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Posts Tagged ‘memoria’

tazzina di caffèCi siamo salutati dandoci appuntamento per la domenica. Ci ritroviamo casualmente una mattina al bar, vent’anni dopo. Naturalmente tutto è difficile, non lo vedo bene e non è solo per una questione di vista. Lo invito a prendere un caffè, il suo bicchierino è già vuoto, mi spiega che non può prendere il caffè per non ricordo più bene quale malattia che lo affligge. Mi scuso. Gli chiedo come va per pura cortesia, e con fatica mi dice laconicamente: “Va”. C’è un naturale attimo di silenzio. Prendo un cappuccino con brioche. Per la brioche si unisce a me, poi si ordina un amaro. Dimentico di aggiungere lo zucchero. Mi scappa una smorfia anche se cerco di dare a vedere che non fa nulla. Penso alla madre ma era già vecchia allora. Non ricordo se è un figlio o una figlia, perciò evito. Allora gli chiedo della moglie. Abbassa gli occhi. Deglutisce a fatica. Mostra disagio. Si fruga nelle tasche; forze cerca una sigaretta. Così vengo a sapere che lo ha lasciato per un altro poco dopo di allora, non so bene quale allora e non lo chiedo. Aggiunge che ! ha provato a rifarsi una vita, ma non è facile. Era una storia che era già iniziata prima, ma anche lei aveva due figli e piccoli. E poi –dice- sai come vanno le cose? ho perso il lavoro. Non potevo più stare in quella casa. Continua nell’esternare la sua vita di disavventure, ma, seppure me ne vergogno, avevo già smesso di ascoltarlo. Ho guardato l’ora, non potevo tardare all’appuntamento; e lui se n’è accorto. Pareva dispiaciuto. Ha cercato di trovare altre cose. Mi ha chiesto di amici comuni i cui nomi non mi dicono più nulla. Ha chiesto di me mostrando palesemente e senza imbarazzo di non essere interessato ad una vera risposta. Aveva bisogno di parole ma soprattutto di essere ascoltato. Gli faccio intendere che debbo proprio andare; poi sono costretto a dirlo. “Peccato”. Fa il verso poco convinto di prendere il portafoglio, lo arresto con un deciso “Faccio io.” a cui non riesce a opporre la minima resistenza. Ci salutiamo con un “Vediamoci, magari ti telefono.” ma sappiamo entrambi che non ci rivedremo più.

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tazzina di caffèSenza una precisa ragione si trovò a pensare a quel ragazzo di ieri. O forse per quella lettura. O forse era solo per la crudele interferenza nella sua vita di quella miope burocrazia ricattatoria? Quella lettera gli recava confusione, come un turbinio in testa. Ci sono cosa da cui non ci si può difendere. Una era il nulla di quella spietata stupidità. Incomprensibile. Strano. Non c’era una ragione precisa. Forse semplicemente perché fuori si faceva sera. Pensò al Castello. Troppo peso nella sua coscienza. Nella sua misera cultura. Quel ricordo. Un Castello di carte. Cosa era rimasto? Di quel ragazzo, si intende. Cosa era cambiato. Lo trovava puerile. Puerile e anche un poco stupido. E lui lo conosceva bene quel ragazzo; per averne vestito i panni. E forse perché li vestiva ancora. Piccoli entusiasmi istantaneamente sbiaditi. Sogni, sempre di piccole dimensioni, e dosi. Ideali. Forse come tanti ragazzi. A vent’anni si è costretti ad avere vent’anni. E anche oltre. E lui era così; sì! lo sapeva bene. Era stato solo un ragazzo. Qualunque. Stupido e forse anche un poco vigliacco. Un ragazzo dal quale, per uno strano destino, per una assurda alchimia, perché veniva in un quartiere che era il centro del mondo e alla stesso tempo la sua stessa periferia? Un ragazzo dal quale tutti si aspettavano qualcosa. Ma cosa? Persino i suoi ricordi soffrivano di una leggera forma di balbuzie. Un ragazzo un po’ taciturno. Con la testa vuota e confusa. Un ragazzo che pensava a un futuro. Da cui tutti, come detto, parevano aspettarsi qualcosa. Un ragazzo che con pervicace testardaggine riusciva a deludere tutti; pienamente. A deludere ogni aspettativa. In una sorta di inseguimento all’annullamento. Un ragazzo che non era mai riuscito ad amare nemmeno se stesso. Con la paura di amare. E il suo doppio. E il suo contrario. E ora una tazza dove il caffè si era freddato.
Pronunciava con un certo pudore, e un po’ di vergona, quel pronome: io. Troppo rumoroso. Roboante. Fin troppo frequentato di questi tempi. Avrebbe semplicemente voluto non essere. Si accoccolò sulla poltrona e riprese a leggere; Ritorno a Haifa. Forse non era rilevante. L’Italia non stava cambiando. Semplicemente si aggravava quella sua malattia. E si sentiva come parte di quella metastasi. Dopo non si può far tesoro di quello che non si è fatto. Non si può menar vanto dei propri insuccessi. Degli appuntamenti mancati. Dei fallimenti. Di quell’estraniarsi. Cosa importa quello che si sarebbe potuto essere? Quando la vita è scappata… come sabbia tra le dita. E gli era scappata. Dissolta. Aveva solo fragili ricordi. Una catasta di non fatto. E non era certo nemmeno di quelli. Che fossero. Alla fine che cosa aveva realizzato? Si era limitato a registrare le nascite e le morti degli altri. Semplicemente un contabile scrivano all’anagrafe. E a pensarci bene tra quelle due date non c’era nessun segno di vita. Nei suoi libri. Nel programma informatico dell’ufficio. Solo nato e una data. Morto e una data. Forse questo e solo questo era il sintomo del suo fallimento. A ripetere nomi di sconosciuti e a elencarli. E quando trovava qualche nome che aveva incontrato non riusciva nemmeno più a sentire una qualche partecipazione. Sì! Luisa aveva avuto un bambino. E allora? Era importante quando il fatto che lui stava festeggiando da solo il suo cinquantesimo compleanno. O forse era il cinquantunesimo. Di un fallimento non con gli altri ma con sé. Di una vita sperperata tra un campari e il tifo per una squadra che inseguiva testardamente –anch’essa– l’insuccesso. Rimandando gli appuntamenti. Solo che ora sentiva che era ormai troppo tardi. Tardi persino per i rimpianti. Mica si può tornare indietro. La vita continuava a restare fuori. Dietro le tende che sarebbero state da lavare.
Si risvegliò con ancora il libro sulle ginocchia, in un equilibrio precario, e gli occhiali sulla punta del naso. Si risvegliò e nulla era cambiato. Solo alcune parole pendevano ancora sospese al soffitto con fili invisibili. Tra quelle c’era il suo nome. Si risvegliò uguale a quando s’era assopito. E con il ricordo di un sogno: quel telefonino nuovo era uno strano attrezzo nella sua mano. Un mezzo che non riusciva a usare. E lui aveva bisogno di comunicare. Si risvegliò con il sintomo di un grido in gola taciuto eppure impellente, con quel senso di angoscia nel petto. Guardandosi intorno come un estraneo, a tutto. Cercando di capire. Di raccapezzarsi. Dove non c’era più nulla da capire. Nell’impossibilità di sentire una voce. I piatti nel lavello. Un silenzio che faceva male. Una leggera tachicardia. La bocca secca. Il naso chiuso. La sua voce afona risuonava per le stanze vuote con un pronunciato eco. Pareva che tutto il mondo lo avesse lasciato. Come lo aveva lasciato lei. Nello stesso identico modo. Semplicemente girandogli le spalle, delusa. Prendendo la porta. E non aveva nessun diritto di protestare. Semplicemente si era negato qualsiasi diritto. Guardò l’ora e accese la televisione: era in ritardo anche per quell’appuntamento. Si ricordò di non avere appetito.

Pastty Pravo in una diversa versione con diverso testo (forse migliore) della stessa canzone:

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E’ stata tutta colpa di questa foto a farmi ricordare, ricordare quando Marghera era centro della lotta, e questa canzone che la memoria aveva cercato di farmi scordare. E tutto a farmi ricordare, se ce ne fosse stato bisogno, che non c’è fabbrica, scuola e campi ma una lotta comune e l’avversario è sempre quello… “quello che combatemmo sui nostri monti e in Spagna“.
La foto la devo al lavoro del profilo Facebook Soffia ancora il vento che ringrazio non solo per questo.

Gualtiero Bertelli: A Portomarghera

L’altro giorno a Portomarghera
gli operai han scioperato
eran gli stessi che hanno gridato
due mesi fa per salari migliori.

Questa volta chiedevano pace
con la stessa forza di ieri
perché pace vuoi dire per tutti
«no alla guerra e no al padrone».

Il padrone che ha licenziato
è lo stesso che manda a morire
è lo stesso che ammazza nel Texas
in Rhodesia, nel Congo e in Vietnam.

I compagni che han scioperato
hanno detto che ‘sta brutta guerra
deve essere l’ultima guerra
per distruggere tutti i padroni.

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Gerusalemme capitale della PalestinaCaro amico (ma anche ma?), perché la parola PACE ti fa tanta paura? Eppure non è una parola fragorosa, non grida, non tuona. Non porta rabbie, non coltiva rancori. E ha dei magnifici colori. E una lunga storia. E forse appartiene di diritto ai territori dei giusti.
Quello che volevo dire inizialmente volevo scriverlo in forma di domande, un po’ retoriche e un po’ carognose, per ricacciare in gola, più nel dubbio che nei fatti, le verità mentite, nascoste, taciute, tradite. Ma poi perché? La storia ha scritto questi giorni come affermazioni. Perché menare il can per l’aia? Prenderci gioco di noi e delle cose? Qui si compongono solo verità che nulla né il tempo potrà mai smentire:
E’ vero che i sionisti non hanno chiesto una terra per gli ebrei ma solo una terra per i sionisti e hanno fatto della religione un pretesto.
E’ vero che, per falso rimorso e per i soldi, è stata data una terra ai sionisti per farne la loro terra, il 60% della Palestina.
E’ vero che è stato detto e scritto che quella era “una terra senza popolo per un popolo senza terra” ed è allo stesso tempo vero che quella terra aveva un nome, Palestina, una storia e un popolo ora occupato.
E’ vero che la politica israeliana negli anni s’è presa più dell’80% di quel territorio, la Palestina, e ancora non basta.
E’ vero che Israele, con chi gli s’è asservito, ha negato la possibilità a quel popolo di veder riconosciuta la loro patria almeno in quel pezzo della loro terra; meno del 20%.
E’ vero che Israele nella terra dei palestinesi ha creato muri (col falso mito della sicurezza), l’ha attraversata di strade solo per israeliani e seminata di morte e di posti di blocco (i cosiddetti checkpoint).
E’ vero che Israele ne limita l’accesso per qualsiasi via, che è stato bombardato l’unico aeroporto e continuamente bombarda le scuole e gli istituti pubblici.
E’ vero che ai bambini palestinesi è pressoché proibito, nei fatti, raggiungere la scuola e che per farlo rischiano la loro incolumità. Che si continua a tentare di abbattere anche la scuola di gomme.
E’ vero che sono state sottratte ai palestinesi quasi tutte le fonti d’acqua lasciando loro solo poche risorse inquinate.
E’ vero che ai pastori vengono ammazzate le pecore.
E’ vero che i contadini non possono raggiungere tranquillamente i loro campi e che se non li raggiungono vengono loro confiscati.
E’ vero che, sempre, con le armi viene impedita ai pescatori la pesca non oltre le venti (20) miglia ma entro le tre (3) miglia.
ETCETERA (si potrebbe continuare all’infinito).
Se Israele vuole cominciare ad essere, come dice di essere, una democrazia deve imparare a parlare di PACE e (soprattutto) di DIRITTI UMANI. Deve porre fine all’apartheid. Deve cominciare ad accettare almeno le risoluzioni Onu. Deve smetterla di massacrare i civili (compresi vecchi, donne e bambini) e di coprirne i massacri. Deve smetterla di educare i propri figli nel terrore e nell’odio verso tutto e tutti cioè deve smettere di essere Israele.

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1948-2012
64 anni di Resistenza in Palestina

C’è una Resistenza in Palestina, una Resistenza che dura da 64 anni. C’è un genocidio in Palestina, un genocidio cominciato più di 64 anni fa. C’è una verità in Palestina, una verità taciuta e mentita, una verità che ha molto più di 64 anni.
Dal Congresso di Basilea (29-31.08.1897, ripetiamo milleottocentonovantasette) Theodor Herzl dà corpo alla sua idea di uno stato per le “popolazioni” di religione ebraica. In realtà inizialmente non viene colto l’aspetto razziale del progetto, ma subito le persecuzioni li fanno persecutori.
Il 2.11.1917 il Regno Unito si impegna, lettera del Segretario per gli Affari Esteri Arthur James Balfour a Lord Lionel Walter Rothschild (banchiere svizzero attivista sionista), a destinare dei territori in Palestina per costituire un “focolare nazionale” con l’intento di dare “una terra senza popolo per un popolo senza terra” cioè la famosa “terra promessa”. Unica piccola anomalia è che quella terra è la Palestina e lì un popolo c’è, quello palestinese, e una cultura, tra le più ricche dei paesi arabi. Dal 1921 è l’inizio della violenza e la fine della storia civile di questi popoli.
Gli anni che vanno dal 1936 al 1947 vedono crearsi le basi per lo scoppio della famosa guerra arabo-israeliana del 1948. Cominciano le proposte di formazione di 2 Stati separati. E’ a questo punto che i sionisti cominciano attacchi terroristici contro inglesi e palestinesi. Nel 1947 gli Inglesi rinunciano al Mandato e passano la palla all’ONU anche perché il potere di influenza sulla regione sta sempre più passando in mani statunitensi. E subito assistiamo al primo massacro, quello di Deir Yassin consumato il 9.04.1948, sei settimane prima della proclamazione dello Stato di Israele e prima che scoppiasse la conseguente guerra nel 1948, con il massacro di circa 200 civili palestinesi ad opera di membri dell’Irgun guidati dal futuro Primo ministro israeliano Menachem Begin ai danni degli abitanti arabi dell’omonimo villaggio presso Gerusalemme ovest, nella Palestina all’epoca sotto Mandato britannico. E’ questo l’inizio di una vera e propria pulizia etnica che dura ancora.
La risoluzione Onu 181 propone l’ennesima divisione in Stati separati, ma gli Arabi rifiutano: agli ebrei sarebbe andato il 54% delle terre anche se erano solo il 30% della popolazione presente. Nel Maggio 1948 gli Stati arabi mandano truppe in aiuto ai palestinesi. Ma già le truppe ebraiche avevano conquistato grandi fette di territorio designato dall’Onu come Arabo, provocando la fuga di 300.000 rifugiati palestinesi. Il mediatore Onu Folke Bernadotte viene ucciso dal gruppo terroristico ebraico Stern a Gerusalemme, e lo Stato d’Israele viene proclamato il 14 maggio 1948. La guerra continua, e all’inizio del 1949 Israele vince definitivamente conquistando il 73% della Palestina. I rifugiati palestinesi sono ora 725.000.
Ai palestinesi, alla fine della guerra, rimane Gaza (con amministrazione egiziana) e la Cisgiordania (con amministrazione giordana). Gli scontri di frontiera continuano fino al 1956, quando Israele (in accordo con la Gran Bretagna e la Francia) attacca l’Egitto (che aveva nazionalizzato il canale di Suez) conquistando Gaza e il Sinai (gli Usa li convinceranno a ritirarsi un anno dopo). Con quel pretesto l’esercito israeliano entra nella striscia di Gaza dove si assiste ai massacri di civili soprattutto a Rafah e Khan Younis vicino al confine egiziano. In realtà nella striscia vi hanno trovato rifugio i profughi palestinesi in attesa di ritorno e comincia ad essere una prigione a cielo aperto, un vero e proprio lager.
Nel 1964 nasce l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp). Questo gruppo compie azioni di guerriglia contro Israele, e verrà visto come l’unica speranza di riscatto palestinese; è l’inizio della Resistenza.
Nel Giugno 1967 Israele attacca l’Egitto. E’ la nota Guerra dei 6 Giorni, che segna la umiliante disfatta araba. In un baleno Israele occupa il Sinai, Gaza, la Cisgiordania, parte del Golan siriano e Gerusalemme Est. Nel Novembre 1967 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu condanna la conquista dei territori di Israele con la risoluzione 242, che specificamente chiede: il ritiro israeliano dai territori occupati e una soluzione giusta per i rifugiati. Egitto e Giordania accettano subito; Israele la accetterà 3 anni più tardi senza però mai evacuare i territori.
Nel 1973 Egitto e Siria attaccano a sorpresa Israele (guerra del Kippur) che è in seria difficoltà, solo grazie a un massiccio aiuto militare americano si riprende e addirittura avanza nel Golan. Interviene la mediazione di Kissinger e un’altra risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, la 338, chiede il cessate il fuoco e il rispetto della risoluzione 242, ma su quest’ultimo punto c’è un nulla di fatto. Iniziano, o meglio continuano i massacri di palestinesi.
Ricordiamo il massacro di Tell El Zaatar del 1976 (20.06-12.08), il nome vuol dire Collina dei Tigli, un campo palestinese alle porte di Beirut di 20mila abitanti. L’esercito siriano, protetto da quello israeliano, isola Tell El Zaatar dalle truppe palestinesi proteggendo il lungo assedio dei cristiano maroniti. 53 giorni dopo ciò che resta di Tell Ell Zaatar si arrende. Più di mille morti, vecchi e bambini, morti di guerra ma anche di fame e stenti, anche se la resistenza armata aveva abbandonato il campo. Si prova a nascondere la tragedia.
Nel novembre 1977 il presidente egiziano Sadat incontra il premier israeliano Begin in Israele e firma a Washington il 26.03.1979 la pace con Israele, primo Stato arabo a farlo (verrà per questo assassinato da killer fondamentalisti nel 1981). Gli Arabi si sentono traditi. Nel 1982 Israele reinvade il Libano, con la scusante di dare la caccia ai cosiddetti “terroristi”, e arriva fino a Beirut con l’aiuto delle milizie Cristiane Maronite libanesi. Gli Usa mediano la fuga dell’Olp e di Arafat da Beirut, dove si erano asserragliati, ma nessuno protegge i civili palestinesi: il risultato è che nel campo profughi di Sabra e Chatila le milizie Cristiane Maronite, protette dall’esercito israeliano sotto il controllo di Ariel Sharon (allora ministro della difesa), sterminano 1.700 civili palestinesi, destando orrore in tutto il mondo. Israele si ritirerà dal Libano (esclusa una fascia al sud) nel 1985, lasciandosi alle spalle 17.500 morti.
Ricordiamo ancora tre piani di pace del 1982 proposti da Usa, Urss e Stati Arabi: gli USA rifiutano la richiesta araba di autodeterminazione per i palestinesi, e ignorano il piano sovietico. Gli arabi accettano tutti e tre i piani. Israele li rifiuta tutti e tre. Iniziano colloqui con una proposta giordano-palestinese: terra ai palestinesi in cambio di pace, accettazione di tutte le risoluzioni Onu, autodeterminazione del popolo palestinese, soluzione per il problema dei rifugiati. Il fallimento delle trattative è da attribuirsi al rifiuto Usa di accettare l’autodeterminazione del popolo palestinese. Mentre il Consiglio Nazionale Palestinese ritrova un’unità fra tutte le fazioni, nei territori occupati il pugno di ferro di Israele, con la costruzione di insediamenti ebraici illegali, con le deportazioni, con le violenze contro i civili e con le torture (che verranno legalizzate dall’Alta Corte di Giustizia israeliana, unico Stato al mondo a farlo) trova un fronte unito, e i giovani palestinesi esplodono nell’Intifada (sollevazione) il 9.12.1987.
Il 13.09.1993 Arafat e Rabin (a Washington) firmano una Dichiarazione di Principi, che comprende il mutuo riconoscimento di Israele e dell’Olp, il ritiro israeliano da Gaza e da Jerico, e un non meglio specificato ritiro israeliano da alcune aree della Cisgiordania entro 5 anni. In base a questi accordi, chiamati “di Oslo” grazie alla mediazione norvegese, è concesso all’Olp di formare una propria amministrazione dei territori che cadranno sotto il suo controllo. Tuttavia gli accordi rimandano a negoziati futuri i punti più spinosi: gli insediamenti ebraici illegali in terra palestinese, il ritorno dei rifugiati palestinesi, le risorse idriche, e il destino di Gerusalemme Est, che i palestinesi rivendicano come propria (come nella risoluzione Onu 242) mentre Israele vuole fare di Gerusalemme la propria capitale. Il resto non è più storia ma cronaca e tutto continua, compresi i genocidi, la pulizia etnica, le vessazioni e il tentativo di impedire qualsiasi parvenza di vita normale, gli espropri e tutto il resto, in una terra martoriata che si chiama Palestina.
Nel luglio del 2000 Clinton convince un riluttante Arafat e Barak ad andare a Camp David (Usa) per finalizzare gli accordi di Oslo. L’incontro naufraga in un nulla di fatto, Arafat è responsabile di respingere la generosa offerta israeliana: viene concesso molto più territorio di quanto fosse mai stato fatto, ma resta il rifiuto al ritiro da Gerusalemme Est, ad affrontare la questione dei rifugiati palestinesi, a rispettare la risoluzione 242, ad affrontare drasticamente la questione degli insediamenti ebraici illegali, e non c’è nessuna continuità territoriale dove costruire uno stato. Arafat non poteva accettare.
Il 28.09.2000 Ariel Sharon, leader dell’opposizione israeliana di destra (Likud), sfila a piedi con un esercito di guardie armate presso la moschea di Al Aqsa a Gerusalemme, uno dei luoghi più sacri della religione musulmana ed è un oltraggio imperdonabile. Le rabbie e le tensioni accumulatesi nei precedenti dieci anni riesplodono nella seconda Intifada. A differenza della prima Intifada (1987-91) questa sollevazione è assai più sanguinosa: da parte palestinese c’è un uso massiccio di armi da fuoco leggere contro i soldati israeliani e talvolta contro i civili, e soprattutto c’è un marcato aumento di giovani kamikaze, mentre da parte israeliana la repressione, le uccisioni dirette e indirette di civili palestinesi, le devastazioni di aree abitate e gli “assassinii mirati” di presunti terroristi e/o di leader politici, non conoscono più limiti. E l’orrore continua.
Per questo chiediamo l’istituzione “anche” di una “giornata della memoria” per il popolo Palestinese in quella data (15 maggio) che loro ricordano come il giorno della Nakba (letteralmente “disastro”, “catastrofe”).

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L'orologio della stazione fermo al momento dello scoppioIl 2 agosto 1980, alle ore 10,25, una bomba esplose nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna.

Nessuno potrà mai dimenticare. Uniti nel dolore ai famigliari delle vittime che chiedono ancora si faccia piena luce sulle responsabilità e sui mandanti. ORA E SEMPRE RESISTENZA.

Manifestazione per il trentennale della strage

Manifestazione per il trentennale della strage

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Rossaura in una foto BN quando era era bambinissimaAnima libera ovvero le difficoltà di un progetto; cioè: “Amenità”. Alcune riflessioni che ospito, forse impropriamente, qui e che diventano appunti di lavoro, pensieri espressi a voce alta, per un lavoro che non si è mai manifestato qui.

Anima libera è nato allora come un esercizio di scrittura a quattro mani. In verità è nato nell’ormai lontano 24 novembre 2010 semplicemente come post a sé stante. Ed è oggi faticosamente arrivato alla parte ventottesima. C’è forse una ventinovesima. Ma nessuna certezza che sappia andare oltre. Allora, dopo quel primo post, ci siamo fatti prendere dall’entusiasmo e decidemmo di proseguire e farne una sorta di saga. Non mi nascondevo le difficoltà legate allo scrivere con due teste e quattro mani. Con difficoltà ha proseguito la sua strada, o più opportunamente la sua tragica vicenda. L’idea era nata, dopo anche animate discussioni, per proseguire quell’inizio. Era un esercizio letterario, se così mi posso esprimere senza rischiare la presunzione, su di un personaggio letterario. Era cioè un esercizio di scrittura basato sulla libertà della fantasia. In secondo piano doveva apparire la testimonianza di quegli anni (circa sedici importanti anni, dal primo dopoguerra alle soglie del sessantotto). Naturalmente il tutto da un’ottica che rispettasse la sensibilità femminile. Da subito però si è creata difficoltà a causa di una forte identificazione con il personaggio. E una seconda perché spesso la cronaca “pubblica” balzava in primo piano e prendeva il proscenio. La tensione per rendere coerente il personaggio principale e narrante con tale identificazione gli ha spesso, quando non sempre, tolto la possibilità di agire in funzione di un racconto di fantasia, di finalizzare i suoi atti e le sue scelte. La bambina, poi ragazza, ha mostrato più i limiti che l’ansia di superare il copione che era stato scritto per lei. Per lei come persona di quegli anni e per lei come donna. Ha violato i suoi sogni. Poteva tutto e invece era costretta a vivere nelle vesti che le erano state imposte dalla realtà. In ogni cosa condivisa si deve cercare una strada mediana, questo lo so, se la scelta è mai stata di una strada mediana. Questa è anche la testimonianza di come è difficile condividere con altri anche le piccole cose quando la condivisione cerca di affondare realmente nella carne delle stesse persone. Siamo animali sociali che però vivono i loro rapporti con gli altri mantenendo una forte autonomia e senza voler giungere a un compromesso dialettico. Con questo non dico di trarmi fuori da questo vizio, di esserne immune; vivo anch’io immerso nella realtà e nelle problematiche come tutti. Debbo dire che amavo quel personaggio e quel lavoro e di non voler sollevare alcuna polemica né di liberarmi da responsabilità. Alle soglie del fatidico sessantasette, con un mondo in ebollizione, “la ragazza” fatica ad aver dubbi e ad elaborare una vera sensibilità, più o meno univoca, per ciò che si prepara; non riesce a percepire le cose. Una banale interferenza (come l’inserimento di un post completamente estraneo) non determina la crisi di tale impresa, ne è solo una testimonianza. Il limite è il tentativo di ricordare che si sostituisce alla voglia di immaginare e sognare. Io immaginavo una Anima libera a cui il quotidiano scoppia continuamente davanti agli occhi e che lei scopre con meraviglia. Aveva, in quel primo post, strumenti surreali di narrazione, se vogliamo volutamente iperbolici. Il risultato a seguire è stato diverso, non meno gradevole, spero, ma diverso; e me ne assumo la mia parte di responsabilità. Questo sembra quasi un addio ma non sono certo che siano queste le mie intenzioni. Il personaggi non soffre di schizofrenia, ma di un tradimento non voluto da parte di una coerenza testimoniale. Dove proprio la fantasia dovrebbe essere donna viene a mancare ed emerge una volontà di etica di una tramandazione personale. Non è mai esistita quella prima Anima e non poteva esistere, esiste troppo questa seconda e, ai miei occhi, non ha fascino. Non era e non doveva essere un quasi diario. Oggi è qualcosa di più e qualcosa di meno. Anima è così destinata a non cambiare nulla e a soccombere alla vita e alle prime difficoltà. E’ destinata a cercarsi e aspettarsi invano. Queste sono le mie apprensioni per il personaggio. Sembra banale ma chi scrive si innamora sempre dei propri personaggi, anche quando debbono comportarsi da personaggi negativi quali debbono essere. E non è questo comunque il caso. Non capisco perché Anima libera debba commettere gli stessi errori dei suoi autori. Lei è appunto un’Anima libera.

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linguacciaE’ strano come i ricordi ci tirino, a volte, scherzi birboni. Ci Avete mai pensato? Parlavo con un’amica, un’amica di blog. Non è di quel rapporto che voglio parlare. Per principio ammetto che questo in me avviene o almeno può avvenire. Ti confronti con una persona e, a distanza di tempo, cose che tu pensavi di ricordare bene lei le dipinge in modo diametralmente opposto. Magari se cerchi una testimonianza terza avrai anche una terza versione dell’accaduto. Non sono qui a stabilire chi avesse o porti ragione. Non servirebbe. Sarei di parte. Non è il senso di questo post. Naturalmente ho ragione io, ma questa è una conclusione scontata ancorché ironica. La ragione se la prende, alla fine, chi ne parla, cioè ognuno si costruisce la propria ragione. Naturalmente sono io il più buono. Ho pure assistito alla costruzione di una ragione anche sull’assurdo. Ci sono casi in cui ci si convince di una cosa, e penso si arrivi a farlo in totale buona fede, perché abbiamo bisogno di giustificare la nostra etica. Inveiamo verso una persona e poi ci convinciamo del momento preciso in cui siamo stati provocati, magari invece era solo la nostra stanchezza. Non paghiamo un debito ma a guardar bene un po’ di giustificazioni le abbiamo, magari il lavoro era male eseguito o comunque lui ne ha meno bisogno di noi. Certo io non lo faccio mai, cioè non lo ammetteremo mai. Credo che il meccanismo possa essere inconscio e pertanto siamo autorizzati a non ammetterlo. Per fortuna con Lei, il mio caro e tenero e dolce grande amore, non si è mai verificato nulla del genere. Quando rammentiamo lo stesso episodio lo ricordiamo alla stesso modo; uguale. Magari nel commento dei ricordi dell’altro diamo interpretazioni discordanti, ma questo è un problema periferico e poco importante. Quando allora usai espressioni poco carine, ma poco poco e non pesanti, solo stupide, le ricordiamo uguali, e io le ho ricordate sempre e sempre me le sono rimproverate. Ma torniamo a noi per ribadire che la barca dei nostri ricordi fa acqua. Avevo messo il telefonino sopra il tavolo e non lo trovo più. “Chi me l’ha spostato”? “Sono sicuro di averti detto alle sette”. In realtà, in questo caso, ma solo in questo caso era vero e anche lei aveva sentito sette, solo non avevo specificato il giorno. Per fortuna la mia compagna è anche puntuale ma ne ho conosciute che una mezza giornata non era sufficiente per un loro ritardo. Poi ricordavano male e avevano capito le cose più inverosimili. E non parliamo poi delle promesse d’amore. Intorno al tema sono stati scritti interi romanzi. Nel ricordo le parole sfumano e si mutano; in una processo di aggiornamento che soffre la memoria. In certo momenti verrebbe voglia di non ricordare, quando lo stesso ricordo non è addirittura una condanna. Tutto questo, alla fine, è solo frammenti di niente. “Avevi detto dal parrucchiere”. “No! Avevo detto da mia mamma”. “Solo che mammina ha chiamato per cercarti”. Questo è un pallido esempio se lo pensiamo all’interno dei piccoli rapporti interpersonali. Proviamoci e pensiamolo in politica: “io non ho mai affermato che diritti e doveri sono uguali per tutti, non vorrai paragonarmi con una che non si sa ne da dove viene che dove vuole andare”? La più bella è racchiusa in tanti inizi di frasi. Un esempio. Se una persone interviene con “non per essere razzista” è certo non solo che non conosce il significato del termine xenofobia, ma è altrettanto sicuro che si rimangerà tutto e contraddirà anche all’interno della stessa frase. E ne ho conosciuti tanti che sarebbero stati pacifisti ma erano gli altri che li facevano incazzare. Insomma la politica de io la butto giù questa porta se non mi fai entrare. E allora io ricordo di aver votato per l’elezione di alcuni che avevano detto di andarci per rappresentare me. Ci sono andati per mangiare loro. Chi ricorda bene? Non ne sono certo ma troverei strano aver dato loro il voto se mi avessero promesso che ci andavano a mangiare. E potrei portarne di esempi fino alla noia, ma poi si chiamano anche luoghi comuni. Insomma, alla fine, chi aveva iniziato la discussione che mi ha portato a riflettere così sul valore del ricordo? Io, lei? Cosa importa se fuori fa un caldo equatoriale e io comincio a far parte delle categorie a rischio?

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Ancora musica anni settanta. In realtà questo disco (In the court of crimson King) dei mitici King Crimson li anticipa perché esce nel 1969. Gran disco da ascoltare tutto intero in religioso silenzio. Un disco fondamentale con alla chitarra quel gran genio e maestro di cerimonia qual è Robert Fripp. E i testi sono dell’”esterno” Pete Sinfield che ha curato inoltre un originale ed efficace spettacolo di luci. La loro è musica che influenzerà molto e che risuona anche in alcune delle cose dei nostri New Trolls. Qui mi fermo perché mica voglio fare il saputello e travestire questa semplice rubrica di ricordi e inviti in una sorta di spazio critico e saggistico. Io ho continuato in quegli anni ad ascoltare musica, come e con che soldi mica lo so. Non posso ricordarlo. Forse frutto di una rapina. Mi sono trovato una casa da riempire dei miei dischi. Ora quei dischi li ascolta e li coccola mia figlia. Ho storie e leggende sulla mia musica, ricordo di averne regalata molta per poi ricomprarla, ma, essendo di “umili origini” e di altrettanto umili e testardamente misere finanze, non ricordo con quali costi sia entrata nella mia vita. Ricordo l’amore. Ricordo i primi 45 giri. La faccia del padrone quando mi recavo nel mitico negozio di Gabbia e chiedevo assieme le cose più strane. Fece un commento sorpreso quando lo pregai di farmi ascoltare, lontano 1963, in rapida successione i Rolling, il primo Dylan e Ivan Della Mea. Capitava che li sentisse per la prima volta con me. Allora non avevo ancora scoperto, e nemmeno c’erano, i negozi di importazione. La musica aiuta a vivere e insieme diventa emozioni e ricordi, ricordi che poi ho portato con me.

The wall on which the prophets wrote
Is cracking at the seams.
Upon the instruments of death
The sunlight brightly gleams.
When every man is torn apart
With nightmares and with dreams,
Will no one lay the laurel wreath
As silence drowns the screams?

 

Between the iron gates of fate,
The seeds of time were sown,
And watered by the deeds of those
Who know and who are known;
Knowledge is a deadly friend
When no one sets the rules.
The fate of all mankind I see
Is in the hands of fools.

 

Confusion will be my epitaph.
As I crawl a cracked and broken path
If we make it we can all sit back
and laugh.
But I fear tomorrow I’ll be crying,
Yes I fear tomorrow I’ll be crying.

Il muro su cui i profeti hanno scritto
Si sta spaccando alle giunzioni
Sopra gli strumenti di morte
Brilla la luce del sole
Quando ogni uomo è fatto a pezzi
Dagli incubi e dai sogni
Deporrà qualcuno la corona d’alloro
Mentre il silenzio affoga le urla?

 

Tra i cancelli di ferro del fato
Furono piantati i semi del tempo
Ed innaffiati dalle gesta di coloro
Che conoscono e sono conosciuti
La conoscenza è un amico letale
Quando nessuno fissa le regole
Io vedo che il destino dell’interà umanità
E’ nelle mani di sciocchi.

 

La confusione sarà il mio epitaffio
Mentre striscio su un sentiero accidentato e in rovina
Se ci riusciremo potremo tutti sederci
E ridere
Ma temo che domani piangerò
Sì, temo che domani piangerò

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pittura con tecnica mista su cartone telatoAlberta non c’è. E’ stata abbandonata dal suo passato. Mi guarda con quegli occhi azzurri. “Ma quando ci siamo conosciuti”? Sono ancora i suoi occhi, pieni di tenerezza. Ma sono occhi colmi di timidezza. Frugano cercando un loro orizzonte. “Come”? Chi sa si chiede perché. E persino le domande portano imbarazzo. Pare impossibile. Muovi un gesto di tenerezza. Lo riconosce senza capirlo. C’è stata una storia tra noi. Non riesco a scordarla. E’ lei e non lo è più. Come se dovesse toccare le cose con le mani. Come dovesse palparle. Piena di domande. Senza una risposta. E la mano scivola sui suoi lunghi capelli biondi: “Perché”? E’ cieca delle cose. Non so e non riesco ad accettarlo. So che non riesco a capirlo. Quello che è per me non è per lei. Questa pena è la sua felicità. Guarda le persone che entrano chiedendosi se hanno fatto parte della sua vita. Le invita con gli occhi a sedersi. A spiegarsi. E’ come una bimba. Ma tutto e più difficile. E’ come una bimba in un mondo di adulti. Tutti vorrebbero proteggerla. Io vorrei scuoterla. Spaccare questo diaframma. Farmi capire, ma persino le parole sono come un assurdo indovinello. “Non ricordo nulla di lui, ma è tanto caro”. Ero io lui. Porta nella borsa un rosario di ametista. Chiedo scusa ma debbo andare. Chiedo scusa per non farle vedere che piango.

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