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Archive for the ‘La logica del Lui’ Category

Faccio l’agente di commercio e sono continuamente in macchina. Ne ho viste tante da non poterle ricordare ma quella con lei, con quella ragazza, non la posso scordare. Rimane e rimarrà un ricordò indelebile. In verità era una giornata come tante. Temevo di sbattere addosso all’ennesima buca; visti i tempi che corrono. Non si vende ormai più niente. Recuperare i soldi della benzina è giù troppo. «Passerà.» mi stavo dicendo quando la vidi. Accostai. Mi capita spesso di prendere su qualcuno. Anche per fare il viaggio in compagnia. E fai salire di tutto, lo sai solo dopo. Mi sorprese perché pensai che avrebbe dovuto essere a scuola, ma sono uno che si sa fare gli affari propri. Non glielo chiesi. La squadrai mentre si avvicinava. Mise dentro la testa dal finestrino: «Vado verso la fiera. E tu»? Gli dissi «Sali!», non allungavo di molto e non avevo appuntamenti per quella mattina. Aveva un buon profumo, forse un po’ troppo intenso. E continuava a masticare una gomma. Non era bella ma era giovane, e carina. Ed era vestita che pareva aver mandato a memoria tutti i modi per dire “Guardami”: top aderente e minigonna, più che mini. Accavallò le gambe e subito cambiò stazione all’autoradio finché non ne trovò una dove anche i commentatori rapavano. E per un po’ viaggiammo in silenzio. Lei, gli occhiali sul naso e quell’aria indifferente. Io, la controllavo con la coda dell’occhio. Sembrava non portare reggiseno, ma poteva ancora permetterselo. Di tanto in tanto mi studiava e finiva col sorridere o col ridere. Aveva un bel sorriso, molto aperto, ma una risata un po’ troppo rumorosa. Poi ruppe il silenzio all’improvviso; forse sentandosi osservata: «Tu, non me le togli le mutandine… perché… me le tolgo da sola». Aveva qualcosa di Marinella, uno dei miei primi amori di adolescente, forse i capelli, e qualcosa di tutte le ragazze della sua età. Aspettai come se dovesse aggiungere qualcos’altro. Invece fece passare la mano sotto la gonna dalla parte della portiera. Le sfilò veramente con gesto disinvolto, facendole scivolare allegramente con perizia. Poi, con gesto quasi indispettito, le buttò sul cruscotto, subito davanti al volante. Non aveva gli occhi molto truccati, la sua aria era un po’ da collegiale. Quella espressione attonita di innocenza, che trasmette l’istinto di proteggerla. Lo smalto blu sulle unghie. Il vento le scompigliava i capelli. «Io mi chiamo Eleonora e tutti mi chiamano Eleonora. E tu? Quanti anni hai»? Pensare a quelle mutandine ovvero a lei senza mi metteva in un leggero senso di disagio. Era un po’ bambina e un po’ donna, la situazione era intrigante. Era passato fin troppo tempo da quando ero stato ragazzo. Non riuscivo a prestare tutta la mia attenzione alla strada, solo a pensare a quello. E le poche volte che ero vicino a riuscirci me le vedevo davanti al naso. Erano piccolissime e a righine multicolori: «Quarantaquattro. Quattro quattro». Legge un messaggio al cellulare. Risponde al messaggio. Parla a qualcuno che non c’è. «Due più di mio padre. E come ti chiami che non l’ho capito»? Le dissi il mio nome mentre ero tutto attento ad un sorpasso. Non credo facesse alcuna differenza. Lo ricordo come ora, in quel momento alla radio passavano un bravo carino tutto in romanesco. Mi capita ancora di canticchiarmelo. Allora lo sentivo per la prima volta. Volevo chiederle cos’era. Volevo chiederle tante cose. Non sapendo da dove cominciare non cominciai. Credo di aver solo aggiunto balbettando che viaggiavo per lavoro. «Piacere. Sei sposato»? Forse lasciai passare un minimo di incertezza prima di rispenderle di . «Meglio. Cioè»… E rise. Non capii e non ci pensai. Non le chiesi spiegazioni. Cercavo di fare solo attenzione alla guida, ma il mio pensiero era sempre lì. Si sfilò i saldali. La strada scorreva veloce. Sembrava un’anima in pena. Si sistemò meglio sul sedile. Si sposto una ciocca dagli occhi. Si controllò sullo specchietto sporgendosi leggermente verso di me. Mise i piedi sul cruscotto e la gonna le scivolò ancora più su. La sistemò o almeno cercò di farlo. Quella la fasciava e non c’era altra stoffa. Un articolato ci superò sul cavalcavia e le suonò. Mi fece sentire ancora la sua risata tutta soddisfatta. Poi gli mostrò il medio e per un po’ restò fiera di sé. Lui tornò a guardare l’orologio e lei a guardare il tomtom. Aveva un aria annoiata e gli occhi verdi o forse grigi. «Quella era una specie di area di servizio»? «Hai bisogno? Vuoi che ci fermiamo»? Non c’era molto intorno: Uffici e capannoni, e rivendite di macchine. Qualche pubblicità. Un cartello di “Spazio inutilizzato”. Brevi intermezzi aperti trascurati, erba secca e alberelli sofferenti. Un senso abitato di desolazione. Nemmeno un cane se ti serviva una indicazione. Insomma il paesaggio solito che ti accoglie prima di arrivare in centro. Persino i cartelli stradali soffrivano una estranea solitudine. «Se non trovi un posto, ti inventi una cosa, …io sono quasi arrivata. Le son tolte per niente». La prima volta con lei è stato in macchina. Un po’ complicato ma neanche troppo. Con i camion che la facevano vibrare. Insomma abbiamo fatto di necessità virtù. Aveva appiccicato la gomma sotto il cruscotto per poi potersela riprendere. Da quella volta quella ragazza mi è entrata nel sangue. Ci vediamo ancora. Ho la fortuna che il mio lavoro mi lascia tutto il tempo libero che voglio e mi da tutti gli alibi che mi servono per casa. E poi Marisa si fida, non è mai stata gelosia. Solo preoccupata quando sono fuori che non mi succeda qualcosa. Eleonora ha continuato a togliersele da sola, e non sempre con me; lo so. Non ci posso fare niente. A volte nemmeno le mette, esce già senza. Non so perché, so solo che non potrei rinunciare a lei. E mi ha spiegato che avevo ancora tanto da imparare.

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Foto di donna in cucinaIo non ci pensavo proprio, non fosse stato per lei non ci avrei mai pensato. Per la verità proprio non lo sapevo. Prendo quel maledetto autobus tutti i giorni per andare al lavoro. Mi scoccia muovere la macchina. Sono soldi mal spesi. Non che ci manchi, quello certo no, ma non è certo un modo buono per buttarli. Lei lo sa, ma le bugie, come si dice, hanno le gambe corte. Le donne sono stupide, e lo sono di più quando vogliono fare le furbe; mantenere un segreto. E una mattina me la vedo passeggiare con uno. La sera gli chiedo e lei è elusiva. Mi dice che è un collega, un tale Giannantonio, anche gentile. Niente di più, niente di meno. E’ proprio quell’essere evasiva, la sua vaghezza, a mettermi la pulce. Non un vero sospetto. Solo un malessere senza senso a cui al primo momento non avevo dato credito. Ma il dubbio è una cosa che spesso monta col tempo. Sarà la crisi del settimo anno o che altro. Sarà che un po’ sento di averla trascurata. Sarà che sono a combustione molto lenta. Sarà quel che sarà ma scopro di poter conoscere una punta di gelosia. So che non lei, che lei non lo farebbe mai, ma un giorno telefono e mi prendo ferie. C’è il bar proprio davanti al nostro portone e lì mi apposto. Dopo una mezzora la vedo uscire. Vuoi vedere che s’è fatta guardinga, e attenta. Seguirla non è un reato, e nemmeno poi così difficile. Sembra sentirsi sicura di sé quanto di me. Mi crede già alla mia scrivania. Pare non avere nessuna fretta. Al semaforo all’angolo ecco chi ti incontra se non Giannantonio. Sale in punta di piedi per un bacio sulla guancia. Niente di che. Lui è abbastanza alto. Molto, direi. Mi tranquillizzo, ma qualcosa non mi torna. Per entrare entrano nel portone delle generali. Ancora niente di strano, lì ci lavora. Sono stato proprio uno stupido. Poi mi domando perché un collega dovrebbe andarle incontro.
Ci giro intorno tutto il giorno e la sera e la notte ed il giorno successivo. Gli chiedo com’è andata la giornata. Mi risponde tutto monotonamente normale. Mi giro nel letto. Decido di farle una sorpresa. La sera vado ad aspettarla. Esce sottobraccio a Giannantonio. Come mi vede si stacca. Le spiego di essere passato per portarla a prendere una pizza. Me lo presenta e saluta il collega con una stretta di mano. Mi spiega che non è proprio un collega ma il suo capo direzione. Mastico la pizza in silenzio e mastico amaro. Si è staccata dal suo braccio con imbarazzo. La pizza mi resta sullo stomaco e non solo quella. Appena a casa cerco di parlarle. Lei mi da del pazzo. Io insisto. Mantiene la sua versione sulla mia pazzia e il suo amore. Perché dovrei saperlo? So solo che nessuna rassicurazione mi può convincere. Un po’ alla volta mi altero e la mia voce sale di tono. Mi invita a calmarmi. A letto torno sul discorso con molto delicatezza. La assicuro che in fondo sarei anche in grado di capirla, senza rassicurare me.
Alla fine lei cede, scoppia a piangere e confessa. A sentire lei è tutta colpa mia. Sono cambiato e la trascuro. E’ stata solo una follia, un errore, una debolezza; nulla di importante. Aveva bisogno di tornare a sentirsi donna, di sentirsi desiderata. Mi rinfaccia di aver scordato il compleanno. E l’anniversario. Di non saperle parlare che di lavoro. Di averle fatto mancare anche quel poco. Sono furibondo, le sputo addosso i peggiori epiteti. Mi prega di non alzare la voce. In realtà le mie erano parole violente ma non stavo gridando. Non voglio che i vicini sentano. Non so che fare. Ci addormentiamo dandoci le spalle. In realtà sospetto che nemmeno lei sia riuscita a dormire bene. Non faccio che rimuginare dentro. E più ci penso più sale la rabbia, e con la rabbia scopro nascere della curiosità. Inizialmente vorrei solo trovare una risposta ai primi elementari perché. Eppure mi aveva messo sull’avviso mia mamma, per quei capelli e quella kappa nel nome. Non c’era di che fidarsi. Ma i giovani non vogliamo mai accettare la saggezza degli anziani.
Allora m’era sembrata una stupidaggine. Insomma stavo per uscire senza nemmeno farmi la barba. Passo il giorno a guardare l’orologio. A cena non riesco ad alzare gli occhi dal piatto. Mi chiede per l’ennesima volta scusa. Mi assicura che era fuori sede. Che appena lo vede fa finire quella follia. Dice che non vuole più vedermi così. Ch’è pentita. Voglio sapere tutto. Dove. Come. Quando. Quanto. Mi giura su sua madre. Mi giura che non dura da più di due mesi. Sessanta giorni, mi sembrano un eternità. Capisco il suo imbarazzo. La invito a continuare. La incoraggio; e la sollecito. La prego di andare avanti. Com’è cominciata mi pare di poca importanza. Non è una scusa che sia stato lui a corteggiarla e che le abbia, seppure per un attimo, fatto perdere la testa. Veramente lei dice che si tratta della tramontana. Mi sembra un dettaglio irrilevante. Sono decisamente geloso, e un po’ invidioso. Mi sento sotto esame. Provo fastidio e aumenta la curiosità. Più lei parla e più le chiedo. E con la curiosità appare dentro di me una strana sensazione. Non fossi così furibondo direi che il suo racconto non manca di provocarmi una leggera eccitazione. Anzi mi sento attratto come da tempo non mi succedeva. Devo ammetterlo che quella notte abbiamo fatto all’amore e che è stato bello; particolarmente bello. Lei mi nascondeva il viso sulla spalla ed è tornata a piangere, ma in silenzio. Non ho sentito i suoi singhiozzi ma le lacrime scivolarmi sulla pelle. Ero tentato di dirle che la perdonavo. Ero tentato di staccarla e dirle che non le credevo. Che doveva pensarci prima. Ma era tutto così fantastico che alla fine sono sprofondato in un sonno pesante e ristoratore.
Le ho detto che non mi sarebbe dispiaciuto di incontrarlo, il mio rivale. Alla fine abbiamo deciso di invitarlo una sera a cena. Ero emozionato aspettando quella cena e non sapevo cosa aspettarmi. S’è presentato con un paio di bottiglie di brunello, il che non guasta; e testimoniava del suo buon gusto. D’altra parte Monika era una sufficiente garanzia; è ancora bella come allora. Era elegante ed educato e garbato e sapeva intrattenere; era un buon parlatore. Aveva attenzioni e parole carine per lei ma restava molto misurato. Non avessi raccolto le confessioni di mia moglie niente avrebbe potuto mettermi il minimo sospetto. Doveva essere il vino ma mi sentivo elettrizzato. L’ho pregata di essere gentile con lui. Tutto sembrava filare bene. La cena era ottima, anche in cucina quel diavolo di mia moglie ci sa fare. Quando sono andato a raggiungerla per aiutarla a portare i contorni l’ho pregata di essere carina con lui. Le ho detto che i suoi perché non richiedevano nemmeno una risposta. Che volevo vedere. Lui pareva accorgersi appena di lei. Abbiamo scoperto di essere tifosi della stessa squadra. La serata stava diventando eccitante. L’ho implorata di essere più libera. Mi ha chiesto quanto. Certo che le donne sono ben strane. Le ho spiegato che insomma… un po’ maliziosa; anzi proprio provocante. Non la conoscevo sotto quella veste. Era una Monika nuova; una vera scoperta. Lui faceva fatica a mostrarsi indifferente. E più lui faticava più lei sembrava metterci impegno. Ero così curioso della situazione e degli sviluppi che stavo scordandomi di me. Fossi stato più presente credo che il poveretto non avrebbe mancato di farmi pena. Mi fossi controllato di più mi sarei reso conto che mi stavo eccitando come non lo ero mai stato. Alla fine a lei bastò guardarmi per capire. Intanto la distaccata e controllata signorilità, quasi indifferenza, di Giannantonio si trasformava in imbarazzo. Aveva smesso di essere carino per essere solo sudato. La cravatta lo soffocava.
Vederla amoreggiare con un altro sotto i miei occhi mi rendeva letteralmente pazzo. La volevo e volevo vederla farlo con lui. In quel frangente Monika si stava rivelando una vera artista, un vero diavolo. Riusciva a mostrare con attenta disinvoltura ogni sua avvenenza, e poi sempre più con spudoratezza. Sfoderava sorrisi amicanti, anzi proprio porchi. Ogni volta che si piegava i suoi seni rischiavano di esondare dagli argini, di fuoriuscire. Ogni volta che si chinava era un lacerante grido e una promessa. Sì, perché è proprio bella la mia Monika. Non me n’ero reso conto a sufficienza. Lui non sapeva più come comportarsi e alla fine ha dovuto fare lei, ha dovuto arrangiarsi da sola, davanti ai miei occhi sgranati. Ha dovuto fare e disfare. Liberarlo da quella ragionevole riservatezza e degli abiti dopo essersi liberata dei suoi. Con una sfacciataggine talmente disinvolta da far sembrare tutto normale. Erano proprio belli e non voglio dire di più perché non sarebbe nemmeno carino. Non l’ho amata con tanta violenza nemmeno quando eravamo solo due studenti. Da quella prima volta Giannantonio viene a cena da noi ogni giovedì. Non hanno più bisogno di nascondersi e di chiudersi in uno squallido ufficio. Lei non ha più potuto lagnarsi della mia insensibilità e d’essere trascurata. E io ho scoperto cos’è il vero amore. Ma per questo fine settimana ho invitato Carloalberto. Lui è un tipo molto meno signorile; è uno spiccio; un vero maschio. Con lui ho già chiarito tutto. Può fermarsi tutta la notte da noi. Voglio che lei lo faccia uscire di testa. Spero solo che lo sappia trattenere almeno fino a fine cena. Mi aspetto che lui le dia una… una bella passata. Già me li vedo davanti agli occhi.

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Icona con volto di uomo bello1. Quando era nato gli avevano imposto un nome importante: Amedeo. Se ci avesse pensato lo avrebbe trovato anche ingombrante, non lo fece. Amedeo era così, non amava particolarmente complicarsi la vita. Era rimasto orfano di quei tempi difficili. Per lui tutti quegli anni erano solo un numero. E non aveva mia chiesto la parte per la quale era caduto il padre. Certe cose preferiva non approfondirle. Il passato è passato proprio perché resta indietro. E ci si può liberare con minima fatica. Di quel padre non portava nessun ricordo. Né si era dato cruccio di indagare sul perché portava il cognome della madre.
Amedeo non era sempre stato bello. Non è che lo fosse diventato da un certo punto. Semplicemente, come avviene per tutti, aveva subito fino ad allora e con fastidio le semplici attenzioni che sono sempre riservate ai bambini, anche un poco idiote, che sembrano sempre dedicate alle mamme e prive di alcun rapporto con la realtà; quello che verrebbe definito un semplice complimento, se vogliamo un poco ipocrita, ma un vezzo sempre e da sempre diffuso. E questo aveva smesso di lusingarlo prima ancora di cominciare. Tanto quelle lodi erano dette senza convinzione e subito tutti tornavano alle proprie chiacchiere. E lui non indugiava già da allora troppo nel compiacimento, cioè non aveva mai avuto consapevolezza di essere veramente affetto da quel vizio. E di correrne i pericoli. Inoltre mai avrebbe sospettato che la sua vita avrebbe potuto essere così condizionata dal suo aspetto. Non aveva nessun motivo per chiedersi alcunché e per passare più tempo dello stretto necessario davanti allo specchio.
Ne aveva avuto consapevolezza solo verso i quattordici anni. A quell’età gli stava cambiando la voce, ma non aveva notato altre particolari trasformazioni. Certo s’era allungato, come molti dei suoi compagni, e aveva provato a fumare di nascosto, ma i veri mutamenti erano naturalmente così lenti che ad una osservazione così continua non potevano che passare inosservati. A rendere evidente questo suo difetto era stata la più banale delle frasi detta dalla signora Argentina, una amica della madre, mentre le due donne prendevano il tè: “Amedeo si sta facendo proprio un bel giovanotto”. Non ci avrebbe nemmeno prestato attenzione se dopo, e nemmeno aveva dovuto aspettare troppo, non si fosse trovato a tornare ad imbattersi sul ricordo per quella frase premonitrice.
Improvvisamente quella donna, che aveva sempre mostrato una grande cura mal riposta della propria persona, gli era sembrata nervosa. Non aveva aspettato molto, era bastato che sua madre andasse nell’altra stanza a prendere degli altri biscotti, perché lei ripetesse il complimento direttamente sulla sua persona: “Sì! ti stai facendo veramente un bel ragazzo. Chissà le ragazze”. E aveva un leggero rossore nelle gote. Di tutte quelle chiacchiere, e delle altre, nessuna l’avrebbe incuriosito se fossero semplicemente restate relegate a quel contesto e quel momento. Non avrebbe nemmeno dato peso alla mano che gli era scivolata calda e leggera sul ginocchio. La madre era tornata subito e la signora aveva tolto il contatto frettolosamente, come fosse un gesto sconveniente; da nascondere. Ma sul suo viso un sorriso era cambiato e si mostrava sempre più in imbarazzo, come avesse una sua idea a distrarla e allo stesso tempo cercava in tutti i modi di indirizzare le frasi a lui e di richiamarne l’attenzione.
La vedeva anche molto più vecchia di quei suoi quarant’anni mentiti, ma questo è del tutto normale nei ragazzi a quell’età. La donna non si era certo persa d’animo nel constatare che quel ragazzo non subiva il fascino dei suoi inviti; se non aveva reagito quando lei lo aveva, silenziosamente e con grande lavorio di sguardi, attirato a far scivolare gli occhi dentro la sua scollatura, offerta allungandosi più volte verso il tavolino, o lungo il riflesso del nailon sulle sue gambe. C’è da aggiungere che a quel tempo il giovane Amedeo era completamente sprovvisto di qualsiasi difesa e che non aveva mai colto nemmeno gli inviti delle sue coetanee, ma la cosa non è così insolita. E poco conta che quello che la donna aveva da raccontare e mostrare potesse non apparire, come dire? fresco e particolarmente invitante. Semplicemente non s’era avveduto di nulla e cercava di aspettare senza troppi grattacapi che finisse l’incontro di sua madre con la sua ospite. Non ci si meraviglia, e lui non aveva malizia, quando le cose ancora non si conoscono ed è facile capirle solo dopo. Così non gli sembrò strano quando lei si offrì per aiutarlo nei compiti di greco. Inusuale ma non troppo strano. Certo rifiutare sarebbe stato sgarbato e lui aveva solo pensato che sapeva cavarsela da sé e temeva il continuo pigolare e spettegolare della donna.
Lo aveva preso per mano lungo il corridoio e sembrava lei accompagnarlo. A lui ancora nulla gli sembrava troppo insolito e allarmante. La mano della donna era morbida e curata, le unghie appuntite e smaltate accuratamente d’un rosso acceso, e Amedeo sentì che le trasmetteva il suo calore. E lei sembrava diventata allegra come per un improvviso mutamento d’umore; con la voce ancora più stridula. Era irrequieta e appena passata la porta si premurò di chiudersela dietro e dimostrò di avere una frenetica impazienza. Con suo stupore Amedeo si sentì chiedere un disperato: “Cosa aspetti?”, ma già, senza bisogno di risposta, si era aggrappata a lui. Le labbra, dal rossetto dello stesso colore accecante delle unghie, si erano appiccicate alle sue, la lingua si era fatta largo nella sua bocca e la mano si era fatta intraprendente dentro i suoi pantaloni. Precipitosa allora lo aveva spinto sul letto quando era ancora in preda della sorpresa, e tutto era stato più che affrettato. Lui non aveva posto resistenza e lei gli aveva piantato le unghie sulla schiena e aveva confermato in un lungo sospiro che era “bello e ben proporzionato, anzi anche di più”. Amedeo non era certo che stesse succedendo e che stesse succedendo proprio a lui. Aveva continuato a temere che la madre potesse entrare, lei sembrava nemmeno intimorirsi di farsi sentire.
Gli disse subito che non aveva intenzione di negargli nulla e in base a quei suoi propositi si comportò come una donna poco timorata e priva di inibizioni e incontentabile. Al ragazzo era anche sembrato sconveniente quel dire le cose della donna. E capì da solo che non poteva essere un complimento quando lei gli sussurrò comprensiva: “Peccato! Dovrai imparare ad avere meno fretta. Non ci pensare, te lo insegnerà la zia”. Il titolo che s’era data da sola sembrò ad Amedeo ridicolo e quelle parole gli parvero suonare di più come una minaccia. Per gli amici, cioè per i suoi coetanei sarebbe stata una cosa di cui vantare orgoglio; fierezza: un ragazzino giovane e una donna matura. In verità provò a ripeterselo in testa. Gli regalava solo un leggero senso di vergogna e di imbarazzo non completamente chiarito. Non era ancora in grado di capire che gli erano state tolte molte, se non tutte, delle emozioni di quella sua età. Da quel momento non avrebbe più potuto, come gli altri, scoprire le ansie delle giovani passioni per gradi. Lui, da lei, aveva avuto, come gli aveva promesso, tutto e subito.
Non era quello il momento, e non era lui la persona, da andare troppo per il sottile. Nemmeno in seguito avrebbe mai imparato ad amare i sofismi. Lei aveva anche voluto che lui la vedesse nuda. La cosa lo aveva ulteriormente colto di sorpresa anche perché si era sentito involontariamente eccitare. Sul momento ancora non si poteva rendere conto di come la sua vita sarebbe cambiata, o meglio come sarebbe per lui cominciata una lunga e penosa nuova vita. Fu dopo che capì di soffrire per quelle due pene: essere bello e essere uomo. La sua bellezza gli attirava tutte le attenzioni di tutte le donne. Come uomo, in quanto maschio, non avrebbe impunemente potuto rifiutare le attenzioni di nessuna donna pena la condanna da parte delle stesse e la derisione degli uomini.
Che un gesto come quello di cui s’era resa protagonista la impetuosa signora Argentina, che gli aveva chiesto di chiamarla Tina, si potesse definire violenza non aveva nessun sospetto. Comunemente viene ritenuto che un uomo non possa subire violenza da parte di una donna, e generalmente nessun uomo si rende disponibile a definire un gesto simile come una colpa o un atto colpevole o deplorevole, ma più come una gran botta di culo. E poi, a pensarci, quella brava donna non aveva fatto altro che metterlo davanti alla realtà e a se stesso. Doveva esserle grato? Era solo impercettibilmente annoiato.

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Nello studio tutto ordinato il giovane avvocato, con un aria molto paziente, si rivolge alla sua prima cliente: “Mi chiami pure avvocato”.
La sposina è una giovane donna elegante, bella della sua giovinezza, ma dall’aspetto un poco freddo e accigliato: “Avvocato devi chiederlo a Lui, al mio signor marito, se non è tutto vero. Chiediglielo e poi ridiamo. E’ proprio tutto da ridere. Se non fosse che mi ha rovinato la vita: Anzi no, lasciamo perdere, meglio che parli io”.
Il marito può avere, su per giù, la stessa età della donna; magro e abbastanza alto, curato anche nei particolari, porta occhiali con montatura leggera in metallo: “Che parole grosse per niente. Lo so che la faccenda sembra strana. Tutte le cose che non sono frequenti, che escono dai comportamenti di tutti i giorni, possono sembrare strane. Ma strano poi perché? Strano è solo che tu, cara, abbia voluto fare tutto questo polverone e mettere di mezzo estranei. Sbattere i nostri panni in strada. Scusi sa! non per lei avvocato. Se permette le spiego; almeno per quello che consta a me”.
L’avvocato guarda entrambi con un sorriso comprensivo: “Niente! non è niente! Eppure sembrate persone tanto ragionevoli, possibile che non si possa addivenire ad un accordo. Dirimere la questione in via amichevole e trovare un modo di pacificazione? Io sono sicuro che troveremo assieme un punto di riconciliazione”.
La sposina ha il pepe addosso; lampi di rabbia ne illuminano gl’occhi dando luce all’intorno. Perde piccoli sorrisi sarcastici che lancia al marito e sorrisi di cortesia per l’avvocato. Tutto questo da vivacità e significato a quel viso; gli dona ricchezza e movimento: “Lui spiega. Ma cosa spiega Lui? E’ ridicolo. Ma come si può avere la spudoratezza di parlare. E tu, fai presto tu, avvocato a parlare, ma con chi stai? e non fare l’avvocato; vorrei vederti te nei miei panni; pur con tutte quelle tue parole. E allora vedere se parli così”.
Il giovane avvocato si difende spostando e rispostando distrattamente le poche cartelline pressoché vuote accatastate davanti a lui, sulla pesante scrivania: “Andiamo con ordine, per favore; cominciamo dall’inizio e con calma. Se non vi dispiace vi chiedo io… perché vorrei capirne qualcosa di questa ingarbugliata storia. Al di là di quello che lei, signora, mi ha detto per telefono e anche delle aride parole scritte che molto non dicono e che sembrano scritte per non far capire e che poi non ho neanche avuto il tempo di guardare”.
La sposina sorride solo a lui e insuperbisce il volto nell’ignorare volutamente il marito rappresentando melodrammaticamente il ruolo di chi detesta: “Fai pure; come vuoi”.
L’avvocato sembra rasserenato d’aver trovato una prima soluzione, d’aver messo ordine nella tempesta che sembrava per scoppiare. Sa che finché parla lui gli sarà più facile mantenere ordine e governare la situazione: “Allora da quanto tempo è che siete sposati”?
Il marito parla molto composto misurando le parole e centellinandole come un vino prezioso: “Anch’io continuo a pensare che tutto non si possa che riaggiustare. Certo è un piccolo capriccio di donna anche se non me lo aspettavo proprio da mia moglie. E’ una donna molto sensibile, lei non può nemmeno immaginare quanto. Con lei riesco a parlare di tutto ma proprio di tutto. Ci siamo sposati circa tre mesi fa. Ci siamo maritati esattamente il 2 novembre”…
La sposina, che esaurisce velocemente la sua pazienza condita di commiserazione, lo interrompe bruscamente: “Tu, avvocato, devi dire a quello… al mio signor marito che deve lasciare parlare me. Non sono forse io che… la parte in causa. Si! quel disgraziato giorno è stato proprio circa tre mesi or sono; il due di novembre. Una giornata di… ricordo ancora che pioveva …e poi dicono sposa bagnata”…
Il marito sembra in grado di continuare a controllare completamente le proprie reazioni: “Non mi sembra il caso, cara, che fai così. Tutta questa acredine e realmente esagerata e immotivata. Non vedi che rischi di sfiorare il ridicolo e farci ridere dietro. E poi il signor avvocato finirà con il non capire niente”.
La sposina, come fosse indignata, non regala uno sguardo al marito: “Ridicolo un corno. E poi tu, avvocato, digli che non si deve intromettere e che non si deve più rivolgere a me”.
L’avvocato ancora paziente: “Calmatevi, per favore, e parliamo uno alla volta. Mi spieghi lei allora, signora, che forse è meglio”. E si sbottona la giacca.
La sposina liscia la gonna, la corta gonna che finisce poco sopra le ginocchia, e si dà un contegno: “Bene. Allora, stavo dicendo prima di essere interrotta da… da quell’essere infame”.
Il marito sorride alla moglie che visibilmente fugge lo sguardo girando violentemente il capo: “Non ti sembra di essere eccessiva; cara”?
La sposina sembra sul punto di infuriarsi: “Lo senti? lo senti? avvocato, se poi vengo interrotta sempre, forse è meglio… forse… non riesco a spiegarti. Eccessiva… poi. Come tutte le donne, qual’è quella donna –e la voce si fa concitata– che non lo sogna? Ho sognato tutta la vita il matrimonio in chiesa, l’abito bianco, la gente che ti guarda con ammirazione e che piange perché ti vuole bene, i fiori e la chiesa preparata a festa, e tanti fiori, e gli invitati al pranzo con i brindisi, e tutte quelle cose lì; insomma. Mi ero già raffigurata tutto”.
Il marito, mentre scrocchia nervosamente le dita in segno di imbarazzo, cerca un sorriso molle per la donna senza riuscire ad incrociare il suo sguardo: “E non lo hai avuto; tutto questo? Con quello che ci è costato… un abito bello come il tuo non si vedeva da anni”.
La sposina indispettita si alza, fa due passi attorno alla sedia, torna a sedersi; la gonna le lascia leggermente scoperte le gambe: “Vuoi farlo stare zitto; insomma. E poi i soldi, dei soldi si preoccupa Lui. Fossero i soldi”…
Il marito paziente, anzi servile: “Vorrei solo aiutare e capire cosa veramente mi si può rimproverare”.
L’avvocato interrompe l’uomo: “La prego! lasci parlare sua moglie”. e si allenta la cravatta.
La sposina ha un sorriso di trionfo verso l’avvocato: “Ecco, bravo! finalmente hai capito. Lo vedi avvocato, lo sa, lo sa bene –e sussurra– quel verme, –poi riprende col tono precedente– lui, avvocato, lo sa benissimo cosa c’è che non va. Lo sa benissimo e poi fa finta di non capire e fa quella faccia da finto tonto che mi da tanto sui nervi”.
L’avvocato le sorride e sprofonda nello schienale della poltrona con l’aria di chi si accinge ad ascoltare con tutta la propria comprensione una lunga spiegazione: “La prego! non si interrompa, signora. Vada avanti e cerchi di essere il più chiara possibile. Cosa c’era che non andava nella cerimonia”?
La sposina fulmina il marito con un unico sguardo d’acciaio e si aggiusta il collo della camicetta con civetteria tornando a rivolgersi all’avvocato: “Ecco, vedi, scusami ma mio marito fa di tutto per confondere le cose e per non farti capire. Poi io passo per una povera scema e Lui, quel coso…. alla fine spera di aver ragione”.
La sposina alzandosi: “No! no! per carità! nella cerimonia è andato tutto bene e tutti hanno pianto e dovevi vedere anche tu, avvocato, con quanto impegno tutti piangevano. E io ho lanciato i fiori ad Elvira; ma chissà se mai li raccoglierà per davvero quella stupida che, certo che anche con quel fisico, ma aspetta sempre l’uomo che non c’è e io gliel’ho detto sempre che deve prendere le occasioni al volo altrimenti il tempo vola prima ancora che se ne possa accorgere e poi si ritrova sola e inacidita dentro. Non ritieni anche tu avvocato? non ho forse ragione? Ma lei è testarda, sai avvocato come sono testarde quelle donne che non hanno mai imparato a camminare coi piedi per terra, mentre io… non per dire. –Si accosta a un quadro appeso alla parete– E’ originale questo o è una stupida copia? Intendevo dire che ci vuole praticità nella vita”.
L’avvocato segue con lo sguardo la donna e ne valuta la figura impreziosita dal vestito elegante: “E allora, signora, cosa c’era che non andava? Mi faccia capire”.
La sposina tornando sui suoi passi: “Di solito sono una ragazza calma; calma e riflessiva. Ma anche tu avvocato, se ti fossi preso la briga di leggere, non dico tanto, avremmo fatto certo più in fretta. Ora almeno cerca di portare un po’ di pazienza e di prestarmi ascolto. Se ti ci metti anche tu non riuscirò mai a spiegarmi”.
La sposina sedendosi: “In chiesa è andato tutto bene, ancora mi commuovo a pensarci; che mi viene una rabbia… E il prete ha fatto un bellissimo sermone. Si! si! per quello che conta, per tutta la vita ha detto; anche al ristorante è andato tutto bene, tutto a base di pesce, tante portate che si era perso il conto, e un torta enorme e tutti contenti a gridare e a inventare brindisi e a lanciare le solite frasi sibilline, anzi proprio esplicite, proprio questo, e giù tutti a ridere e alla fine eravamo anche noi un po’ brilli. E’ stato dopo. Tutto è cominciato dopo. Per meglio dire tutto è finito; dopo”.
L’avvocato mostrando di sforzarsi per capire: “Come dopo? Si spieghi meglio signora”.
La sposina assume brevemente un’aria di sufficienza: “Dopo. Per dopo intendo dopo. Dopo vuol dire solo dopo. Ne più ne meno dopo. Come faccio a spiegartelo? non fare l’ingenuo più ancora di quello che veramente sei. Quello che non ha funzionato è quello che è successo dopo. O per meglio dire quello che non è successo dopo. Mi spiego meglio. Come dicevo tutte le donne sognano il giorno del loro matrimonio tutta la vita ed è un giorno importante”.
L’avvocato: “Continuo a non capire”. E slaccia il bottone del colletto della camicia.
La sposina in modo indisponente; gira un tagliacarte fra le dita poi, parlando, lo ripone sulla scrivania: “Ma ci fai o ci sei? Ogni donna sogna tutta la vita il giorno del suo matrimonio, ma… come dire, sogna il giorno ma anche la notte. Quella che chiamano luna di miele. Quella maledetta prima notte. Il giorno tutto bene, dicevo, ma la notte niente”.
L’avvocato scotendo leggermente la testa come cominciasse a sentirsi confuso: “Vuole dire… niente”?
La sposina ancora più indisponente: “Ecco, bravo il mio avvocato, vedi che se hai pazienza, e ti impegni, cominci a capire anche tu. Allora, …senza essere volgare, ce ne siamo andati in macchina, fra i lazzi e gli schiamazzi degli amici e dei parenti, come ti ho detto e come si può immaginare, trascinando i soliti barattoli (una catena lunga alcune centinaia di metri almeno) e durante tutto il viaggio avevo continuato a fantasticare, si! era stato un viaggio sufficiente per sognare quella notte tanto che quello che mi aspettava mi aveva riempito la testa, dietro i barattoli ballonzolavano e richiamavano l’attenzione della gente, e il portiere dell’albergo ci aveva lanciato un signori e un sorriso carichi di malizia, e la direzione era stata tanto carina e ci aveva inviato una bottiglia di spumante buono che tanto dopo ce l’hanno fatto pagare, questo è certo, e quando siamo stati soli ho chiesto di andare in bagno e tutti i miei sogni si sono ripetuti in un solo istante dentro quella stanzetta nascosta dalla porta e mi sono lavata e profumata che dovevo sembrare una di quelle, senza togliermi il trucco perché volevo apparirgli bella il più possibile, e mi sono messa una vestaglia che avrebbe fatto risuscitare anche un morto e quando mi sono guardata allo specchio ero bella che adesso può anche non sembrare forse ma ero bella sul serio perché ero ancora tutta preparata mentre oggi sono uscita di fretta così com’ero, ma quando sono uscita, ci avrò magari messo anche molto, ma quando sono uscita …insomma niente. Lui ha continuato a leggere e basta”.
L’avvocato mostra sorpresa: “Mi sembra di capire che lei rimprovera qualcosa a suo marito per la prima notte di nozze”?
La sposina spalanca gl’occhi: “Qualcosa per la prima notte di nozze? Io rimprovero a …quell’ …uomo tutto, altro che la prima notte di nozze. Rimprovero la sua indifferenza. Rimprovero la sua crudeltà. Lo rimprovero di non avermi guardata punto come fossi trasparente di cristallo. Ma non corriamo troppo”.
Il marito sembra annoiarsi: “Niente! non mi sembra proprio preciso; anzi esauriente. Si può anche pensare che non ti abbia guardata nemmeno”.
La sposina con un lampo degl’occhi, talmente rapido da essere quasi impercettibile, uccide il marito che finge di continuare a vivere solo per far lei dispetto: “Sentitelo! Mi ha detto qualcosa del genere che non gli sembrava il caso, con tutta l’indifferenza di cui può essere capace un verme. Che non lo trovava necessario, capisci? Anzi, non mi ha detto proprio niente. I suoi occhi fatui e vuoti si sono alzati solo un attimo e non mi ha nemmeno veduta ed è tornato a leggere. Provai un’enorme stretta al cuore. Non so se si può dire, si! l’avvocato è come il confessore infondo, mi sono rimessa le mutandine e sono andata anch’io a dormire; spero solo che tu possa capire cosa vuol dire questo per una donna”?
L’avvocato stacca gl’occhi della donna per guardare verso l’uomo in modo impreciso: “Vagamente. Credo di sì”. E si asciuga il sudore dalle mani con un fazzoletto di carta profumata che estrae da un distributore in cartone leggero appoggiato sopra il tavolo.
La sposina pretende l’attenzione dell’uomo di legge tutta su di sé: “Credi? Proprio un uomo mi doveva capitare. Voi credete sempre di capire ma poi… sempre uomini siete. Insomma mi sono detta sarà la prima sera, forse è in qualche modo imbarazzato, e che ne sò cosa può passare per la testa di un novello sposo, e poi nemmeno io ero mai stata sposata. Forse è emozionato. Certo che non è una grande consolazione. E allora ho provato ad aiutarlo. Gli sono anche andata vicina, veramente mi sono proprio attaccata a lui, gli sono andata addosso e gli ho strusciato il seno sulla schiena, e ho un seno che è bello sodo, non c’è che dire –e con fare provocante si rassetta la camicetta sul seno– ma di questo mi devi credere sulla parola, comunque non sono certo tette –col palmo della mano accarezza la stoffa e anzi la fa aderire alla forma del corpo per mettere in evidenza le rotondità del suo seno e poi si slaccia un bottone– che si possono ignorare ma, se anche poi il messaggio non lo avesse capito, nel dubbio, l’ho persino toccato. E’ stato allora e solo allora che mi ha detto quella cosa come ‘non mi sembra il caso’. Ma cosa vuol dire non mi sembra il caso? Tutto e niente. E’ stata una notte d’inferno e ho anche faticato a prendere il sonno e lui gentilino gentilino mi chiede con quel fare cortesemente stupido se la luce mi da fastidio. «Vuoi che la spenga? cara!» mi dice l’imbecille sdolcinato”.
Il marito verso la donna in modo suadente: “Ti prego di non fare così! cara. Non essere volgare con l’avvocato. Mi chiedo che idea si può fare di noi”.
La sposina scuote la testa in un colpo secco come a cacciare le parole del marito: “Se intendi delle mie tette non si può che fare una bella idea, se invece intendi di qualcos’altro non si può che fare l’idea di quello che sei. Ma perché proprio a me poi doveva capitare un uomo… un uomo… così? –solo allora si rende conto di essersi rivolta direttamente al marito e ha un moto di stizza– Avvocato! come te lo devo dire che non voglio essere interrotta da lui e che non gli voglio parlare? Insomma, lasciamo stare il mio petto. Non è poi questo che qui conta ma volevo solo farti capire che non ho nulla di cui rimproverarmi. Poi proprio a Venezia dovevamo andare. Venezia, non so se ci sei mai andato, è una città che non perdona. Ci sono solo amanti, cioè innamorati, e gondolieri. Non per niente tutti lo sanno che è una città puttana”.
L’avvocato: “Se mi vuoi aiutare –ma subito si corregge– …signora, se mi vuol fare capire, cerchi di attenersi ai fatti”.
La sposina ha un sorriso diabolico: “E questi che cosa sono se non fatti? Avrei dovuto sospettarlo durante quando eravamo fidanzati che tutti gli altri non se lo erano mai fatto ripetere. Ma pazienza la prima notte. Sarà stata la prima notte, mi son detta. E così andiamo in giro come sposini e come turisti per questa città che come ho detto è… ti affascina sempre. Andiamo in giro tutto il giorno con gl’occhi pieni di meraviglia, stavo dicendo, e lui è stato tanto premuroso e coccolo ma poi la notte niente; anche la seconda notte niente. Avevo fatto tutto anche meglio della sera prima e anche se non era proprio la prima ed era invece la seconda mi sarei accontentata lo stesso e sarebbe stata ugualmente la nostra prima notte. E invece niente. Eh no! dico io. Mi ero proprio indispettita. Va bene una ma anche la seconda; questo non lo potevo proprio sopportare. Gli ero andata addosso con il mio respiro sul collo, dentro le orecchie, in lui e ancora lo avevo toccato e provocato che più di così non si può e, non per modestia, ma ci so fare quando mi ci metto. Mi devi ancora credere. Ma lui niente. Mi ha detto «stai buona, cara» e che non lo trovava necessario. E io continuavo a dirmi che tanto ogni notte era buona per essere la prima notte ma cominciavo a sospettare di illudermi e che qualcosa non andasse”.
Il marito mostra un ombra di sorpresa: “Io non vedo niente di strano. E di illuderti poi non ci ho mai provato”.
L’avvocato distratto dall’uomo: “Scusi, taccia lei e lasci parlare la signora”. E ha un gesto sfuggente d’intesa con la giovane sposa.
La sposina lo coglie al volo e trionfa: “Ecco! bravo, lo faccia star zitto; finalmente. Necessario… un boia, dico io, certo che è necessario e allora lui mi rigira con un mare di parole e con un’infinità di discorsi pieni di assurde scuse, come sa fare bene e ha sempre fatto, e io penso che forse forse sono stata cattiva con lui e troppo severa e che qualcosa non va e che bisogna avere pazienza; ma quale pazienza? Tutta la luna di miele, di miele –e ha un tono fortemente derisorio nella voce– la chiamano, è stata così: di giorno Venezia e di notte niente. E di notte pazienza. E dopo il ritorno così ancora; una vita completamente senza sale. Ogni sera c’era una scusa nuova, non proprio una vera scusa ma, insomma, riusciva in qualche modo a trovare il modo di non farlo. E non che io non ci abbia provato in tutti i modi. Una donna non dovrebbe essere costretta a tanto. All’inizio con modi più velati, per esempio lo pregavo di porgermi l’asciugamano, che fingevo di scordare, mentre in bagno mi facevo la doccia ed ero tutta nuda ma lui era come se non vedesse. Oppure lo pregavo di insaponarmi la schiena e lui ancora niente; proprio come se non capisse, come se parlassi in arabo, e le sue mani fossero insensibili, guantate di guanti che non lasciano filtrare nessun calore ne forma, eppure sono una donna… e allora dopo la schiena anche il resto. In tutti i modi ho cercato di provocarlo. Mi vergogno, e ne arrossisco, solo a pensarci. Poi sono stata anche più esplicita”.
L’avvocato poggia lo sguardo sulle ginocchia della donna: “Più esplicita quanto? Mi scusi signora, ma …prima”?
La sposina si accorge degl’occhi dell’avvocato con palese soddisfazione: “Esplicita esplicita. Gliela ho messa in mano nel vero senso della parola, proprio in mano e lui come se niente fosse dopo un attimo di indifferenza si è scostato. E poi prima? Prima, mi sembra un secolo fa. Prima era stato come e fra tanti i fidanzati come ho già accennato. Era stato sempre caro e dolce, molto comprensivo e corretto. Forse un po’ troppo corretto e noioso. Ma eravamo fidanzati. Non che fosse la mia prima volta. E’ naturale che avevo avuto altri prima di lui e sapevo bene come vanno le cose, si non ero proprio una novellina. Anche in base a questo posso affermare che quelle notti le ho provate tutte. Avevo avuti altri, dicevo, ma lui era così per bene che piaceva tanto anche a casa, aveva una buona posizione e come parlava bene. Ecco, maledette le parole. E io stupida l’avevo preso per rispetto e allora mi ero rassegnata e mi ero detta tanto vale; non che fosse stato facile e che in cuore mio avessi messo così facilmente da parte ogni speranza ma poi non sò nemmeno io come ma è andata così. Quanto meglio era… lasciamo stare, almeno lui non parlava punto e andava subito al sodo. E invece, con questo qui non si arrivava mai al sodo; cazzo! Ecco, cazzo, questo era il punto, si parlava tanto e poi si parlava ancora e se ne restava lì moscio e io con un pugno di mosche in mano; anzi con il pugno di pelle di niente, in mano”.
L’avvocato cerca di sostenere lo sguardo della donna: “Vuole dire che né prima né in tre mesi…”?
La sposina divertita: “Proprio così, spero che adesso cominci a capire. In tre mesi niente. Nisba! Tre mesi di giorni ma soprattutto tre mesi di notti e niente. Glielo proprio sbattuta in faccia, e mica faccio per dire, mica a parole. Le ho provate tutte”.
Poi l’avvocato si rivolge all’uomo che infondo rimane di una tranquillità impassibile: “Ma lei… insomma”?
Il cadavere del marito imperturbabile; incapace di emozione: “Mi si lasci parlare; finalmente. Posso spiegare. No! non credo di aver nessun problema, anzi ne sono sicuro, sono un uomo normalissimo. Mia moglie non è la prima donna della mia vita, non è la prima neanche per me, ci mancherebbe altro. Ci conoscevamo da tre anni e con lei mi sono sempre trovato bene ma non so come spiegare… Lei sapeva ascoltare bene e anche quando parlava non era mai sciocca. Ammetto che non è facile trovare una donna come lei, almeno così mi sembrava, e ancora adesso lo credo. Lei non solo mi sa ascoltare con attenzione e pazienza ma mi sa anche capire, e sa rispondermi cose sensate e sembra amare le stesse cose che amo io. E’ per questo che mi sembra tutto tanto assurdo. Come posso essermi sbagliato? In certi momenti provavo quasi più piacere ad ascoltarLa che a parlare. Ma, lo dica lei, cos’è una moglie se non la migliore delle amiche possibili? Non è forse qualcosa che sta là in alto, sopra ogni cosa; quella persona a cui puoi dire anche le cose che hai sempre nascosto in fondo a te stesso? C’è qualcosa di più? Non deve essere forse questo una moglie”?
L’avvocato con fare di rimprovero: “In linea di massima o di principio non posso darle torto. Ma non pensa che una moglie può non essere solo questo”?
Il marito indifferente, le pupille vuote, il corpo comincia a esalare i fetidi vapori funerei: “Non riesco a capire? Mi sembra così semplice eppure così naturale. Possibile che neanche lei non riesca a capire. Mia moglie per me è una grande amica. Certo la più grande delle amiche. Una donna a cui non potrei mai mancare di rispetto. Si può amare con tanta forza, tanto intensamente e venire rimproverati per questo? Si può rimproverare un amore tanto grande fino a trasformarlo in colpa e usarlo per mandare a monte un matrimonio, per chiedere una separazione, che poi è una cosa sempre dolorosa per tutti? E’ una colpa amare tanto”?
La sposina ormai trionfa sulla morte: “Naturale e semplice un paio di balle. Amica! sai dove me l’attacco quella amica? Lo puoi immaginare avvocato dove io mi attacco quella amica? Certo che lo sai dove che me la attacco. Non sei un ragazzino più nemmeno tu. E poi, per dirla tutta ha anche una pronuncia francese che fa schifo. I maudit vuole citare e quando lo fa è la loro maledizione. Lo chiami amore questo amore? dove non si fa mai all’amore? Ma almeno tu mi vuoi capire”?
La sudorazione dell’avvocato è diventata una tempesta: “Signora io capisco ma la prego di controllarsi”.
La sposina si accalda: “Ascolta me ora, pezzo di pervertito, e ascoltami anche tu avvocato, come posso controllarmi? Fosse facile eppure le senti le idiozie che dice?Rispetto. Amica. Amica un piffero. Io non sono Carlotta, ne tanto meno Madre Teresa di Calcutta, e non lo voglio essere; perdio. Sono una donna giovane e sana. Una donna –la sposina si alza– che le ha tentate tutte. Tutte per un amore da niente e non mi sono mai sentita così sporca; anzi –la voce si trasforma e passa dai toni freddi e taglienti a toni morbidi e suadenti fino a toni morbidissimi e fascinanti– così porca. Una troia, una troia sono diventata per lui e lui manco mi guardava. Ma come puoi capire tu, avvocato. Ecco! guarda. si può rinunciare a gambe come queste? hanno qualcosa che non va queste gambe? –e si alza con una lentezza esasperante le gonne per scoprire le gambe– Non sono forse perfette? Io non ho niente di cui vergognarmi. Posso mostrarle, io, le gambe e anche il resto”.
L’avvocato, nell’avvicinarsi della donna, è visibilmente imbarazzato, la sua bocca è secca e si rintana nella poltrona senza riuscire a fuggire: “No! certo che no! ma la prego signora”…
La moglie sempre avanzando lentamente verso l’avvocato è costretta a girare torno alla scrivania e continua a sollevare le gonne: “Lo vedi come sono perfette, e senti che carni sode che hanno. Io sono una gran donna e lui mi getta via e mi tratta come una puttana. Manco mi guarda il mandrillo. Ma si può rinunciare a una donna come me? E il meglio devi ancora vederlo; te lo giuro. Più su è ancora meglio; adesso ti faccio vedere io avvocato il paradiso. Il mio amore non è mica una di quelle passerine tutte raggrinzite o tutte pasticciate. E’ carne di prima scelta, senti qua. –la voce della donna perde veemenza e diventa suadente e morbida– Però, guarda il signor avvocato come suda. E come si è fatto rosso. E come si fatto gonfio il porcellino. –ormai è sopra l’avvocato– E dire che non si sarebbe pensato proprio. E come si è fatto grosso. Chi l’avrebbe mai detto. E come ti si è fatto duro. Fammi sentire e non fare il villano. E senti che buon sapore hai, sapore di avvocato. Non avevo mai assaggiato un avvocato. Non mi scappi più caro mio”.
L’avvocato guarda implorante verso il marito poi gl’occhi si fanno una polla d’acqua ferruginosa e lo sguardo si perde nel niente: “Devo dirvi la verità: voi siete i primi clienti della mia vita, e vorrei tanto accontentarvi, in qualche modo esservi utile. Ma anche lei, benedetto uomo, possibile che non possa fare un piccolo”…
Il marito ora sembra sicuro di sé e parla più tranquillo anche sfruttando della distrazione della moglie: “Ho provato, ho provato, ho provato a dirglielo in tutti i modi. Lo vede ora, caro avvocato, lo vede anche lei com’è la situazione. Mia moglie ne sta facendo una malattia per niente. Povera cara, forse è stata la tensione delle nozze, ma credo che lei ne abbia fatto una fissazione. Ma di cosa si può lamentare? non le manca niente. Non ci manca niente. Io la amo troppo. Ho cercato di spiegarglielo in tutti i modi. Io la amo più della luce dei miei occhi, parlerei con lei notti intere perché nessuno è mai stato come lei per me ma come faccio a farglielo capire se lei non mi vuole più parlare”?
C’è un interminabile attimo di silenzio, rotto solo dai sospiri affannati dell’avvocato, poi la donna si alza, si passa il dorso della mano sulle labbra e guarda i due uomini con uno sguardo chetato: “Forse hai ragione avvocato e io sono proprio una stupida. Sono proprio contenta di essere venuta da te. Forse ho esagerato ma cerca di capire, mettiti nei miei panni, anzi lascia stare perché nelle mie mutandine non saresti proprio una bella figura; ma dimmi allora, a parte gli scherzi, una ragazza seria sogna il matrimonio tutta la vita e poi si trova fra i piedi questo schifo qua. Cosa deve fare? Allora perché ha sognato tanto? Una donna a modo dovrebbe farlo solo col proprio marito, farlo e non andarlo a raccontare in giro, io.. io mi trovo a raccontare che non lo faccio, e invece io proprio con lui non lo posso fare e lui mi ha sposato. Ma si! forse a volte sono solo convenzioni; –e si rivolge al marito– e tu sbrigati che dobbiamo andare”.
Lei si è rassettata e mentre marito e moglie si alzano per uscire l’avvocato senza potersi alzare dalla sedia: “Ma signori, e per la parcella”?
La moglie girandosi brevemente e lanciandogli un ampio e luminoso sorriso: “Lasciamo stare, avvocato per oggi offre la ditta. Vorrà dire che anche questa volta l’ho fatto gratis e non sarà certo questo a rovinarmi. Tanto… Sarà per la prossima volta. Arrivederci. Ricordati di rimetterlo via e di chiuderti i calzoni. –ridacchia prima di proseguire- Nel contempo cerca una soluzione per il mio piccolo problema perché non può continuare così e non è che poi neanche tu alla fine, con tutte le tue …parole, mi hai convinto troppo”. E strizza l’occhio.
Solo dopo che la coppia è uscita dall’ufficio l’avvocato cerca di ricomporsi: “Vediamo il prossimo, il secondo cliente della mia vita; e speriamo bene”. Ma i suoi occhi sono rossi e stanchi.¹


1] scritto circa il 20 marzo 2002

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Niente di grave che il programma non avesse preventivamente individuato e bloccato. Un po’ di affollamento nella quarantena. Nessun virus. Qualche spam. Niente di più. Un unico indirizzo e qualche mail fermata direttamente dal server che fornisce il servizio. Era solo l’unità C piena; piena e incasinata. Il solito limite di un gestione fatta partizionando il disco. Non aveva mai capito quella politica. Prima o dopo lo spazio diventa stretto. Solitamente molto presto. E c’era l’esecuzione automatica da pulire. Ma l’unità centrale era zeppa di file anche inutili e doppi. Qualche copia era stata causata dai soliti programmi che, come sempre, gestiscono malamente la registrando più volte lo stesso file. Quasi tutti erano solo questione di sbadataggine o incuria. Non si poteva far altro che cancellare. Dopo non si sarebbe risolto nulla ma almeno si sarebbe potuto lavorare con meno fatica e meno avvisi. In realtà la macchina aveva fatto il suo tempo. E lui non poteva starsene lì. Gli ci sarebbe voluto troppo tempo. E non era andato per quello. Gli aveva solo chiesto una cortesia. Gli avrebbe detto di farlo lui; con tutta calma, in seguito.
Aspettando di mettersi a cena aveva cominciato a gironzolare nei contenuti. Mentre girava qualcosa di inutile aveva cominciato a toglierlo. Soprattutto mp3 e immagini che queste ultime sono anche molto pesanti. Poi era stato incuriosito dal none della cartella, Brillantina. Il contenuto era di immagini porno. Con directory recanti il nome delle protagoniste. Niente di trascendentale. Chi non ne ha? Immagini più o meno porno. In parte scaricate dalla rete e in parte no. Le solite immagini, non sempre obbligatoriamente troppo spinte. Giovani ragazze in bikini, poi seni, sederi, etc. e poi anche immagini più esplicite: di veri e propri atti sessuali. Accoppiamenti. E tutte le variazioni. Rapporti di tutti i tipi, naturalmente. Multiformi. Singoli e multipli. Senza che l’insieme lasciasse vedere una predilezione. C’era una di colore. Sembra ci debba sempre essere una di colore. E sembra anche che loro lo facciano con maggiore allegria. In fondo sono tutte uguali. Alla fine possono anche annoiare. E poi c’era, non poteva mancare, uno colorato. Non proprio nero ma proprio esagerato.
Poi c’erano quelle altre, le seconde; quelle prese nel locale o comunque quelle di Ernesto. Ernesto aveva sempre avuto la passione per la fotografia. In quel caso c’erano molte più immagini, soprattutto di ragazzine, ma anche di altre donne di tutte le età, intente semplicemente a divertirsi. Quasi innocenti. E quelli erano tutti scatti fatti dentro. Molte mostravano semplicemente momenti di bevute. Qualche laurea. Qualche compleanno. Incontri meno numerosi. Cene. Una certa cordialità e non molto di più. Risate e qualche bacio. Qualcuno che allungava la mano. Con l’altro o altra che ne era compiaciuto e lusingato. Finto coraggio. Donne orgogliose di sé. In alcune però non provavano imbarazzo anche se si rendevano conto che nello scatto lasciavano si vedessero, più o meno chiaramente, le mutandine. Anzi ne sembravano divertite. In alcune non avevano nessun imbarazzo a gonfiare il seno. Ma anche a spingersi e denudarlo. Si vede di peggio andando al mare. Ma in qualcuna addirittura scostavano il bordo di quelle mutandine per farsi vedere e fotografare quasi con orgoglio. E spesso quelle che lo facevano erano così giovani. Quelle immagini non erano meno imbarazzanti.
Qualcuna si spingeva anche oltre. Casualmente la navigazione pareva averle ordinate per soggetto e, per così dire, genere. Più proseguiva più sembravano diventare esplicite. Come in un casuale crescendo. In mezzo tornava qualcuna di quelle scaricate dalla rete. O di quelle meno indecenti. Come dire professionisti e dilettanti assieme. In realtà non si potevano definire vere e proprie foto d’arte. Difetti se ne potevano trovare a iosa. Qui e lì una luce che tradiva. Vizi probabilmente di frettolosità. E i soggetti ritratti erano quello che erano. Lui era teso e attento. E impaziente. Le passava a tutto schermo rapidamente. Fin troppo. Gli altri erano di là. Li sentiva parlare. Navigava ed era pronto ad uscire dal programma di visualizzazione. A cliccare la ics. Non voleva che, entrando all’improvviso, vedessero quello che stava guardando. Come sempre provava un po’ di imbarazzo. Ma anche una muta sottile eccitazione. Non una vera eccitazione. Forse solo una spinta curiosità. Qualcosa di simile. Ed era anche un bel po’ che non visionava materiale del genere. Cioè che non aveva bisogno di ricorrere al porno per distrarsi e persino eccitarsi. Con Vera le cose andavano alla grande. La loro luna di miele continuava e non avrebbe saputo dire quando poteva cominciare a finire. Ecco! forse non gli sarebbe dispiaciuto vederle insieme a lei. Non che tra loro ci fosse bisogno di quello. Semplicemente perché le avrebbe mostrato come non tutte sono come lei. Che c’erano donne che si facevano molti meno riguardi. Cioè che siamo fatti in mille e mille modi.
Una sui quarantanni aveva un paio di seni da competizioni. Certo doveva sostenerli con le mani. Erano veramente enormi. Poi una ragazzina vestita da pescatore. Come in costume. Non mostrava niente ma era veramente ben fatta. Ed aveva occhi ammiccanti e una sensualità molto naturale. Un giorno che era passato lei era lì. Era stato colpito da quel suo fascino. Un paio di gruppi si limitavano a brindare. Si stava perdendo in quei pensieri quando incontrò quella foto, la IMG_2824.JPG. Dovette tornare indietro perché era già andato oltre. Ne aveva già incontrate di simili ma in quella c’era proprio lei, la sua Vera. Non aveva alcun dubbio: vi era ritratta chiaramente. L’ambiente dietro era la cucina di quello stesso locale. Lei era un poco meno bionda, forse a causa dell’illuminazione, ma era lei, indiscutibilmente. Stessi occhi che erano fissi all’obiettivo e le labbra strette attorno a qualcuno. Cioè era intenta a fare del vero sesso orale. E quegli occhi mostravano l’orgoglio di soddisfare il suo partner. Forse semplicemente l’orgoglio di soddisfare un uomo. E impegno. E sfacciataggine. Allora non era vero che lo loro era rimasta solo amicizia? Lei che aveva sempre sostenuto che non ci può essere sesso tra amici. E tra Vera ed Ernesto c’era sempre stata solo una grande amicizia. Una amicizia che era durata nel tempo. Anche se Ernesto, da ragazzo, un po’ aveva spasimato per lei. Questo a sentire lei. Ma forse quello non lo si poteva ritenere sesso? Non completamente? Cioè forse lei voleva dire che due amici non avrebbero mai dovuto scopare. E in verità non stavano scopando. Non sapeva dire lì per lì se quel gesto ritratto era più o meno… intimo. Si fosse dovuto decidere avrebbe affermato che per lui era sesso. Anche se magari poi la donna si ferma e si rifiuta. Ma poi ognuno la pensa a modo suo; in queste faccende. Insomma era più che sorpreso di trovare lì la sua donna; fotografata. E se fingeva lo faceva con la maestria della vera professionista.
Veramente non poteva essere certo che quello fosse di Ernesto. Né che a scattare la foto fosse stato Ernesto. Dell’uomo si vedeva ben poco. Solo quel particolare che lei cercava caparbiamente di ingoiare. Con bramosia. Quasi lo volesse divorare. Invece quello di Vera era una vero e proprio ritratto. Quegli occhi spalancati e sorridenti erano i suoi occhi. Il fotografo aveva fatto lo scatto in quella cucina ma poteva essere anche qualcun altro. Chiunque. O lo stesso Ernesto senza però essere lui il partner. Certo che doveva essere molto vicino ai due. L’angolazione sembrava proprio quella ripresa dallo stesso amante della donna, cioè di Vera. Non riusciva a crederci. Quella era un’altra Vera. Ma allora non era vero, come diceva, che lei non aveva mai tradito. Poi si ricordò che veramente era stata per tre anni libera da qualsiasi impegno, dopo il divorzio, prima di mettersi con lui. Non bisognerebbe mai parlare prima di riflettere. La foto mica aveva la data. Poteva essere stata scattata in quel periodo. Ma poteva essere stata scattata anche prima del divorzio. E allora… E poteva anche essere molto recente. Fin troppo. Certo recente lo era abbastanza. Le sue rughe erano già tutte lì. Quello non bastava a fare o non fare di lei una bugiarda. Certo che quello non faceva della foto un documento meno… imbarazzante. Una denuncia vera e propria. Perché lei, Vera, si era sempre mostrata molto… come dire? contegnosa. Aveva sempre denunciato qualsiasi eccesso negli altri.
Come può una della sua età? E per di più con un figlio grande? Lei che sosteneva di non averle nemmeno mai guardate. Guardate forse ne ma almeno quella l’aveva fatta. Lei che gli aveva confessato di aver passato una vita avara; quasi priva di piacere. Di aver dovuto quasi sempre mentire e fingere. Di aver sempre trovato partner che avevano lasciato a desiderare; sotto tutti i punti di vista. E scarsi di passione. E privi di attenzioni. Che era anche per quello che aveva pochissimo frequentato sesso e letti. Che era per quello che l’aveva trovata… come dire? scatenata come una ragazzina. Come se avesse incontrato con lui il bisogno di recuperare il tempo perduto. Tanto da restare sorpresa lei stessa. Ma in quella foto c’era un’altra Vera; quell’altra Vera. Che quello che le riempiva la bocca fosse Ernesto o no cambiava poco. Certo che qualcosa cambia se l’altro è un amico o uno sconosciuto. Se non lo conosci, non sai chi è, non l’hai magari mai visto, oppure se ce l’hai sotto gli occhi anche spesso. Si sentiva comunque tradito. E se quello era lui si sentiva ancora più stupido. E si sentiva guardato e indagato dagli stessi occhi di Vera. E lei non mostrava nemmeno un minimo di pudore, anzi. Continuava immobile a fissarlo. Il tutto era tutt’altro che casuale. Già quando ritratta era un’estranea si era sempre chiesto cosa spingesse una donna. Ancor più adesso che nella foto c’era la sua donna.
Si trovò intrigato nel dubbio. Ernesto, l’amico, poteva essere stato così stupido di lasciarlo navigare, anzi di pregare di farlo, scordandosi della presenza di quella foto compromettente? Oppure il caro amico era stato così scaltro da invitarlo a controllare il suo vecchio pc proprio per fargliela vedere? Forse proprio per mostrargli chi era veramente la sua donna? Forse per rendere palese una qualche forma di rapporto o di tradimento? Ma non aveva timore Ernesto che Domitilla, sua moglie, vedesse quelle foto? Che rapporto c’era fra loro, dentro quella coppia? Al solo vedere le prime immagini aveva scoperto un Ernesto diverso. Certo cose simili si possono trovare in ogni computer. Ma non si pensa mai che l’amico, chi ti sta vicino, si diletti con certi vizi. Certo l’aveva fatto anche lui; cosa centrava? Quando uno lo fa si sente come se fosse il solo, ovvero tra i pochi a farlo. Si sente un poco in colpa. Non pensa di condividere quel peccato anche con quelli con cui cena e esce qualche domenica. Fosse entrato in quel momento avrebbe avuto tutte le risposte che cercavano le sue domande dall’espressione della sua faccia. Fosse entrata lei, la sua dolce Vera, le avrebbe chiesto spiegazioni. Ma non le sarebbe stato difficile giustificarsi. Poteva dire che era uno scherzo e che comunque era stata scattata quando lei era sola e libera. Dopo aver lasciato il marito. Prima di mettersi con lui. Magari si sarebbe scusata. Non sarebbe bastato ma ne sarebbe uscita quasi indenne. Avrebbe potuto anche rifiutarsi di fare il nome del… coso che aveva in bocca. Sostenendo che non faceva differenza.
In realtà, per assurdo, quello poteva essere anche Ernesto ma quella poteva anche essere un fotomontaggio. Cioè l’amico poteva essersi sostituito utilizzando un programma apposito di editing. Se lo aveva fatto lo aveva fatto abbastanza bene. Poteva essere tutto e il contrario. Comunque restava quello che era. La cosa certa restava che quella che apriva le labbra era proprio la sua donna. La posa era inequivocabile. Non poteva aver preso quel volto da un momento di semplice convivialità. Da nient’altro. E poi lo sguardo era pieno di sfida e di libido. Certo se fingeva lo faceva perfettamente. E come scherzo sarebbe stato di pessimo gusto.
In realtà, per assurdo, Ernesto poteva anche non saperne molto. Certo che la cucina era quella cucina. Ma la colpa poteva essere solo di Vera. E poi lei aver regalato la foto all’amico. Era comunque solo sua. E poi non si fa una foto simile senza un motivo. Figurarsi poi se la si regala. Ma forse lei sapeva della passione dell’amico. Allora chi era il suo compagno? In quei giochi? E come aveva fatto quella foto senza che Ernesto ne sapesse. Era un’ipotesi improbabile. Non poteva escluderla con certezza. Cercò immagini con una numerazione in diretta successione a quella. Niente. Nemmeno nel disco D, né in quell’unità esterna. Poi scoprì che ce n’erano un paio nel cestino. Non ebbe il tempo di vederle, forse nemmeno la voglia, perché si sentì chiamare da Carla. Forse, se fosse stato tranquillo, l’avrebbe lanciata alla stampante. Magari lei poteva dirgli che non era vero. E lui cancellare. Ormai la frittata era fatta. Comunque la cena era in tavola. Pensò che nella cucina di un locale pubblico non ci si può spingere molto oltre. Anche per una questione di scomodità. Seduto sulla tavola non è lo stesso che steso sopra un morbido letto. Era sempre stato un tipo amante delle comodità.
E se avesse preso Carla da parte? Magari con tatto. Sondando da lei se ne sapeva qualcosa. Di quella storia. Scartò subito l’idea. Meglio non mettere di mezzo altre persone. E poi Carla poteva non saperne niente. Solitamente non sono notizie da dare ai giornali. Magari gli avrebbe dato del pazzo. Per tutti erano una coppia di ferro e felice. A prova di tutto. Geloso non lo era mai stato. Non voleva mostrare di esserlo diventato. Certo che era infastidito. Ma anche… personalmente eccitato. Pensò che era meglio se teneva la bocca chiusa. Se non diceva niente a nessuno. Tanto meglio se si teneva la cosa per sé. Si sentiva anche come se avesse fatto un gesto, anche se involontario, in qualche modo indiscreto. Ormai non poteva proprio più trattenersi e farli aspettare ancora. Scelse la funzione arresta il sistema. Avvertì gli altri: “Vengo subito”.

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A volte le discussioni sono stupide. Cioè non sono stupide ma iniziano per motivi che possono sembrare stupidi. Certo che i giudizi si possono dare solo dopo. E dopo è facile dire. Al momento una parola tira l’altra. Si alza il tono. Nessuno vuole cedere. E precipiti nella lite prima ancora di accorgertene. Per farla breve mi preparo per vedere la partita. Sistemo la televisione. Il portacenere al suo posto. La birra. Naturalmente tifo per gli avversari. Frutta secca. Una sedia per le gambe. E prima di mettermi comodo cerco la mia nutella nel solito posto, ma non la trovo:
Sai dov’è stata messa la nutella”?
Credo che sia finita”.
Naturalmente una risposta non risposta; evasiva. Dico tutto questo perché quando si parla delle donne le donne sono brave a fare le vittime. Danno sempre la responsabilità di tutto alla loro abilità nell’armarsi di sensi di colpa come se li provassero solo loro. O se potessero giustificare tutto. Perché quando una ha torto ha torto. Ma se le senti:
Sensi di colpa perché si fa una telefonata ad un’amica mentre invece si dovrebbe preparare la cena che lui sta tornando a casa. Sensi di colpa perché non gli hai comprato la sua marca di birra preferita. Sensi di colpa perché a te del calcio non te ne frega niente e forse dovresti fare uno sforzo a condividere i suoi interessi. Sensi di colpa perché si dedica troppo tempo ai figli ed invece perché non hai neanche cinque minuti per massaggiargli i piedi quando dopo cena si sbatte sul divano a guardare la tv mentre tu pulisci la cucina? Sensi di colpa perché si fa carriera. Sensi di colpa quando la si interrompe, perché “dovevi pensarci prima”. Etc. Come se fosse colpa nostra se non ci pensano. Che poi a dirla tutta è tutto vero. Ma torniamo ai fatti. Ormai era chiaro com’erano andate le cose ma volevo andarci a fondo. Perché tra i tanti sensi di colpa di cui una donna si rende responsabile il senso di colpa per essersi mangiata la nutella proprio quello non l’ho mai incontrato in tanti anni di matrimonio.
“Cazzo! non c’è e non c’è. Chi cazzo si è mangiata la mia nutella”.
Credo di averla mangiata io”.
Ma come l’hai mangiata? La compro e tu ti mangi la mia nutella e non dici niente”?
Non per essere pignoli ma l’ho comprata io. Ricordami una volta che hai fatto la spesa”.
Non fa differenza. L’hai presa per me”.
Veramente l’ho presa per casa. E tu non fai che ingozzarti di tutto tutte le sere davanti al video”.
Vedi che mi dai ragione. Sai che come sono abituato. E poi era la mia nutella”.
Da quando? In casa è tutto tuo. Non pensi che con la pancia. Solitamente le cose sono là. Da quando si deve chiedere il permesso”?
Non è una questione di permesso. Io mica mi mangio le tue pillole di crusca”.
Fai pure se credi. Sono lì”.
Resta il fatto che ti sei mangiata la mia nutella”.
Resta il fatto che avevo voglia di un po’ di nutella. Non mi sembrava così grave. E non ce n’erano più di un paio di cucchiaini”.
Intanto i toni si stavano scaldando e la pazienza esacerbando. Io ci tengo alle mie abitudini. Sarà anche un difetto ma sono così. Mi piace trovare le cose al loro posto. Le ciabatte, le camicie e tutto il resto. Lei lo sa. Nutella compresa. Non dico ma l’avesse fatto apposta non sarebbe stato peggio.
Vuoi dirmi così che non ce n’è proprio più”?
E’ quello che cerco di dirti da un ora”.
Intanto non è un ora. E comunque non dovevi permetterti”.
Ma cosa? Stiamo impazzendo. Per un goccio di nutella”.
Era la mia nutella”.
Non avevo visto che avesse il nome”.
Da domani glielo metto. Così la smetti di mangiarmela”.
Ecco, bravo. Magari da domani impara a comprartela”.
E’ inutile che cerchi di avere ragione”.
Cos’è, mancanza di affetto? Guarda che di quello me n’è rimasta ancora una scorta. Se te ne ricordassi più spesso”…
Cosa vuoi dire. Chiedo solo che non mi sia mangiata la mia nutella”.
Parlo arabo? Era lì e me n’è venuta voglia. Vuoi ammazzarmi”?
Potevi chiedermi”.
Cos’è sta novità? E poi eri fuori”.
Cos’è un rimprovero? O vuoi dire che è stata una punizione. Ti faccio mancare qualcosa”?
Per quello da dove vuoi che cominci? Lasciamo stare, ch’è meglio. Ma se non raccogli nemmeno i calzini”.
Cos’è: la rivolta della donna? Un ritorno di vecchi amori mai sopiti per il femminismo? Dillo. Dillo una buona buona volta”.
Non ciò proprio voglia. Ma se vuoi: una buona volta”.
Cos’è, mi prendi in giro”?
Fammi finire i piatti. Nutella o non nutella io le cose le debbo fare”.
Eccone un’altra. E adesso come la mettiamo”?
La mettiamo che per una sera ne puoi fare senza”.
E se non potessi”?
Allora la faccenda cambierebbe completamente. Saremmo costretti a metterla che mi sono scordata e per una sera sarai costretto a farne senza”.
Non c’è più nemmeno il barattolo”.
Ti ho detto. E l’ho gettato”.
Potevi dirlo subito”.
Ma cosa potevo dirti? Che poi nemmeno sapevo che c’era la partita”.
Solita storia. Non c’è mai una cosa che tu sappia. Sempre così voi donne”.
Sempre così noi donne”.
Ma c’è qualcosa che vi interessa”?
Ti sembrerà impossibile ma molte cose”.
Certo che mi sembra impossibile. A parte i pettegolezzi”.
Anche per quello avete ancora molto da insegnarci”.
Possiamo spiegarvi, mica possiamo capire al posto vostro”.
Nemmeno ti sto ad ascoltare. Che lo so che non è nemmeno tua”.
Ma cosa sai tu oltre a mangiare le cose degli altri”.
Mettila sotto chiave. O nascondila. E se proprio vuoi che te lo dica allora te lo dico. Sei così bravo a nascondere che ti trovo i bigliettini per le tasche. Le camicie da pulire. E nemmeno mi ricordo più da quanto tempo è. E, ti ripeto, vedi di comprartela che se continua così giuro che non la compro più”.
Cosa c’entra tutto il resto? Possibile che ogni volta che si parla tu sparli? Mi sono lagnato solo per la mia nutella”.
Il signorino non vuole che si parli d’altro. Al diavolo anche la tua nutella”.
Ma in fondo cosa chiedo? Non credo di chiedere troppo. Non chiedo che un po’ della mia nutella”.
Non c’è nessuna nutella. Tu non chiedi troppo. Chiedi tutto. Mi stai chiedendo la vita. Mi stai togliendo la vita. Lo capisci”?
Non serve a niente fare una tragedia per niente. Bastava che mi avvertissi che l’avevi finita”.
Una volta era veramente bella. Naturalmente lei riesce a negare persino questo. Naturalmente la serata non è finita lì. Io non cedevo. Lei non cedeva. Nessun senso di colpa. Non ci siamo ancora riappacificati. Continuiamo ancora a non parlarci. E naturalmente lei, che è una donna vendicativa, come tutte le donne non perdona e soprattutto non dimentica, non ha più preso la nutella.

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Senza volere disilludere nessuna ma… se alla nostra bella quei ventisette centimetri sembrano molto più quindici centimetri (misura, questa, ritenuta sotto il limite dell’insufficienza) allora ha un problema…
di vista.

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Chiedo scusa preventivamente. Non dico nessun segreto. Non qui. Io, ma proprio io, di mio, non ho che la mia esperienza. Poca cosa, invero. Poi, come accade, si parla del mondo. E sembra che possa stare in un pallina di vetro. Sapete, quelle con la neve che cade solo dopo se le hai capovolte? Intendevo il mondo, naturalmente. Mettiamo le persone in fila come soldatini. Come birilli. E allo stesso modo le storie. E quando parliamo del mondo mettiamo assieme le due metà del cielo. Una non è sufficiente. Il mondo ha tutto un cielo. Per intero. Cosa c’entra? Non ne ho la più pallida idea. Non lo so nemmeno io. Era tanto per dire. Per trovare un inizio. Una partenza. Potremmo anche dire un input. Anche se non strettamente introduttiva.
In verità è proprio quando si parla di sé che ci si espone meno. E c’è sempre quel gioco sottile delle parti. Indossiamo la maschera. Illudiamo, e ci illudiamo. Se non possiamo nasconderci dietro l’anonimato, dietro un nick, il nostro privato diventa il giardino dove trapiantare i fiori più belli. Le assi del palcoscenico. Inventiamo la commedia o il melodramma. La fola. Grandi amori. Incredibili avventure. Insopportabili dolori. Comunque solo ismi. Solo superlativi. Ma nella realtà noi quale personaggio siamo della rappresentazione che andiamo ad inscenare? Non è quasi mai dato a saperlo. La misura non è data sapere. Il ruolo è quello: quello dell’eroe.
Io ho sempre conosciuto donne caparbie. Incapaci di un passo indietro. Decise. Volitive. Disposte piuttosto agli eroismi. Non che abbia mai preteso delle scuse. Una ammissione di distrazione, se non proprio di sbaglio. Non so se lo sono tutte le donne, certo quelle che hanno avuto un ruolo nella mia vita. Donne che anche quando ignoravano sapevano. Ma nemmeno di questo volevo parlare. E nemmeno correre il rischio di innescare una qualche polemica. Amo le donne. Le amo e ne sono affascinato. E per mia tutela aggiungo che le amo una alla volta. Il che è anche vero; non chiacchiere. Anche se ciò è dovuto unicamente a mia incapacità; temo. Non so essere che così. E poi sono una figura unica. In questo degna di tutela. Solo per la singolarità. E’ l’etica a rendermi mascalzone. E a volte la mia fantasia si prende delle libertà. A volte spesso. In modo molto autonomo.
Ricomponendomi: ci sono donne che sanno tutto degli uomini. Altre che sanno altrettanto tutto. E altre ancora. Singolare è la differenza di tutti quei tutto. Che ognuna sa un proprio tutto diverso da tutti gli altri. E da tutte le altre. Ma lo avevo confessato già da molto tempo come io consideri la donna un angelo. Non per modo di dire ma in senso letterale. Qualcuna non è proprio nel ruolo, ma comunque gli angeli sono sicuramente di sesso femminile. Non c’è astuzia. Quelle donne sono certe delle loro affermazioni. E temo che sto entrando in un terreno minato. Pericoloso. Di rischiare i loro strali. Ma mi siedo al bar e mi ripropongo, nel silenzio dei miei pensieri, l’ultima domanda posta dall’altra metà del mio cielo. Lei la mette in bocca a un tale Guido, che è interprete in uno suo post la seguente domanda: “Ehi, ma perché non chiediamo a questo Davide come fa? Magari ci fa capire cosa fa alle donne perché ne siano entusiaste”.
In ultima analisi, alla fine del dettato, non è nemmeno importante il contesto. Davide, nelle dichiarazioni di una protagonista (di cui non ci è dato nemmeno sapere il nome), è il super eroe. Il maschio e compagno perfetto. Nella fantasia della protagonista, naturalmente. Nei suoi sogni. Nelle favole che si racconta; quella protagonista. Ma esiste questo Davide; un Davide? Se si tratta di affrontare un Golia la cosa si presenta difficile. Quando si deve affrontare una donna l’impresa si trasforma in impossibile. Eppure… C’è sempre un eppure e almeno una eccezione. Che già quella frase di Guido ha un suono falso. Leggermente ipocrita. Me ve lo immaginate? L’uomo non chiede, come sappiamo, ma spiega. Vi immaginate un uomo che chiede e si allarma? E non lo dico solo perché anch’io provo intimamente una certa invidia per quel Davide. Una sorta di rancorosa gelosia.
Mi guardo intorno. Sono al bar da Clara. Sarà capitata anche a voi una situazione simile. L’aria è mite. Intorno al tavolo alcuni amici. Chi con il caffè. Chi con l’amaro. Persone differenti. Esempio di varia umanità. In qualche caso sono all’ultimo respiro. Il tempo passa inesorabile anche per gli amici. Nemmeno io sono più un ragazzino. Beh! nemmeno lei lo è. Una ragazzina, mica un ragazzino. E le storie lunghe spingono alle favole. Spingono per le stanchezze. Sono difficili da gestire. Da affrontare. Così piene di spifferi. Di acciacchi. Intricate di memorie che non si vogliono risolvere. Che ricordano le storie un po’ come vogliono. Insomma con la speranza che eravamo migliori.
Avete capito. Torno a quel tavolo ci sono altrettanti Davide. Amatori perfetti. Molto dotati. Compagni di compagne che non possono avere lagnanze. Nessun rimpianto. Completamente realizzate. Con l’eccezione di Martino che ammette, per mancanza di materia prima (leggasi donna o donne): “Ditele di venire da me che glielo faccio vedere io”. Esatto! Certo nessuno dice a nessuna di andare da lui. Su questo ne potremmo parlare a bizzeffe. Intendo sui perché e sui per come. E non mi chiedo cosa è nelle intenzioni del povero tapiro, cioè tapino, di far vedere. Intendo che forse dovrò avvisare la mia compagna in oggetto. Quando siamo tra noi… Al bar siamo tutti Rocco Antonio Tano. Come: chi è? Naturalmente si parla di Rocco Siffredi.

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Tutto ma proprio tutto, pensava Abele. In fondo perché domandarsi troppo se non aveva mai trovato nessuna risposta. Se quella risposta con tutta probabilità nemmeno c’era. Non amava le parole, era un uomo pratico. A parole è facile cambiare il mondo. Poi esci dalla porta e quel mondo lo devi affrontare. Le ricette non servono; non funzionano. I problemi sono lì, ti aspettano, in agguato. Certo che era nei casini. Con sua moglie le cose non funzionavano, ma benedetta donna non l’avrebbe mai ammesso. Per lei tutto era normale. Anche che non si cercassero più. Se ne era fatta una ragione. Se cercava di parlarle lei si aggrappava ai loro bambini. “Non hanno chiesto loro di essere messi al mondo. Abbiamo delle responsabilità”. Ma forse era stato solo il tempo, fra loro. L’abitudine. Si era lasciata un poco andare. Ai suoi occhi sembrava anche più vecchia di quello che era. Senza parlare delle idee. Ed era ormai convinto che sapesse ma non volesse vedere.
Con Irene le cose continuavano ad andare alla grande. C’era ancora la stessa passione eppure nemmeno con lei era così facile. Voleva essere corteggiata ogni volta. Non accettava di provare semplicemente desiderio. Lo doveva mascherare. Giustificare. Voleva anche il lato romantico. Il sogno. Voleva sentirsi dire che la amava. Che si mentissero su un futuro. Sapevano entrambi che non c’era nessun futuro. Non per loro. Non avevano nessun altro dialogo. Il loro mondo era il letto. Fuori non c’era nient’altro che li accomunasse. Avrebbero litigato anche per dividersi i cassetti. Sul deodorante da bagno. Sul vattaggio delle lampadine. Sul diavolo che non se la portava. Ma a letto funzionava a meraviglia. Non avrebbe mai ammesso che tra loro c’era solo piacere.
Almeno con Giusi trovava una sorta di pace. Era come un suo piccolo rifugio. Capitava che nemmeno lo facessero. Lei non gli chiedeva di più. Accettava il poco che le poteva dare. Era solo una ragazzina ma era così naturale. Tutto per lei era naturale: un cinema, un caffè, una gita in macchina; farlo in macchina o in un alberghetto. Lei era sempre contenta. Gli sorrideva come se gli dovesse sempre un grazie. Era sempre disponibile. Pronta ad imparare. Disposta a tutto quello che lui le chiedeva. Come una discepola davanti al proprio maestro. Mostrava meraviglia. Pensava che quello era il ruolo della donna. Si accontentava di poco e le sembrava moltissimo. Le aveva comprato un abitino e lei lo indossava orgogliosa. Le tette al vento e non erano poche. A farsi guardare. Perché* quel vestito era scollato; molto scollato. E qualcosa in testa le diceva che non poteva metterlo facendo vedere il reggiseno. Non gli dispiaceva che la ammirassero. Non era un tipo geloso. E poi sapeva che lei non aveva che lui.
Frida invece era della sua pasta. Le piaceva stuzzicarlo. Raccontargli. Se aveva altri incontri era il primo a cui li raccontava. Come in una sfida a due. Amava quel tipo di trasgressione. Forse anche il marito sapeva. Non si vedevano ormai più di tanto. Troppo presa dai suoi impegni e dalle sue storie. Ma con l’avvocato era finita. Quando pensava all’avvocato provava della pena per quell’uomo. Sapeva di cosa era capace. Sapeva cosa può fare una donne senza scrupoli, senza remore. Una donne che sa fare all’amore, per questo meravigliosamente, ma che è incapace di amare. Era capace di arrivare avendo già elaborato le sue fantasie. Sapeva interpretare i suoi desideri prima ancora che lui stesso li pensasse. Amava anche il rischio. Una volta aveva voluto che la accompagnasse in uno di quei posati dove ci si scambia. E aveva voluto guardarlo. Una volta aveva voluto fargli vedere come si tratta una donna. Una volta l’aveva provocato e aveva voluto che lui approfittasse in mezzo alla folle, in coda per una prima.
Con Claudia erano solo amici. Lo facevano solo se andava ad entrambi. Ma era una cosa in più. Non necessaria al rapporto. Lavoravano insieme. Parlavano. Sapeva cose di lei che nessun altro sapeva. Anche quando aveva perso la testa per un quasi spiantato. In fondo era quasi un rapporto distaccato. Ginnastica. Un gesto dovuto. Tranne quella sera ma quella sera era una sera particolare. Il marito aveva scoperto un suo tradimento. Minacciava di lasciarla. E avevano un po’ bevuto. Era un compleanno in ufficio, non ricordava più di chi, e in ufficio l’avevano fatto. Senza curarsi di chiudere nemmeno la porta. Proprio per quello era entrato Dario senza saperlo. Era rimasto esterrefatto. Soprattutto imbarazzato. Lei era semplicemente scoppiata a ridere. “Non ti fermare”. Glielo ricordava spesso; non era più successo. Da quel giorno aveva preso in simpatia Dario. Niente di più. Forse lui ne soffriva. Forse era un gioco crudele. Mostrava interesse. Lo lusingava. Alla fine rideva e si defilava. Sfuggiva.
Certo la sua vita stava diventando una vita complicata. Non era bravo negli addio. Il problema era invece inverso: era molto bravo negli incontri; negli inizi. Non fosse stato lui anche con Federica avrebbe già smesso. Era diventato un dovere. A volte doveva pensare ad altro. A volte ad un altra. Doveva usare la fantasia. Per lei l’amore si faceva solo in un modo, a quel modo. Aveva sempre qualcosa da rimproverargli. Perché non le aveva telefonato. Perché non lo sentiva appassionato come una volta. Perché se ne andava via subito come lei fosse una puttana. Perché non le portava più dei fiori. Perché si era dimenticato il compleanno. Era convinto che si mordesse le labbra che che si fosse accorta che per lui diventava sempre più faticoso. Si fermò un attimo a prendere una boccata d’aria. Cercò una scusa per rimandare l’appuntamento con Selvaggia. Stava diventando un maledetto imbroglio. Gli sembrò possibile dire di no. Alla fine decise che in fondo era troppo complicato. Che era più semplice così. Chiamò Petra per avvertirla che avrebbe tardato.

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Oggi è oggi. Mi soffermo a scriverne talmente di rado che ha un senso ammetterlo. Vivo soprattutto di passato, di ricordi, di fantasmi. Niente è mai come vorresti. Niente è mai come te l’eri aspettato. E ci sono momenti che ti prende una sorta di muta insoddisfazione che non sai nemmeno perché. Eppure sono un tipo di successo. Piacente. E vivo la vita che mi sono scelto.
Ma parliamo al presente. Agnese era dovuta partire. In fondo un impegno programmato. La sua casa delle vacanze richiedeva le nostre attenzioni. Non avevo potuto liberarmi. Non avevo nemmeno cercato di farlo. Certo che avevo spesso approfittato di quella casa. Ma avevo bisogno di un paio di giorni per me. Per riflettere. Avevo delle cose da fare, che non potevo rimandare. Anche quello, perché no? Ci avevo pensato. Avevo la sensazione di essere ricambiato. E Agnese non aveva avuto, naturalmente, da ridire.
Con lei in fondo era andato tutto bene. Sembrava che tra noi due ci fosse una sorta di tacito accordo. Tutto anche più facile di quanto previsto. La cena ottima. Non avevo dovuto insistere. La simpatia viaggiava con molta semplicità. Chiamo Agnese per non rischiare di essere interrotto mentre lei si sistemava il trucco. Aveva detto che non faceva nessuna differenza. Avevo preferito così che andassimo da me perché preferivo giocare in casa. In fondo sono un po’ abitudinario. Bere prima ancora un goccio. Farmi la doccia nel mio bagno. Svegliarmi nel mio letto. Sapere dove mettere le mani. Usarmi queste piccole attenzioni. E poi… Mi rende sempre triste passare una serata da solo. E lei sembrava divertita.
Certo che come Agnese lei aveva un gran bel culo. Certo che nemmeno come respingenti era messa male; non sarebbe mai potuta annegare. Di quegli occhi mi sembra quasi inutile parlare: quell’aria innocente da ragazzina che intriga e lampi pieni di lussuria. Era una di quelle giovani donne e ragazze che per un attimo ti sospendono il respiro. E poi sono queste cose che restituiscono sale alla vita. Altrimenti è solo routine, abitudine. Non credo ai legami che durano. Non li ho mai cercati, non li ho mai trovati. Forse perché mi danno allergia e scappo. Con lei non c’era nessun pericolo. Volevamo entrambi solo divertirci. E non facevamo torto a nessuno. La mia amicizia con Agnese durava da quanto s’era ragazzi. Ma non mi aveva mai chiesto di più. E io non le avevo mai promesso nulla. Anche se per tutti era ormai la mia donna.
La verità era che si era spogliata con estrema naturalezza, quasi con indifferenza. Come se la cosa non la riguardasse. E poi si era lasciata guardare. Ed era così presa dalla cosa che non avrebbe saputo mai dire un no. Ma per un attimo mi son sentito io usato. Le piaceva solo il piacere. Per quanto possa ricordare credo che per tutto il resto della serata non ci siamo chiesti niente, non abbiamo nemmeno parlato. Pareva amarsi tra le mie braccia. E chiedermi continuamente conferma. Si specchiava nei miei occhi e delle mie attenzioni. Certo che faceva dei numeri da competizione. Le sue mani sapevano dove andare. I suoi respiri sapevano cosa chiedere, dove condurmi. La sua pelle era del velluto più morbido. Ero stato fortunato come quei pochi che sanno guadagnarsi la fortuna. In fondo amavo essere ammirato, e soprattutto invidiato. Poveri stupidi, cos’è una donna se non questo? un momento di estremo piacere.
Ora sono certo di dire una baggianata. Mi sveglio e non la trovo a letto. Tiro un respiro di sollievo. Di piena soddisfazione. Le ore della notte, non dormite, mi pesato sugli occhi. Mi ha risparmiato anche la minima pena dei saluti. Quelle cose antipatiche. Le solite frasi. Ti è piaciuto? Sono stata brava? Qualche complimento. Credi che ci rivedremo? Non dico un ipocrita: non immaginavo che sarebbe finita così. O un: te l’aspettavi? Cioè si è preparata e se n’è andata nel completo silenzio. Senza il minimo disturbo. Nemmeno il caffè. Me lo sono preparato da me.
Ora che ci penso nemmeno le ho chiesto il nome. Al momento mi dico: meglio così, tanto l’avrei già scordato un attimo dopo. Ma stavolta c’è qualcosa che non va. Certo non credo possa avere nulla di che rimproverarmi. Ma mi sembra che lei non abbia rispettato nemmeno in parte il suo ruolo di donna. Mi sento come defraudato. Preso in giro. La verità è che comincio a sospettare di essere ormai stanco di svegliarmi il mattino a fianco di una sconosciuta. Forse nemmeno quell’amore è vita. Ma è stato solo un momento. Aggiungo quel nome al mio carnet con soddisfazione. Per essere precisi scrivo: Bionda, gran F. e rimetto l’agenda nel cassetto. Decido che appena torna invito Agnese a cena.

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