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Posts Tagged ‘amicizia’

Couple at romantic dinner in restaurantNon è infrequente imbattersi nell’uomo sbagliato. E un poco innamorarsene, o provare per lui rapidamente della simpatia. Così è successo con Alberto. Devo essere un ottima allieva in questo. Non è stata la prima volta e temo non sarà l’ultima. Capitano tutti a me. Eppure non sono certo una a cui dovrebbero mancare le occasioni. Ma questa non l’ho mai raccontata a nessuno.
Ci eravamo incontrati un paio di volte al supermercato sotto casa. Solo dopo ho saputo che lui ci andava solo perché era più grande e più fornito, anche se gli stava fuori mano. Avevo pensato: Peccato. Poi un pomeriggio, stavo prendendo due etti di prosciutto crudo al banco, ha trovato il coraggio. Ha aspettato poco distante che la banconiera finisse di servirmi e poi mi ha spiegato che anche a lui piaceva il crudo. Mi ha fatto i complimenti per il vestire. E per il taglio di capelli. Ci ha pensato un po’’, imbarazzato. Poi finalmente ha avuto l’ardire di invitarmi a cena. Io sulle prima ho cercato di mostrarmi sostenuta, ma poi, davanti alla sua galanteria, sono crollata, mi sono arresa e ho accettato per la sera stessa. Avevo già controllato che non portava la fede. Gli ho mostrato il portone e indicato qual era il campanello. Gli ho spiegato di suonare Sonia Bellavia e che sono io Sonia; che sarei scesa subito.
Gli avevo detto alle sette e si è presentato puntuale, anzi con cinque minuti in anticipo. Diversamente mi avrebbe trovata già giù ad aspettarlo. Ed è corso ad aprirmi la portiera. Gran bella macchina la sua. Grande e comoda. Blue elettrico. Non ne avevo mai provate di quel modello. Dopo avermi chiesto il permesso ha acceso l’autoradio. E mi ha portata in un locale veramente elegante, con le tovaglie candide e piene di posate. Grande. Un cameriere per il vino e uno per l’acqua. Io l’ho presa gassata e lui frizzante; l’acqua. E lui ha nascosto un sorriso compito dietro la mano. Prima che mi sedessi ha fatto una cosa veramente insolita: ha fatto il giro del tavolo per accostarmi la sedia. Avrei fatto anche da sola, ma quel gesto mi era sembrato veramente una cosa galante. Mentre aspettavamo mi ha detto di chiamarsi Vittorio Ernesto Gianmaria, ma che potevo chiamarlo Alberto. Poi ha assaggiato il vino.
Non abbiamo dovuto aspettare molto. Sembrava che lo conoscessero. Ho ordinato quello che ordinava lui, per non sbagliare. Tutto veramente squisito anche se le porzioni non si potevano certo definire abbondanti. Prima del dessert è passato un cingalese dell’India con le rose e lui me ne ha regalata una. Poi l’ha richiamato e me le ha prese tutte quelle che il piccolo uomo aveva. Tutte rosse, naturalmente. L’ho ringraziato lanciandogli un piccolo bacio a labbra socchiuse. Lui mi ha preso la mano spiegandomi che era una gioia. Alla fine ha fatto un cenno al cameriere, gli ha bisbigliato quasi all’orecchio e ha pagato tutto lui porgendogli la carta di credito.
Ero senza fiato. Non potevo credere che stesse succedendo proprio tutto a me. Mi ha accompagnato fino alla porta e sulla porta ha spettato per salutarmi e vedermi rincasare. C’è stato un attimo di silenzio che abbiamo consumato guardandoci negli occhi. Come se aspettassimo entrambi qualcosa. Gli ho chiesto cortesemente se voleva salire. Mi ha detto che non voleva rovinare tutto e mi ha salutato con un timido e rapido bacetto sulla guancia. Per tutte le scale mi veniva da cantare. E da ridere. E da piangere. E da imprecare. E ancora da cantare. Ho messo le rose in un vaso con l’acqua e stanca sono corsa a letto. La notte ho faticato a prendere sonno. Un po’ pensando a lui. Un po’ per l’emozione e per tutto. Un po’ per il vino. Un po’ perché mi sentivo immensamente sola in quel maledetto enorme letto.
Il mattino seguente si è fatto vivo subito, anche troppo presto. Nel primo messaggino mi chiedeva se avevo dormito bene. Nel secondo come stavo. Nel terzo si scusava se poteva aver mancato in qualcosa e se mi era piaciuta la serata. Naturalmente il quarto l’aveva scritto per chiedermi se potevamo rivederci. A questo ho risposto subito, senza farlo aspettare, per dirgli di sì. Certo! Che potevamo rivederci sicuramente. Quando voleva. Allora mi ha chiesto quando lasciandomi sorpresa. Non ho scritto “Anche subito, immediatamente”. Ci ho pensato e poi ho deciso per dirgli: anche stasera. Ci sono rimasta un po’ delusa e stupita quando mi ha messaggiato che proprio quella sera non poteva per un impegno. Se mi andava bene per l’indomani. Certo che mi andava bene. Per di più era di sabato. Avevo tutto il fine settimana davanti. Al mio “Certamente!” ha replicato invitandomi a teatro. Rimasi un po’ delusa. Avrei voluto rispondergli: Meglio da me.
Ero impaziente. A pensarci non avrei avuto niente di adatto da mettermi. Ho preso un vestito rosso Valentino che m’è costato una cifra. E due scarpe con i tacchi che mi facevano le vertigini solo a guardarli. La borsa me l’ha prestata Ornella. Ho messo gli orecchini d’oro, quelli fatti come delle lanterne, che sono sempre belli. Ho cercato di pensare proprio a tutto sperando di non farmi confusione. Persino alle mutandine che ho immerse in un bagno di gelsomini. Per il trucco mi son fatta aiutare dalla stessa Ornella. Volevo essere perfetta. Lei, Ornella, mi ha detto che ero magnifica. Mi sono ammirata allo specchio e non ho potuto che darle ragione. Ho trovato sicurezza di me. Fiducia. Le ore dopo sono state una lunga infinita attesa.
Ero alta come lui o quasi. Non vedevo l’ora di sedermi e di sfilarmi, nel buio, quelle scarpe. Facevano una cosa sulla vita e la morte di un certo Caravaggio. Più sulla morte che sulla vita. Una cosa di una noia mortale, ma ogni volta che lui rivolgeva la sua attenzione verso di me cercavo di ricambiarlo con un sorriso. Non ci ho capito molto. Forse mi lasciavo distrarre dalle persone tra il pubblico. Forse pensavo a come sarebbe finita la serata. Fantasticavo. L’attore principale interpretava il protagonista e anche un altro personaggio, un certo Michelangelo Merisi. Non capivo quando era l’uno e quando era l’altro. Non cambiava nemmeno faccia. Avrei potuto chiedere ad Alberto, ma non volevo farmi vedere come fossi la sprovveduta che non sono.
Mentre tornavamo a casa mi accorsi che non mi erano state nemmeno chiare le vere ragioni della sua morte. Non che mi interessasse così tanto. Forse mi ero anche un po’ assopita. Prima di scendere mi ha spiegato che secondo lui due persone non dovrebbero mai lasciarsi prendere troppo dalla fretta. Non è una buona consigliera, mi ha detto. Non era una questione di fretta, ma eravamo già al secondo appuntamento. Fosse stato solo per me sarei stata felice di farlo felice anche lì in macchina. I sedili erano reclinabili, e comunque era molto comoda. Mi sono trattenuta. Certamente Ornella mi avrebbe rimproverato con un divertito: Bella stupida. Gli ho chiesto se era proprio sicuro di non voler salire. Ha declinato l’invito ancora e con grande amabilità ringraziandomi. Davanti al portone mi ha abbracciata e mi ha lasciata con un bacio sulla guancia, stavolta meno rapido, meno fuggevole.
In seguito non si era fatto sentire per tre giorni. Tre lunghi giorni di silenzio. Avrei voluto chiamarlo, ma non mi aveva dato il suo numero di cellulare. Avrei potuto contattarlo attraverso quegli stupidi messaggini, ma non volevo apparirgli invadente. E poi per sms non so mai bene cosa dire senza poter essere fraintesa. Per dirla tutta mi sono sembrati tre giorni d’infermo. Andavo su e giù senza trovare pace. Riempendomi la testa di domande alle quali non riuscivo né potevo trovare risposte. Era un silenzio ingombrante. Assordante. Un silenzio materiale che mi seguiva in qualunque stanza andassi, cercassi di nascondermi. Anche la televisione mi mostrava cose che non sentivo, che non capivo. E quando sono in ansia mi si crea aria nella trippa.
Alla fine si era rifatto vivo. Solo uno di quei maledetti messaggini, laconico. Mi chiedeva se mi andava bene per una cena per quella stessa sera. Ormai era pomeriggio. Ero nei guai. Non potevo certo mettere lo stesso vestito del primo appuntamento. Tanto meno quello del secondo. Troppo elegante. Non mi piace fare le cose di fretta. E non mi piaceva niente di quello che avevo nell’armadio. Per un verso o per l’altro niente andava bene. Decisamente inadatto. Troppo da pomeriggio. Troppo da signora. Troppo troppo. Ho comunque confermato per quella sera. E ancora una volta mi ha salvato Ornella. Lei ha tutto di tutto e qualcosa per ogni occasione. Mi ha salvato e, vedendomi, mi ha fatto gli auguri: Non farti fregare. Ma mi ero sbrigata tutto all’ultimo momento.
Lui mi aspettava davanti alla porta. Mi ha portata allo stesso ristorante. Sembrava un déjà vu, insomma una cosa già vista. Alla seconda visita però mi sembrava che il locale avesse perso un poco del suo fascino. Anche il cameriere per le ordinazioni era lo stesso. Anche il vino che ha ordinato. Persino le coppie agli altri tavoli sembravano le stesse. Però stavolta sapevo che le forchettine più piccole erano per il dolce. Appena seduti o poco dopo gli ho chiesto cosa avesse da dirmi. Si è scusato molto, tenendomi la mano, e mi ha raccontato che era dovuto andare in un posto vicino a Norcia. Per lavoro, mi aveva detto. Un posticino veramente incantevole, a sentire lui. Affogato nel verde. Poi è stato carino. Mi ha confidato che avrebbe voluto che ci fossi anch’io. Che avrebbe desiderato farmelo vedere. Che potevamo tornarci assieme.
Il vestito a fiori di Ornella era un po’ scollato. Forse più che abbastanza. Me lo sono chiesta: esagerato? Lui sembrava distratto. Sembrava distrarsi a guardarmi nella scollatura. Ma non troppo. Non come mi sarei aspettata. In fondo che c’è di male? E poi… non che si vedesse proprio tutto. Avrei voluto chiedergli qual era il suo lavoro, ma non lo feci. Per la mia solita insopportabile riservatezza. Lasciai parlare quasi solo lui, mi piaceva starlo ad ascoltare. Anche solo sentire. Aveva un tono melodioso. Persino quando ha ordinato il filetto di cernia. Io ho alzato solo le dita nel segno di vittoria come dire: per due. Lui ha controllato l’ora tre volte, sono stata attenta, sempre scusandosi, come se dovesse dopo andare in qualche altro posto.
A volte vengono proprio delle idee bizzarre. Avevo sperato che mi avrebbe portata in un posto nuovo. Un poco delusa ci era rimasta. Per fortuna non mi aveva invitato al cinese. Io con le bacchette non so nemmeno come cominciare e come finire. Non riesco ad afferrare le cose, tantomeno portarmele alla bocca. Sì! proprio una fortuna. Certo il locale era bello, ma troppo grande. Troppo illuminato. Con tutti quei lampadari la candela perde ogni effetto e significato. Troppo chic. Era troppo… troppo… troppo poco intimo. E il cameriere era sempre tra i piedi. Non potevo finire una frase. Non potevo finire di bere che già mi aveva riempito il bicchiere. Speravo in un posto magari meno distinto, ma più romantico.
Non potevo dire che era bello, non proprio. Però era intelligente, pulito, elegante, educato, raffinato, delicato, galante e tante altre cose. E sempre rasato in modo perfetto. Forse anche bello. E poi… quando c’è del sentimento cosa importa? E le scarpe mi facevano un male d’inferno. Erano di un numero più piccolo del mio e mi soffocavano i piedi. Anche il vestito era una taglia in meno, ma non potevo rimproverare niente a Ornella. Decisi di rinunciare al dolce per non compromettere la tenuta della cerniera. Sarebbero stati guai seri. Sono pudica il giusto, non avrei mai voluto ritrovarmi spogliata davanti a lui in mezzo a tutta quella gente. Mentre mi dicevo tutte queste cose cercavo di non negargli l’attenzione e di ascoltare le sue parole. Un gioco complicato di equilibri in cui non sono proprio una maestra.
Insomma quell’interminabile cena era finita con lui che mangiava una fetta di Saint-Honoré e io che aspettavo paziente. Paziente ma non troppo. Era il terzo appuntamento e sapevo appena il suo nome, anzi facevo fatica anche a ricordarli tutti quei nomi. Era pieno di attenzioni eppure mi sentivo invisibile. Mi guardava di più il tipo due tavoli distanti. Per quanto mi chinassi sembrava non ci fosse niente da fare. Ancora una volta pagò tutto lui, per due. Poi facemmo in macchina il percorso in un silenzio imbarazzante. Parcheggiò sotto casa mia, ma non fece cenno a scendere per aprirmi la portiera. Aspettai anch’io. Aspettammo in un attesa infinita. Infine si fece forza e, senza guardarmi negl’occhi, mi chiese se poteva confidarmi una cosa. Un segreto. Certo! –gli dissi. Cercai di spiegargli che poteva chiedermi tutto quello che voleva. Che ero pronta a tutto. Forse mi stavo veramente innamorando. Forse ero solo felice.
Mi pregò di starlo a sentire senza interromperlo. Mi pregò di non dire a nessuno quello che stava per dire solo a me. Che era un segreto. Mi sentii emozionata. Privilegiata. Perché no? Intanto io avevo il tempo di immaginarmi chissà quali cose. Persino le più strampalate. Invece mi confessò che in verità lui si chiamava Vittoria Ernestina Giannamaria, cioè lei si chiamava così, o si era chiamata. Che da bambina tutti la conoscevano come Giannina o Tina, ed era una vera discola. Poi era cresciuta fino a diventare Alberto. Ma… che… insomma… non era Alberto del tutto, un poco era ancora Giannina. Mi ci volle qualche minuto per pensare e per capire. Per realizzare cosa mi stava raccontando. Credo sia umano. Vorrei vedere un’altra in una situazione simile. Non gli risposi subito. Poi mi dissi: Che sarà Mai? Un nome è solo un nome. Il modo in cui ti chiamano gli altri. Ma nemmeno nella voce ero convinta.
Era assolutamente addolorato. Sconfortato. Con molta tenerezza gli passai una mano sulla guancia assolutamente liscia. Forse era troppo tardi per tornare indietro. Gli spiegai che… io… insomma… potevo amarlo anche come donna. Non ne ero certa. Non avrei saputo come fare. Ero anche disposta a provarci. Mi rispose sconsolato che lui però non poteva amarmi come un vero uomo. Mi ricoprì di scuse. E non volle salire. A casa ero furiosa. Ero delusa. Ero… fuori di me. Dovetti sorbirmi una tisana, dopo essermi tolta quel maledetto abito e sfilate le scarpe. In seguito a quella sera a volte ci troviamo dalla parrucchiera, a volte dall’estetista. Come due buone amiche. O due buoni amici. O entrambe le cose. Nessuno dei due ha trovato il coraggio per fare quell’ultimo passo.
Come ho detto fin dall’inizio: questa è una cosa che non ho mai raccontato a nessuno. Per pudore? Per vergogna? Perché non saprei da dove cominciare? Perché non saprei come farmi capire? Perché confonde pure me? Non lo so. E anche ora che la racconto ho ritenuto opportuno usare nomi di fantasia. Nella realtà non c’è nessun Alberto. E io non sono io. Mi sono inventata questo nome per rispetto nei suoi confronti. Per non compromettere la sua carriera. Per evitare i pettegolezzi. Perché lui è l’uomo sbagliato, ma una splendida e meravigliosa amica.

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Loredana pensò che non si può essere ancora così stupide alla sua età. Per capire tutto quello che era successo doveva tornare indietro in quelle ultime ore. Faticosamente ricordare. Aveva dormito male. Non era tornato e nel letto lui non c’era. Avevano litigato, con Giordano, cose da nulla, che succedono tra marito e moglie. Le voci si erano fatte eccitate e le parole grosse. Aveva sbagliato a rimproverargli perché non era come Carlo. Lui non era Carlo che inseguiva i propri sogni; lui si accontentava di alzarsi ogni mattina per andare a rifugiarsi dietro una scrivania. Era stata proprio una stronza. Solo che sono cose che si dicono e sfuggono da sole da una bocca in preda all’ira. Forse le era scappato anche qualcosa di più.
Non era la prima volta ma stavolta lui era uscito sbattendo la porta. Si era diretto risoluto da Carlo, e lo aveva violentemente colpito, con un pugno. Lei non ne sapeva niente né immaginava, e non lo aveva più visto tornare. Carlo Di Francesco suonava la tromba in un complesso jazz. Erano ormai relativamente conosciuti nel giro. Si faceva chiamare Charlie Fanciscotown. Lei preoccupata aveva controllato l’ora. Poi ignorando quanto era successo aveva chiamato proprio lui; trovandolo ancora immerso nel sonno. Carlo, farfugliando, le aveva raccontato dell’episodio completamente sbigottito e aveva cercato di tranquillizzarla. Era certo che sarebbe tornato. Loredana aveva cercato di scusarsi anche per il marito. No! lui non immaginava dove fosse andato.
Anche lei non voleva credere e non riusciva a capire. Non sapeva come giustificarsi. Non era mai stato geloso. Non era nemmeno certa che quella fosse gelosia. Era solo uno scatto d’ira. Era solo perché si rammentava di quelle ultime frasi. Loredana si sentiva in colpa e voleva farsi perdonare. Probabilmente così aveva commesso l’ennesima stupidaggine: gli aveva chiesto di vedersi. Solo perché si era trovata in bocca quelle parole. E mentre andava aveva cercato di darsi una ragione, non capiva perché il marito si era comportato così. Ancora non aveva dato peso a quanto era successo. Erano cose tra loro. Poi aveva cercato di convincersi senza riuscirci. La verità ara davanti ai suoi occhi. Aveva bisogno di evadere. Aveva piacere di rivedere Carlo.
Amava il suono della sua tromba. Era affascinata da quell’uomo, per sempre ragazzo, a cui tutte ronzavano intorno. Lui era l’artista, suo marito era solo un noioso impiegato. Forse non era affascinata che dal suo mondo. In fondo non aveva mentito; era tutto vero. Era solo che non avrebbe mai dovuto dirlo. Si era chiesta qualche volta se la sua era stata la scelta giusta, allora; riusciva solo a continuare a mentirsi. Ora era davanti al trombettista. Giordano non s’era nemmeno fatto sentire, non rispondeva al cellulare, forse l’aveva spento. Di lui Carlo aveva solo ancora il segno dell’occhio tumefatto. Loredana si sentì in imbarazzo ma alla fine ne risero assieme.
***
Loredana prima di uscire si era impegnata per farsi bella. Giordano era un vecchio amico ed era come andasse ad incontrarlo per la prima volta. A Lui non erano mai mancati gli argomenti. E aspettando la comanda avevano vinto l’iniziale imbarazzo. Era da allora che non si trovava fuori una sera, con un uomo, sola, senza suo marito. Lui era stato gentile e molto garbato, e soprattutto brillante. Lui sapeva come comportarsi e come affascinare. Tutte cose che a suo marito mancavano. Non era certa di potersi fidare di sé. Era sicura di non potersi fidare di lui. Forse era solo quello che sperava. In quel momento era solo decisa. Poi tutto era scivolato via. Si erano veramente confidati ricordando episodi di quando erano più giovani e anche da ragazzi. Discorsi leggeri e con pochi rimpianti. Parole facili da dirsi. Rinvangando quelle vecchia amicizia tra loro due, tra loro tre; lei, con Carlo e con suo marito.
Avevano cenato e parlato e bevuto. Avevano cercato entrambi di scordare e di non darci peso. Era sempre stato il musicista ad avere avventure da raccontare. Avevano parlato della sua carriera con la musica. Delle serate e delle notti insonni. Di incontri affascinanti e di assoli. Della ricetta per le alici marinate. Anche di donne; e di uomini. Di tutto e di niente. Lui le aveva chiesto perché avesse smesso di dipingere acquarelli. Lei gli aveva chiesto quale fosse la tromba più bella. Ma lei aveva continuato a bere cercando quel coraggio che non riusciva a trovare. E lui bevendo aveva quasi scordato con chi era.
La verità era che per lei non c’era mai stato niente di diverso; ma stava veramente succedendo? E con quel ragazzo che non era mai diventato uomo. Lei era felice della sua vita, delle sue scelte. Era quello che voleva. Non era mai stata particolarmente bella. Affascinante, sofisticata o cosa. Le feste le facevano confusione. Il fumo le irritava la gola. Non si era mai illusa. Non si era mai mentita. Allora perché? Non era poi nemmeno così brutta. Giordano non era stato un ripiego. Per disperazione. Questo no. Forse era diventato lui perché era là, in quel momento, al momento giusto. Ed era pieno di gentilezze.
Le loro liti erano diventate sempre più frequenti. Aveva trent’anni e le sembravano troppi. Proprio in quel momento avrebbe voluto riavere quei diciott’anni. Scappare. Lasciarsi dietro ogni cosa. Ritrovare quel coraggio che aveva frequentato solo per troppo poco. La possibilità di innamorarsi solo per amore; dell’amore. Avere altre storie da raccontare. In fondo, si rese conto, aveva sempre invidiato le altre. Così futili e così superficiali. Frivole. Che coglievano al volo tutte le opportunità della vita. Leggere. Incapaci di chiedere cosa avrebbe riservato loro il mattino. Senza bisogno di giustificazioni. Con quell’aria da padrone del mondo. Da conquistatrici. Da irresistibili. Senza la paura del futuro e degli anni.
Era stata stupida, dopo tutto quel tempo, le era proprio scappato di bocca. Non poteva che rimproverare se stessa. Parole fuggite nel mezzo di una mezza lite. Ma non si poteva stare attenti sempre ad ogni parola. Aveva cominciato lui. Oppure lei? Aveva voluto ferirlo. Solo questo. Lui era sempre vissuto all’ombra di quel Carlo. Di un Carlo che non conosceva veramente. Che aveva idolatrato. Ecco chi era quell’uomo. Era quello che si stava per approfittare della sua prima e unica debolezza. Della donna di un amico. Giordano doveva saperlo. Anche lei avrebbe dovuto saperlo. Aveva l’anima dentro la tromba, e quando non suonava era un altro, era solo un poverino. Senza scrupoli e senza sentimenti.
Avevano bevuto, molto, e la serata era finita con lei ubriaca fradicia, come non le era mai successo. E lui che rideva per un nulla e cercava di dire cose che non gli scappavano nitide. Appena fuori all’aria fresca avevano ritrovato quel minimo di lucidità per capire dov’erano e dov’erano rimasti. Si erano guardati ed erano scoppiati a ridere. Le gambe erano molli. Loredana aveva cercato di negare; come avrebbe potuto spiegare, giustificarsi con se stessa? Voleva scusarsi, la verità era che lei sapeva che era andata lì per lui. Stava veramente cercando solo la debolezza di una sera? Al diavolo, l’unica cosa che contava era che lei era lì. E aveva smesso di preoccuparsi.
Carlo poteva essere solo una cosa gradevole per un tempo breve. Una cosa da consumare. Per farsi invidiare dalle altre. Per sballare. Per dimenticare. Era come una birra da sorseggiare in fretta, e dopo ti rimane ancora la sete. Era l’artista sul palco. Non si può indossare i panni degli altri. Ma quali erano i suoi? Era mai stata veramente felice? Aveva cercato la sicurezza, aveva trovato le certezze e insieme la monotonia. Le sere davanti alla televisione. Il ruolo della brava donna di casa. No! non bella, ma quella che sa aspettare il proprio uomo. Sapeva solo che si sarebbe risvegliata al mattino nel suo letto, piena di vergogna. Non le importava. Quella sera era bella per lui, e per se stessa.
***
Loredana ancora non se ne convinceva, ma stava succedendo veramente. Andavano di notte per una strada con passo incerto, soli. Non ne era certa. E non poteva dare la colpa a nessun’altro, tanto andavano sbiadendo i pensieri. Era stata vigliacca un’altra volta. Era solo fuggita. Verso sera la solitudine era diventata un dolore fisico insostenibile. Il vuoto nella casa un vuoto immenso. Ricordava chiaramente solo che era scappata da quella sorta di incubo. Dalla sua inutile attesa. Era certa che lui non sarebbe rientrato. Non aveva mai amato nessun’altro, solo suo marito; da quando si era sposata. Non aveva mai voluto nulla di diverso. Certo non aveva mai amato Carlo, forse lo aveva solo desiderato, e solo per un breve istante. La sua era solo una bugia. Forse tutto quello non stava succedendo.
Carlo le aveva messo una mano sulla spalla e barcollante l’aveva invitata a casa sua. Chissà se aveva sperato troppe volte di sentirgli dire quelle parole; in quell’invito. Solo per l’invito. Forse aveva temuto. Non ne era mai stata capace. Non era da lei. Certamente la colpa era in quel vino. Era certa di non essere lei, o almeno lo sperava. Era come in un film. Tutto le girava e assieme girava la sua testa. Si sentiva allegra, avrebbe potuto dire felice; sicuramente leggera. Senza responsabilità Sarebbe stato solo che era solo successo. E se invece fosse stata proprio lei a inseguire il coraggio? Fin dall’inizio? Quel coraggio che le era sempre mancato? Mancato perché si era ritrovata vecchia troppo presto. E fidanzata ancora prima. Troppo piena di paure. Di incertezza. Troppo piena la testa di tanti discorsi. Dei suoi. Della morale. Dell’etica. Delle abitudini. Di tutte quelle cose importanti che però non servono a granché, tranne a rovinarsi la vita. A far stare sempre lì a temere di pensare.
Non poteva più fingere di non accorgersi della sua mano sul culo, era un tocco leggero e quasi amichevole, e non riusciva a mostrarsi offesa. Si sentì in obbligo, costretta, di chiedergli, senza astio, cosa stesse facendo. L’amico gli sussurrò che non aveva mai notato di quanto fosse bella. Fu solo un soffio che la riscosse dentro. La sua risposta suonava come se a parlare fosse un’altra. Loredana aveva alzato le spalle e riso e aveva accettato il suo invito. Forse gli aveva anche messo fretta. Non aveva sentito quello che lei stessa aveva detto. A rifletterci le sorse un dubbio. Era tutto così inverosimile. Era passato tanto tempo. Troppo.
Non poteva essere lei quella. In quella strada. A quell’ora. Così. Non l’aveva mai fatto prima, non l’avrebbe più fatto. Si stava già pentendo? Era ormai troppo tardi? Immaginava che il tradimento non sarebbe mai entrato nella sua vita. Non credeva di avere nulla da rimproverarsi. Prima era stata una perfetta compagna, dopo sarebbe tornata ad esserlo. Sempre. E lui non aveva nessun diritto di essere geloso improvvisamente anche del suo passato. Si stava già pentendo? Una mattina, una stanza, delle lenzuola. E anche il suo corpo di uomo. Carlo. Era stato solo il sogno di un attimo fuggente; ma un sogno può tornare? Non era possibile. Voleva scappare. Aveva solo voglia di ridere.
Non si illudeva. Non voleva farlo. Sarebbe stata solo una cosa senza importanza. Era solo una bugia. Oppure no? La pazzia di una notte, da ubriachi. Forse lui aveva profittato della situazione. Forse lei aveva colto l’occasione? Forse non era proprio così ubriaca. Forse l’aveva voluto. Forse l’aveva sempre voluto. Non era certa di nulla. Se solo avesse potuto non ricordare. Perché quando si entra in una di quelle camere non si torna mai indietro. Non si esce più. O quella che esce è un’altra persona. Si resta sporcata dentro. E allora avrebbe voluto cancellare tutto. Stavolta non sarebbe scappata mentre lui ancora dormiva. Ma non si può vivere la vita di un’altra.
Eppure era arrivato il suo turno. E salirono le scale faticosamente sorreggendosi l’un l’altra, mentre lui cercava di solfeggiare Almost Blue. Ridendo di quella fatica e del loro imbarazzo. In quell’istante… Una delle tante ragazze che gridavano ai suoi concerti in quei locali pieni di fumo… Non le dispiaceva sentirsi una di loro. Non la faceva stare male; anzi… Cercava di immaginare come sarebbe stato. Cercava di scacciare il timore, ma… Ma sulla porta il sogno era svanito. Quando aveva visto il posto in cui viveva improvvisamente aveva capito. Dentro c’era odore di chiuso e il disordine più completo; per terra non solo calzini. Aveva preso una bottiglia ormai quasi vuota. Aveva fatto un ampio inchino e l’aveva chiamata principessa. Lei aveva abbassato gli occhi. Sapeva che quelle parole non erano per lei.
Non riusciva più a guardarlo. Tutto era solo imbarazzante e colmo di rimorsi. Quella desolazione le era entrata dentro. Aveva creduto di esserne capace; si era sbagliata. Povera stupida. Cercò di spiegarlo all’amico e gli disse solo “Non posso.”, e lui aveva capito. Si era grattato ancora incredulo in testa e aveva preso due lenzuola stropicciate. Gettata la bottiglia si era nascosto al bagno a farsi una pera. Poi aveva suonato la tromba solo per lei, fin quasi al mattino; e l’aveva suonata come non l’aveva mai suonata. Nei suoi occhi scorrevano le lacrime. Quando era andata a pulirsi la faccia aveva visto la siringa nel cestino. Aveva dormito sul divano, ancora vestita.
Il mattino si era guardata intorno. Non riconosceva niente. Giordano l’aveva chiamata al cellulare. Non le aveva detto dov’era stato, aveva solo chiesto a lei dov’era finita. Dove avesse passato la notte. Il tono della voce non lasciva presagire nulla di buono, era indispettito. Lei lo aveva pregato di non andare in collera. Stava cercando di pettinarsi. Lo aveva rassicurato che sarebbe rientrata subito e che gli avrebbe chiarito tutto; di non preoccuparsi. Non sapeva ancora come avrebbe potuto spiegare a quell’uomo, che era suo marito, di aver dormito con Charlie Fanciscotown.

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Si svegliò verso le undici in quel letto vuoto. Era stato trascinato fuori da un sogno che gli aveva lasciato languore e dolcezza dentro. Non ricordava molto ma era quasi certo che erano ragazzi in quel momento. Era con Orlanda e lei era molto carina. Era stata la sua prima ragazza ed era stata lei ad insegnargli a baciare. Quando si erano lasciati gli aveva detto che non capiva che uno potesse suonare così bene la tromba ed essere allo stesso tempo così arido e così stronzo. Non sapeva perché ricordava in modo confuso tutto quello. Non era nemmeno certo che si trattasse veramente di un sogno.
Era stato svegliato all’improvviso dal telefono; era Loredana. La bocca gli doleva ancora e l’occhio era diventato nero. La voce dall’altro capo gli sembrava persino irriconoscibile. Forse non era ancora del tutto sveglio, non si fosse presentata forse non l’avrebbe nemmeno riconosciuta. Eppure quando era stato svegliato aveva pensato anche a lei. Aveva ancora la sera prima stampata davanti agli occhi. Con quel Giordano che non riconosceva: “Lo hai visto”?
L’ho visto e l’ho anche sentito”.
Allora ti ha trovato”?
Cosa gli è preso”?
Non lo so, so solo che quand’è uscito era proprio furioso”.
Avete litigato”?
Niente di grave. Poi se n’è venuto fuori… Ha preso la giacca e non è più tornato. Comincio a preoccuparmi”.
Era come se tutto il suo passato si fosse coalizzato e messo nello stesso momento contro di lui. Era stato qualche volta scoperto da qualche marito o fidanzato geloso, o più semplicemente sorpreso dalle loro reazioni, ma non aveva mai tradito un amico, o quasi. Cosa poteva farci se lui alle donne non sapeva dire di no? E se quelle, le donne, se lo bisticciavano; sul palco e fuori? Non che lui si sentisse privo di colpe. In realtà era sempre stato bravo ad infilarsi nei guai. Gli era sempre piaciuto sentirsi invidiato, non ne provava più piacere. Loredana non era come quelle, lei non si sentiva bella, affascinante e irresistibile. Non aveva fole per la testa. S’era messa con Giordano, che forse era sempre stato il più sfigato, e gli era rimasta per sempre fedele. Non se la immaginava in nessun altro modo; in nessun altro ruolo che quello della compagna devota. Non se la raffigurava a tradirlo. L’immagine gli riusciva inconcepibile; non lei.
Lei sembrava stesse piangendo, e se non piangeva era comunque ansimante; la voce irrequieta di una donna affannata. Cercò di consolare l’amica: “Gli hai detto qualcosa”?
Lei non si era calmata: “Niente che potesse… Forse m’è scappata una parola. Forse sono stata una stupida. Sai quando si litiga. Non è vero niente ma magari l’ho lascito pensare. Non mi guarda più come”…
Erano sempre stati quelli dove si era rifugiato nei suoi momenti di difficoltà. Aveva sempre saputo di poter contare su loro. Una coppia tranquilla. Lei sapeva anche cucinare. Due insomma a cui nessuno avrebbe fatto caso. Provò amarezza in quelle parole. Nemmeno la sua voce sembrava la sua. Glielo disse perché ne era convinto: “Vedrai che torna. Lui torna sempre”.
A pensarci gli sorse un dubbio. Era tutto così inverosimile. Amarezza e rabbia. Un po’ il mondo che in fondo inviava a loro che crollava. Quella che lui testardamente sognava come l’altra opzione per il suo futuro. Era stanco di quella vita. E ora era entrata anche la droga. Si guardò il braccio e per un attimo perse il controllo della voce e del cellulare. Forse gli era scappato qualcosa di quello che lei stava dicendo. Niente gli sembrava così vero. La voce di Loredana sembrò rassegnata quando gli disse: “Sì! certo, ne sono sicura anch’io”. Poi cambiò tono, si fece d’un tratto più incerta e meno ansiogena. Lo ringraziò e gli disse che avrebbero dovuto parlarsi, magari trovarsi, magari una sera. Non avrebbe potuto dirle di no, ma non sapeva a cosa sarebbe servito. Non sapeva nemmeno come spiegare all’amico, a Giordano, che non si poteva che essere trattato di un equivoco. Che lui mai e poi mai… Ma dove si era cacciato? Pensò di chiedere ai suoi, forse era andato là. Non aveva mai esagerato di fantasia, né in coraggio. Era certo che l’avrebbe trovato, non sapeva come avrebbe trovato le parole. Avrebbe dovuto essere l’altro a scusarsi; lo stronzo. Pensò che doveva tenersi buona sua moglie. Guardò la sveglia e tornò a dormire.

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Vorrei ma non riesco a non preoccuparmi. Non demorde. Arriva un nuovo messaggino: Help! Credo di aver perduto il numero di Egenore. E’ tutto così assurdo. L’abbiamo incrociato un giorno. “Piacere”. “Piacere”. Barba del sabato. Occhiali fondi. Mani insaccate nelle tasche. Perso nei suoi pensieri. Me l’ha elogiato come un grande sommelier. Aveva l’aspetto di non essere nemmeno troppo pulito. E tutto quello che so di uno con un nome simile. Eppure non si direbbe che quei due possano essere stati amici. Provo una leggera immotivata ansia da gelosia. Me ne stupisco da solo. Prendo tempo. Meglio: qualcosa mi consiglia di aspettare. Di evitare. Di non dar seguito. Cerco di non pensarci. La mia unica colpa è il gioco della seduzione. Si dicono cose. Cerchi di essere gentile. Forse ho esagerato. Nel tentativo di essere come lei sperava. Forse troppe attenzioni. Anche forse qualche parola di troppo. Si dicono. Scappano. Ti aspetti un sorriso. Quella risatina argentina. Una sorta di lusingamento. E’ il gioco delle parti. Ma entri nel gioco. Il fatto è che ora mi trovo fuori ruolo. Tutto è andato oltre. Quello che è fatto è fatto. Non implica un dovere. Se ho detto una sciocchezza non sono costretto a reiterarla.
E’ stato giusto dare un taglio a tutto. In fondo siamo amici da una vita. Son cose che si dicono. Forse non proprio amici, e non proprio da una vita. E’ comunque un po’ che ci si conosce. Che ci si trova. Che ci si frequenta, di tanto in tanto. Per un uomo è quasi un dovere. Essere un poco piacione, intendo. Lusingare. Sono le donne stesse che te lo chiedono. Spesso. Quasi sempre. Gli occhi sono la voice dell’anima. Lei non fa eccezione. Come mi stanno? Cosa te ne pare? E le scarpe. E l’abito. E i capelli. Per non dire del trucco. Oggi devo essere proprio impresentabile. Se non neghi; se non dici che non è vero; quello che si aspetta; che si sbaglia; che è anche anzi più bella del solito, manchi di quel minimo di savoir faire. Di eleganza. Di gentilezza. Persino di educazione. E anzi non dico che… di non averci anche pensato. Qualche volta. Capita. Ci sono di quelle sere. Un bicchiere o anche solo un momento diverso, l’aria. Perdi qualche freno. Ti va o ti andrebbe. E sei con lei. Ti scordi chi è. In fondo che male c’è? –ti chiedi. Lei o un’altra… Semplicemente perché ti va. E lei è là. Senza averci pensato. Senza premeditazione. Sarà anche successo. E’ successo, certamente. L’uomo è cacciatore. La donna glielo chiede. Lo pretende. Lei si è sempre sottratta con un gridolino. Fingendo di capire e non capire. Stando allo scherzo. Cosa dici? Con un piccolo rossore. Sempre che scherzi; tu. Ma è sempre stato il gioco di qualche ora. Il desiderio di un istante. Niente che potesse giustificare. Un rischio. E ne ho messo di tempo. Per poi alla fine stare al gioco. Ed ammettere persino a me stesso che stavo solo scherzando.
E’ che ti accorgi all’improvviso e all’improvviso la vedi anche come donna. Ti accorgi che ci parli bene assieme, ma che ha anche un gran bel paio di tette. E un bel culo. Che l’abito che la fascia ti provoca. Poi ti accorgi che l’ha messo per provocarti. Non che possa esserci certezza. E’ sempre così. Ho sbagliato; forse. Ho capito dopo che i suoi occhi si addolcivano sempre più. Che lei ci ricamava su la sua storia vera. La sua grande storia. Che le cose stavano cambiando. E quando me ne sono accorto cominciava a farsi tardi. Lei non mostrava di stupirsi delle mie minori attenzioni. Non è un estranea. Non sarebbe più una semplice avventura. Una notte. Non con lei. Me ne sono reso conto troppo tardi. Le sue attenzioni nei miei confronti. La cravatta sbagliando il giorno del mio compleanno. Quel liberarsi da impegni già presi. Il suo cercarmi. Quei messaggi, anche di nulla. Non le voglio male. Non posso essere io quell’uomo. Forse mi faccio fin troppi scrupoli. Fingeva di non accorgersi. Di non mostrare meraviglia per i mille impegni che mi dovevo inventare. Dovrei fare come gli altri. Come tutti. Cogli l’attimo. Afferra l’occasione. Domani è diverso. Non con lei. Mi sento un vigliacco. E’ vero che mi nascondo. E’ meglio così. Le conosco. Sognano l’amore eterno. Quello che non esiste. Eppure anche lei non ha più età. E deve aver conosciuto come è fatto l’uomo. Solo che non si fa. Non è elegante dire, per giunta ad una amica, mi va solo di scopare. Senza impegno. Una botta e via. L’ho sentito anche alla televisione. Senza conseguenze. Senza paranoie. Così è un po’ che non ci si sente.
Io non sono nato per fare l’eroe. Il solito sbadato. Rispondo senza guardare chi chiama. E’ lei. Dovevo immaginarlo. Prima o dopo doveva succedere. Non che ci sia qualcosa che non va. Cioè… come dicevo: carina è carina. Ha qualcosa, come dire? Ha qualcosa… che anche mi stuzzica. In effetti c’è della simpatia. Cioè quel qualcosa. E poi mi sono sempre piaciute le donne alte. E bionde. Si potrebbe anche dire bella. Di una bellezza sua. Forse un po’ fredda, algida. Non lo nego: a tratti la sua presenza è stimolante. Anche intellettualmente. Intrigante. Forse dovrei dire: c’è stata. Cosa ha smesso di funzionare, le singole piccole cose, gli oggetti quotidiani, non lo saprei dire. Forse solo la paura. Forse il tempo corrompe. Forse ho perso l’attimo. L’abbiamo visto passare insieme. Non lo saprei proprio dire, oltre le sue crescenti attenzioni. Anzi quelle, le attenzioni, sono cresciute progressivamente quanto diminuivano le mie disponibilità. Un po’ saccente lo è. Non c’è argomento in cui non abbia da dire. Che non intervenga. Sul quale non abbia una sua opinione. Uno non ci pensa ma alla fine infastidisce. Quando si è abituato a donne che hanno i loro discorsi. Che ti lasciano spazio. Aria. Che, almeno su certe cose, ti stanno ad ascoltare. E poi sembra anche esser diventata meno riservata. Insomma la verità è che non lo so. Semplicemente non mi va. La vedo diversa. Forse sono io. Non siamo sempre uguali. Insomma la evito di proposito. E senza pensarci. Quasi sempre. Così dopo quella farneticante serie di messaggini chiama come non ci fossimo visti da ieri. E io rispondo senza fare attenzione. Di Egenore si è già scordata: “Cosa dici: un caffè”?
Si può fare. Alla rocca. Il tempo di arrivare. Una decina di minuti”.
Dammi il tempo di prepararmi. Diciamo un paio d’ore”.
Tempo e spazio non sono gli stessi per uomini e donne. Quelle ore paiono non passare mai. Chi arriverà all’appuntamento? La sua aria svampita o l’amica a cui ho raccontato tutto o quasi? L’accompagnatrice negli itinerari delle mie divagazioni, anche oniriche, o l’indossatrice della seduzione? Il suo sorriso melanconico o le sue labbra umettate? Per istanti riesco ad essere onesto con me, so che mi fascio la testa. Troppe parole spiegano meno di un silenzio. Mi rammento Berlino. Ma c’era Carlo, e Micky, e il Cricca, e Teresa. E c’era la musika cosmica. Tutti insieme appassionatamente. Un unico trip. I letti che non bastavano. Tra tante risate non c’era spazio che si inserisse nient’altro. Non un minimo di passione. Poi i primi due son diventati una coppia. Ma al ritorno. Non si sono più fatti vedere. E la loro è un’altra storia. Di pensiero in pensiero, di ricordo in ricordo, mi costruisco il mio labirinto. E mi ci infilo dentro. Senza nessun filo. Con la sensazione dell’incapacità di uscirci. Di trovare una via di fuga. Con la Ludo e finita da… sono già passati un paio di mesi. Era un po’ gelosa. Questo mi ha aiutato. Sì! sono un vigliacco. Un po’. Un po’ ho dovuto tagliare i ponti. Non gradiva avessi amicizie femminili. E meno che meno. E mentre mi perdo nella selva di stupidaggini arriva. Sto mescolando il mio caffè ormai freddato “Ciao, scusa il ritardo”.
La sua non è ironia. Per lei è normale, come tutto. E non c’è nulla che non avessi già potuto immaginare. E’ arrivata con una buona mezzora di ritardo; naturalmente. A volte dovrei starmene zitto. Ha tutte addosso almeno le ultime tre ore abbondanti di preparativi. E anche i capelli spettinati sono spettinati ad arte. Ha gli occhi contornati da una linea di peccato. La sua solita voce che lusinga ogni sillaba. Un abito che respira col minimo alito di vento. Dentro al quale è lei a non riuscire a respirare. E’ questa la domanda che mi pongo subito. Scollato oltre il comprensibile. Non so come si reggano quelle diavolerie. Come fanno a non scendere giù; a sostenersi. Infatti continua a sistemarselo addosso. E continua a sistemare lei dentro l’abito. E non è che a lei manchino gli argomenti. Non certo quelli. Questo non me lo doveva fare. Fa un cenno e ordina un calice. Controllo e ha ragione lei, l’ora della colazione sarebbe passata da un po’. Per me quello che si sente scordato nella tazzina è il quarto. A stomaco nudo. Non so perché lei non deve bere ma succhiare. Non si cura di mostrarmi le gambe e le magnifica all’intera clientela. Tutti ci guardano, e mi invidiano. E io invidio loro.
Mi aspetto uno dei suoi soliti racconti. Mi aspetto l’ultimo viaggio. L’ultimo amore. L’ultima delusione. La sua ultima grande verità. Almeno l’ultimo film letto. O l’ultimo successo visto o ascoltato. Invece usa l’ironia: “Come sto?”…
Scusa, mi sono distratto. Me la stavo filando nei miei pensieri. Sai com’è”…
Segue un attimo di silenzio nel quale posso restare solo a guardarla. Naturalmente lo rompe lei: “Cosa stai facendo”?
Una cosa sul cinema muto in epoca fascista”.
Me la farai leggere? Dev’essere interessante. E poi è proprio una delle mie passioni”.
Diversamente ne sarei rimasto sorpreso. In Italia sono un pochi che ne sanno qualcosa. Che nutrono qualche curiosità. Per l’importanza le testimonianze sono parche. Non si è ancora vinta la vergogna. Come se n on ci fossero vie di mezzo. Come se una totalitarismo fosse solo orrore. Solo oppressione. Ventiquattro ore su ventiquattro. Come fosse un periodo buio sul quale è vergognoso accendere la luce. Alla fin fine persino condannarlo. Meglio semplicemente ignorarlo. Così come ignoro la punta della sua lingua che si intinge nel vino. E i suoi occhi che mi chiedono se vedo ciò che sta facendo. E come lo sta facendo. Vorrei solo essere certo di sbagliarmi. Vorrei fuggire in ritirata. Sapermi inventare un impegno urgente. E’ domenica. Non mi viene nulla.
Sei silenzioso”.
La mia è quasi del tutto una scusa, e detta in modo palese. Dietro la quale non c’è nessuna possibilità di nascondersi. Il mio è imbarazzo alla luce del sole. Vorrei dire: Flavia, lasciati guardare. Solo guardare. E dammi il tempo di capire. Dimmi anche solo un perché. Uno solo. Invece mi limito a battere in ritirata: “Intendo dire che soprattutto mi occupo di Cinecittà e di Venezia. Per lo più quando il fascismo sta morendo”.
A lei sembra non importare nulla, un fico, che ci siano altri. Che altri la possano sentire. E va diritta al cure del problema. Come se ne avessimo già parlato; da sempre: “Credo che siamo stati dei grandi stupidi”.
Perché dici questo”?
Non sono cieca. Forse ho aspettato troppo a dirtelo. Vedo come mi guardi. E come mi hai sempre guardata”.
Veramente”…
Sai perché son o qui? Ho finito i soldi nel telefonino. Ti basta? Non cercare scuse. Non servono, tra noi. E mi fa incazzare quando non rispondi. Non so se mi fai più rabbia o più voglia di ridere”.
Non ha risposto a nessuno dei miei dubbi. Per lei sembra tutto semplice. Si è distratta solo dal resto. Dal superfluo. Ha appoggiato il bicchiere al tavolo, e quello ha perso ogni interesse. E quello che dico non ha nessuna razionalità. Nemmeno so perché lo dico: “Non mi sembra il posto”.
Qualcuno ora prende a guardarci come fosse io il reo. Ed è scaduto anche l’ultimo termine per battere in ritirata. Quello che succede le basta a farla divertire. Finalmente sono nudo davanti a lei. Esposto. Fragile. Per completare la tragedia le mancano delle finte lacrime. Le ciglia che colano. So che questo sì che la delizierebbe. Trasformare la commedia buffa in dramma. Fortunatamente non coglie l’occasione. Non ne trova necessità. Mastica amaro parole di derisione. Nemmeno ha bisogno di prendere la rincorsa: “Si va da me? O da te, se preferisci”.
Proporrei di abolire le domeniche. Penso senza il tempo di pensarci. Preferisco da lei. Da me è tutto in disordine. Ed è anche più vicina. Misteri dei suoi ritardi. Volendo potremmo raggiungerla a piedi. Ma a piedi c’è più tempo per pensare. E per parlare. O forse no. Meglio che ognuno vada con la sua. Ma lei mi segue. E’ più rapida a parcheggiare, e mi aspetta davanti al portone. Non avrei avuto comunque nessuna via né occasione di fuga. Sono in trappola. Ho la testa pesante. Ho sempre amato le cose semplici. Forse non sono tipo da impegni; da impegni veri. Come si dice: seri. Forse è il fatto di essere figlio unico. Di esserlo sempre stato. Sono grande abbastanza ma non me ne sono mai liberato. E lei a mamma non è mai molto piaciuta. Diceva che non le sembrava una che si può legare. Insomma una brava. Diceva: prova a mettere il sale sulla coda ad un pettirosso. Non so perché un pettirosso. Che ne so? Non gliel’ho mai chiesto. Credo che un volgare passero sarebbe lo stesso. Ed ecco che ci ricasco. Lei apre la porta e io le guardo il fondo schiena. E sospetto che lei lo sappia.
Permesso”.
Mi guardo intorno come fosse la prima volta. Potremmo parlare del tempo. Del fatto che non ci sono più le mezze stagioni. Lei vuole parlare di noi: “Qual è il problema? Se c’è un problema? Il tuo problema”?
Non mi lascio altra scappatoia che mentire spudoratamente. Cerco di sostenere il suo sguardo. Lei sembra infuriarsi: “Nessuno. Mi fa piacere. Avevo anch’io voglia di rivederti. Stavo giusto per chiamarti”.
Penso che anche tu, come tutti, anche se solo qualche volta, come tutti, pensi con quello che nascondi nei pantaloni”.
Non sono mai stato volgare. Non mi piace quando una donna lo è: “Col culo”?
Non credermi stupida. No! hai capito bene”.
Però”…
Vuoi farmelo dire? Con l’uccello. Contento”?
Non era quello che volevo. Se avessi potuto esprimere un desiderio: non era quello che volevo: “Stiamo per litigare? Perché non mi sembra il caso. E non ne ho nessuna voglia”.
Ormai niente la potrebbe più frenare. So che con lei, come con tutte, l’unica buona politica è lasciare sfogare il temporale. Fingere di aver imparato a tacere: “Sembriamo una coppia. Siamo mai stati una coppia? No! Non hai nessun diritto”.
Vedi… è che tu… a volte…. No! non siamo mai stati una coppia. Non ti ho sempre trattata come un’amica”.
Proprio questo. Questo è il punto. E poi cosa vuol dire sempre. Non siamo sempre gli stessi. Non siamo uguali ogni mattina che ci mandano. Non siamo uguali in bagno e in cucina. Al mare e in montagna. Di giorno e di notte. Per esempio… la notte è sempre galeotta. Ora il nostro tempo sta per finire. Mi spiace. Volevi vedere le tette? Ecco. Accontentato. Che te ne pare? Ora le hai viste, soddisfatto? Bastava dirlo. Solo quello? E’ tutto più semplice di quello che sembra. Cosa credete, che a noi non capiti? Perché siamo donne? Solo che mica possiamo andare a dirlo. Sarebbe sconveniente; vero? Lo sai poi cosa si comincia a dire. Cosa pensate. Dobbiamo limitarci a suggerirlo. A farlo capire. E a volte dobbiamo parlare ai sordi. Dobbiamo dirlo nelle dovute maniere. A chi non vuol capire. Non ce l’ho solo con te. E’ passato il tempo delle mele. Ci chiedete pazienza. Non si compra al mercato. E quello che vi fa più paura è quando una donna ha un’opinione sua. Una testa sua. Lasciate lì la frase, a metà, e scappate. Ecco in cosa siete bravi: nella fuga. Tutti. Ma io ti credevo diverso. Per questo ti ho scelto come amico. Ma sei sempre anche un po’ uomo. C’è una parte di te, a volte troppo ingombrate. Come ora. C’è qualcos’altro che posso fare per te. Basta dirlo.”…
Ma Flavia”…
Non dire ma Flavia. Vorrei dire quello che non sta bene in bocca ad una donna. Che è sconveniente. Vorrei dire quello che non posso dire. E le parole mi scappano. Non mi interrompere. Sto parlando. E’ ora che parli. E lasciami parlare. Questo è il momento; se non lo faccio ora… Per me sei un amico. Stupida. Un fratello. Con te mi sembrerebbe un… incesto. Sì! un incesto. Certo ogni peccato ha il suo fascino. Intriga. Ha la sua seduzione. Cerca di capirmi. Non per me. Per me un amico è un amico. Non so se mi spiego. Ma non c’è niente che è solo bianco o nero. Giusto o sbagliato. Niente che va fatto in un solo modo. Ho l’impressione come se io fossi cresciuta e tu no. Anche tu sei… sei un portatore di… di piacere. Certo, capita anche a noi. Scusa i termini. Sai cosa vuol dire donna? Te lo sei mai chiesto? Ti ha mai sfiorato un sospetto? Non che ce l’abbiamo sempre in testa, come voi, ma capita. Non lo sai? Beh! Te lo spiego. Capita esattamente anche a noi. Di avere un momento di debolezza. Un attimo di panico. Bisogno d’una coccola. Di sentirsi amate. Fortunate. Desiderate. Solo considerate. Solo di avere le dita addosso. Di mettersi tristezza e non volere infilarsi da sole in un letto. Senza dover chiedere scusa. Senza il tempo per aspettare la prossima puntata. Ci capita. Di avere quel pizzicore nelle mutandine. Che credete solo vostro. Magari mentre si è con uno per la prima volta. Di cui si conosce poco o niente. Con la persona sbagliata. Proprio perché è sbagliata. Proprio perché è solo prima di un addio. Perché non c’è nessun per sempre. Di non avere il tempo per altro. Perché?. Solo perché è la. Solo perché la luce è abbassata. Solo perché ti va. Per una cena finita bene. Che potrebbe finire meglio. Per farsi perdonare. Per il film. Per un cinema qualsiasi sia il film. Per salvare una serata scialba. Perché ci si perde in una strada di campagna. Perché indossi della biancheria nuova. Che ne so? Perché c’è lui. Perché a lui va. Perché gli va; e lo senti. Lo capisci. Sì! di avere un attimo in cui ci intratteniamo con una fantasia. Scusa la volgarità. Insomma… la voglia di… la voglia di… Senza un perché. Senza promesse o giuramenti. E sarebbe bello che nessuno potesse stare lì a giudicarti. Di poter usare la scusa dell’euforia da vino. Da festa. Senza bisogno di chiedersi perché. Solo capita in quel momento. O è quel momento che ti coglie di sorpresa. Che ti cerca. Magari proprio per vedere se ci sei. Per metterti alla prova. Perché è parte del tutto. Parte della vita. Ora o mai più? Per chi credi che mi sia preparata così? Vestita così? Pur temendo e sospettando che non sarebbe valsa la pena? Certo per me, ma non solo. Non mi compiaccio così tanto. E persino di mattina. Volevo dirtelo subito. Lasciarti a bocca aperta. Davanti a tutti. O correre qui. Sì! ci ho pensato. Invece siamo qui. Come due estranei. O come due vecchi amanti. Che piangono un amore decotto. Sfinito Esaurito. Invece parliamo di quello che non c’è mai stato. Quale ironia. Parliamo dell’ieri che abbiamo perduto come potesse essere domani. Tu con le tue indecisioni. Tu con le fantasie in testa. Non è vero? Tu a guardarmi così. Dimmi perché? Dammi una ragione perché dovrei farlo. Una sola. Ora me ne hai fatto passare la voglia”.
Nello stesso istante da un aereo in fase di atterraggio si stacca un pezzo d’ala che piomba diritto sulla mia macchina fracassandola, senza noi a bordo. Lei sente girare la chiave sulla toppa. Reagisce immediatamente al pericolo, mi allontana e si affretta a sistemarsi. Perdo un attimo prima di realizzare tutto quello che sta succedendo. Rovescio il bicchiere sul tavolino e prendo al volo la giacca sbagliata. Lo spingo da parte e scendo le scale di corsa, con ancora i pantaloni aperti, per controllare i danni sulla macchina. La guardo allibito. E’ partito l’allarme e piscia benzina. Tiro una sonora bestemmia: non s’è salvato che il numero di targa. Qualcuno osserva che poteva anche andare peggio. Però lei non ha risposto a nessuna delle mie domande. Non ha dissipato nessuno dei miei dubbi. Si limita a guardare il disastro che ha combinato, restandosene alla finestra. Avendolo saputo fin dall’inizio, allora era meglio se questa storia la scriveva lei direttamente.

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Finisce la festa. Tutti se ne vanno. Alla spicciolata. Vanessa era arrivata con Ferruccio, cioè Ferry, come lo chiama per prima lei, il suo compagno storico. Quando sono alla porta lei sembra ricordarsi: “Scusami tanto, mi ero dimenticata di una cosa. Ci vediamo più tardi”.
Lui la guarda contrariato: “Quando”?
Ribatte un po’ seccata: “Ferry Dopo. Dopo; alla massimo ti telefono. Non ti preoccupare, ho la mia”.
Resta lì, con me sulla porta, affiancandomi, finché non saluto anche Alberto, e poi la Cinzia. Resta lì come a fare gli onori di casa. Abbraccia Gastone: “Ci dobbiamo vedere una volta di queste”. Quello la guarda come sorpreso di quella famigliarità e confidenza. Mi bisbiglia in un orecchio che quel poverino non ne farà mai una di giusta. Poi mi sorride, mi da un colpo sulla spalla e mi avverte: “Io aspetto di là.” –e si chiude dietro la porta. Ormai anche gli ultimi rimasti sono sul piede di partenza. Aspettano solo che ci stringiamo le mani. I soliti “Grazie”. I soliti: “Ma figurati”. I soliti: “Bella festa”. I soliti: “Siamo stati proprio bene”. Sonia mi dice che ci vediamo in ufficio. Cosimo si raccomanda per quella vacanza. Per ultimo si congeda Sauro. Mi sono distratto e dopo lui mi sento finalmente libero e da solo. Mi riempio i polmoni d’aria. E’ stato bello, ma è sempre fiaccante. Non me ne ricordavo più. Torno in salotto. Per un attimo resto sorpreso di trovarla ancora là.
Non le deve essere sfuggita la mia espressione di stupore. Mi fa cenno con la manina come stesse su una nave che salpa per una crociera. Non mi rimprovera o almeno cela quel biasimo dentro il sorriso. Faccio i conti a come posso liberarmene in fretta. Mi tolgo la cravatta e finalmente respiro. Sono ancora prigioniero delle scarpe, come di una morsa. Ho proprio bisogno di rimettermi completamente in libertà. Un bicchiere in più. E poi la confusione mi stanca sempre. E la casa è rimasta tutta da riordinare. Forse le potrei chiedere un aiuto. Non si offre. Non mi pare il tipo. Appoggia il calice al tavolino. Osserva: “E’ avanzata un sacco di roba”.
Pazienza”.
Tutte quelle tartine”.
E’ sempre così”.
Mi regala un consiglio pieno di buonsenso col fare della brava massaia; magari lo è: “Puoi metterci sopra un canovaccio bagnato. Poi possiamo far cena; poi. Però; buono.” –e fa cenno al vino. Ne prende un altro sorso e torna ad appoggiarlo. Non mi aspettavo molto di più: “Allora cosa ti ha fatto trattenere”?
Per un attimo temo di essere stato sgarbato. Non ritiene importante darmi una risposta. Finge di non aver sentito. Stringe gli occhi per mettere a fuoco la mia presenza. Mi sento come se avessi invaso un suo spazio. E’ rilassata e molto a proprio agio. Pare non avere la minima idea di far finire la serata. Sembra solo pazientare ed aspettare. Mi dico che le mancano solo le ciabatte. Certo che un intero pomeriggio su quei tacchi deve mettere a dura prova la resistenza anche la scorza della più coriacea delle aspiranti al martirio. Infatti si passa le dita su un polpaccio. C’è un po’ di stanchezza anche nella sua pigrizia. Dico tanto per dire. Perché il silenzio e il suo sguardo mi paiono ingombranti: “Gradisci? Te ne prendo un altro po’”?
Fa tutto da sola. Con non troppe parole. Quasi si tratti di uno scherzo. Mi accusa e scusa dell’assurdo sospetto che ci sia una mia deliberata intenzione di tentare di farla ubbriacare. Mi da benevolmente del mascalzone. Niente di più. So che non fa sul serio, o almeno lo spero. Lo fa come se tra noi ci fosse un’antica familiarità. Mi chiede se può confidarmi un segreto. Prima che possa rendermi disponibile si è già rimangiata la preghiera, l’offerta. Prima ancora che possa cominciare a nutrire la benché minima improbabile curiosità. Perché sono cose da donne. Perché certe cose sono persino volgari dire. Tiene il tono della voce molto sotto controllo e le parole paiono, tra le sue labbra, un bene prezioso. Gli occhiali l’hanno sempre fatta anche più matura di quello che è; sì! gli occhiali. Per lei sono uno strumento di seduzione. Li sistema sul naso: “Siediti e… parliamo”.
Cerco di restare al motivo che l’ha spinta a rimanere: “Di cosa mi volevi parlare”?
Spero sia qualcosa di importante. Avevo progettato per mettermi a mio agio e assistere alla partita. Spero che possiamo fare in fretta. Cerco di dirglielo, e poi mi sembra maleducato. Un derby è un derby. Inoltre mi interrompe prima che abbia modo di aprir bocca: “Sembri proprio un ragazzino”.
Le chiedo perché; mi risponde di lasciare stare. Che non ha importanza. Non per offendere. Così. Tanto per dire. Solo una impressione. E’ che le sembro buffo; in quel momento. Ritto in piedi. Spettinato. Stravolto. Con l’aria e gli occhi persi. E la mano in tasca. Disinvoltura? Ride. E la fatica delle parole che trascino. Perché per lei Ferryforse perché ha un paio d’anni più di noi, e sembra averne dieci in più. Mi chiede quando li compio. Scopre, con rammarico, che lei è solo poco più vecchia. Si pente di avermelo confidato. Credeva fossimo coetanei. E’ solo questione di mesi. Solo che sono a cavallo tra un anno e l’altro. Quando non si ha molto o niente da dire allora si parla di quel niente. Per farlo lei usa un sacco di parole.
Mi ripeto in testa il suo nome: “Vanessa”. Come una marca di collant. Ma non porta i collant. Non per questa occasione: “Non sempre l’età distingue le persone. Le persone sono per quello che valgono”.
Chiede “E io”? Insiste: “Puoi essere onesto”.
Sono caduto nella trappola senza colpe. Non potevo non correre quel rischio. Non mi era stata data nessuna scelta. Mi rendo conto di essermi infilato in un ginepraio. Non sono la persona adatta a fare graduatorie. A stabilire un valore per gli altri. Non posseggo veri termini di confronto. E poi… cosa le potrei dire? Ci sono molti aspetti delle persone. Quand’è arrivata a braccio del suo cavaliere ho pensato una cosa. Quando si è complimentata per alcuni titoli della mia biblioteca ne ho pensata un’altra. Quando s’è intromessa, non richiesta, in quella conversazione, non richiesta e inopportunamente, ne ho pensata un’altra ancora. Ora, se dovessi esprimere un parere, se ne fossi costretto, ne penserei probabilmente ancora un’altra: Un’altra che magari prima di sera sarei disposto a cambiare. Mi limito a farle un cenno di apprezzamento. E’ la cosa più sensata che posso fare, e anche la più gradita.
La osservo. Così tranquilla. Sul tavolo quelle tartine sopravvissute. Il telefonino antidiluviano. Le sigarette e lo zippo con l’immagine laccata. L’odore del tabacco. I capelli biondi raccolti con voluto apparente disordine. I buchi senza orecchini sui lobi. Il volto sostenuto leggermente dalla mano, poggiata sul gomito. L’anulare a sfiorare i denti tra le labbra socchiuse. Labbra dal rossetto quasi del loro colore naturale. Solo per farle lucide. Il sorriso enigmatico e confidenziale. Il vestito nero. Quei due giri di perle della collana. Uno stretto quasi a soffocarla. L’altro tanto ampio da arrivarle ben oltre la scollatura; fin quasi al ventre. Contornandole un seno. Di quello non poteva dire di averne troppo. La guardo e lei ammicca quasi a dire: “Guardami, hai visto”? Il vestito nero già corto che era risalito. Quel suo studiato distacco. Le scarpe nere a punta, con i tacchi. Le calze nere velate. Le lunghe gambe; molto lunghe. Le gambe mascherate dalla seta; e dove finisce la seta il bordo delle calze, e poi solo le gambe. Il colore della loro pelle. La pelle candida. Nivea. Liscia. E ancora più su. Fin dove si può spingere l’occhio. E dove con la sinistra, quella con l’anello del fidanzamento, distrattamente, disinvoltamente trattiene la stoffa del vestito. E dove la pelle torna a perdere il suo candore dietro la maschera. Camuffata dalla menzogna di una stoffa… impalpabile.
Improvvisamente mi gira la testa. Cerco di uscire. Una scappatoia. L’aria mi sembra viziata. Le finestre son rimaste chiuse. L’odore del fumo s’è quasi dissolto ed ora è soffocato da quello del suo profumo. Un profumo garbato. Non troppo invadente. Lo aspiro. Mi torna a girare la testa. Per un attimo sono tentato di succhiare il vizio di quella fragranza. Cedro? Che altro posso fare? Insisto: “Cosa avevi da dirmi”?
Dovessi descrivere la situazione, per entrambi, direi una situazione impacciata. Impacciata e interlocutoria. Sembra seriamente che cerchi di riannodare dei fili spezzati con la memoria. Quello nostro sembra diventato un gioco. Scaturito da dove, non lo so. Una sorta di tiro alla fune. Per vedere chi cede per primo. Sono i silenzi ad essere alieni e indifferenti. A fare male: “Da dirti?… Ah sì. Credo di essermene scordata. Non lo ricordo più. Probabilmente nulla di importante. Magari dopo mi ricordo. Dopo”.
E allora decido di stare a quel gioco che ha cominciato lei più o meno deliberatamente, di cui sta cercando di dettare le regole: “Vuoi che accenda un po’ lo stereo”?
E questo basta a cominciare a farle scoprire le carte. Assume un tono gratuito di burla: “Musica. D’ambiente. Assassina. Non vorrai farmi credere… Non ne dovresti avere bisogno. Non vorrai simulare timidezza? E che io ci caschi? Non è proprio il caso”.
E’ passato tanto tempo da quando un corteggiamento si è arrampicato per sentieri tanto contorti. Una finta prudenza. Quasi il rincorrere quell’età perduta. Come due ragazzini. Certo ne sono stato preso alla sprovvista. Almeno all’inizio. Finché non ho varcato questa soglia. Finché non ho visto come mi stava aspettando. E la luce del suo guardarmi. Per provocarla accenno a prendere posto davanti a lei. Non funziona. Funziona: “Certo che sei proprio divertente. Dove ti siedi. Vieni qui –batte il palmo sulla morbidezza del divano– vicino, che da lì facciamo fatica a parlare. Non ti mangio mica. Certo che sei proprio un bel tipo. Naturalmente scherzo, cioè non pensare quello che stai pensando. E’ solo che siamo molto più comodi. Non credi? E ci possiamo anche vedere negli occhi. E’ stupido starsene di qua e di là. Come se cambiasse qualcosa. Come se… per quello che gli altri potrebbero pensare. Io voglio bene a Ferry. Ci possiamo parlare guardandoci negl’occhi. E gli altri non ci sono. Non ci possono vedere, né possono pensare. Finalmente se ne sono andati. Bella festa. Complimenti. E poi che si facciano gli affari loro. Che ne hanno di corna a cui pensare. Tranne non sia una scusa per spiarmi”.
Su quell’affermazione e sul modo di cibarsi avrei qualcosa da dire. Qualcosa di non troppo signorile. Sono tentato di farlo. Mi trattengo. Ma non è forse vero che ci stiamo sbranando, con sentimento? Che la passione si nutre sempre della carne dell’altro Non ne avevo più la voglia. Né il tempo. A questo punto… Come si può vestire sulle proprie labbra un no? Quel rifiuto non è mai stato scritto. Assaporo compiutamente la sua bellezza. La bellezza della lusinga. Di ogni lusinga. Della propria presunzione. Della mia e della sua. Rinuncio a sedermi. Rimando ostinatamente il momento. Volutamente. Ormai sono affascinato da quella lotta. Da quella guerra dove non ci sono vittime e quasi mai si fanno prigionieri. Ne sono irretito. Disordinatamente. Involontariamente. Ora cosciente. Presente. Disorientato. Potrei allungare la mano. Non lo faccio. Ho troppa curiosità. Sono sicuro di me. Una sicurezza che lei continua a trasmettermi, in ogni momento. Strana. Temo di non saper palesare indolenza. Temo invece di palesare avida attrazione e intemperanza. Resto in piedi: “Sono… contento che hai voluto rimanere”.
Contento non è la parola giusta. E’ il termine adatto solo in quel contesto; nel ragionare. Un modo garbato. Per poi denudarci veramente. Liberarci di ogni paravento. Di ogni barriera. E lasciare voce solo alla carne. Al precipitare delle emozioni. E’ interprete perfetta della commedia che ha messo in scena, quasi ne fosse avvezza. Quasi l’avesse già interpretata. Non ho tempo di dubbi a riguardo. Lei è solo una donna. Né sta a me dire quale. Inseguire disagiate elucubrazioni di costume; morali. Chiedermi dei perché. Dei dopo. Stiamo solo decidendo quale deve essere il momento per denudarci. Entrambi. E lei svestirsi anche di quell’aria di signorilità. Per tornare ad essere solo donna. Per lasciare solo posto alla passione. Senza altre domande. Il momento nel quale accettare di diventare amanti: “Ti senti a disagio? E’ casa tua. –si controlla– Scusami. Che distratta. Non volevo. Non sarà perché mi si vedono le mutandine”?
In modo inopportuno e insistente i miei occhi non erano riusciti a starne a distanza sufficientemente. Non se ne erano allontanati che di qualche passo, troppo in fretta e per troppo poco tempo. Troppo tutto per non tradirmi. Il messaggio che le avevano dato era fin troppo palese e arrendevole. Era andato oltre anche alla mia stessa finzione. Avevo voluto essere e sembrare deliberatamente indiscreto, e invadente e sfacciato. Sa di aver vinto. Di aver piegato ogni resistenza. Anche quelle presunte. Anche quelle che non c’erano mai state. Le si vedono le mutandine e ne è consapevole e colpevole, e le si vedono in trasparenza. Che ci siano poi è assolutamente indifferente e quasi un inganno. E le si vedono per la sua caparbia voglia e decisione di farmele vedere. E allora perché dovrei deluderla. Toglierle l’ultima soddisfazione. Toglierle. La fisso diritto, tra le gambe spalancate. Ingoio. Mi invento un’ultima timidezza: “Anche”.
Ride. Si molleggia sui cuscinoni. Ride. Finge ancora di credermi. Osserva come il divano sia molto comodo; e enorme. Che ci sia posto a sufficienza. Cerca di convincermi che il diavolo non è poi così brutto come lo dipingono. Mi comanda: “Vieni qui”! Divertita. Come se tutto fosse cominciato leggendo sul dorso di quel libro. All’improvviso. Con sua stessa sorpresa. In una sorta di negazione. E di rinascita. Confessa che lui la fa sentire libera. Senza volerne fare una giustificazione. Non le impone nulla. Solo per rimandare ancora. Un’altra volta. Mi dice che non ha mai superato quella soglia del pudore. Mi prega di crederle. Mi ordina di farlo. Il tutto quasi in silenzio. Raccontato più con gli occhi che con le parole. Poi svela la sua ultima battuta prima di salutare il pubblico: “Se vuoi posso anche toglierle; subito. O puoi togliermele tu prima di dopo. Come preferisci”.
Non so se ha già posseduto tanta disinvoltura. Non mi interessa. Non rifletto sul suo umorismo. Sul suo sarcasmo. Credo stia sfidando anche se stessa, senza averne possibilità di conferma. E stia sfidando la propria fiducia. La sua stessa stima. E che in fondo abbia smesso di importarle. Le sue unghie le lacerano la pelle per l’impazienza, troppo a lungo trattenuta. Penso “Troia”! Dico: “Vuoi che andiamo di là”?
Si rilassa e si gusta il trionfo, la mia resa, la fine della lotta. Senza distrarsi da quella sua aria da gran signora sofisticata, con la voce impostata, senza spostare gli occhi, sfidandomi, si sfila la collana e mi interroga. Si libera degli anelli, e interroga il mio sguardo. Accenna al brillante e alza le spalle: “E proprio carino il mio… Ferry. Forse un po’ mammone. Ma mi vuol bene”. Gli occhi son accuratamente truccati e un po’ miopi. Li fa ancora più fessure. Passa la lingua sulle labbra e torna ad interrogarmi. In un’ultima provocazione. Si toglie gli occhiali e appoggia anche quelli al tavolino. Assume un’aria accondiscendente e rassegnata: “Come vuoi”.

L’avevo interpretata come una di quelle che se la tira. Con un po’ di puzza. Che ha sempre un’opinione, anche quando parlano gli uomini. Che ti fa annusare l’odore. Il profumo. Che ti gironzola intorno. Cerca di portarti a guinzaglio. Cerca il complimento. Ti blandisce ora in modo suadente, ora in modo elegante, sofisticato, ora in modo impertinente sfiorando raramente la audacia. Che adesca solo per amor proprio, per poi lasciarti di stucco senza nulla nella rete. Rete. Non c’è mai stata troppa confidenza tra noi. Non è mai appartenuta al gruppo più ristretto. Mai entrata nel novero dei miei veri interessi. Sì! l’avevo notata, ma distrattamente. Solo per il suo modo di fare, e perché stava con Ferruccio. Forse mi dice: “Qui o là per me non cambia.” –non la sto più ascoltando. In cuore mi dico solo e orgogliosamente “Qui e là”. Naturalmente seguo opportunamente e senza fretta il suo consiglio: mi accomodo sul divano. Vicino a lei. Finalmente tace. Mi faccio più vicino. Sorride. Molto più vicino. Sorride. L’abbraccio. Credo che sorrida ancora. La bacio. Risponde disinteressatamente al bacio. La cerco. La trovo. Sospira. Mi lascia entrare in confidenza. Il seno è più di quanto mi avesse lasciato immaginare. L’abito un po’ mi aveva mentito. Il resto non mi resta che scoprirlo da solo. Scoprirlo. Cerco di infilare la mano. Ormai completamente curioso di lei. Non è che un attimo. La sua mano mi ferma. Si appoggia al mio petto e mi allontana leggermente. Mi fissa negli occhi. Ha un aria quasi di rimprovero. Resto interdetto. Contrariato. Incredulo. Perplesso. Cosa c’è? Torna a sorridermi: “Però dopo… se mi prometti… facciamo un gioco. Ti faccio un indovinello. Sai, ho visto un abitino. E’ una cosettina, ma è proprio bello. Non posso chiedere a lui. Se non indovini metti sul tavolino, cento euri. Gli altri venti ce li ho io”.
Ride del mio imbarazzo. E’ tentata di consolare la mia impazienza. Aveva, per un solo attimo, abbassato gli occhi come una santerellina in preghiera. Non era riuscita a tenerli bassi che per un momento. Non voleva chiedermi veramente scusa. Li riporta dentro i miei, fiduciosa. Non potrei mai dirle di no. Tanto meno ora: “E se indovino”?
Si sente molto sicura: “Il soldi non sono tutto. Cosa centra? Mi valuti tanto poco? Quelli sono solo la quota. –si toglie le sue invisibili mutandine per metterle tra il bicchiere e il piatto. Approfitta per bere un altro sorso. Gli occhi ammiccano e si fanno spudorati.– Quelli puoi metterceli anche subito sopra. Credo di essermeli già guadagnati. Che pensi? E poi non centrano con quello che stiamo…. Ormai lo farei lo stesso anche se non l’avessi visto. Sei carino. Sei stato gentile. Mi fai divertire. Abbiamo mischiato i ruoli e le parti. Non mi era mai successo. Così. Forse mi hanno educato nella menzogna. Se però indovini la risposta, né dubito, vorrà dire che in cambio io, senza nemmeno rivestirmi, ti faccio cena; invece delle tartine. Quelle se segui il mio consiglio ti durano; in frigo. Insomma cena in casa o mi porti a cenare fuori”.
Prendo le mutandine e le porto al naso. Aspiro. Segue il mio gesto e condanna, con compiacimento, la volgarità del mio fare. Mentre la lascio ancora, per un attimo, in attesa della risposta affondo le mie dita in lei. Non se la prende. Sorride. Mi lascia fare. Fiduciosa. Sospira soddisfatta quando mi vede infilare la banconota in quel respiro di tessuto impalpabile. Alzo il suo stesso calice e aggiungo solo: “Affare fatto”.
Si mette comoda. Alza le mani in segno di resa. Sorride soddisfatta. Si lascia togliere il vestito. Mi esorta nuovamente a guardarla, fiera. Mi consiglia a non avere troppa fretta. Abbiamo tutto il tempo che vogliamo, e anche di più. Non è una donna da rinunciare ad avere l’ultima parola: “E’ solo perché è tanto carino. Credimi. Dovresti vederlo. Anzi, se vuoi, vengo a fartelo vedere”.
Solo per i soldi le sarebbe bastato limitarsi a chiedermeli. Ma forse sto lasciando parlare il mio orgoglio. O forse lo sapeva fin dall’inizio. La guardo e non mi sembra più la stessa. Mi pare diversa. Certo per quel poco l’avevo sempre vista vestita. Vestita anche di sobrietà e di alterigia. Vestita e fuori dalle chiacchiere. Mi domando se anche quella presunta volta seguente… se… cioè… se verrà… quanto mi costerà. Quanto mi potrà chiedere la prossima volta per vederlo, e quanto per toglierglielo. Se il prezzo è lo stesso per levarselo e farselo sfilare. Quanto pensa possa valere ogni suo capo di abbigliamento. Per esempio quelle sue mutandine. O una delle sue scarpe. Una di quelle calze. A questo proposito, non so se perché se ne è scordata ma, non le ha tolte. Poi smetto di pormi domande. Ringraziando Vanessa.

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Una tazzina di caffèNon saprei dire dove nasce il nostro amore per il caffè. Forse è sempre esistito con noi. E’ il luogo. Il momento. Il rifugio. E’ l’angolo consolatorio. Si possono scrivere tante storie su questo amore. E tante di tutti i generi. Io stesso, o meglio il mio io narrante ne ha scritte. Storie di tutti i generi. Tra vita e finzione. Da quelle più brevi ad alcune da lasciare il segno. Dal sacro al profano, fino al più profano. Il nostro mondo vive seduto davanti ad un tazza di caffè. Corre, su8da ma quando si ferma e per sedersi davanti ad una tazzina di caffè. Quando proprio il tempo non lo consente: in piedi ma sempre con la tazzina in mano. Tutto è riconducibile ad “un caffè”?
A volte quel caffè riporta ricordi d’infanzia, lontani, persino quando sono amari. Quando quei ricordi rischiano di far perdere il gusto per il caffè. Lo stesso suo odore rammenta quei vecchi ricordi. Rende certi incontri indelebili. Il caffè è una cerimonia. I vecchi amici si ritrovano davanti ad un caffè. Si cementifica un incontro. Si plaude all’amicizia proprio perché è la scusa per sorseggiare un buon caffè. O, al diavolo tutto, solo per lo stesso pretesto. Si fa tutto per un caffè. Tutto tranne ammazzare, o forse no. Ma il caffè è sempre fraternizzante. E’ la vera droga.
Ci si ripromette un caffè con un amico lontano. Che speri di incontrare, o tornare ad incontrare. E allora la scusa di sedersi attorno ad un caffè è la più naturale, anche se la più banale. Sia liscio che corretto. Ci si consola dopo un lutto. Persino quando ti trovi in mezzo intrigato anche senza volerlo. E non sai come toglierti dall’impiccio. Che magari dopo il lutto e le condoglianze, dopo tutto, prima di andare, lo prenderesti anche quel caffè. E capita che la vedova sia tanto sconsolata da scordarselo. E ti resta l’amaro in bocca. E mica puoi aggiungerci qualche cucchiaino di zucchero. Quello resta.
Il caffè è proprio il massimo. E’ il rifugio per nascondere un imbarazzo. Perché ad una signora mica lo puoi dire. Figuriamoci se può farlo lei. Perché le donne non sono tutte come Caterina detta Tina disposte a chiederlo senza giri di parole, papale papale. Così con Lidia alla fine non l’ho mai preso quel caffè. Spesso è solo appunto quel pretesto, magari per un’avventura fugace. Perché penso che quella volta Eva in verità si sia fatta circuire per un caffè. All’inizio non capivo certe sottigliezze. E’ un mio difetto di fabbrica. Mi sembrava assurdo che Carla si spogliasse praticamente nuda per chiedermi se avevo voglia di un caffè. Che Giovanna usasse quella scusa per invitarmi a salire. Ma frequentando si impara. E’ la vita. E oggi, quando vado da Irene, glielo dico subito che “il caffè me lo prendo dopo, a casa”. Diversamente come potrei spiegarlo a mia moglie.
Impari appunto ad usarlo come fosse una metafora. Per dire qualcosa che non puoi o non sai dire. Perché noi maschi siamo fatti così. Per sembrare sembriamo tutti leoni. Spacchiamo il mondo. E poi ci inteneriamo davanti ad un sorriso e una svelata lusinga. E’ stata lei a dire sulla porta: “Posso offrirti un caffè”? E io ottuso: “L’ho appena preso, grazie”. E lei caparbia e indignata del mio rifiuto: “Ma allora sei proprio stupido”. Al che io, che lo avrei preso volentieri quel caffè, ma anche per malsana educazione, non mi volevo contraddire: “Come preso”. Ero proprio stupido, allora. Ma ero solo poco più di un ragazzo. Sopra la sua risata ho cercato di salvare capra e cavoli: “Magari un’altra volta. Magari più tardi”. E lei spazientita: “Mi spiace, sto uscendo”. E doveva ancora truccarsi e finire di vestirsi. Son tornato con la voglia del caffè.
Come con quella mignotta, ma questo molto dopo, che si è sentita lusingata; che ha trovato romantico che le chiedessi: “Posso offrirle un caffè”? Solo che alla fine esistono perfino donne che non ci mettono malizia. E di quelle è meglio diffidare. E allora è meglio precisare: “Non ho nemmeno il tempo per un caffè”. Solo che Sonia mica s’è arresa. Mi ha risposto: “Non penserai veramente che ti ho invitato a prendere un caffè solo per prendere veramente un caffè”? Meglio non pensarci. Non seriamente. Ne sento ancora l’odore in bocca. Un caffè prima di ogni battaglia. Non c’è donna né altra diavoleria che possa togliere all’italiano il gusto per il caffè. Il caffè resta tutto. Il mattino, ogni mattino che il buon dio, o chi per lui, manda al mondo, la vita stessa inizia con un caffè. Col suo borbottio sul fuoco. Fino a diventare poesia. Perché, come si diceva fin dall’inizio non c’è nulla che funzioni meglio che rifugiarsi in una tazza di caffè. Ormai è la nostra filosofia di vita. Cosa viene in mente anche davanti alle più grandi venture se non: “Pazienza, dai. Prendiamoci un buon caffè”? Il massimo è quando lei me lo porta a letto.

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E noi, davanti a questo mare
–fetida pozza d’acqua
sepolcro delle nostre vergogne,
ossario–
cerchiamo di dimenticare,
ma se sappiamo ascoltare
il silenzio in silenzio
allora potremmo sentirlo,
con onde solo placide all’apparenza,
ancora raccontare di storie lontane
e magari finanche di velieri e imprese
e dell’orribile pesca temiamo
le membra straziate
poiché non c’è pace se non è di tutti
e non c’è libertà se non per tutti
e non c’è giustizia nel sonno pasciuto
giacché non c’è futuro senza lotta,
e a riva porta il corpo del pesce,
questo mare,
e resti di vecchie parole
e persino gesti stanchi
rassegnati
e allora tutto è perduto
ma infuria tra le onde
di rabbia la sete di giustizia
e nuove grida si staccano dal silenzio
non c’è perdono per i carnefici,
non ci sarà,
sbarca a riva la miseria
e il mare si lascia alle spalle
per una nuova speranza
ché il mondo è stato creato senza frontiere.

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pittura con tecnica mista su cartone telatoE cerco me
in tante vite vissute
e cerco me
in tante vite perdute
frammenti sono
che la memoria tradisce
quando si avvina il tempo
per dar spazio alle memoria
e lacrime pensanti appaiono
in questa ricerca vana
per le persone vive
che son rimaste foto
e per le immagini che non sono
e non saranno più.
E’ quel più a far paura
sul fare della sera
quando certi silenzi narrano
e certe narrazioni si tacciono
per cercare me, anche loro
e frugare in cassetti nascosti
per non fare attenzione,
il rubinetto gocciola
echi ossessivi
che non puoi cancellare
che gridano note dissonanti,
e allora…
cerco me per non trovarmi
in questo gioco che consuma vita:
cerco me tra le tue braccia
dove nascondo la smorfia di quelle immagini
dove il viaggio si fa veleno
mentre la vita si inventa da sé
apre la porta e fugge
cerco me dove non sarò mai

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Da Fiorenzo Fiorito senza la sua autorizzazione, e senza punteggiatura
Il sonno del mio respiro
si confonde con le voci della strada
certi incontri appiccicano
come resina d’albero giovane
raccontano di occhi e capelli
fra pensieri che migrano
da una vita a un altro ascoltatore
in questo parlare a volte discreto
a volte no
in questa fatica senza tempo
le perle di sudore
gelano al vento di promesse fuori tempo
fra il mio cuore e la strada
il futuro
teso
come corda d’arco
non mi lascia dormire
per l’impazienza di nuove conquiste
Ecco cosa succede quando dentro un amico brillante, gigione, simpatico, scopri poesia, e di cui ha taciuto; persino il titolo diventa arbitrario. Chiamo a testimonianza il bravo e generoso amico Stefano, proprio affinché troppo buono: l’attore dovrebbe essere un abito, e limitarsi a vestire la parole altrui. Magari declamare un grande poeta arabo e che so io? Ci vorrebbe un’immagine a suggellare il gusto e l’incontro, ma non l’ho. Ne scelgo una e non è nemmeno mia che dice quanto dobbiamo ancora imparare ad ascoltare. Ci vorrebbero parole altrettanto precise e lievi. E alla fine ripetere un abbraccio. Proprio per quella fatica senza tempo, per le ore che sono sempre troppo brevi, per inseguirlo ancora e ancora. So che ci aspetta ancora un piatto caldo e un buon bicchiere di vino.
e vi regalo una canzone:

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Ci fermiamo in un posto emblematico. Un crocevia. Dove è cominciato tutto. Dove Jaffa diventa Tel Aviv o Tel Aviv diventa Jaffa. O dove Tel aviv, “collina della primavera”, finisce e comincia Jaffa. O dove Jaffa o Giaffa finisce per diventare Tel Aviv. Uno di quei bivi della storia. Uno dei tanti. Uno dei tanti bivi delle storie palestinesi. Davanti a noi c’è una costruzione, ora c’è anche un bar. Ha un numero che di per se è testimonianza dura. Siamo al 48. Da una parte movevano quelli dell’Haganah[1] (La Difesa), dall’altra avanzavano i terroristi assassini della Banda Stern, ma potevano anche essere quelli dell’Irgun o altri cani simili. Belve assetate di sangue. Senza pietà. Poco più avanti c’è un vecchia casa palestinese. L’ultima dell’intero quartiere. Anche su quella gli occupanti hanno voluto porre in segno dell’invasore. Lo potete vedere nella foto. In quei giorni tragici quando hanno cominciato ad urlare le armi la gente scappava e correva e moriva e resisteva. L’ultima flebile resistenza cercò di difendere la moschea. Al posto del popoloso quartiere ora c’è un parco. Le case e la gente è sepolta sotto quell’erba, quei viali, l’asfalto di un parcheggio. C’è anche un parco per gli animali. Non un posto per i palestinesi musulmani. Isolata c’è la moschea nel mezzo del parcheggio. La moschea è stata ricostruita, coi soldi dei sopravvissuti, di chi ha avuto pietà, ma è vietato l’uso come luogo di fede.
Davanti a quella moschea ci fermiamo a parlare e a guardare le foto che ricordano quei giorni e quella storia. Ma non sempre la storia si limita alle pagine dei libri, tutt’altro, spesso ne esce, si fa protagonista, scende nelle cose, si fa trovare. Qualcuno approfitta per fumare. Qualcuno, pochi, si distrae. C’è un po’ di brusio, di chiacchiericcio. Un palestinese si tiene in disparte e pare interessato a quello che dice il nostro accompagnatore. Luisa gli si avvicina. Luisa è una persona incredibile. Speciale. Dovrei spendere pagine di parole per parlare di lei. Luisa è Resistenza. Luisa ha un cuore enorme. Insomma Luisa è Luisa. Parla in disparte, sottovoce, con quell’uomo dall’aspetto umile e remissivo. Torna con lui per raccontarci che lui è uno dei sopravissuti, degli scampati a quell’immane eccidio. Lui cerca di aggiungere qualcosa: in quella fuga ha perduto due fratelli. Erano solo bambini, come lui. La ferita di quel dolore non s’è mai rimarginata. Come può un tormento simile trovare pace? I suoi occhi si riempiono di lacrime. Si allontana velocemente per rifugiarsi nel pudore del suo taxi. Aspetto che torni. Non posso che dirgli grazie e abbracciarlo. Sento le sue ossa contro il mio petto. Siamo fratelli e vorrei portare un po’ di quel peso. Gli chiedo scusa per una colpa che non ho. Non ho alcuna colpa di ciò? Dai suoi occhi tornano a sgorgare lacrime che questa volta si mescolano alle mie.
Più avanti c’è una casa diroccata e ricostruita ora usata per testimonianza dall’altra parte, dal sionismo, scusate la volgarità. Sul muro sbrecciato una targa che inneggia alla “liberazione”. I morti tacciono e giacciono sotto terra. Le macchine passano sopra e parcheggiano. Dovrei forse ammirare l’ironia di questi occupanti? Dovrei forse imparare qualcosa dall’ironia della storia? Intorno si alzano grattacieli in una città senza anima, senza passato, senza amore. Luisa ha detto che chi vuole possedere non sa amare. Mi son scritto queste parole che trovo giustissime e bellissime. Sotto i nostri piedi scorrono i fiumi di sangue. Il terreno ha provato ad assorbirli. La gente ha provato a dimenticare. Ha voluto dimenticare. Spero che la vergogna torni a trovarli ogni notte. Torni magari declamando i nomi di tutte quelle vittime. Ora al loro posto c’ Tel Aviv e Jaffa, due città senza un’anima. E il traffico corre veloce, come scappasse. E il cielo è imbronciato. E oggi persino il mare mugugna. Vieni in Palestina e sai che la Palestina ti cambierà. Un pezzo di Palestina ti si conficca nel cuore, non puoi che portarlo con te. Soffri, ti indigni, anche sogni, ma non puoi che tornare innamorato della Palestina.


[1] organizzazione paramilitare ebraica in Palestina durante il Mandato britannico dal 1920 al 1948.I tuoi occhi sono una spina nel cuore
lacerano, ma li adoro.
Li proteggo dal vento
e li conficco nella notte e nel dolore
così la sua ferita illumina le stelle,
trasforma il presente in futuro
più caro della mia anima.
Dimentico qualche tempo dopo
quando i nostri occhi si incontrano
che una volta eravamo
insieme, dietro il cancello.
Le tue parole erano una canzone
che io tentavo di cantare ancora,
ma la tribolazione si era posata
sulle fiorenti labbra.
Le tue parole come la rondine
volarono via da casa mia
volarono anche la nostra porta
e la soglia autunnale
inseguendo te,
dove si dirigono le passioni.
I nostri specchi si sono infranti
la tristezza ha compiuto 2000 anni,
abbiamo raccolto le schegge del suono
e abbiamo imparato a piangere la patria.
La pianteremo insieme,
nel petto di una chitarra;
la suoneremo sui tetti della diaspora
alla luna sfigurata ed ai sassi.
Ma ho dimenticato,
oh tu dalla voce sconosciuta!
Ho dimenticato,
è stata la tua partenza
ad arrugginire la chitarra,
o è stato il mio silenzio?
Ti ho vista ieri al porto
viaggiatore senza provviste, senza famiglia.
Sono corso da te come un orfano
chiedendo alla saggezza degli antenati:
perché trascinare il giardino verde
in prigione, in esilio, verso il porto
se rimane, malgrado il viaggio,
l’odore del sale e dello struggimento,
sempre verde?
Ho scritto sulla mia agenda:
amo l’arancio e odio il porto,
ho aggiunto sulla mia agenda:
al porto mi fermai
la vita aveva occhi d’inverno,
avevamo le bucce dell’arancio
e dietro di me la sabbia era infinita!
Giuro, tesserò per te
un fazzoletto di ciglia
scolpirò poesie per i tuoi occhi
con parole più dolci del miele
scriverò sei palestinese e lo rimarrai.
Palestinesi sono i tuoi occhi,
il tuo tatuaggio.
Palestinesi sono il tuo nome,
i tuoi sogni
i tuoi pensieri e il tuo fazzoletto.
Palestinesi sono i tuoi piedi,
la tua forma,
le tue parole e la tua voce.
Palestinese vivi, palestinese morirai.

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