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Archive for luglio 2013

varie2Fate che i pargoli vengano a me. Ora le storie sono storie anche per le loro orecchie. Qui non c’è nulla da nascondere. Tutto appartiene ad un Disegno Divino. Chi dovesse nutrire diffidenze e financo sospetti sarà soddisfatto. In questo capitolo la storia sarà divisa negli stessi capitoli con cui è stata tramandata. Qui non c’è nessun imbonitore né nessun illusionista. Tutto è più vero del vero. Qui si ricorda come un povero vecchio, più sordo di una campana, stesse per sopprimere il suo unico amato figlio. E come un angelo, forse lo stesso, gli fermò all’ultimo istante, giusto in tempo, la mano. Ma anche di come gli uomini odiassero gli uomini, cioè niente di nuovo. Parola di Dio.

20. Con Abimèlec il pasticcio l’aveva combinato quel vecchio pazzo. E Lui era venuto a saperlo per ultimo. Era riuscito a trattenere all’ultimo l’Ira divina. Trattenersi non era certo facile nemmeno per Lui; tuoni e fulmini. Abimèlec non aveva colpe, lui s’era invaghito della sorella di Abramo, non della moglie. Certo che, a guardarle, entrambe erano una bella donna. Non è poi un peccato così grave guardare. E anche lei aveva detto: «È mio fratello». Pareva lo facessero apposta, quei due. E non gli era sembrata contenta quando Lui aveva rimesso ordine. L’aveva guardato indispettita e come si guarda un impiccione. O almeno a Lui era sembrato così. Come aveva Abimèlec fatto a non fare se lo sarebbe chiesto per tutti i tempi dei tempi. Se lo chiedeva anche Lei. Non che potesse ritornare sui suoi passi, la parola di Dio resta la parola di Dio. Aveva rischiato di fare un bel pateracchio. Proprio una figura di… di… quella cosa. Abramo s’era scusato con il pretesto che era la sua sposa ma anche la sua sorellastra, anche se non sua sorella. Si sarebbe detto un bel paraculo dell’ultima ora. Si sarebbe detto che erano tempi in cui le famiglie erano strani tipi di famiglie. E la parentela era una grande comodità ma anche un grande pastrocchio. Avrebbe voluto dire caos, ma quella parola proprio non la sopportava. Certo che era un profeta, che la sapeva raccontare, ma a sentire non doveva sentirci molto bene e in quanto a coraggio ne aveva di più un coniglio, con tutte le scuse al coniglio.
21. E Dio non poteva ignorare che non tutto era come sembrava. Anche il vecchio aveva la sue colpe. Aveva combinato le sue marachelle. Certo, pensò Dio, qualsiasi cosa gli chieda, anche la più strampalato quello la fa. Sarà l’età. Non sapeva se era un bene o un male. Non aveva ancora deciso. Ma non poteva fingere di non sapere di Agar l’egiziana. Non poteva dar torto a Sara, anche se forse sarebbe stata l’ultima a poter protestare: «Scaccia questa schiava e suo figlio, perché il figlio di questa schiava non deve essere erede con mio figlio Isacco». Sempre con quelle questioni di eredità. Così i figli si scannano con i figli. Ma per Abramo e per Dio anche quello era suo figlio. Un po’ di deserto non gli potrà fare certo male –pensò. Aveva dei progetti anche per quel figlio illegittimo. Ora la confusione era proprio completa. Per un brevissimo attimo perse la sua calma divina: “Fate un po’ di silenzio. Se ognuno vuole dire la sua ecco che finisce tutto nel caos, cioè in una baraonda; Dio ce ne scampi. Bisogna mettere un po’ d’ordine per non trovarci nella confusione più completa. Poi è chiaro che si salta di palo in frasca e magari ci si dimentica di cose importanti”.
22. Il resto lo disse a sé ma il suo pensiero rimbombava come il tuono: “E’ così che nascono gli equivoci. Uno dice una cosa, Uno dice un’altra, e poi… alla fine magari anche Una dice la sua. Stiamo parlando della parola di Dio. Questa è la parola di Dio. E la parola di Dio poi diventa la Scrittura Divina. Questo dice questo, Quello dice quello, Qualcuno dice e non si sa, e poi finisce come finisce. Della storia di Isacco ne avevo già parlato, vecchio scimunito, non ricordo bene ma mi sembrava di aver detto abbacchio, non Isacco. E Lui, Abramo, lo chiamò agnello, e forse gatta ci cosa, o non aveva tutte le rotelle al posto giusto. Che poi… qualcuno qui non me la racconta giusta. Va bene che Io sono onnisciente ma magari ero indaffarato, o mi è stato riferito solo dopo, insomma… Onestamente: o il vecchio non la racconta giusta oppure… in realtà nessuno dei fratellastri mi sembra che somigli al padre. Non che sia un esperto ma sembrano figli di altri padri”.
Era pur vero che Lui poteva essere in cielo, in terra e in ogni luogo, vero verissimo, e anche Lui, e Lui, caspita che casino, e anche allo stesso tempo, ma se badava ad una cosa non poteva badare ad un’altra. Lui era Dio non quella cosa che aveva tante teste, lì. E poi se Lui aveva mandato i pellegrini chi aveva mandato gli angeli, e chi era andato di persona? Lei disse e non disse, com’era suo solito: “Perché non prendere esempio dai greci. Loro coniugano l’amore in molte più forme”… Nemmeno la lasciò finire, non voleva sentir parlare ancora degli dei: “Non parlarmi di quelli, incivili e… superati. Dei veri zotici. Bell’esempio. E poi… e poi… quelli sono politeisti, barbari bestemmiatori e… e… senza fede”. Sì! alla fine era dovuto andarci anche Lui per sistemare le cose. Che notte quella notte. A rileggere questa Sacra storia non era sorpreso meno del comune lettore. Si raccapezzava poco che nulla. A parlare tutti, cioè tanti e altri no, non poteva finire che così. E ancora una volta dovette pensarci Lui, sempre a Lui toccava, a mandare un angelo a fermare la mano di quel vecchio pazzo che aveva scambiato il figlio per un agnello e l’olocausto, cioè il sacrificio, per una grigliata all’aperto. Ma Lei gliel’aveva detto: “Devi smetterla di mettere continuamente alla prova quel vecchio rimbambito”.
Avrebbe voluto non essere Lui a dover dare quella notizia al povero vecchio. Certo un po’ d’invidia Abramo doveva pur averla provata. Lui con quella moglie giovane e bella e aveva dovuto aspettare, e poi lui era diventato padre senza nemmeno accorgersene. Mentre dormiva come un ciocco. Come morto. Di quel figlio, Isacco, di cui non andava nemmeno tanto fiero. E aveva rischiato anche di perderlo. Mentre suo fratello, sia fatto la gloria del Signore, Nacor aveva avuto dalla moglie Milca otto figli, non staremo qui ad elencarne tutti i nomi. E Persino la sua concubina Reuma lo aveva reso padre quattro volte. E questi erano solo quelli denunciati. Che nome era poi Reuma? ma dove l’avevano scovato? Lui si chiedeva cosa avevano trovato da dire all’anagrafe, quella massa di impiccioni, di quei nomi. Sospettò che alla fine l’avesse vinta Lei. Doveva proprio ricordarsene, quando aveva un attimo libero, prima o dopo, che avrebbe dovuto creare anche la racchia e la bisbetica. Di quelle donne non se ne poteva proprio più.
A dirla tutta se l’era vista arrivare con la sigaretta in bocca. Ma come? Decise che avrebbe fatto mettere anche nelle confezioni: “il fumo nuoce gravemente alla salute”. Sperando fosse solo tabacco. Ma quella era l’ultima delle sue preoccupazioni. E poi non aveva ancora deciso come organizzare le sue orde di fans. Certo che il vizio dilagava molto più che le virtù. Avrebbe dovuto inventarsi una soluzione. Magari la divisione dei generi, una specie di divisione dei compiti, di divisione del lavoro. Magari le donne di qua e gli uomini di là. Qualcosa insomma. Certo qualcuno prima o dopo troverà la scusa che un piccolo popolo circondato da nemici aveva bisogno di figli per poi mandarli in guerra, bella scoperta, ed ecco come giustificare …tutte quelle nascite… e quei continui casini. E tutti quei morti, che i morti non sono mai un bel vedere. In realtà a Lui sembrava che in quei momenti a tutto pensassero tranne che alla guerra. Era quasi certo che il piacere non l’avesse inventato Lui. Subito si alzò un coro di “Nemmeno Io”. Poi alla guerra ci pensavano per tutto il resto del giorno. Non li aveva fatti certo buoni. Ma non aveva nemmeno creato l’industria bellica, se era per quello. Erano fin troppe le cose… Parola di Dio.

Per la foto si ringrazia la pagina Facebook di Enrico Mazzucato

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tazzina di caffèIl martedì per lei era un giorno normale. Un caffè di corsa. In silenzio, tutto al buio per non disturbarli, raccoglieva le cose che si erano messi il giorno prima e che trovava sparse per il pavimento nelle camere. Le metteva nel cestino della biancheria da lavare. Preparava la moka per Pino e i bambini e la lasciava sopra il gas. Preparava la tavola: tazze, zucchero, biscotti, marmellate; solite cose. Controllava che tutto fosse in ordine prima di uscire; finestre comprese. Non si sa mai cosa può fare il tempo quando si è fuori casa. Le restava giusto quel poco per controllare di essere in odine anche lei. Una lavatina, quel minimo di trucco, una pettinata, telefonino, borsetta, si infilava le scarpe e via; dopo aver dato un’ultima controllatina che tutto fosse in a posto. Le restavano giusti sette minuti per raggiungere la fermata dell’autobus e poi al lavoro.
Durante il viaggio aveva giusto il tempo per pensare se non si era scordata niente. Non era un lungo tragitto. Solitamente lo doveva fare in piedi. Sballottata. Sbirciava qualche titolo dai giornali che qualcuno leggeva. Se ne accorgeva spesso quando qualcuno la sbirciava. E allora aveva la tentazione di controllare se era in ordine. Il viaggio non era mai uguale. Spesso doveva fare attenzione. Si scostava per evitare contatti. Con qualcuno ormai si conosceva, solo come compagni di percorso. Magari qualche cenno di saluto. Appena accennato. Raramente c’erano volti che non aveva mai visto. O che credeva di non aver mai visto. A quell’ora si è sempre gli stessi. Poteva capitare che qualche volta, nella confusione, si sentisse qualche mano addosso. Ormai da qualcuno era abituata ad aspettarselo. Chi ha quel vizio tende a ripetersi. E lo vedeva avvicinarsi. Prendere posto con la scusa di mettersi comodo. Crearsi spazio. Mani più o meno leggere.
Qualche volta si sentiva in colpa, in colpa verso Pino, e se ne rammaricava. La città non è sempre gentile. Solitamente ne restava infastidita. Qualche volta lusingata. Come quella volta con… ma era così giovane. Ancora un ragazzo. Avrebbe potuto essere quasi suo figlio. Come l’aveva guardato lui se n’era vergognato. Era diventato un po’ rosso abbassando gli occhi. E l’aveva ritirata. A lei era dispiaciuto. Per lui. Ma poi la curva, uno scossone e lui era tornato ad allungare la mano. Forse il movimento del pullman aveva sbattuto lei addosso a lui. E lei, a quel punto, si era guardata bene dal rivolgergli ancora lo sguardo. Le sarebbe sembrato scortese e crudele, ed era così giovane. Le pareva un gesto di generosa benevolenza. Aveva lasciato che facesse finché non era dovuta scendere. Aveva avuto quasi l’istinto di chiedergli scusa. Ma era successo solo quella volta. Non l’aveva più visto. Certo che il viaggio le dava modo di pensare a ben strane cose. E il viaggio era sempre vario.
Ma non tutti i martedì sono uguali. Quel martedì, sarà stato perché il calendario diceva che era un martedì trenta, sarà stato perché le cose poi vanno come vogliono andare, ma quel martedì non voleva accettare di essere uguale. Nel trambusto aveva perso un bottone della camicetta; la gonna era tutta sgualcita, l’aria attraverso il finestrino l’aveva spettinata, era proprio un orrore. Però non erano queste le grosse novità, il fatto era che aveva scordato di mettere il pettine nella borsetta e, peggio, la calza si era smagliata. Per il bottone se ne diede un po’ la colpa, quella camicetta le stringeva un po’. Senza grande fatica si perdonò, anche perché non aveva troppo tempo per pensarci: doveva chiamare subito Pino altrimenti avrebbe fatto tardi. Lo svegli e lui era così irascibile quando veniva svegliato. Diventava proprio di cattivo umore, ma se non lo faceva, ogni santa mattina, lui non avrebbe sentito la sveglia e sarebbe arrivato in ritardo. Pensò al più grande che doveva fare compito di latino. Poi si sentì come se avesse contato lentamente tutti gli anni che aveva. Cominciavano a diventare grandi; quei figli. E lei i suoi anni li aveva anche se non li dimostrava, e li portava bene. Almeno a sentire gli altri. Certo che coi tacchi… si sfilò le scarpe sotto la scrivania.
Prese in mano la fattura della Edilcoop. Arianna arrivò solo allora. Se la sarebbe vista brutta quella ragazza se avesse continuato così. Anche la puntualità ha il suo valore. Soprattutto in un ufficio. Stava per prendere in mano il modulo precompilato per la riscossione di credito che le suonò il telefono. Era Marcello che la voleva vedere subito, e quando chiama il capoufficio bisogna correre. Non era una novità se non fosse stato martedì. Quell’uomo non era certo tra i più pazienti. Appoggiò lo stampato sulla scrivania, percorse il corridoio e bussò prima di entrare. A lei non dispiaceva quell’uomo sempre sicuro di sé e sempre elegante. Anche quella mattina ebbe modo di apprezzare quella grisaglia. Grigio antracite. E la cravatta. “Ti dispiacerebbe portarmi un caffè”? –anche questa non era una novità. Non che alla macchinetta fosse tra i più buoni. E ormai sapeva anche quanto lo volesse zuccherato. Ah! gli uomini; sono così… prevedibili. Essere gentile non le costava fatica. E poi ammirava quell’uomo ed era il suo capoufficio. Ma le sembrò subito che la sua bella voce, calda, avesse un tono diverso. Ci fece appena caso. Il bicchierino di plastica scottava.
Quando rientrò nell’ufficio lui la fece gentilmente accomodare. Si sistemò la gonna prima di sedersi. Sprofondò nella poltrona di pelle. Le capitava spesso che le volesse parlare, ma non che la facesse sedere per farlo. Solitamente aveva così tanto lavoro ed era sempre preso di fretta. Era imbarazzata per le calze. Se ne ricordò: aveva messo il reggiseno a balconcino. Lui aveva un sorriso diverso, più… cortese. Si prese il suo caffè e poi cominciò guardandola negli occhi: “Scusami. Inutile girarci attorno. Tra noi… sarò franco.” –non le piacque nulla quell’esordio; si mise in apprensione– “Sai i tempi che corrono. Voglio dire: come vanno le cose. La crisi e poi tutto il resto. Lo sai anche tu. Il lavoro è diminuito. I clienti si allontanano. Sempre meno. Nessuno vuole più spendere. Chi ce li ha se li tiene. Insomma è sempre più difficile”. Sì! lo sapeva. E in quel momento sapeva che non sarebbe stata una mattina come tutte le altre. Non avesse iniziato ad essere preoccupata sarebbe stata inquieta di vederlo così: titubante e insicuro. Con le parole che parevano costargli fatica. Così non lo conosceva; anche se lo conosceva ormai bene. Poteva anzi dire che tra loro ci fosse anche della confidenza. Sapeva che lui la apprezzava per il suo lavoro, ne era certa, e anche come donna. Era capitato che le chiedesse un parere. Se avesse potuto avrebbe provato a rendergli le cose più semplici, anche se anche quello faceva parte dei suoi compiti di manager.
Posò il bicchierino e lentamente tornò ad essere il lui che aveva imparato ad apprezzare: “Dov’eravamo rimasti? Ah sì! scusa. Ti dicevo. Anche se mi dispiace, proprio a te, ma non posso esimermi di… Insomma ci vediamo costretti a fare dei tagli al personale. Non vorrei ma… non c’è più lavoro per tutti. E… anche per i nuovi azionisti. Non subito, certo. Ma da fine mese dobbiamo rinunciare a te. Fai pure con comodo. Se hai delle ferie. Non so. Se ti posso in qualche modo aiutare. Chiedi pure. Cerca di capire la situazione. Anche la mia. Prova a metterti nei miei panni”. Si sentì morire. Come avrebbero fatto? Cosa avrebbe detto a Pino? Lui era così ansioso. Persino timoroso. E poi l’ufficio era diventato un po’ la sua vita. Si trovava bene lì. E con loro. E anche con lui andava d’accordo. Si rese conto che tutta la sua vita sarebbe cambiata. Si rese conto di non essere il tipo che ama le novità; i cambiamenti. Stupidamente pensò che doveva ricordarsi di prendere le cipolle per il sugo tornando a casa. Non sapeva se doveva rimanere o alzarsi. Sapeva di non potersene andare così, ma non era come le altre volte. Tornò a ricordarsi delle calze. E poi a chiedersi se aveva qualcosa che non andava.
In fondo la sua età comunque ce l’aveva. E aveva anche fatto due figli. Eppure molti sembravano non accorgersene. E anche lui. E lui aveva gusti raffinati. Anche se qualche volta strani, o almeno così sembravano a lei, e ripetitivi. Lui era un vero signore. E aveva quella bella macchina, che era anche comoda. E la villa al mare. Il successo guarda chi se lo merita. Lei si era ormai abituata a lui e lui aveva sempre la barba appena rasata. E quel buon odore di dopobarba. Che sapeva un po’ di cioccolata. Si accese una sigaretta, non capitava spesso che lo vedesse fumare: “Scusa se sono franco. Se sono diretto. Da quant’è che lavoriamo assieme? Noi due? Lo so che non sarà, che non potrà essere più lo stesso. Mi dispiacerebbe… Lo sai. Ti ho sempre apprezzata. Magari noi due, qualche volta, se ti va, possiamo anche continuare a vederci. E non è per questo che viene meno la mia stima nei tuoi confronti. Voglio dire: se ti va; naturalmente. Tu resti sempre una bella donna. E hai sempre un gran bel paio di tette”. –e si alzò in piedi. Per la prima volta ebbe un pensiero volgare di cui vergognarsi “Fanculo anche le cipolle”. Si inginocchiò davanti a lui perché sapeva come sarebbe andata a finire.

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matrioskaNon credevo di essermi infilato in una storia tanto difficile, in un’impresa così ardua. La bottega si può dire che continuasse a rimanere deserta. Di tanto in tanto qualcuno ma niente di che, nessun affare. Eppure mi sembrava… c’era qualcosa che non andava nella mia idea. La credevo brillante. Povero illuso. Li avevo messi anche in occasione. Forse non mi so ancora adattare e per me il mondo cambia troppo in fretta. Annalisa me l’ha sempre detto che sono un uomo all’antica. Forse oggi capisco cosa voleva dire ieri.
La realtà è che pare che a nessuno interessi comprare un sogno, soprattutto se è quello di un altro. Eppure credo di poter regalare un sogno per ogni persona. Ho sogni per ogni circostanza. Ne ho messi da parte a centinaia. E centinaia ne posso inventare a seconda del soggetto, delle necessità. E ho tutto lì bene in ordine, per argomento. E ho sogni piccoli e sogni enormi: un mondo di sogni. Non potrei vivere senza, ma… senza inventarmi sogni. Sogni da regalare. Sogni da vendere. Sogni per sognare. Eppure se ci penso me ne sto qui. Non vivo in un sogno. Forse nemmeno io riesco a farli vivere; i miei, voglio dire. Così preso a pensarli, ad inventarli. A volte in modo anche affannoso. E qualcuno pure mi sfugge. Non riesco a cogliere la ragione del mio insuccesso.
Mi è sorto un dubbio e ho chiesto a Cristina. Mi ha dato la stessa risposta di Claudia, che non è diversa da quella di Maria Giovanna ma anche da quella di Tullio e di tante altre: “Non ho tempo per i sogni”. Qualcuno ha aggiunto alla domanda una domanda: “A che serve sognare”? –o più semplicemente– “Perché”? Onestamente ho cercato di capire, perché un mondo senza sogni mi sembra un mondo senza anima. Forse mi sbaglio, ma non è stato facile e non so se ci sono riuscito. Forse sono solo l’ultimo dei romantici.
Annalisa è stata più esplicita, ed in qualche modo mi ha fornito una risposta diversa, ma con Annalisa naturalmente ha giovato il nostro rapporto. E’ facile per lei essere più franca e non lesinare sulle parole. Portare a termine una frase, un discorso; senza farmi perdere la pazienza. “Li piego con cura e li ripongo in un cassetto, i miei sogni. Li ho catalogati tutti anch’io. Aspetto, So che sono lì pronti. Non si sa mai. Ma io i sogni me li penso da me. Spero arrivi presto il momento in cui posso ritirarli fuori. Per dei giorni qualsiasi. Per dei giorni inutili. Per qualsiasi occasione. Per dei giorni giorni. E vivermeli. Non ci ho mai rinunciato del tutto. E spero che mi bastino per tutto il tempo che mi resterà”.
In verità mi sembra una conclusione un po’ triste. E so di tanti che non sanno inventarsene uno. O ne hanno di veramente miseri. E mi chiedo: i propri sogni non son cosa già risapute? Che rischiano di perdere la meraviglia della sorpresa? Ma mi guardo intorno e non ne vedo punto. Persone che corrono. Gente incatenata alla più pigra realtà. Troppo indaffarate. Insomma un po’ di queste e un po’ di quelle. Esseri che preferiscono la noia. Storie come libri negli scaffali che nessuno consulta. Giorni tutti uguali. Rassegnazione. Vite buttate via. Banalità. Per i sogni pare non ci sia più posto. Se non riesci ad amare un sogno come puoi amare? E se non riesci a sognare cosa resta? Una paccottiglia di realtà? Piccoli articoli conservati? Cronaca? Le lacrime del giorno dopo? Non ho altre domande. Non ho nessuna risposta.
Questa notte ho sognato Annalisa, lo ammetto. Niente di licenzioso. Aveva un bel sorriso, luminoso. Rideva con facilità. Ed era leggera e libera. Ed io non c’ero. Naturalmente la città era la città e non era la città. Lei si affacciava al balcone e ispirava l’aria a pieni polmoni. E il mattino mi son guardato allo specchio. Lo so che i sogni di notte non vogliono dir nulla. Mica parlavo di quelli. Quelli li subisco anch’io e non posso farci nulla. Non hanno un ordine, non hanno una regola, non hanno attinenze, non hanno nulla. Ho smesso di cercare di interpretarli. No! non seguono regole. No! non sono interpretabili. Solo che a volte al mattino non riesci a liberartene. Ti tornano in mente, e questo era uno di quelli. Lo so che è stupido ma non me ne so dare pace. Mi sono visto allo specchio e mi sono trovato a chiedermi se ero io quello.

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Monete con Giano bifronteE poi arrivarono i cosiddetti deprogrammings, e alla fine mi sentii completamente vuoto e non provavo più nemmeno gli odori. Giravo per le stanze per conoscere casa mia. Come vivessi in un corpo che non era il mio. Mi trascinavo stanco. Uscirono dalla porta spiegandomi che quello era il trattamento obbligatorio, quello base. Che spettava a tutti; gratuitamente. In realtà io non avevo sofferto di nessun disturbo. Per quanto c’era nel mio fascicolo personale ero un cittadino modello.
Dopo, per un attimo, non si riusciva a sentire nemmeno un cinguettio d’uccello, nemmeno il rumore del vento. O ero io ad immaginarmi così. Mi sentivo confuso e frastornato. E’ normale. Mi affacciai alla finestra per cercare di riconoscere il paesaggio. C’era una conifera e prima il giardino. In quel momento nemmeno un’auto che passasse. Quello era un quartiere residenziale e molto tranquillo. A suo tempo lo avevo scelto per quello. Ero rimasto anche dopo che Arianna se n’era andata. Sospettavo avesse scelto la latitanza e si fosse allontanata per quello. Non saprò mai la verità.
Poi vennero i pulitori. Rovesciarono tutta la casa. Tolsero tutti i quadri e le fotografia. E un sacco di altre cose. La lasciarono completamente vuota. Tornarono dopo poche ore. Ridipinsero le pareti di un bianco opaco. Sostituirono i mobili con altri che loro dicevano di architettura funzionale; magnificamente freddi ed essenziali. Bocciarono anche parte del mio guardaroba. Avevano con loro un elenco meticoloso. Completarono la mia disponibilità di elettrodomestici. Fissarono al muro una enorme tele piatta con i canali già preimpostati. Mi fornirono infine di una serie di cd con varie registrazioni di silenzi.
Poi venne l’ingegnere dell’eticità o qualcosa di maledettamente simile. Di quelli bastava uno per visita. Mi osservò attentamente e ne sembrò soddisfatto Si guardò anche in giro. Loro erano temuti anche dal personale che gli aveva preceduti. Disse che era stato fatto un ottimo lavoro e che, per mia fortuna, avevano potuto cancellarmi completamente la mia vecchia ram sensuale. Prima di andarsene mi consegnò il manuale delle mille parole consentite. Volle anche concedermi un po’ del suo tempo per regalarmi un po’ di consigli. L’ingegnere si chiamava Angel.
Come faccio a ricordarmi questi particolari. Prima del prima avevo fatto quella telefonata. Avevo avvisato dell’inizio del trattamento obbligatorio il mio haker. Aveva già le mie chiavi. Era venuto quella stessa notte, subito dopo cena. Una breve chiacchierata e dopo ci aveva messo un attimo a ripristinare tutto e a farmi ritrovare la memoria. Una breve rimpatriata, un bicchiere e ci siamo salutati velocemente; per sicurezza. Giusto il tempo di darmi le disposizioni. Forse non ci vedremo più, salvo non ne abbia nuovamente bisogno. Solo in caso di urgenza e necessità. Ho cancellato il numero della chiamata dopo averlo mandato a memoria.
Non sono nemmeno teso. Dovessero passare avvertono con breve anticipo. Basta mantenere la calma, un po’ di collirio e non cambiare quell’espressione attonita che hanno tutti i vicini. Sto facendo pratica già da un po’. Ora abbiamo dieci milioni settecento venti mila titoli nella biblioteca della memoria. Per essere estremamente precisi: e trentasette. Non è quello il punto. C’è un ponte di comunicazione. Ho una connessione pirata veloce e affidabile, nonché sicura. Non chiedete a me? Non sono bravo in queste cose. Credo si agganci direttamente alla telefonia interna del ministero. Di quale non so. E che ne sfrutti errori di cablatura. Così ha cercato di spiegarmi il mio salvatore. Ho anche un nome in codice e un nuovo profilo e una mail. Anche quella, mi hanno assicurato, assolutamente sicura. Dovrei cercarla Arianna. Temo di metterla in pericolo. Il mio compito è riportare le notizie dalla vicina Loira e, questo è l’incarico più difficile e delicato, dalle banlieues parigine e di Roma. Almeno finché non trovano qualcuno da affiancarmi per dividerci il lavoro.

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Guardo l’orologio: leggermente in ritardo. Lui arriva. Lui mi fa un cenno e un sorriso. Niente di che. Forse un po’ di delusione. Dalla foto… un’altra persona. Lui torna in strada. Aspetto ancora. Lui entra. Lui esce. Si disorienta nella porta girevole. Poi torna; lui. Poi risponde al telefonino; lui. Piccolo è piccolo. Poi, finalmente, viene a sedersi. Ha un feto assordante di dopobarba. Sorride. Non dev’essere nessuno suo. Gli occhiali sono due telescopi. Rendono enormi gli occhi acquosi. Quelli sono quelli di una mucca assonnata. Il colore non è ancora stato deciso. Sotto due borse soffici da attraversata intercontinentale; di marca indefinita. Forse sono troppo severa. Mi dico: “Pazienza”. Non si può pretendere. Basta vederlo per capire i confini della compagnia che cerca. So già che niente ci porterà fuori da queste mura. Non posso fare la difficile. Si sistema la cravatta. Mi spiega che è di non so chi. Io credevo fosse sua. Con uno così non hai molti margini di conversazione. Uno così si è già caricato in preventivo. Uno così vuole solo essere adulato. Pare che ogni cosa sia di qualcuno o qualcosa. Sul bordo della manica c’è un’etichetta. Freno la mia curiosità. Non cerco di leggerla. Non mi spiace anche se non staremo tanto a parlare. Se non mi porta ad un incontro d’affari o all’inaugurazione di una mostra. A all’associazione di chissà che cosa. Solo al cinema c’è una campagna elettorale a stelle e strisce.
Mi controllo nel riflesso sulla vetrina. In realtà non sono da vista, ma a molti piacciono. Gli sorrido ma è tempo sprecato. Provo l’espressione occhi da gattina. Solo per lui mi sistemo la scollatura. Questo mostra di apprezzarlo. Appoggia sul tavolo l’accendino d’oro. Forse placcato. Si mette di mezzo profilo. Si presenta come se però dovessi conoscerlo già. “Sono l’avvocato Felice Eugenio degli Albrizzi”. Accende la sigaretta. Fuma soffiando il fumo verso di me; cafone. S’allontana per telefonare. Torna ancora una volta. Mi dice che si vede subito che sono una donna intelligente. Spero non sia un difetto insuperabile. Tira su i calzoni sulle ginocchia per non sgualcirli. Sbaglia leggermente la misura della sedia. Rischia paurosamente di cadere sul tappeto. Trattengo la risata. Mi sorride, soddisfatto. “Non posso che dirmi soddisfatto”. Chiama il cameriere schioccando le dita. Continua a far cenni finché quello non lo nota. Fin dal primo istante mi guarda come se non avesse mai visto una donna; guarda bello. I suoi occhi si infilano da per tutto. Forse sono stata precipitosa. Forse con lui non serviva. Ordina una cosa dal nome impronunciabile. Gli servono una coppa con un liquido blu, la cannuccia e una ricciolo di limone. “Mi scusa? a volte sono proprio… distratto”. E mi chiede cosa desidero. Vorrei evitare. Non mi piace bere al lavoro. Penso ad un caffè. Solo che temo di aver bisogno di aiuto. Chiedo uno Scotch doppio. Lui passa direttamente al tu. Precisa che ha dovuto prendere la seconda macchina. Sembra che con la mercedes sia complicato parcheggiare. In centro. Da queste parti. Vicino all’albergo. Dev’essere la giornata libera dell’autista. Non mi sembrava fosse così difficile. Non so. Sono arrivata in taxi.
O forse Mercedes è il nome della moglie. Deve essere difficile parcheggiarla da queste parti. Cerco di immaginarla e me la immagino piena di chili in più. Penso che sia uno disperato, ma anche lui è una disperazione. Forse dovrei pensare: povera moglie. Accavallo le gambe. Cerco di essere carina. Di fare la mia parte. Capisco subito che è tempo sprecato. Glielo faccio vedere o non glielo faccio vedere il mio nuovo tatuaggio? Rinuncio. Mi metto composta. Parla a voce alta. Intorno ci notano. Qualcuno non riesce a distogliere velocemente lo sguardo. Restituisco occhiate di “Fatti quelli tuoi”! Svuoto il bicchiere con fretta e rabbia. Il suo calore mi da coraggio e pazienza. “Sono negli affari. Giusto ieri parlavo di una transazione… ma non vorrei annoiarti. Non che mi possa lagnare, anzi, ma vorrei investire anche nello spettacolo. Interessarmi di spettacolo. Capisci? E’ una cosa che mi è sempre piaciuta. Dovrei vedere… sì! quel regista. Hai presente? Adesso mi sfugge il nome. Quello che ha fatto quel film… quello che in questi giorni tutti vanno a vedere. Dice che la mia è una buona idea. Che si può fare. Che di idee così non se ne trovano molte al giorno d’oggi. Scusa la distrazione, ora che ti guardo bene, ti potrebbe interessare? Non mi potrebbe proprio dire di no. Se glielo chiedo… Se glielo dico io”… Mi poggia la mano sulle ginocchia.
A uno così meglio non provocarlo. Va per le spicce. Deve avere fretta. Forse ha paura che gli parta il treno; forse. Forse è di quelli che il tempo è denaro. O forse pensa ad una cosa a tassametro. Io sono sulle spese; il taxi e tutto il resto. Non è che ti puoi presentare come una sciatta. Guarda l’orologio. Anche quello è d’oro o placcato. Si accende un’altra sigaretta. Succhia dalla cannuccia del suo cocktail sonoramente. Spegne la sigaretta quasi subito, testardamente. Sembra avercela nei suoi confronti. Il bordo del collo della camicia non è pulitissimo. Bisogna imparare a guardarla la gente. Si imparano molte cose guardando. Mi dice che si sente a suo agio. Che è come se mi avesse già conosciuta. Se ci conoscessimo da tempo. Mi pare di capire che si occupa, o occupava, di lavatrici. Che ha una fabbrica anche in Moldavia. Perché lì mica protestano. Li abbassano la testa e pedalano. Perché c’è fame. Poi mi chiede se ho pensato alla sua proposta. Di pensarci. Che può essere un’occasione. Perché.. io… in fondo sono bella. Ma proprio bella; e quel bella sembra contenere un sacco di altri aggettivi, e non tutti eleganti. Che è proprio soddisfatto. Anzi che non si aspettava… così. Come fosse un gran complimento. Che se faccio la brava se ne ricorderà. Perché lui è uno di quelli. Di quelli che sa apprezzare quelli bravi. Che ti guardi, bello? Mi strizza l’occhio. Mi dice che è stato due sere prima ad una cena in non so quale ambasciata. Che sarei stata la più bella. Non che… ma una come me… Che gli piace giocare a poker e ai cavalli. Anche quando è in giro per affari. Perché lui non vuole rinunciare al suo divertimento. Mi promette che ci divertiremo. Dopo la sua prima parola tutte le altre mi paiono in più. Diventano rumore distante. Non lo sto ad ascoltare. Ascolto solo la sua mano che scorre quasi immobile sulla mia gamba. Che scosta di un nulla il limite della gonna.
Mi chiamano. Spengo il cellulare. Si ricorda. Mi chiede come mi chiamo. Io dico: “Elena.” come al solito quando non voglio dire il mio nome. Quando mi presento per servizio. Mi chiede allegro e sottile, come fosse un’avance: “Elena, come quella”? Come se un semplice nome fosse una promessa. Complicità. Come se un nome volesse dire qualcosa, ma anche come se dovesse dimostrarmi che è uno che ha studiato. Ma anche come se quel nome contenesse una qualche volgarità. In realtà non è uomo da così numerose sfaccettature. Suda. Ha il segno della fede all’annullare. Vede che lo vedo. Cerca di nasconderlo senza riuscirci. Balbetta qualcosa come per darmi una spiegazione. Non me la deve. Non mi importa. Non la trova. E non è nemmeno il caso. “Bella stoffa.” –si complimenta della mia gonna leggera. Fermo la sua mano e la trattengo sotto la mia. Non mi sembra il caso. Anche l’addetto al ricevimento ci osserva. Torna a versarmi addosso un torrente di parole salivate. Forse intende scusare la sua fretta. L’indelicatezza. Forse solo distrarmi e confondermi. La mano si ferma sul ginocchio. Mi sto annoiando Se non si sbriga… Gli chiedo se ha già preso la stanza. Mi guarda come avessi parlato di filosofia o di matematica applicata. Dopo un lungo attimo cade dal suo paese tra le nuvole: “Ah! sì. Certo”. Si allontana. Si volta come a controllare se si sta perdendo qualcosa. E va a prendere la chiave. Torna a sedersi e rimette in moto la voce giocando con quella chiave tra le dita. Va bene che gli affari sono affari, ma… Se non la smette all’istante finisce che non gliela dò. Fanculo anche all’agenzia.
E’ sull’orlo di un fanculo. Mi propone un brindisi. Pare abbia deciso che li valgo tutti. Guarda il suo bicchiere ed esplora l’imbarazzo. Anche il mio è vuoto. Si decide e brinda a noi. A noi due! Mi strizza nuovamente d’occhio. Non riesce ad interpretare i sottintesi che vorrebbe esprimere nella sua faccia immobile. Guardo l’orologio anch’io. A questo punto vorrei sbrigarmi. Mi alzo interrompendogli le parole in gola. Mi sono persa la puntata. In fondo le stanze d’albergo sono tutte uguali. Devo smetterla perché questo non è serio sul lavoro. E alla fine devo pure campare anch’io. Andiamo verso l’ascensore. Mi mette una mano sul culo. Mi volto. Credo dai suoi occhi che non possa capire. Lo guardo e lo fulmino. Resta solo un po’ di cenere sulla moquette rossa consumata.

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Ogni persona, quando sale in macchina, a seconda dell’altezza, delle gambe, del sedile, di tanti fattori compresa l’abitudine e le preferenze personali, sistema lo specchietto. Io non sono diverso da qualsiasi altro guidatore e come tutti mi dà un gran fastidio che mi spostino lo specchietto, non lo devono toccare. La mia coupé poi ha uno specchietto panoramico ma sensibile, sembra un quarantadue pollici e conosce la mano del padrone. Non fosse la cosa più banale e nota del mondo lei monta e gira lo specchietto e si sistema il trucco. Quando glielo rimarco lei sorride e mi dà uno di quei scusa che si danno senza nemmeno ascoltare, senza vera partecipazione, leggero come un soffio; sembra anzi gentile ma leggermente piccata come fossi uno scocciatore. Certo: il vizio è donna. Per queste cose io posso perdere il lume della ragione. Lo rimetto al suo posto. Metto la cintura. La prego di metterla anche lei e ingrano la prima. Usciamo dal parcheggio e mi avvio in quello che dovrebbe essere un bel fine settimana.
Cerco di ritrovare la calma e guardo fisso la strada sperando che sia solo un episodio. Ho sempre avuto la convinzione che quando una cosa comincia male non c’è verso di riportarla poi ad un soddisfacente assetto. Anche la radio va e viene ed è un brutto ascoltare. Eppure lei non è male e potrebbe diventare una storia importante; forse la storia. Il rapporto è promettente e sembra una che non ci pensa su due volte; almeno questa è stata fin da subito la prima impressione. Forse non la primissima. Quella prima volta al bar pareva starsene sulle sue. Si guardava intorno con aria annoiata a da schifo come se aspettasse già qualcuno e non fosse interessata ad altro. E guardava come se non le garbasse nessuno di quelli che entravano. Stavo per rinunciare ma il tempo passava, lei non si muoveva e continuavo ad osservarla senza che lei mostrasse evidente fastidio, certo fingeva di ignorarmi. Quando gliel’ho chiesto, se aspettava qualche persona, mi ha risposto distratta: “Siediti pure”. Poi ha accettato che le offrissi un gin tonic e alla fine mi ha fatto insistere ma poi me l’ha dato il suo numero di cellulare. Solitamente so annusare le prede ma con lei è stato diverso. Non era certo solo che era proprio questo che mi aveva colpito e che mi ha spinto ad insistere.
Ho fatto i salti mortali per trovare una scusa con Ramona che fosse plausibile per allontanarmi questo agognato Weekend senza destarle sospetti. Lei, Pamela, non mi ha mai chiesto nulla davanti alla mia evidente mancanza di tempo. Alle mie scuse per vederci. Alla mia fretta agli appuntamenti. Al mio dover scappare sempre sul più bello. Non ha mai mostrato fastidio. Anche se non porto la fede deve aver capito che devo aver qualcuno. A dire la verità nemmeno io le ho mai chiesto se c’era qualcun altro, né cosa faceva quel giorno tutta sola al bar, chi o cosa stesse aspettando. Mi sembra strano per una donna come lei, ma le cose della vita sono sovente ben strane. Forse una storia appena finita?
Insomma la cosa tra noi ha continuato, per quel poco, con più bassi che alti, come due fidanzatini che non hanno ancora trovato il coraggio. Baci sulla guancia e cose così, sempre in pubblico. Poco di più quando l’accompagno in macchina fin sotto casa. Non ho nemmeno mai avuto il tempo di salire. Il tempo per me è prezioso e sta diventando un delirio tra lavoro e casa. E lei non mi ha mai chiesto di più, né mostrato insoddisfazione o irritazione per i miei saluti frettolosi. Quando sono riuscito a combinare e le ho proposto due giorni assieme, solo noi due, è subito sembrata entusiasta. Ha detto di sì all’istante e mi ha chiesto solo cosa si doveva portare. Lì ho fatto il mio capolavoro, le ho detto che bastavano due gocce di Chanel 5.
Ha riso senza alcun commento. Pareva che la cosa la divertisse e che fosse ovvia. Onestamente non so se quello che indossa è proprio due gocce di Chanel 5. Non so se è Chanel, se è il cinque, e non sono certo due gocce. Non è che ne capisca molto di profumi da donna, so solo che il suo è abbastanza invadente, comunque si è presentata all’appuntamento puntuale e tutta in tiro. Scarpe a punta con tacco altissimo, gomma melangiata corta ma non troppo, maglietta vedi e non vedi e anche disegna, e una piccola sacca che oltre ai trucchi non dovrebbe poter contenere molto di più che un paio di mutandine. Forse la boccetta con altre due gocce di Chanel 5. Quando le ho detto che saremmo andati fino a Portonovo ho dovuto aspettare che prendesse l’acqua e due altre cose per il viaggio ed eccoci qui, in marcia. Mi accorgo solo ora di conoscere poco i suoi gusti e di non aver molti argomenti di conversazione. Faccio molta attenzione alla strada e alle indicazioni del tomtom. Lei mi sorride ed io stacco solo furtivamente e rapidamente gli occhi dal volante, a queste andature meglio non accettare distrazioni. Basta un attimo. Spero di non incappare in qualche maledetta macchinetta per il controllo della velocità. Una multa sarebbe veramente un grande impiccio. Preferisco cercare di non pensarci.
Lei mi chiede se posso abbassare un po’ l’aria condizionata, si risistema i capelli e si scusa di non essere di grande compagnia. E’ che non ha dormito molto, dice, forse a causa dell’emozione. E dell’orario di partenza piuttosto mattiniero per lei. Concludo che ha belle gambe. Mi piacciono le donne con gambe come le sue, gambe che sembrano gambe. E mi piacciono le gambe con i tacchi alti, indubbiamente rendono snella la caviglia e la slanciano. Non amo fare delle graduatorie ma questa volta ho scelto bene. Per un attimo mi sfiora la mano mentre cambio. Mi chiede di parlarle di me, intanto per ammazzare l’attesa e così continuare a conoscersi meglio. Provo a parlarle del mio lavoro, molto sinteticamente, sembra interessata. Imbastisco un paio di storie che non mi riescono molto bene né naturali. Non è di gusti difficili. E’ disposta a credere ad ogni cosa. Mi confessa di non essere contenta del suo lavoro e di non trovare nulla per mettere a frutto i suoi studi in ingegneria. E di essersi sentita poche volte così bene. Mi offro di aiutarla. A sentire lei pare che le infonda fiducia, e di quella ne aveva bisogno.
Poi fa qualcosa che non mi aspetto, ride e mi dice lascia fare a me. Mi passa una mano dietro la spalla e mi tocca. Io preferisco che mi lascino tranquillo quando guido e mi trovo leggermente impacciato. Forse se ne accorge o forse no, comunque non sembra darci peso né importanza. Mi schiocca un bacio sulla guancia e ci lascia il suo rossetto. Mi sussurra all’orecchio che non vorrebbe rovinare tutto. Che non vorrebbe che la festa finisse prima di cominciare; questa cosa, detta da lei, non mi sembra troppo carina. Che devo scusare la sua impazienza. Mi chiede se voglio sentire ma le spiego paziente che sto guidando. Dice ancora che questo è solo l’inizio. Che lei è una che mantiene le promesse ed era solo per dirmi quello. Che vedrò. Che è brava. Che saprà farmi felice. Felice e soddisfatto –dice; con un’aria compiaciuta e malandrina.
La sua voce e i suoi occhi sono pieni di promesse e di malizia. Sono tentato di fermare la macchina subito e non sto più in me ma purtroppo, se vogliamo arrivare, la strada è ancora lunga. Rallento per godere un attimo di quel sorriso. Mi spiega che anche per lei non è facile ma che devo aver pazienza. Che dopo sarà ancora più bello, e che potremmo stare comodi: “Prova a pensare a quello”. Le sue parole mi riecheggiano a lungo mentre cerco di scordare la sua mano e il soffio del suo sussurrarmi nell’orecchio; e cambia discorso. Mi chiede se veramente penso di poterle essere utile e mi ringrazia anticipatamente della mia cortesia. Mi spiega che un minimo di esperienza l’ha fatta, che è stata l’amica di un grande architetto, e che si è laureata bene. Mi parla della sua casa e mi chiede quando potrà farmela vedere. Mi dice che ama i quadri e i libri, che ne ha la casa piena. Mi chiede dei miei gusti; lei ama la musica barocca. Non è molto curiosa delle mie risposte e non le aspetta; le sue non sono vere e proprie domande. Lo dice anche che è per famigliarizzare; brutto termine questo in una coppia più o meno consapevolmente clandestina. Ma il vocabolario della lingua è quello che è e le perdono queste piccoli cadute di gusto.
Chiude gli occhi e per un po’ si lascia cullare dai suoi segreti. Faccio quei chilometri in santa pace. Ho pensato troppo ai miei timori. Dovevo trovare un posto a due passi da casa. Magari vederci direttamente lì. Sarebbe stato più comodo e anche più sicuro. Persino più economico, ma non è la cosa che vado a pensare. Non mi sembrava carino, soprattutto per una prima. Volevo mostrarmi premuroso e garbato. Fare impressione su di lei. Non lasciarle dubbi e darmi certezze. Andare sul sicuro. Non rischiare nulla per il mio weekend. Insomma mi ero preoccupato fin troppo. Ma come fai a proporre a una che conosci così poco: Ci vediamo direttamente in una camera d’albergo. Quando lei non ha ancora mostrato la giusta attenzione e predisposizione nei tuoi confronti. Ora sì, ora che la sua mano e il suo sussurrarmi all’orecchio mi hanno confermato quando speravo. Ora che tra noi si è stabilito quel feeling. Lei ora mi fissa come fossi un trofeo; soddisfatta.
Perché non mi ha guardato prima con quegli occhi? Perché ha voluto lasciarmi ancora nel dubbio? Cerchiamo un autogrill dove prendere un boccone. Ci entriamo come una vera coppia. Lei pare orgogliosa di sé e di me pavoneggiandosi e tenendomi sottobraccio. Prende una tagliata con insalata verde ma la assaggia appena. Io prendo una milanese con purè. Inondiamo tutto con abbondante pinot grigio fresco lanciandosi in numerosi brindisi. All’inizio e a quel nostro incontro, alle giornate che finalmente ci aspettano, alla nostra… lei la definisce amicizia. Il suo sorriso e i suoi sottintesi garbati lasciano intendere che anche lei si aspetta molto da questa nostra brevissima vacanza. Si augura che sia la prima di altre numerose volte. Slaccia un altro bottone della camicetta. Il reggiseno lascia trasparire quanto promette. Bada poco agli altri avventori. E’ solo per me. Mi lascia pagare senza insistere più del dovuto. Va al bagno. Vado al bagno e l’aspetto in macchina.
Sale e torna a spostare il maledetto specchietto come se lei ormai potesse tutto. Si rifà il trucco con estrema attenzione mentre io l’aspetto. Pare non importargli nulla d’altro. Rimette approssimativamente lo specchietto al suo posto. Lo risposta leggermente per pulirlo passandoci sopra una salvietta umidificata e poi un fazzolettino. Si infila in bocca una gomma alla menta, le labbra sono rosse come ciliegie. Finisce di pulirmi la guancia dal suo rossetto dopo che ho rimesso in moto. Infastidito mi ritraggo e allontano la sua mano. Si sistema il reggiseno come fosse un ammonimento per me, ride e poi fa l’offesa, lei. Volta di scatto gli occhi dall’altra parte e si tira già la gonna. Mi dice verso il finestrino che avrebbe bisogno un attimo di qualcosa che non so e che è rimasta nella sua sacca, e che non sono stato gentile con lei.
Fermo ad una piazzola di sosta. Uso la collana che porta al collo mentre lei è ancora girata dall’altra parte a fare l’offesa e poi infilo il suo corpo nel portabagagli. Controllo quel corpo e quello che mi aveva promesso ma la lascio vestita. Non saprò mai. Il mio magnifico weekend è andato a puttane e non posso nemmeno tornarmene dritto a casa. Cosa potrei raccontare a Ramona di questo mio improvviso ritorno in anticipo. La stanza è fissata e lei non mi aspetta prima di lunedì sera.

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fulmineNemmeno un attimo di tregua. Ancora si alzavano i fumi da Sodoma che già scorrevano i fiumi d’inchiostro. Ancora si piangevano i morti, i lutti e le assenze, ma anche i silenzi, che già rinasceva l’amore. Di questa specie di amore racconta ora la Sacra Storia. E di figli. Di figli anche di altri padri e d’altre madri. Tanti che i nomi generano enorme confusione. Ma nemmeno quando si acqueta la guerra e il re dorme, nemmeno allora, si stende in cielo e sulla terra la tranquillità. Genesi 19. Parola di Dio.

Mettete a letto i bambini. Ancora una volta, in questa puntata della Sacra Storia, ci sono cose che non possono sentire. Parole troppo dure per le loro tenere orecchie. Uomini che non amano le donne. Donne che amano gli uomini. E anche di peggio. Pasifae… No! lei no. Quel ch’è troppo storpia. Ma è bene ricordarlo per quelli altri, che si facevano chiamare dei. La carne come baratto, come commercio e come inganno. Purtroppo non è stata sconfitta la corruzione. Sono stati storpiati, sgozzati, sterminati, massacrati, fatti a pezzi e poi bruciati, molti peccatori, ditelo a quei figli, ma di empi resta ancora affollato il mondo. Certo una promessa è una promessa. E quella di Dio è ancora più promessa, ma Lui non avrebbe voluto vedere. E vederlo con i propri occhi. Deglutì a fatica. Se il gioco vale la candela avrebbe avuto bisogno di un’immensa quantità di candele. Perché non poteva essere come Tiresia e doveva vedere? Trovò da solo, subito, la risposta: perché Lui era Dio; Diobono! Ma Lei, dov’era finita? Quando non l’aveva sotto gli occhi aveva di che preoccuparsi. Dio gli disse: “Hai visto alla fine cosa hai combinato”? E Dio gli disse: “C’era da aspettarselo”. E Dio gli disse: “Non ho scritto certo io il capitolo 19”. E Dio aggiunse: “Solo un mucchietto di cenere”. E Dio rispose: “Vuoi vedere che va a finire che è solo colpa mia”? E Dio ribatté: “E di chi vuoi che sia”? E Dio: “Sai come son fatti gli uomini. Non sono che uomini”. E infine Dio Concluse: “E quando c’entrano le donne”… Ma a Lui nessuno dava retta. In tutta quella confusione finì per dimenticarsi di preoccuparsi di Lei. Era anche stanco di morti. Benvenuti in paradiso.
Benvenuti nel regno di Dio. Lui diventava irascibile quando gli uomini non l’ascoltavano. Qualche volta anche quando non capivano, o facevano a non capire. Lui aveva detto che tutti gli uomini erano fratelli; non che tutti gli uomini erano sorelle. E poi da dove veniva tanto rancore, e tanti ardore? Avrebbe lavorato in silenzio per scoprire chi aveva dotato l’uomo della bestemmia. E della brama. E pesino dell’adulterio. E persino dell’incesto; ma non era certo che si potesse proprio definire in quel modo. Anche il vocabolario avrebbe dovuto essere rivisto. E in tutta quella confusione di tutti quei vizi. Persino del vino. Voleva rimettere ordine nelle cose. Gliel’avrebbe fatto vedere Lui a Lei che diceva che era un gran disordinato. E a tutti gli altri Io. Allora i fatti erano andati così: Lot e le figlie, quelle figlie rifiutate che non avevano mai conosciuto uomo, fuggiaschi da Sodoma e poi da Soar, si erano stabiliti in una grotta in montagna. Il posto era umido, non certo accogliente, e lui, il re, era preoccupato per la moglie; temeva di ritrovarsi con un pugno di sale. Non era certo il posto dove portare due ragazze ancora giovani e piene di vita; questo va pur detto. Intorno pareva non esserci anima viva e il silenzio regnava ininterrottamente dal mattino al mattino successivo; giorno dopo giorno. Notti comprese. Le donne si occupavano di tutto e dovevano occuparsi anche del vecchio padre. Lui aveva imparato a fare solo il re, niente che potesse tornare utile. Era come se non ci fosse un uomo in casa. Nemmeno per le piccole cose, anche quelle più stupide. Parola del Signore.
Ora, cosa sognasse il re non è dato saperlo poiché nemmeno Dio può interpretare i sogni notturni. Forse Lei. Quei sogni vanno dove vogliono. Sono proprio bizzarri. Terreno delle più sfrenate e incontrollabili fantasie. Ramingano come senza senno. Sognava la povera moglie, quel re? Magari quand’era ancora giovane, e desiderabile? Le mogli degli altri? Gli altri? Sogni persino più licenziosi? Non si sa. Si sa solo che: certo il re era più sveglio che fosse stato sveglio. Non riponeva mai lo scettro, così pieno di sé e della sua arroganza. Forse, ma forse, solo meno vigile. E certo è anche che quel re doveva possedere un sonno ben pesante. Tanto da non restargli nemmeno l’energia per preoccuparsi del suo governo. Ma il sonno cancella anche le preoccupazioni. Con le fatiche del giorno. Con le preoccupazioni per quella pace e quella desolazione. Anche i re la notte dormono, più o meno, come tutti i mortali. Riposano. Almeno loro hanno un attimo di pace. Ma la notte è… birichina. Bisognerebbe essere sulla terra tutti come quello che dormiva con un occhio solo. Eppure nemmeno quello era servito. Certo che anche le figlie sono pezzi di cuore. Ma quelle due figlie, anche se non sapevano ancora delle cose della vita, erano anche dei gran pezzi di… figliole. Avesse potuto parlare la sua brava e paziente, l’attonita sposa, ne avrebbe avuto un gran mucchio di cose da dire. Non avrebbe voluto sentirla quella donna che lui chiamava solo donna perché nessuno gli aveva dato un nome. Invece per fortuna se ne stava zitta. Parola del Signore.
Ma le due ragazze erano preoccupate per il suo futuro, e anche per il loro. Che se ne fa il mondo di un re senza sudditi? In verità parevano preoccuparsi parecchio anche del loro presente. E si preoccupavano solo loro. Che se ne fa una ragazza senza nessuno che le spieghi, che la faccia diventar donna? Fu così che la maggiore, la più intraprendente, e intraprendente lo era, anche parecchio, chiamò vicino a sé la sorella e le disse: «Nostro padre è vecchio e non c’è nessuno in questo territorio per unirsi a noi, come avviene dappertutto. Vieni, facciamo bere del vino a nostro padre e poi corichiamoci con lui, così daremo vita a una discendenza da nostro padre». Alla più piccola la cosa non sembrò subito troppo opportuna. Pensò al decoro ma anche si domandò, allo stesso tempo, come aveva fatto a non pensarci lei. Pensò a quel “corichiamoci” e non le sembrò una parola esatta, cioè le sembrò e non le sembrò. Pensò a quel “corichiamoci” che voleva dire senza dire; e a tutto il resto. Lei era una ragazza; a volte faticava a tenere a freno la fantasia. Pensò a quel “corichiamoci” e poi a perché non prima lei, che era anche la più giovane, e la più bella, e dopo sua sorella. E perché lei dopo. Ma alla fine si convinse, anche velocemente, e acconsentì. Lei era una ragazza ragionevole e aiutò la sorella nel suo disegno ed entrambe esagerarono con il vino, nel colmare il bicchiere del padre. Fecero ad emularsi. Anzi la piccola era sempre con la brocca in mano; generosamente. Perché quelle due figlie erano pezzi di cuore ma anche due grandi zoc… due figlie molto affettuose. Anche troppo affettuose. Parola del Signore.
Per tutta la cena Lei, la piccola, era stata paziente, anche perché la maggiore non aveva mai smesso di farle da sentinella. Nemmeno aveva potuto allungare una mano che l’altra l’aveva fulminata con uno sguardo. Era solo per controllare; per accertarsi. Pura curiosità. Mica glielo portava via, il suo momento di gloria. E per vedere l’effetto del vino sul povero padre. Ma quella notte lei non dormì per niente bene né tranquilla. Le orecchie tese. L’attesa che pareva non finire mai. E aveva la testa piena di domande che non sapeva se poteva formulare. Ed era sola in mezzo a tutta quella confusione. Perché quella notte non ci fu solo il solito silenzio. Ma il re continuò a dormire di un sonno profondo che pareva morto. Doveva essere, data l’età, anche un po’ sordo. Non si può negare che la più piccola fosse impaziente il giorno seguente, e lo trascorse piena di curiosità e di agitazione. Le ore sembravano non finire mai. Gli armenti da custodire le davano noia; tutti i suoi doveri. L’orto, se quello si poteva chiamare orto. Benedetta ragazza; era con la testa altrove. Finché finalmente giunse l’imbrunire e apparecchiò la tavola per la cena. In verità si mise davanti a quel dovere ben prima del solito. E finalmente la più grande le disse: «Ecco, ieri io mi sono coricata con nostro padre: facciamogli bere del vino anche questa notte e va’ tu a coricarti con lui; così daremo vita a una discendenza da nostro padre». Si domandò perché le dicesse quello che già sapeva. Avrebbe desiderato chiederle altri particolari. Non lo fece. Nella foga versò persino del vino fuori del calice del padre. L’altra la invitò a pazientare. Faceva presto lei a dire. Fortuna che Lot amava il vino ma non ne reggeva troppo l’effetto e dopo un po’, con uno sbadiglio, e un sospiro liberatorio di quella figlia, si alzò per andare a coricarsi; barcollante. Forse i re hanno un sonno diverso. Ancora una volta quel povero re non si accorse di nulla, né quando lei si infilò sotto le sue coperte, né quando abbandonò il talamo che già il sole cominciava a diradare le ombre della notte. Era stata una notte molto lunga e senza un attimo di silenzio, né di tregua. La piccola era sempre stata di indole ribelle e dispettosa. Parola del Signore.
Dio volse lo sguardo da un’altra parte e non volle sapere nulla di quella e delle notti successive e del consumo di vino. Fu Lei, curiosa, a tenerlo informato in seguito, anche se non nei minimi dettagli per non farlo inquietare. Ma Lui ebbe una riflessione degna di un Dio come Lui era: se quel sacrificio era costato a quelle pie donne tanta sofferenza e pena perché allora lo avevano portato tanto a lungo, e perché quelle loro grida che parevano più di giubilo e di gradimento. Non ci si raccapezzava; parola di Dio. Non ci si raccapezzava mai con le donne. A volte ha un prezzo immane la Gloria del Signore. Così presto fu evidente lo stato delle due figlie e il padre restò senza fiato. Fu da quella notte, o quelle notti, che la maggiore partorì Moab e la minore un figlio che volle chiamare Figlio del mio popolo. Già da allora ci si ingegnava ad inventarsi i nomi più bislacchi. Magari senza riflettere sulle conseguenze. Lui non ebbe nemmeno il tempo di lusingarsi. E qualcuno fu subito pronto a chiamare quella donna Moglie del popolo. Quella grotta ne vide di cose che cento occhi non potrebbero vedere e mille bocche non potrebbero raccontare. Il silenzio non fu più lo stesso e presto il bosco pullulò di vita. Dal figlio della più grande ne discesero i moabiti, da quello della più piccola gli Ammoniti. Mica si possono tramandare queste cose ai bambini; agli innocenti. Parola del Signore.
Pare ci fosse anche qualche bastardo, ma quello non generò nessun popolo e fu guardato con diffidenza e sgarbo. L’autore sostiene che qualcuno si sia lasciato andare anche a qualche libertà poetica. Il fatto è che allo sgomento di Dio si univa lo sgomento degli uomini, non è facile guardare con ironia cose tanto ignobili da sembrare un non-senso. Da essere da loro stesse scherno. Da parere sarcasmo. Lo scontro “filosofico” tra i tolleranti, cioè Lei, e i moralisti, cioè Lui, e Lui, e Lui, e tutti i Lui, divenne aspro. Non se ne veniva a capo. Lui La pregò di ritirarsi nelle sue stanze, ma Lei non aveva stanze. Né aveva la bontà dell’obbedienza. Non era grano facile da macinare. S’accorse solo allora: quella che indossava più che una tunica si poteva definire al massimo una maglietta. La copriva e non La copriva niente. Non è che quella Donna avesse inventato i costumi? E anche la costumanza? Caldo faceva caldo. Lei si allontanò con un’alzata di spalle. Lui la guardò attentamente allontanarsi. Gli parve di sentire un “Babbei!” ma non ne ebbe mai la certezza. Santa Pazienza.

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Resistenze7 ottobre 2014. Sciamano per la città. Chiassosi. Se ne vengono qui. Senza che nessuno li chiami. Senza essere invitati. Senza chiedere permesso. A mandrie. Invadono le calli. Bivaccano. Rumorosi. La chiamano Festa dei Popoli Padani. Si prendono in prestito la piazza. Bagnano la laguna. E pisciano sui muri, lasciandosi dietro i cartocci e le lattine della loro immondizia. Che cazzo è? Alzo le spalle. Fingo di non sentirli. Di non vederli. Sono un tipo tollerante. Certo, mi girano. Me ne sto lì tranquillo, a parlare con Kaunadodo. Davanti al mio portone. Come se li aspettassi.
Lo chiamo Dodo per semplicità. Parla già un discreto italiano. E’ arrivato che era ancora bambino. Ha studiato in Italia. E’ in attesa di trovare un lavoro. Intanto mi aiuta nella mia edicola. E’ comodo e sa parlare un po’ di tutto. Poi qualche barbaro sbaglia strada. Sono un paio, forse cinque. Entrano nella mia corte. Li guardo e torno a ignorarli. E torno a parlare con il mio amico. Dov’eravamo rimasti? Alla festa dei popoli. Quella del prossimo anno. E’ una corte privata. Mi guardano e paiono non vedermi. Fanno per andarsene, poi tornano indietro come folgorati. Come davanti al miracolo. Sono proprio maleducati e parlano tra loro: “L’è un negher”.
Li conto, sono proprio cinque. Potrebbero essere anche il doppio, poco conta. Per me hanno anche già un bel po’ di birra dentro. Noi veneziani siamo così, ospitali. Anche se preferiamo il vino. E quello rosso. E le barche ai trattori. Ma ognuno ha i suoi gusti. E se non ci pestano i calli noi viviamo e lasciamo vivere. In fondo questa è una città giusta per i filosofi. E per la pace. Chiedo loro cercando forzatamente d’esser gentile: “Scusami, con la G o senza”?
Dodo mi guarda e ride. L’anno scorso le abbiamo prese quando siamo andati alla manifestazione. Forse sono già passati due anni. I pula sanno fare sempre solo quello: usare i manganelli. Volevamo solo dire che non ci piacciono. In realtà se le son prese i compagni di Reggio Emilie. E il solito consigliere di Rifondazione. Ci avevano presi per idioti? Non c’è altro passaggio per una manifestazione. A Venezia. Ma c’era Maroni a Roma. E qui subito a leccarglielo. Il questore. Ma non è poi successo molto. Però ce l’ho ancora nello stomaco. E questi non vogliono sentir ragione. Ogni anno qui, sulle palle. Quello che sembra il capo branco cerca di biascicare qualcosa in un italiano approssimativo mostrando di non aver capito: “Cos’è”?
Allora gli chiedo, cominciando a perdere la calma; non per il mio amico ma proprio per me che non amo essere interrotto, né ho simpatia dei cafoni e dell’ignoranza: “Sei solo un porco razzista”?
Quello, il rozzo mungivacche, diventa un paio di dita più alto e riempie il petto della sua camicia verde, per farsi coraggio e trovare la sua crassa ignoranza; si asciuga la fronte col fazzoletto e stringe i pugni in modo battagliero: “Ripetilo, se hai coraggio”.
Non è che manchi di coraggio. Non che ce ne voglia. E non mi piace, come detto, contraddire un ospite. Siamo fatti così. Non penso a sua madre. Non trattengo quel po’ di fastidio. Non simulo la mia ironia. Alla fin fine ho portato pazienza abbastanza. E non son stato io a cercare loro. Accetto di farmi trascinare dalla sua volgarità. Semplicemente lo accontento e confermo: “Sei solo uno stronzo razzista”.
Lui, lo zotico, si fa avanti. Schiuma. Gli altri gli sono subito vicini. Mi spunta spontaneo un sorriso. Si apre il mio portone. Dall’androne escono i miei amici. Il settimo si mette in mezzo da dove quei gentiluomini sono venuti. Nella calletta che è l’unica via d’accesso ma anche per uscire. I miei amici sono tutti di colore. Tutti amici di Dodo. Sì! Dodo, come quello strano vecchio uccello dal becco enorme. Loro non hanno becco ma qualcuno digrigna i denti. Così tanto per fare. E qualcuno ha una forcola in mano. Quella che in italiano chiamano al maschile scalmo. Erano appoggiate al muro. Vicino alla porta d’acqua. Poi mi devo ricordare di fargliele pulire. E di rimetterle a posto. Speriamo non me le rompano.
Quelli con quel dialetto strano paiono restare interdetti. Inebetiti. Come fosse una sorta di agguato. In verità li aspettavamo. Ci speravamo. Ma la disputa non è affar mio. Mica sono di colore. Cioè io sono cittadino del mondo. Mica guardo quanto uno è abbronzato. O chi e come prega. Nemmeno uno dei miei amici si può definire piccolo. Stanno stretti nelle magliette. E hanno voglia di divertirsi. Incrocio le braccia, soddisfatto. Mi rivolgo a lui che si sente capo, al momento un po’ meno, e passo alle presentazioni: “Loro sono gli amici dell’Heliópolis. Ma come vedi non sono ispanici. Conosci il centro sociale, vero? Poco fuori Venezia. Dalle tue parti. Loro mica vengono a romperti le palle a casa tua. Cosa ti sembra dell’idea: ci pensano loro; vi fanno neri i neri”.

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Chi ha troppa fretta. Chi è figlio di un’epoca che corre. Dove va, mica si sa? Chi ha lasciato sull’attaccapanni la pazienza. Per tutti questi è altri… allora, andate subito alla fine. Io resto qua. Io che posseggo tutto il tempo. Che non ho altri appuntamenti. Che di lavoro faccio il fare niente. Io. Non fosse per Lei sarei rimasto a riminarlo in testa. O ancora lì a sognare. Ma la sua è una provocazione, e io alle provocazioni non so resistere. Le amo e ne vengo ricambiato. Come una bella donna. Come la mia donna. Lei sempre al mio fianco. Ma cosa ci è successo dentro? Tra i tanti; come sopravvissuti. Sopravvissuti spaventati guerrieri. Reduci da Piazza Grande. Noi, colpevoli solo di essere contemporanei a quella storia. A quelle storie. Di averla vissuta, patita, pagata; o solo di esserne stati sfiorati. Contaminati. Di non esserci spostati. A ritrovarci lì, ma anche no, in un posto mai visto prima: Monterotondo. Provincia ai confini di tutto. E di un passato ormai remoto. Quarant’anni dopo. E quarant’anni sono una vita intera. Non siamo più gli stessi. Siamo rimasti uguali.
Tutto è come un concerto. Il palco le luci, l’attesa. Il bisbiglio della gente. I primi Flash. Il pubblico ancora distratto. Siamo in tanti. Siamo da soli. Inizia un giovane amico. Le prime note e si fa silenzio. Musica buona. Piena di rabbia e di amore. Ci sa fare; anzi ci sanno fare. Si sta bene. Si sta bene e si aspetta. La verità è che lo aspettiamo, Godot. Ancora. Mai come oggi. Molto più di allora. E queste canzoni di rabbia e di anarchia sono le nostre; e non sono le nostre. Il tempo è una macchina che non entra mai in riserva. Che non si ferma a rifare il pieno. Che macina chilometri e ti macina l’anima. Ma quel viaggio in fondo l’abbiamo fatto sempre da soli. E noi che non ci abbiamo mai veramente creduto. Creduto che una poesia potesse cambiare il mondo. O forse sì? Noi che balbettiamo sillabe cancellate. Noi che nei versi mettevamo il cuore: «Oh Baudelaire, vecchio pazzo ubriacone. Quale dei tuoi vermi, mi ha sbranato il cuore?» Noi. Noi che per un attimo ci siamo sentiti tutti poeti. E l’attimo dopo li abbiamo maledetti. Ci siamo dannati. Come facciamo a dire quello che è stato? E come facciamo a raccontare ciò che non è stato? Frenate la vostra giovane curiosità: cuccioli dell’oggi. Figli di una madre mai ingravidata. Frenate la domanda incauta. Non abbiamo risposte. Abbiamo solo occhi. La voglia di scordare. La condanna a ricordare. Il desiderio di tornare ragazzi. Di riprovarci ancora. E il deserto di Piazza Grande.
Il sax si scalda la gola. In un angolo. Ma quando sale sul palco, a fatica, già il suo silenzio è magia. Prima ancora della prima parola. Della prima nota. Lui si appoggia ad un amplificatore. Tutto pare costargli fatica. E prende il libro per trovare le parole. Quelle per noi. Quelle da scegliere. Quelle per il viaggio. Ed è un uomo vecchio, Claudio. Siamo uomini vecchi. O vecchi uomini? Magari non invecchiati allo stesso modo. Non nello stesso tempo. Non davanti allo stesso specchio. Sicuramente per le stesse canzoni. E Lui parla più che cantare. Canta per non morire. La stessa rabbia; sembra mescolarsi alla rassegnazione. Siamo quegli “Zombie di tutto il mondo uniti”. Ancora portatori di un sogno. Un vecchio sogno in disuso. Siamo nel grido e nella rabbia. Siamo in una pagina di diario. E Lui ci attraversa dolorosamente il cuore. Parlando di sé; e parlando di noi. Ma chi sono quei noi? Nell’afa di un agosto che è rimasto ogni agosto. Attraversati da quel sordo boato. Mentre cadiamo da quel quarto piano. Esistiamo ancora? O respiriamo solo in quei ricordi? Di quel vino? Di quelle notti? Di quelle botti? Di sogni agitati? Di ansie? In un Italia che non c’è. In un’Italia che non è diventata.
Io, vecchio sessantottino. Quarant’anni son troppi. Vorrei non ricordare. E allora perché quei nuovi “Perché”? Ho due anni di più E persino quei due anni sono troppi. Sono un’eternità. Claudio, potrei farti da padre. Strana e crudele è la vita. E noi credevamo. Il sogno era là. La città degli uomini. Il mondo degli uomini. Ma il nemico non è mai un vecchio cretino. Non si ubriaca inneggiando alla luna. E lo stato ha messo in campo il suo apparato militare. Bombe e tritolo. La grande inquisizione. La menzogna contro l’illusione. Bombe e tritolo e noi eravamo solo zingari e felici. Tutti uguali e tutti diversi. La grande illusione. Il mondo là. Quel mondo da divenire. In divenire. A portata di mano. Bastava allungarla, quella mano. Quale illusione. E allora abbiamo gridato, come il cucciolo bastardo lasciato alla porta. Quanto abbiamo gridato. Noi, cavalieri senza armatura. Noi cadaveri in decomposizione. Noi assassinati dalla nostra stessa follia. Noi alle porte dell’illusione. Lì a bussare. A bussare ancora; sempre più forte. Eppure ancora si muore di bombe, si muore di stragi; più o meno di stato. E allora. E allora i bulloni a Lama. E quell’immensa delusione. Per un’altra storia. Dopo quella storia. Per un’altra storia che sarebbe morta nel baule di una macchina. Dopo tanto, troppo; perché? E tu, Claudio, a ricordarmi tutto. A farlo rivivere. A ridarmi quel grido che debbo soffocare. A riempirmi di lacrime gli occhi e il cuore. No! non ho nessuna risposta. Nemmeno per Lei. Oppure ho troppe risposte perché almeno una sia quella giusta. Quella vera. Perché non siano solo confusione.
Io che amo. Io che lotto; ancora. Io che sogno, e lo faccio con sempre più fatica. Io che cammino il mondo, col fiato corto. E dolori alle ginocchia. Io che mi riempio troppo di io per essere ancora noi. E questo nuovo noi. Frutto di una vecchia storia d’amore. Che sembrava persa. Una fragile storia d’amore. Una grande storia d’amore durata una sola breve stagione. E poi ancora Noi. Noi che frughiamo tra la spazzatura del passato. E che ci lasciamo da quel passato ferire. Noi che non vogliamo ancora morire. Noi e i nostri sogni. Noi e le nostre rabbie. Noi, anacronistici testimoni, a cui la memoria fa strani scherzi. Noi lì. Lì nel cortile di un palazzo. Nel cortile di palazzo Orsini. A Monterotondo (Rm). Non in piazza Maggiore. Ma a Monterotondo. Lontani mille chilometri e quarant’anni da Piazza Maggiore. Così, per chi c’era e chi non c’era. Per tutti e per nessuno. E quest’estate non chi incontreremo a Rimini. O perché no? Una pazza idea la portavo in tasca, da tempo. E io a chiedermi come finirà il concerto. Con un brano di rabbia: Piazza, bella piazza. O con un pezzo di speranza: Albana per Togliatti. Ma i poeti seguono solo l’ordine dei loro pensieri, non me ne voglia Claudio. Non me ne voglia Claudio per quel poeta. Niente di tutto questo. Anzi le aspetto e loro si fanno ancora aspettare. Né rabbia né speranza. Nemmeno amore. Finisce tutto davanti a un buon piatto e a un bicchiere di vino. Lui, il cantastorie, il colpevole, l’assassino, sbocconcella il niente. Ma ancora si sente quell’odore di brace. Scrivimi Claudio la storia di oggi e di domani. Di quella, di quella di quegli anni, dei nostri vent’anni o poco più, abbiamo versato tutte le lacrime che avevamo. Sì! forse a vent’anni si è stupidi davvero. Eppure lo gridiamo ancora, anche se con voce sempre più roca, ma ancora più forte: che un mondo, quel mondo, un altro mondo è ancora possibile. Anche dopo Genova. Eccola l’unica risposta: abbiate pazienza e ascoltate. E lasciatevi andare a sognare. Anche se ora pare un incubo.

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A destra di questo blog sventola la bandiera palestinese. Per me è il simbolo della lotta di quel popolo. Per me è il simbolo della lotta di tutti i popoli. Dell’aspirazione alla libertà. Della richiesta dei diritti umani. Un grido per la Pace. Un giorno quella bandiera ha smesso di sventolare. Misteri informatici. All’indirizzo c’era solo un messaggio d’errore. Spostata? Cancellata? Dispettosa? Nessun reindirizzamento. Nessuno lo sa. E’ così la rete. Ora è tornata a sventolare; orgogliosa. Così come ho ripristinato il link al boicottaggio (altro mistero). Anche se questo è un blog prevalentemente di scrittura. Che può sembrare poco impegnato. L’impegno naviga in altri pagine. Chi si raccontano quasi esclusivamente piccole e minime storie. Passioni. Avventure. Vizi e virtù. Amenità. Per l’impegno si può cercare qui o in tanti altri posti. Ma…
Non era bello vedere la scritta “Free Palestine” è sotto l’allarmante e triste crocetta. L’avviso: “qui non si naviga”. ERRORE. Questo è un errore. ERRORE. Meglio: Orrore. No! ora sventola nuovamente. E’ tornata a gridare. Ancora. PALESTINA. Il responsabile del blog, io, anela alla Pace. Ogni altra considerazione è pretestuosa. Certo: un mondo senza frontiere, il mondo degli uomini, non avrebbe bisogno di bandiere; ma quel mondo è ancora al di là da venire. E quella bandiera diventa un simbolo. Così come una bandiera rossa, un semplice drappo, quando quel rosso chiede le stesse cose. Chiede un mondo migliore. Lo chiede anche diverso. Chiede le stesse cose: Pace, Giustizia, libertà, Diritti umani… Insomma chiede per l’essere umano un futuro. O una bandiera con i colori dell’arcobaleno. Perché fa tanta paura la parola PACE? Così come la parola: AMORE? Nelle strade di questo mondo siamo tutti fratelli. Figli, per chi crede, di uno stesso dio. E per rafforzare queste idee è stata aggiunta sotto la Bandiera della pace con il collegamento diretto ad Assopace Palestina Italia. Astenersi da odio, rancore, rabbia. Qui sono estranei. Grazie naviganti.
Perché…

UN ALTRO MONDO E’ POSSIBILE.

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