il prezzo del successoSegue: Una canzone per Betty [10]
Si rese conto che avrebbe dovuto trovarsi un lavoro. Cosa poteva fare così conciata? Con la sua faccia? La sua voce? Vestita in quel modo? Pensò che la cosa più semplice fosse restare nell’ambiente. Erroneamente. Ironicamente. Il cinema e la televisione sono una giungla. Un labirinto. Pieno di insidie. Ma anche, con un po’ di fortuna, pieno di opportunità. Le sarebbe bastata anche una piccola parte. In fondo il suo era un volto che doveva per forza di cose restare impresso. Drogare la retina. “Ci conosciamo”? “Non credo”. “Eppure mi sembra… mi sembri una faccia nota. Qualche réclame? Montecarlo”? Lui era già passato al tu. “Non credo”. “Io ci vado spesso”. “Io non gioco”. “Eppure”… “Siamo in parecchie a somigliarci”. Il buzzurro non conosceva nemmeno il passato. Era evidente che di cinema, della sua storia, ne sapeva quanto lei della Teoria dei quanti, e dei quali; cioè tranne la formula, Erre parentesi λ virgola T uguale 1 fratto λ alla quinta, un beato… acca. Un accidenti. Ma era una fortuna in fondo che non l’avesse proprio riconosciuta. Che non avesse nemmeno un sospetto. Era certa del contrario. Si era preparata la giustificazione da casa. Avrebbe sostenuto che quella era solo una stupida imitatrice.
Era anche un pessimo attore. “Hai delle esperienze”? “Sì! mi era stata anche offerta una parte da… in… Lasciamo stare”. “Però hai delle belle tette”. “Crede”? “Ora girati un po’”. Si sentiva una cosa. Umiliata. “Non sei male. Magari non più di primissimo pelo. Cosa sai fare”? Il tatto non era certo la più evidente delle sue virtù. “So ballare, so cantare, vuole sentire“? “Non è necessario. Forse… magari… dopo”. Non c’erano tanti dopo. Senza copione le battute andavano a rilento. Tra una frase e l’altra intercorrevano dei lunghi silenzi. Lui sogghignava con quell’aria furbetta. Si muoveva per vederla da tutte le angolazioni. “Ora fai la brava”. “Prego”? “Fammele vedere”. “Cosa”? “Mostramele”. “Prego”? “Sì, fammi vedere”. “”. Col suo vestitino… Bastava un respiro più forte e rischiavano di schizzare fuori. Da sole. Spontaneamente. Come un tappo di spumante. Forse sarebbe bastata solo un po’ di pazienza. Perseveranza. Forse non le sarebbe neanche costata troppa fatica. Solo che in quel momento era indispettita.
Si sentiva come un pezzo di carne. Un quarto di sorana. Lui sembrava non avere pazienza. Anche se se lo poteva aspettare non aveva l’obbligo di non sentirsi sorpresa. E tornare a interrogarsi su come erano gli uomini. “Hai bisogno di lavorare?”… “Veramente?”… “E allora che aspetti? Spogliati”. “Veramente… pensavo… credevo”… “Nel nostro lavoro meno si pensa meglio è. Devi solo entrare nella parte. Immedesimarti”. “Posso farlo anche così”. “Se fai la brava… non dico che… ma forse la parte potrebbe”… “Potrebbe?”… “Solo quella è sicura”. “Perché me lo chiede”? “Io ti debbo conoscere”. “Sono quella che vede”. “Se si dovesse… se dovessimo… Sì! girare delle scene di nudo; capisci”? “Scusi non capisco”. “Ma dai. Mica sei una pischella”. “Se fossi un uomo me lo chiederebbe”? “Cosa”? “Mi chiederebbe di vedere quello che nascondo sotto i pantaloni”? “Che c’entra”? “C’entra”. “È diverso”. “Diverso come”? “Beh! diverso”. “Me lo spieghi”. “Non sono mica una vecchia checca”.
Alla fine si era definitivamente indispettita. Anche lei aveva finito la pazienza: “Vuoi vederle. Vuoi vedere le mie tette. Te le faccio vedere tutte. Non qui. Magari poi mi chiedi anche… Lo so. Visto che devo… e che dovremo… C’è un posto?”… Il posto c’era, dietro, nei camerini. Da qui all’eternità. Il loro nido dell’intimità: “E allora andiamo”. Lui l’aveva fatta passare per prima indicandogli la strada: “Perché il borsone”? “Ho dentro i miei giochini. Non me ne separo mai. Forse ti piaceranno. Forse”. Aveva il volto del giulivo. E le mani veloci: “Sei sorprendente, e carina”. Lei aveva lasciato paziente che le sue dita curiose e indagatrici pascolassero tra le sue chiappe mentre raggiungevano quel posto, O meglio il posticino. “Fai il bravo”. “Non ne sono capace. E con te poi”. “Stai fermino”. “Volevo solo controllare. Eh! Eh! Sentire… tastare… provare se… sodo è sodo. Tanto poi te”… “Poi”. “Sai che mi hai”… “Chiudi la porta”. Aveva un bisogno proprio urgente. E proprio… imperioso. “Cosa aspetti”? “Per tastare hai… Per controllare pure. Abbondantemente. Fin troppo. Per i miei gusti. Non sarai solo chiacchiere? Dentro ho un regalo giusto per te”.
Gli puntò la Spara Sentenze davanti: “Ti piacerebbe con due. Ti piace la mia amica”? Lui sbiancò: “Non fare scherzi. Era solo per scherzare. Guarda che se vuoi… te ne puoi anche andare. Una parte, per te, si prova. Giuro”. Ogni curiosità gli era immantinentemente passata. Aveva alzato le mani: “Vuoi dei soldi? Coca? Ero? Un posto davanti alla prima fila? È tuo. Qualsiasi cosa. Per te. Ci provo”. Non era il momento di essere venali. Magari… dopo. Cercando di uscirne aveva peggiorato la cosa. Il coglione: “Ti ho mentito, sono solo l’addetto alle luci. Una burlonata. Scusa. Però mi piaci veramente. Potrei”… Pam! La Glock 17 Gen 4 fa asole un pochino troppo grandi. E da quella distanza vicina, forse non avrebbe trovato un bottone di quelle dimensioni. Adatto allo scopo. Sulla patta non era il massimo, più che un’asola era un vero cratere, e cominciò subito a sanguinare: “Dio santo santiddio! Sei pazza”? Poi s’era accasciato. Afflosciato per terra.
Lei aveva rimesso le cose a posto, le due sorelline dentro il mini-vestitino, si era tirata su la sua giarrettiera col cuoricino, preso la miseria che aveva e poi era uscita. Non le interessava vedere la fine di quello spettacolo. Non trovò il bagno e la fece sul tappeto. Era stato il mondo degli uomini a farla diventare così. Intanto il silenzio della stampa e delle televisioni proseguiva compatto, senza interruzioni. Gli ammiratori venivano tacitati, a volte brutalmente. I testimoni sparivano ad ogni scoccare di dita. Dall’alto tutti volevano dimenticare, e far dimenticare in fretta, quegli ultimi mesi. L’errore di indirizzo. L’inutile carneficina. Loro certo non si dannavano. Non l’avrebbero cercata. Non si sarebbero dati pena per trovarla. Questo la faceva sentire quasi tranquilla. Solo quello stronzo cocciuto di Simon Brimmer[1] continuava a frugare cercando di dare un nome al suo volto. Quello non avrebbe visto un elefante in una giungla di vetro. Non aveva altri nomi tranne il suo: Betty Boop.
Quello che non si sarebbe aspettata era una loro visita in casa. Che avessero incaricato e mandato proprio loro. Il tipo grande e grosso, naturalmente con una grossa cicatrice in faccia, un classico, la spinse da parte ed entrò risoluto. “Noi, uomini d’onore, solitamente non lo facciamo con le donne. Ma, un contratto è un contratto. Ordini dal Paradiso. Spero che lei capisca”. Per capire lei capiva. Fin troppo bene. Erano troppo pavidi per farselo da soli, quel lavoretto. E così avrebbero avuto le mani pulite. Dei veri Ponzio Pilato. Dei grandi strateghi del Io non c’ero; e se c’eroFanculo! Era nei guai. Lei cercò di mostrare che non aveva perso il suo sangue freddo. Che non si era scordata dei suoi doveri di ospite: “Gradisce un caffè”? Quello si accomodò mettendo i piedi sul tavolo: “A quello non si può mai dire di no. Il lavoro può attendere”. Si sedette anche lei, davanti al bel tomo. A quell’avanzo di galera. L’uomo da mazzo. Non era neanche un locale. Si erano dati la briga e la fatica di farlo venire da fuori.
Fu in quel momento, proprio in quel preciso istante, che le scivolò fuori, quasi inavvertitamente, una delle sue care sorelline. Arrogante e soda. Lui: “Me sa… Il lavoro può proprio attendere”. Ci pensò su: “Me piacerebbe de più che me dicessi de no”. Prima ancora che il bel tomo, ma si fa per dire, finisse la risata lei sfilò la sua cara Sputazza Amen da sotto il tavolo e cancellò lo stupore dal suo viso prepotente. Bum! Tre Bum! Si asciugò il sudore dalla fronte: “Me sa che… Ora dovrò anche pulire tutta la stanza”. Glielo rimandò in pacchetti assicurati da un kilo e mezzo cadauno, a carico del destinatario. Naturalmente sempre da un ufficio postale diverso. Naturalmente con lo pseudonimo di Lilith Mesopotamia, via del Neolitico da Jarmo, come mittente. Un lavoro immane. Ottantadue pacchetti di colosso sigillato. Era certa che non l’avrebbero più cercata. Per tranquillità cambiò comunque di nuovo indirizzo.
Non aveva voglia per la casa. Si stava immalinconendo. Non riusciva a stare dentro le pagine di quel romanzo per più di un paio di minuti. Aveva ragione lei? Avevano ragione loro? Non si può fermare il mondo con la sola forza delle braccia. Come può uno scoglio arginare il mare[2]? Non si può riscrivere la storia a colpi di pistola, neanche di due. Era solo per testardaggine? Forse avrebbe fatto bene a seguire il loro esempio. Non ne era capace. Forse avrebbe dovuto pensarci prima. Prima di mettersi contro tutto l’universo. Non c’era verso: nessuno avrebbe mai accettato una donna che smettesse di essere solo donna. Non voleva comunque darsi per vinta. Forse avrebbe fatto meglio ad accettare quella serie, Drawn Together. Non aveva notizie di Ultimo-It. Dalla sua strega preferita aveva ricevuto un paio di cartoline. Vinta da un po’ di nostalgia l’aveva chiamata, Malefica. Senza scordare quel minimo di precauzioni.
La voce le giunse come dall’altro capo del mondo, da un altro universo. “Com’è Sumatra”? “Non so. È sempre dietro il selfie”. “E tu come stai”? Ci fu un lungo attimo di silenzio per riflettere. Era stato fin troppo lungo: “Beh! lui è molto carino. Non mi fa mancare niente”. Sembrava indecisa e non avere argomenti. Non era da lei, per come la ricordava. “Ma”? “Mi mancano un po’ le mie cose. Le vecchie abitudini”. La maga nera aveva una voce spenta. Lei che incantava gli uomini con la sola imposizione dei suoi occhi. O almeno questo a lei sembrava? E non aveva percepito la sua solita ironia. Forse era solo stanca. Il paradiso non era nemmeno a Sumatra. Betty non aveva mai abbassato la testa. Qualche volte le mutandine. Poche volte con piacere. Certe volte costretta o per necessità. Poche volte e basta. La vita è quella che è. Il suo romanzo doveva averlo scritto un novello Victor Hugo. Era infarcito di miserie. Di sfortune. Di disastri. Di lacrime. Di rinunce. Il suo mondo era sempre stato una fuga. Era nel suo periodo cupo. Tutto le appariva nero. Testardamente cercava di non pensare alle amiche perdute. Si sentiva in colpa.
Nel frattempo, in mezzo allo stesso silenzio, era cominciato il processo di It Pennywise. Lei avrebbe voluto poter essere presente. Comunque, qualcosa girava nei forum. Grazie al suo avocato era intervenuto in aula accompagnato da una foca e un pallone a spicchi colorati dal diametro di un metro e mezzo. E tra il pubblico aveva trovato una cinquantina di clown It. La foca continuava a far ballonzolare il pallone sulla cima del naso, lo lanciava in aria e lo riprendeva, lo faceva roteare, e si batteva le pinne come a dirsi da sola quanto era brava. L’accusa protestò: “Non possiamo trasformare l’aula in un circo”. La difesa infervorata replicò: “Vostro onore, per disegnare la personalità del mio cliente, dobbiamo vederlo completamente nei suoi panni e anche nel suo ambiente”. Il giudice alzò le spalle con aria di sopportazione mostrandosi paziente. In nessuno dei documenti presentati dall’accusa appariva il nome di Severina. Era come se Severina non fosse mai vissuta.
Prese la parola l’imputato in una lunga allocuzione, davanti ai pochi volti impiccioni ammutoliti: “Se fate venire qui i vostri figli si libererebbero subito di me da questa stanza. O scapperebbero di tutta fretta. Non è colpa mia se gli avete insegnato a temere il buio. A controllare sotto il letto prima di coprirsi con le lenzuola. A dormire con la luce accesa. Se non gli avete consigliato di non guardare certi film. Di non ascoltare la maggior parte delle favole. Ma vi state sbagliando. Non sono io quello. Mai fatta una serenata. Il bello che mi ha preso ha arrestato un abbaglio. Forse devo ringraziare un boja, qualche soffia ubriaco in vena di smarcerie. Ce ne sono a milioni di maschere come questa. Solo che io sono la maschera. Mai stata in un baito, i miei belli, pochi per la verità, i cavalcanti se li tolgono a casa. Sono ancora pivella. Non avete uno straccio di prova. Mai preso in mano una cacafoco, manco un cerino. Nisba. Mi hanno sempre fatto strizza. Manco nemmeno cuccato, mai improsato. Fossi matto. La conosco la nota della spesa. Sono un pagliaccio dabbene. Una santa. Le carte chiacchierano; Vostra Eccellenza. Quello era solo un imitatore. Io ero… io ero… io sono quasi sempre via Da qui me devo sboccare come una rondine[3]“.
Non c’erano carte. In nessuna anagrafe nazionale appariva un Pennywise. Forse quel mare di parole li aveva ancor più confusi. Eppure, forse, avrebbero potuto riconoscerla dal linguaggio. O almeno allevare qualche dubbio. Alla fine l’avevano assolto. Quasi. Ne erano stati costretti. Senza prove. Senza un nome. Senza chiasso. Lasciando fuori la stampa. Solo trent’anni di domicilio obbligatorio presso il Circo a Tre Piste. Lui e la foca. Ero felice per entrambi. Tanto rumore per nulla.

[1] In Ellery Queen: https://it.wikipedia.org/wiki/Ellery_Queen_(serie_televisiva)
[2] Lucio Battisti: Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi…
[3] Vedi per una eventuale traduzione: http://www.gerghitalici.altervista.org/malavita/malavita-romana.pdf

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Una canzone per BettySegue: Al peggio non c’è fine [9]
Bidibi-bodibi-bum. Aveva un sacco di tempo per sé. Anche troppo. Si trovava sempre più spesso a pensarsi addosso. Più si guardava e più ne aveva conferma. Gli specchi sono dei pessimi mentitori. Non che… Betty. Forse era un po’ tondetta, così si sentiva. Doveva starci attenta. Cosa trovassero in lei gli uomini le sembrava un piccolo enorme mistero. Non che le dispiacesse. Non che fosse l’ultima. Non era certo da scartare o buttare. Solo che… si vedeva né bella né brutta. Si vedeva com’era. Gli occhi erano indubbiamente inquietantemente enormi e belli. Affascinanti e sognanti. La boccuccia rossa piccolina era un piccolo cuore in amore. Se la sarebbe baciata da sola. La sua aria innocente… Non le mancava nulla. Certo. Forse il viso era un po’ paffutello, ma non era questo il peggio. Le gambe erano ben scolpite; non era nemmeno questo il punto. Non bastava… Cosa spingeva gli uomini a guardarla in quel modo. A spogliarla del poco che aveva addosso con gli occhi. A desiderarla così… subito e per poco. Immediatamente. Non si vedeva certo un’icona sexy. Si vedeva solo una donna. I maschi erano un vero mistero. Un disastro. Provò a vedersi Marylin, si vide solo Betty.
Il tempo passava, come si dice… a tempo di giava. Cominciava ad essere in apnea. I giorni trascorrevano e le spese galoppavano. Imbizzarrite. Non le restava che andare a fare visita al buon Baldassare. Preferì farlo a notte fonda e bussare piano, un paio di volte, per farsi sentire. “Non mi aspettavo questa visita”. “Già”! Nessuna sorpresa evidente. Non un gesto di benvenuto. Da quella fredda accoglienza Betty aveva capito subito che il dialogo sarebbe stato difficile, e sarebbe proseguito in sussurri. La stava lasciando sulla porta. “Potevi telefonare”. “Non mi fai entrare”? “Non possiamo?”… “”! “Facciamo presto”. “Quello che serve”. “e fai piano che loro sono di là che dormono”. “Non mi ci vorrà”… “Se si sveglia gli diciamo che sei una cliente; intesi”. La accompagnò cauto fino in cucina. Aveva il pigiama e le ciabatte ai piedi. Era spettinato. Forse stava dormendo. Forse l’aveva svegliato. Oppure chissà cosa stava guardando? “In fondo lo sono”. “Niente di me e di te, e delle altre”. “Come vuoi”. Provò a fare il finto tonto. “Allora cosa c’è”? “Non lo immagini”? “No! dovrei”? “Come vanno i nostri investimenti”? “Male”. “Quanto”? “Male male”. “Vedi Baldino… fidata mi sono fidata. Non possono andare così male. Il tuo è il tuo, ma il mio reta il mio. Ora ne avrei proprio di bisogno”. “Solo che non è rimasta una cippa. Un bel niente”. Lei sapeva che lui mentiva. Doveva esserci un vero tesoro. E comunque non erano affari suoi.
Cercò di stare calma. “Non vorrai farmi”… “Ma poi, in fondo, il colpo era il mio. Te l’ho suggerito e organizzato io. Io ho fatto tutto”. “Con questo cosa vuoi dire”? “Non dovevi aspettarti troppo. È andata così”. Se mai le era restata un po’ di fiducia negli uomini anche quella era svanita. Proprio in quell’attimo. “Ti spiacerebbe darmi almeno un ultimo addio, Balduccio”? E gli aveva strizzato l’occhio. “Sei pazza, ora e qui”? “Non ora, subito e qui”. Lui aveva visto la sua perfetta interpretazione della faccia da porca. La giarrettiera. Ne era rimasto colpito e si era fatto convincere con facilità. Pensava a quella che si ricordava. “Però nella stanzetta degli ospiti”. “Anche… dovunque. Ti desidero. Sbrighiamoci”. Era stata convincente. La camera non era piccola come si sarebbe aspettata. Il letto era matrimoniale, con la testiera in ottone. La luce anche troppo accesa. “Stenditi!” e lui si stese. “Voltati!” e lui eseguì ubbidiente. “Ora ti ammanetto al letto” e lui la lasciò fare. Curioso. “Ora toglili… anzi… lascia faccio io. Via questi pantaloni.” e gli mise a nudo il culo. “Sei sempre stata stramba tu. Come vuoi”. Una cosa bianca e molle, informe. Un’apparizione orrenda. L’avrebbe ricordata per molte notti. Non salvata nemmeno in parte dal sentimento. Aspettò un momento soffermandosi a guardare lo spettacolo disgustoso. Lui aspettava ansioso. Lei frugò e prese dalla borsa un suo Habanos Montecristo originale, e lo infilò al centro della faccia visibile di quella specie di arida e orrenda luna, come la bandiera. “Ti piace il mio giochino? Ma ricardati, caro Balduccio, che tornerò”. Il cretino non aveva capito bene la situazione: “Non vorrai lasciarmi così fino a domattina? Cosa gli dico? A mia Moglie? A mia figlia”? Lei uscì lasciandogli solo un: “Torno”.
Si nascose nella solitudine di un libro. Non sapeva come trarsi d’impaccio. Era alle strette. Per un po’ di mesi ancora ce l’avrebbe fatta. Poteva reggere. E dopo? Il mattino seguente avrebbe liberato le bollette. Meglio evitare multe o, peggio, sopraluoghi. Non si sentiva braccata, ma viveva come lo fosse. Come una reclusa. Si sentiva come quelle donnette apprensive. Preoccupate di tutto. Per i figli. Per il marito. Birbone. Per il suo lavoro. Per lo stress di lui. Per la cena. Per le unghie. Per la lavatrice. Per tutte le scadenze, appunto. E per le ricorrenze. Per i regali di Natale. Anche se era aprile. Perché lui non si accorgesse dei piccoli furti per quella borsetta irresistibile. Per i voti del maschio. Per il mestruo della figlia. Perché tornava a casa sempre più tardi. Della dignità. Dell’integrità. Dell’innocenza. Dell’illibatezza. Dell’anoressia. Dell’odore nella sua camera. Del frastuono della musica. Dei vicini. Delle chiacchiere. Per la visita al veterinario. Dell’avvilimento di Fido. Per la linea. Per l’amore. Per il tempo. E per il tempo. Di non perdere la puntata della sua Soap. Doveva reagire. Quante volte se l’era detto? Alla fine decise: una donna senza un uomo è una donna libera.

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