Ci siamo salutati dandoci appuntamento per la domenica. Ci ritroviamo casualmente una mattina al bar, vent’anni dopo. Naturalmente tutto è difficile, non lo vedo bene e non è solo per una questione di vista. Lo invito a prendere un caffè, il suo bicchierino è già vuoto, mi spiega che non può prendere il caffè per non ricordo più bene quale malattia che lo affligge. Mi scuso. Gli chiedo come va per pura cortesia, e con fatica mi dice laconicamente: “Va”. C’è un naturale attimo di silenzio. Prendo un cappuccino con brioche. Per la brioche si unisce a me, poi si ordina un amaro. Dimentico di aggiungere lo zucchero. Mi scappa una smorfia anche se cerco di dare a vedere che non fa nulla. Penso alla madre ma era già vecchia allora. Non ricordo se è un figlio o una figlia, perciò evito. Allora gli chiedo della moglie. Abbassa gli occhi. Deglutisce a fatica. Mostra disagio. Si fruga nelle tasche; forze cerca una sigaretta. Così vengo a sapere che lo ha lasciato per un altro poco dopo di allora, non so bene quale allora e non lo chiedo. Aggiunge che Sì! ha provato a rifarsi una vita, ma non è facile. Era una storia che era già iniziata prima, ma anche lei aveva due figli e piccoli. E poi –dice- sai come vanno le cose? ho perso il lavoro. Non potevo più stare in quella casa. Continua nell’esternare la sua vita di disavventure, ma, seppure me ne vergogno, avevo già smesso di ascoltarlo. Ho guardato l’ora, non potevo tardare all’appuntamento; e lui se n’è accorto. Pareva dispiaciuto. Ha cercato di trovare altre cose. Mi ha chiesto di amici comuni i cui nomi non mi dicono più nulla. Ha chiesto di me mostrando palesemente e senza imbarazzo di non essere interessato ad una vera risposta. Aveva bisogno di parole ma soprattutto di essere ascoltato. Gli faccio intendere che debbo proprio andare; poi sono costretto a dirlo. “Peccato”. Fa il verso poco convinto di prendere il portafoglio, lo arresto con un deciso “Faccio io.” a cui non riesce a opporre la minima resistenza. Ci salutiamo con un “Vediamoci, magari ti telefono.” ma sappiamo entrambi che non ci rivedremo più.
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Sulle tracce di ieri
Posted in Profili, tagged banalità, Donne, Gino Paoli, ironia, letteratura, lettura, memoria, narrativa, Non andare via, parole, passato, Patty Pravo, prosa, quotidianità, racconto breve, ricordi, rimpianti, scrittura, solitudine, stanze, uomini on 18 dicembre 2013| 2 Comments »
Senza una precisa ragione si trovò a pensare a quel ragazzo di ieri. O forse per quella lettura. O forse era solo per la crudele interferenza nella sua vita di quella miope burocrazia ricattatoria? Quella lettera gli recava confusione, come un turbinio in testa. Ci sono cosa da cui non ci si può difendere. Una era il nulla di quella spietata stupidità. Incomprensibile. Strano. Non c’era una ragione precisa. Forse semplicemente perché fuori si faceva sera. Pensò al Castello. Troppo peso nella sua coscienza. Nella sua misera cultura. Quel ricordo. Un Castello di carte. Cosa era rimasto? Di quel ragazzo, si intende. Cosa era cambiato. Lo trovava puerile. Puerile e anche un poco stupido. E lui lo conosceva bene quel ragazzo; per averne vestito i panni. E forse perché li vestiva ancora. Piccoli entusiasmi istantaneamente sbiaditi. Sogni, sempre di piccole dimensioni, e dosi. Ideali. Forse come tanti ragazzi. A vent’anni si è costretti ad avere vent’anni. E anche oltre. E lui era così; sì! lo sapeva bene. Era stato solo un ragazzo. Qualunque. Stupido e forse anche un poco vigliacco. Un ragazzo dal quale, per uno strano destino, per una assurda alchimia, perché veniva in un quartiere che era il centro del mondo e alla stesso tempo la sua stessa periferia? Un ragazzo dal quale tutti si aspettavano qualcosa. Ma cosa? Persino i suoi ricordi soffrivano di una leggera forma di balbuzie. Un ragazzo un po’ taciturno. Con la testa vuota e confusa. Un ragazzo che pensava a un futuro. Da cui tutti, come detto, parevano aspettarsi qualcosa. Un ragazzo che con pervicace testardaggine riusciva a deludere tutti; pienamente. A deludere ogni aspettativa. In una sorta di inseguimento all’annullamento. Un ragazzo che non era mai riuscito ad amare nemmeno se stesso. Con la paura di amare. E il suo doppio. E il suo contrario. E ora una tazza dove il caffè si era freddato.
Pronunciava con un certo pudore, e un po’ di vergona, quel pronome: io. Troppo rumoroso. Roboante. Fin troppo frequentato di questi tempi. Avrebbe semplicemente voluto non essere. Si accoccolò sulla poltrona e riprese a leggere; Ritorno a Haifa. Forse non era rilevante. L’Italia non stava cambiando. Semplicemente si aggravava quella sua malattia. E si sentiva come parte di quella metastasi. Dopo non si può far tesoro di quello che non si è fatto. Non si può menar vanto dei propri insuccessi. Degli appuntamenti mancati. Dei fallimenti. Di quell’estraniarsi. Cosa importa quello che si sarebbe potuto essere? Quando la vita è scappata… come sabbia tra le dita. E gli era scappata. Dissolta. Aveva solo fragili ricordi. Una catasta di non fatto. E non era certo nemmeno di quelli. Che fossero. Alla fine che cosa aveva realizzato? Si era limitato a registrare le nascite e le morti degli altri. Semplicemente un contabile scrivano all’anagrafe. E a pensarci bene tra quelle due date non c’era nessun segno di vita. Nei suoi libri. Nel programma informatico dell’ufficio. Solo nato e una data. Morto e una data. Forse questo e solo questo era il sintomo del suo fallimento. A ripetere nomi di sconosciuti e a elencarli. E quando trovava qualche nome che aveva incontrato non riusciva nemmeno più a sentire una qualche partecipazione. Sì! Luisa aveva avuto un bambino. E allora? Era importante quando il fatto che lui stava festeggiando da solo il suo cinquantesimo compleanno. O forse era il cinquantunesimo. Di un fallimento non con gli altri ma con sé. Di una vita sperperata tra un campari e il tifo per una squadra che inseguiva testardamente –anch’essa– l’insuccesso. Rimandando gli appuntamenti. Solo che ora sentiva che era ormai troppo tardi. Tardi persino per i rimpianti. Mica si può tornare indietro. La vita continuava a restare fuori. Dietro le tende che sarebbero state da lavare.
Si risvegliò con ancora il libro sulle ginocchia, in un equilibrio precario, e gli occhiali sulla punta del naso. Si risvegliò e nulla era cambiato. Solo alcune parole pendevano ancora sospese al soffitto con fili invisibili. Tra quelle c’era il suo nome. Si risvegliò uguale a quando s’era assopito. E con il ricordo di un sogno: quel telefonino nuovo era uno strano attrezzo nella sua mano. Un mezzo che non riusciva a usare. E lui aveva bisogno di comunicare. Si risvegliò con il sintomo di un grido in gola taciuto eppure impellente, con quel senso di angoscia nel petto. Guardandosi intorno come un estraneo, a tutto. Cercando di capire. Di raccapezzarsi. Dove non c’era più nulla da capire. Nell’impossibilità di sentire una voce. I piatti nel lavello. Un silenzio che faceva male. Una leggera tachicardia. La bocca secca. Il naso chiuso. La sua voce afona risuonava per le stanze vuote con un pronunciato eco. Pareva che tutto il mondo lo avesse lasciato. Come lo aveva lasciato lei. Nello stesso identico modo. Semplicemente girandogli le spalle, delusa. Prendendo la porta. E non aveva nessun diritto di protestare. Semplicemente si era negato qualsiasi diritto. Guardò l’ora e accese la televisione: era in ritardo anche per quell’appuntamento. Si ricordò di non avere appetito.
Pastty Pravo in una diversa versione con diverso testo (forse migliore) della stessa canzone:
A Portomarghera
Posted in Musica, Politica, tagged 68, 69, autunno caldo, fabbrica, Gualtiero Bertelli, lotte operaie, Marghera, memoria, operai, studenti, Vietnam on 21 dicembre 2012| Leave a Comment »
E’ stata tutta colpa di questa foto a farmi ricordare, ricordare quando Marghera era centro della lotta, e questa canzone che la memoria aveva cercato di farmi scordare. E tutto a farmi ricordare, se ce ne fosse stato bisogno, che non c’è fabbrica, scuola e campi ma una lotta comune e l’avversario è sempre quello… “quello che combatemmo sui nostri monti e in Spagna“.
La foto la devo al lavoro del profilo Facebook Soffia ancora il vento che ringrazio non solo per questo.
Gualtiero Bertelli: A Portomarghera
L’altro giorno a Portomarghera
gli operai han scioperato
eran gli stessi che hanno gridato
due mesi fa per salari migliori.
Questa volta chiedevano pace
con la stessa forza di ieri
perché pace vuoi dire per tutti
«no alla guerra e no al padrone».
Il padrone che ha licenziato
è lo stesso che manda a morire
è lo stesso che ammazza nel Texas
in Rhodesia, nel Congo e in Vietnam.
I compagni che han scioperato
hanno detto che ‘sta brutta guerra
deve essere l’ultima guerra
per distruggere tutti i padroni.
2 agosto 1980
Posted in Diogene non abita più qui...., Musica, tagged Bologna, fascisti, indignazione, memoria, Modena City Ranblers, quarant'anni, rabbia, strage, stragismo, strategia della tensione, terrorismo, vittime on 2 agosto 2011| 1 Comment »
Il 2 agosto 1980, alle ore 10,25, una bomba esplose nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna.
Nessuno potrà mai dimenticare. Uniti nel dolore ai famigliari delle vittime che chiedono ancora si faccia piena luce sulle responsabilità e sui mandanti. ORA E SEMPRE RESISTENZA.
Anima libera rewind
Posted in Racconti, varie&eventuali, tagged amore, bambina, collaborazione, contestazione, corerenza, cronaca, diario, difficoltà, dopoguerra, figli, fratelli, futuro, genitori, infanzia, ingiustizie, letteratura, libertà, madri, memoria, narrativa, neonati, padri, post, prosa, quattro mani, racconto breve, ragazza, ragazzi, realtà, ricordi, Rossaura, schizzofrenia, scrittura, soggetto on 20 luglio 2011| 2 Comments »
Anima libera ovvero le difficoltà di un progetto; cioè: “Amenità”. Alcune riflessioni che ospito, forse impropriamente, qui e che diventano appunti di lavoro, pensieri espressi a voce alta, per un lavoro che non si è mai manifestato qui.
Anima libera è nato allora come un esercizio di scrittura a quattro mani. In verità è nato nell’ormai lontano 24 novembre 2010 semplicemente come post a sé stante. Ed è oggi faticosamente arrivato alla parte ventottesima. C’è forse una ventinovesima. Ma nessuna certezza che sappia andare oltre. Allora, dopo quel primo post, ci siamo fatti prendere dall’entusiasmo e decidemmo di proseguire e farne una sorta di saga. Non mi nascondevo le difficoltà legate allo scrivere con due teste e quattro mani. Con difficoltà ha proseguito la sua strada, o più opportunamente la sua tragica vicenda. L’idea era nata, dopo anche animate discussioni, per proseguire quell’inizio. Era un esercizio letterario, se così mi posso esprimere senza rischiare la presunzione, su di un personaggio letterario. Era cioè un esercizio di scrittura basato sulla libertà della fantasia. In secondo piano doveva apparire la testimonianza di quegli anni (circa sedici importanti anni, dal primo dopoguerra alle soglie del sessantotto). Naturalmente il tutto da un’ottica che rispettasse la sensibilità femminile. Da subito però si è creata difficoltà a causa di una forte identificazione con il personaggio. E una seconda perché spesso la cronaca “pubblica” balzava in primo piano e prendeva il proscenio. La tensione per rendere coerente il personaggio principale e narrante con tale identificazione gli ha spesso, quando non sempre, tolto la possibilità di agire in funzione di un racconto di fantasia, di finalizzare i suoi atti e le sue scelte. La bambina, poi ragazza, ha mostrato più i limiti che l’ansia di superare il copione che era stato scritto per lei. Per lei come persona di quegli anni e per lei come donna. Ha violato i suoi sogni. Poteva tutto e invece era costretta a vivere nelle vesti che le erano state imposte dalla realtà. In ogni cosa condivisa si deve cercare una strada mediana, questo lo so, se la scelta è mai stata di una strada mediana. Questa è anche la testimonianza di come è difficile condividere con altri anche le piccole cose quando la condivisione cerca di affondare realmente nella carne delle stesse persone. Siamo animali sociali che però vivono i loro rapporti con gli altri mantenendo una forte autonomia e senza voler giungere a un compromesso dialettico. Con questo non dico di trarmi fuori da questo vizio, di esserne immune; vivo anch’io immerso nella realtà e nelle problematiche come tutti. Debbo dire che amavo quel personaggio e quel lavoro e di non voler sollevare alcuna polemica né di liberarmi da responsabilità. Alle soglie del fatidico sessantasette, con un mondo in ebollizione, “la ragazza” fatica ad aver dubbi e ad elaborare una vera sensibilità, più o meno univoca, per ciò che si prepara; non riesce a percepire le cose. Una banale interferenza (come l’inserimento di un post completamente estraneo) non determina la crisi di tale impresa, ne è solo una testimonianza. Il limite è il tentativo di ricordare che si sostituisce alla voglia di immaginare e sognare. Io immaginavo una Anima libera a cui il quotidiano scoppia continuamente davanti agli occhi e che lei scopre con meraviglia. Aveva, in quel primo post, strumenti surreali di narrazione, se vogliamo volutamente iperbolici. Il risultato a seguire è stato diverso, non meno gradevole, spero, ma diverso; e me ne assumo la mia parte di responsabilità. Questo sembra quasi un addio ma non sono certo che siano queste le mie intenzioni. Il personaggi non soffre di schizofrenia, ma di un tradimento non voluto da parte di una coerenza testimoniale. Dove proprio la fantasia dovrebbe essere donna viene a mancare ed emerge una volontà di etica di una tramandazione personale. Non è mai esistita quella prima Anima e non poteva esistere, esiste troppo questa seconda e, ai miei occhi, non ha fascino. Non era e non doveva essere un quasi diario. Oggi è qualcosa di più e qualcosa di meno. Anima è così destinata a non cambiare nulla e a soccombere alla vita e alle prime difficoltà. E’ destinata a cercarsi e aspettarsi invano. Queste sono le mie apprensioni per il personaggio. Sembra banale ma chi scrive si innamora sempre dei propri personaggi, anche quando debbono comportarsi da personaggi negativi quali debbono essere. E non è questo comunque il caso. Non capisco perché Anima libera debba commettere gli stessi errori dei suoi autori. Lei è appunto un’Anima libera.
Ricordi
Posted in Racconti, tagged amnesie, amore, bugie, discussioni, letteratura, memoria, narrativa, pareri, Politica, promesse, racconto breve, scrittura, scuse, testimonianze on 18 luglio 2011| 2 Comments »
E’ strano come i ricordi ci tirino, a volte, scherzi birboni. Ci Avete mai pensato? Parlavo con un’amica, un’amica di blog. Non è di quel rapporto che voglio parlare. Per principio ammetto che questo in me avviene o almeno può avvenire. Ti confronti con una persona e, a distanza di tempo, cose che tu pensavi di ricordare bene lei le dipinge in modo diametralmente opposto. Magari se cerchi una testimonianza terza avrai anche una terza versione dell’accaduto. Non sono qui a stabilire chi avesse o porti ragione. Non servirebbe. Sarei di parte. Non è il senso di questo post. Naturalmente ho ragione io, ma questa è una conclusione scontata ancorché ironica. La ragione se la prende, alla fine, chi ne parla, cioè ognuno si costruisce la propria ragione. Naturalmente sono io il più buono. Ho pure assistito alla costruzione di una ragione anche sull’assurdo. Ci sono casi in cui ci si convince di una cosa, e penso si arrivi a farlo in totale buona fede, perché abbiamo bisogno di giustificare la nostra etica. Inveiamo verso una persona e poi ci convinciamo del momento preciso in cui siamo stati provocati, magari invece era solo la nostra stanchezza. Non paghiamo un debito ma a guardar bene un po’ di giustificazioni le abbiamo, magari il lavoro era male eseguito o comunque lui ne ha meno bisogno di noi. Certo io non lo faccio mai, cioè non lo ammetteremo mai. Credo che il meccanismo possa essere inconscio e pertanto siamo autorizzati a non ammetterlo. Per fortuna con Lei, il mio caro e tenero e dolce grande amore, non si è mai verificato nulla del genere. Quando rammentiamo lo stesso episodio lo ricordiamo alla stesso modo; uguale. Magari nel commento dei ricordi dell’altro diamo interpretazioni discordanti, ma questo è un problema periferico e poco importante. Quando allora usai espressioni poco carine, ma poco poco e non pesanti, solo stupide, le ricordiamo uguali, e io le ho ricordate sempre e sempre me le sono rimproverate. Ma torniamo a noi per ribadire che la barca dei nostri ricordi fa acqua. Avevo messo il telefonino sopra il tavolo e non lo trovo più. “Chi me l’ha spostato”? “Sono sicuro di averti detto alle sette”. In realtà, in questo caso, ma solo in questo caso era vero e anche lei aveva sentito sette, solo non avevo specificato il giorno. Per fortuna la mia compagna è anche puntuale ma ne ho conosciute che una mezza giornata non era sufficiente per un loro ritardo. Poi ricordavano male e avevano capito le cose più inverosimili. E non parliamo poi delle promesse d’amore. Intorno al tema sono stati scritti interi romanzi. Nel ricordo le parole sfumano e si mutano; in una processo di aggiornamento che soffre la memoria. In certo momenti verrebbe voglia di non ricordare, quando lo stesso ricordo non è addirittura una condanna. Tutto questo, alla fine, è solo frammenti di niente. “Avevi detto dal parrucchiere”. “No! Avevo detto da mia mamma”. “Solo che mammina ha chiamato per cercarti”. Questo è un pallido esempio se lo pensiamo all’interno dei piccoli rapporti interpersonali. Proviamoci e pensiamolo in politica: “io non ho mai affermato che diritti e doveri sono uguali per tutti, non vorrai paragonarmi con una che non si sa ne da dove viene che dove vuole andare”? La più bella è racchiusa in tanti inizi di frasi. Un esempio. Se una persone interviene con “non per essere razzista” è certo non solo che non conosce il significato del termine xenofobia, ma è altrettanto sicuro che si rimangerà tutto e contraddirà anche all’interno della stessa frase. E ne ho conosciuti tanti che sarebbero stati pacifisti ma erano gli altri che li facevano incazzare. Insomma la politica de io la butto giù questa porta se non mi fai entrare. E allora io ricordo di aver votato per l’elezione di alcuni che avevano detto di andarci per rappresentare me. Ci sono andati per mangiare loro. Chi ricorda bene? Non ne sono certo ma troverei strano aver dato loro il voto se mi avessero promesso che ci andavano a mangiare. E potrei portarne di esempi fino alla noia, ma poi si chiamano anche luoghi comuni. Insomma, alla fine, chi aveva iniziato la discussione che mi ha portato a riflettere così sul valore del ricordo? Io, lei? Cosa importa se fuori fa un caldo equatoriale e io comincio a far parte delle categorie a rischio?
Epitaph
Posted in Musica, tagged 1969, anni 70, canzoni, disco, In the court of crimson King, King Crimson, memoria, Pete Sinfield, progressive, Racconti, ricordi, Robert Fripp, rock, storie on 7 luglio 2011| 2 Comments »
Ancora musica anni settanta. In realtà questo disco (In the court of crimson King) dei mitici King Crimson li anticipa perché esce nel 1969. Gran disco da ascoltare tutto intero in religioso silenzio. Un disco fondamentale con alla chitarra quel gran genio e maestro di cerimonia qual è Robert Fripp. E i testi sono dell’”esterno” Pete Sinfield che ha curato inoltre un originale ed efficace spettacolo di luci. La loro è musica che influenzerà molto e che risuona anche in alcune delle cose dei nostri New Trolls. Qui mi fermo perché mica voglio fare il saputello e travestire questa semplice rubrica di ricordi e inviti in una sorta di spazio critico e saggistico. Io ho continuato in quegli anni ad ascoltare musica, come e con che soldi mica lo so. Non posso ricordarlo. Forse frutto di una rapina. Mi sono trovato una casa da riempire dei miei dischi. Ora quei dischi li ascolta e li coccola mia figlia. Ho storie e leggende sulla mia musica, ricordo di averne regalata molta per poi ricomprarla, ma, essendo di “umili origini” e di altrettanto umili e testardamente misere finanze, non ricordo con quali costi sia entrata nella mia vita. Ricordo l’amore. Ricordo i primi 45 giri. La faccia del padrone quando mi recavo nel mitico negozio di Gabbia e chiedevo assieme le cose più strane. Fece un commento sorpreso quando lo pregai di farmi ascoltare, lontano 1963, in rapida successione i Rolling, il primo Dylan e Ivan Della Mea. Capitava che li sentisse per la prima volta con me. Allora non avevo ancora scoperto, e nemmeno c’erano, i negozi di importazione. La musica aiuta a vivere e insieme diventa emozioni e ricordi, ricordi che poi ho portato con me.
The wall on which the prophets wrote Is cracking at the seams. Upon the instruments of death The sunlight brightly gleams. When every man is torn apart With nightmares and with dreams, Will no one lay the laurel wreath As silence drowns the screams?
Between the iron gates of fate,
Confusion will be my epitaph. |
Il muro su cui i profeti hanno scritto Si sta spaccando alle giunzioni Sopra gli strumenti di morte Brilla la luce del sole Quando ogni uomo è fatto a pezzi Dagli incubi e dai sogni Deporrà qualcuno la corona d’alloro Mentre il silenzio affoga le urla?
Tra i cancelli di ferro del fato
La confusione sarà il mio epitaffio |
Alberta
Posted in Profili, tagged amnesia, aneurisma, letteratura, memoria, narrativa, passato, prosa, racconto breve, vuoto on 16 giugno 2011| 4 Comments »
Alberta non c’è. E’ stata abbandonata dal suo passato. Mi guarda con quegli occhi azzurri. “Ma quando ci siamo conosciuti”? Sono ancora i suoi occhi, pieni di tenerezza. Ma sono occhi colmi di timidezza. Frugano cercando un loro orizzonte. “Come”? Chi sa si chiede perché. E persino le domande portano imbarazzo. Pare impossibile. Muovi un gesto di tenerezza. Lo riconosce senza capirlo. C’è stata una storia tra noi. Non riesco a scordarla. E’ lei e non lo è più. Come se dovesse toccare le cose con le mani. Come dovesse palparle. Piena di domande. Senza una risposta. E la mano scivola sui suoi lunghi capelli biondi: “Perché”? E’ cieca delle cose. Non so e non riesco ad accettarlo. So che non riesco a capirlo. Quello che è per me non è per lei. Questa pena è la sua felicità. Guarda le persone che entrano chiedendosi se hanno fatto parte della sua vita. Le invita con gli occhi a sedersi. A spiegarsi. E’ come una bimba. Ma tutto e più difficile. E’ come una bimba in un mondo di adulti. Tutti vorrebbero proteggerla. Io vorrei scuoterla. Spaccare questo diaframma. Farmi capire, ma persino le parole sono come un assurdo indovinello. “Non ricordo nulla di lui, ma è tanto caro”. Ero io lui. Porta nella borsa un rosario di ametista. Chiedo scusa ma debbo andare. Chiedo scusa per non farle vedere che piango.