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Posts Tagged ‘Raggiro’

Piccoli gialli italiani18. Matilde è allegra: “Se vuoi uccido i due mocciosi così hai qualcosa da scrivere”. Non le piace vedermi così irrequieto. Annoiato. Non sarebbe male. Finalmente un vero giallo. Una scossa per la città assopita. Solo per un breve istante temo che lo possa aver fatto davvero. Stupido. Come mai è libera, e ha tutto il tempo per me? Naturalmente scherza e il suo sorriso lo denuncia apertamente. Poi mi ricordo che è sabato. Dobbiamo fare due spese. Matilde ha promesso di cucinare per me.
Siamo quasi sulla porta, prima di entrare, quando la vedo e la riconosco subito. È proprio lei. In carne ed ossa. Una delle mie eroina preferite. Anzi la preferita in assoluto. La biondina amica di Loriano Macchiavelli, cioè di Sarti Antonio, sergente. Non Cristiana Borghi, la sosia che, secondo me, nemmeno è tanto bionda, ma proprio l’originale. La blocco: “Matilde, lei è Leda”. “Scusi. Ci conosciamo”? “Ci siamo visti spesso. Bernardo. Ci siamo incontrati in tanti posti; in tante pagine”. Lei finge mirabilmente di ricordarsi. Cerco di spiegare il mio entusiasmo a lei, a Matilde: “Lei, Leda, è”… Matilde non è mai maleducata, semplicemente non è coinvolta. Taglia corto. Quando c’è un’altra donna nei miei paraggi Matilde si fa sempre un po’ scontrosa. Anche un poco taciturna. Dopo la mia non storia con Cinzia, detta anche Hollywood party, le cose sono migliorate, da questo punto di vista. La sua diffidenza va un poco meglio. Meglio non vuole dire bene. Semplicemente si fida un poco di più. Ma non è disposta a rischiare. E non è sicura di conoscermi ancora così bene.
Ma io penso alla nuova amica: “Come mai da queste parti”? “Mi hanno invitata ad una festa. In maschera. È una buona occasione per vedere là città”. “Ne ho sentito parlare. Ne avrei dovuto scrivere. Non ho trovato un biglietto”. In verità non ho trovato i soldi. Non era un costo che le mie tasche potessero sopportare. “Ma tu che fai? Il giornalista”? “Ci provo”. “Perché non venite con me. Il mio è un invito gratuito. Mi farebbe piacere. Non vado volentieri da sola”. Un tuffo al cuore. Matilde cerca di evitarlo: “Veramente avremmo da fare. E poi non possiamo presentarci così”. Un tuffo al cuore. Mi salva la Biondina che insiste. Alla fine Matilde non può più dirle di no. Si arrende. La due spese vanno a farsi benedire.
La villa è grande e bella. Gli interni mi lasciano senza fiato. Marmi. Splendidi affreschi. Molti dei presenti camuffati hanno un’aria furtiva. Compresi i padroni di casa. Sono gentili e ci accolgono fin troppo calorosamente. Lui ha raccontato alla città intera di essere conte, non si sa di cosa. La verità è che deve la sua cospicua fama alla moglie, e ai suoi fortunati inizi come venditore di carni all’ingrosso. Invece la reputazione della contessa è evidente, basta guardarla. Indossa un abito adatto, da nobildonna di Versailles, credo. La maschera le cela il viso ma la scollatura mostra tutto quello che c’è da vedere di lei. Il prosecco è un mare in tempesta. Camerieri impettiti si occupano di tenere sempre colmi calici dai gambi molto longilinei. Nemmeno le tartine non sono male.
Avverto Matilde prima di allontanarmi. Lei mi controlla a vista. Non si allontana mai. Ma non c’è un solo angolo dove uno possa stare tranquillo. “Che ci fai qui, tutto solo, bel giovanotto”? “Veramente sarebbe degli uomini”. “Lo so bene, non mi riconosci. Sono la padrona di casa. La signora contessa”. E si abbassa la maschera su un sorriso invitante. “Veramente cercavo quell’attimo di intimità”. Lei sembra divertita. Mi crede spiritoso: “La devi fare. Falla pure. Che c’è, ti vergogni? Guarda che una contessa è anche una donna”. Non vorrei sembrare un provinciale. E lei non è più una ragazzina: “Era… un falso allarme”. Probabilmente si aspettava di trovare qualcun altro. Ha trovato me. Alza le spalle. Alza spudoratamente la larga e pesante gonna fino a farmi vedere che non porta biancheria intima: “Siamo qui per divertirci. Non credo di non conoscerti. Rimediamo. Divertiamoci. Spero che tu sappia farmi divertire”. Vorrei farle ingoiare i suoi sospettosi dubbi. Vorrei… Per dire la verità lei è pronta ad incoraggiarmi. Se non fossi lesto avrebbe già allungato la mano. Giusto in tempo a sottrarmi ai suoi artigli nobili e mortali. Eppure stregato dai suoi occhi lascivi. “Mi scusi… ma… mi stanno aspettando”. Letteralmente scappo, mentre lei mi apostrofa, pugnalandomi alle spalle: “Stronzo… Finocchio”.
Definirsi giornalista spoglia qualsiasi ipocrisia, e non solo quella. Ritrovo Matilde allo stesso posto, ma un poco più impacciata di quando l’ho lasciata. Mi spiega che la Biondina si è dovuta assentare per un po’, e che si scusa. Hanno affittato una parte della villa, dove non si può andare, ad una troupe per un film. Pare che la villa si mantenga anche con quello. Le chiedo se c’è qualcun’altro di famoso. Mi tratta come uno scemo: “Uno di quei film; cretino”. Non capisco subito. Lentamente reagisco. La contessa ancora non è tornata a farsi vedere. Il marito conte continua nella sua brillante opera di anfitrione. Io mi faccio prender dalla curiosità. Magari trovo uno spunto frizzantino. Ci incamminiamo nella direzione verso cui è scomparsa la Biondina. Un lungo corridoio, una scala e poi un altro lungo corridoio. Una porta senza porta, il divisorio è fatto da due pesanti tende. Arriviamo ad una larga sala, quasi più affollata di quella da dove siamo venuti. Si capisce subito che quello è il posto giusto. Sono creduto il primo gradino per trasformare una nessuno in una qualcuno.
Una lunga fila di ragazze e donne attende per il provino. Cercano comparse. Presumo sia un’assistente quello che gira tra la fila e le palpa e le controlla. E le rimette al loro posto. Alcune le conosco: frequentano, o continuano a frequentare, la mia stessa facoltà. Solo una fa un cenno. Le altre fingono di non riconoscermi. Per la maggior parte sono giovani. Le più sfacciate, o le più temerarie, non hanno già più nulla addosso. Altre hanno solo i seni fuori, in bella evidenza. In una rastrelliera ci sono gli abiti che si sono tolte. In un’altra quelli di scena. Qualcuna mi lascia letteralmente basito e sorpreso. Non avrei mai detto che lei… Di trovarla là. Così, nuda, faccio fatica a riconoscerla. Anche lei finge di non vedermi, e distrae lo sguardo. È una visione buffa quella della signora un po’ avanti di età e di peso, e con le carni ormai rilassate. Probabilmente ha smesso di sognare, lo spero per lei. Tiene la borsetta stretta con rabbia davanti al ventre. E fatica a sollevare gli occhi. Mi sento nudo anch’io.
Si avvicina subito un bassetto con la fronte spaziosa e gli occhiali in cima. Guarda lei con occhio attento e professionale, e me con disprezzo: “Se la signorina vuole provate? Per noi sarebbe un… piacere. Mi sembrerebbe perfetta. Anche un poco di più. Le faccio saltare la fila. Ma lei, giovanotto, cosa ci fa qui? Questa è un’area privata. Non ci può stare”. Finalmente posso dire la frase che ho sempre sognato di dire e che cominciavo a temere che non avrei mai potuto fare: “Stampa”. Mi dà l’aria del regista: “Allora lei… signorina… Cosa ne pensa? Può essere la sua grande opportunità. Cinema. Rotocalchi. Magari in po’ di tv”… Lei mi guarda come dovesse chiedere permesso a me. Io la guardo e so che sa. O magari lo spero. Lei fa no con la testa e ringrazia: “Grazie”. Lui torna a guardarla come prima, da intenditore, e anche troppo a lungo. Decide di insistere: “Guardi che me ne intendo. Ne ho viste… ma… Lei avrebbe, negli occhi, lo sguardo giusto; –la talia ancora accuratamente– e anche tutto il resto, per diventare una vera star. Ci pensi. È per il suo ragazzo”? “Grazie, ma no. E non è per lui. È per me. Lui è… è… un amico”. “Peccato. Ma fate pure liberamente”.
Ci avviciniamo alla coda curiosi. La provoco scherzosamente: “Sei convinta”? Lei spia i miei occhi e mi ha già sgamato: “Certo”. Mi fingo sorpreso: “Perché”? Abbassa il tono della voce. Non vuole che altri ci sentano: “Dovresti saperlo. Non potrei mai farlo. Non mi piace che gli altri mi guardino. E poi fare quelle cose… farlo mentre mi guardano. Davanti agli altri. O sapendo che comunque mi vedranno. Per nulla al mondo. L’amore, e il sesso è lo stesso, per me dovrebbe restare una cosa privata. Mi vergognerei troppo. Ma non giudico le altre. Forse sono io l’ipocrita”. Le ragazze si spingono. Lottano per la fantasia, e la labile opportunità, di accedere al mondo del successo. Per il loro sogno, non troppo segreto. Illuse. Si sentono tutte attrici, e tutte disposte a tutto. A ognuna viene chiesto di girarsi anche di profilo e di spalle. Se ha già un po’ di esperienza. La maggior parte ammette di no, ma che “Penso di avere le capacità adatte”.
Qualcuna ha partecipato a qualche recita privata. Quella non più giovanissima alza la borsetta come una liberazione, e alla fine scappa con le lacrime agli occhi. È stata presa. Viene loro chiesto di recitare una brevissima frase, sempre la stessa. Poi di ansimare. Infine di mostrare un po’ delle loro grazie. Nessuna remora, naturalmente. Qualcuna promette faville per il registra e tutta la troupe. Qualcuna insiste per far vedere che sa anche ballare e per far sentire che sa anche cantare. Le più sanno che sarà solo porno, ma poche sarebbero disposte a dirlo. Torno a provocare Matilde: “Sei ancora sicura”? Me lo merito. Mi fulmina con gli occhi. E non gradisce il mio manifesto interesse per quelle nudità esibite.
Una è la contessa. Non si è tolta la maschera, ma riconosco le sue tette. Anche lei vede me. È ancora indispettita, non perché l’ho colta in flagrante. Sputa, a denti stretti, un’offesa verso la mia accompagnatrice che né io né lei possiamo sentire. Una, quella subito dopo, è proprio bella, bella e rossa. Lei sì ha un’aria veramente altezzosa. E raffinata. Per me è anche troppo bella per fare solo la comparsa. Dice la frase, poi circonda la lingua con le labbra rosse e la ritrae, in un gesto esplicito e provocante nei confronti del regista. Leda se ne sta in disparte e le guarda tutte con l’aria della competente. Il piccolo regista si prende una pausa. Viene verso di noi: “Stasera si fanno solo provini. Dovreste passare domani che giriamo i primi esterni”. “Non mancheremo”. Precisa che la villa che sarà ripresa dall’esterno sarà un’altra. Contigua: “Sa… è per la contessa. Anche se dalle finestre non si può nascondere la città”.
Se fosse per Matilde ce ne staremo per i fatti nostri, naturalmente, ma per accontentarmi, e non lasciarmi solo, decide all’ultimo momento di accompagnarmi. Mi segue ma senza entusiasmo e immusonita; non solo per essere stata costretta ad una levataccia. Cerco di spiegarle che è lavoro. Loro, col loro sogno, io col mio. Alle cinque l’aria è frizzantina e la luce ancora esangue, ma le strade sono quasi vuote. Nel cinema convenzionale si potrebbe definire una scena di massa. Tutti con tutti. Si liberano, in parte o completamente, degli abiti che abbandonano a terra, e alcuni sono già completamente nudi. Il regista spiega come il carnevale sia una festa pagana e carnale. Che libera gli istinti. I partecipanti si spogliano di tutto come in preda a un transfert o a una ipnosi. Dietro le maschere si sentino liberi di essere quello sono, ma solo in segreto.
Qualcuno, come da copione, troppo preso dalla smania non finisce di spogliarsi, e qualcuno nemmeno comincia. Il regista torna a gridare continuamente che non devono guardare in camera. Che lo dice lui quando farlo, a chi deve farlo, e dà indicazioni. “È quasi solo nei primi piani. In soggettiva”. Bestemmia alla santa Vergine. Io non so restare del tutto indifferente. Posso limitarmi a fingere di esserlo. Gli occhi di Matilde passano da un rimprovero al successivo. Le sue espressioni passano dallo schifato, allo scandalizzato, al sorpreso, all’incredulità. La Biondina si limita a sussurrare suggerimenti al regista. Lui, senza interrompere il lavoro, chiama un assistente per farsi togliere dall’imbarazzo. Non deve avere grande esperienza nemmeno lui. Invece quella segretaria di produzione con gli occhiali sembra esperta o lui troppo impaziente. La nostra consulente lo rimprovera: “Potevi chiedere”. Poi viene da noi a spiegarci che, poveretto, si è riciclato dal cinema vero.
Potrebbe essere una scena per un Giudizio universale. La rossa è proprio una gran gnocca. Qualche maschietto si è già raffreddato troppo presto a causa della temperatura. Qualche altro è entrato in panico. Poi ci sono quelli che, presi dall’entusiasmo, hanno esaurito troppo presto le energie. Mi sembra tutto una grande confusione. Arriva finalmente il momento della battuta della protagonista che canna tragicamente. Invece di esclamare: “Vengo!” sospira: “Svengo!”. Uno di quelli che trastullava le dà della vecchia baldracca. Il regista, fuori di sé, interrompe la scena. Tutto da rifare. Annuncia una pausa: “Gli ignudi si rivestano”. Una ragazzina, che se non dovesse avere almeno diciott’anni ne avrebbe tredici, continua imperterrita nonostante lo stop. O non ha sentito o vuole sempre finire quello iniziato, o vuole dimostrare la sua professionale e indefessa disponibilità al lavoro. È tutta sudata. E talmente testarda che la devono staccare a forza. Il suo lui, che è anche il suo compagno di vita, ringrazia. Ha negli occhi una preghiera disperata e, vista l’età, deve aver preso qualcosa.
Il regista ci viene incontro. Gira la testa per un attimo e grida che ognuno riprenda il proprio costume, senza fare confusione, scherzi o allontanarsi. Qualche attore ha bisogno di più di una marsalina. E non solo per scaldarsi. Anche una delle comparse profitta della pausa e viene verso di noi. Mi deve aver confuso con qualcuno di importante, forse perché il regista ha preso a chiamarmi dottore. Davanti a Matilde mi guarda puttanescamente, si umetta le labbra e mi chiede, con un sussurro ingozzato di lascivia: “Vuoi”? Mi ha quasi abbassato la lampo prima che possa rispondere. Matilde è più veloce a mandarla a cagare. L’aspirante Greta Garbo la guarda con disprezzo, andandosene le dà della povera scema e della ipocrita bigotta, e torna a mescolarsi con la compagnia.
Mi rendo conto che siamo spettatori, e forse complici, di reato. O più d’uno. Cerco di fare un elenco dei miei timori. Atti osceni in luogo pubblico. Pornografia. Turbativa. Qualche grammo di droga. Magari persino invito al libertinaggio e induzione alla prostituzione. Lenocinio. Uso di arma impropria e di oggetti atti a… dare diletto. Blasfemia. E penso anche tanto altro. Che ne so? Mica ho studiati legge. E, mentre il regista ci chiede che ce ne pare, e se Matilde ha cambiato idea, io gli manifesto i miei dubbi e le mie paure. Lui ride. Mi tranquillizza: “Non è passato nessuno e sono già le sette passate. Non ti sei chiesto perché. L’appuntato Buonadonna è un caro amico. Per un regalino ha creato una sorta di cordone sanitario. Nessuno può passare. Ho dovuto mandargli anche una delle… una delle attricette, per convincerlo dei residui eventuali dubbi. Non è un problema. Ne è rimasto soddisfatto”.
Prima di tornare a Bologna prego la Biondina di affiancarmi nella mia fatica, con la sua esperienza e le sue conoscenze. La Zia gira per le stanze a spolverare. Non si fida molto di quella donna non più giovanissima. Per quello nemmeno Matilde si fidava troppo a lasciarmi solo con lei. Mentre la Zia ci gira le spalle lei mi sussurra come un soffio di brezza: “Ne hai bisogno? Vuoi prima o dopo”? La voglia ci sarebbe da ieri. Non posso tradire la fiducia. Devo tenermi i pantaloni addosso. Non voglio mancare di rispetto né a Loriano né ad altri. Ha un sorriso diafano: “Non ci sarebbe nessun male e nessun peccato”. Cerco di chiarire che, apprezzo la sua gentilezza, ma: “Né prima, né dopo”. Lei mi spiega che non c’è problema. Che Sarti Antonio, sergente, è solo un amico. Scopano, ma da amici. E mi ricorda che so qual è il suo mestiere: lei è puttana, non per diletto né per vocazione. Lei è puttana perché la vita l’ha fatta nascere puttana. Ha negli occhi un sorriso mesto e distaccato: “Non sarebbe nemmeno lavoro”. Poi, finalmente, ci mettiamo a pensare all’articolo.
È stata una scelta giusta. Lei sa i nomi propri di ogni gesto e performance di quel sesso senza limiti. Mi sa rendere edotto della meccanica di ogn’uno di quei gesti. Di ogni oggetto di scena. Sullo scopo. È scientifica. Non sono un drago, ma mi spiega anche quello che so o ch’è facile intuire. Lei conosce bene quell’ambiente. Meglio un’informazione in più che una in meno. Dal questurino c’è andata di persona, per sicurezza. Così denuncio la nudità pubblica. La corruzione. L’oscenità dissoluta proprio nei pressi del vecchio palazzo del potere. La dissolutezza dei costumi dei concittadini consenzienti, partecipanti e di quelli tolleranti. La produzione di opere pornografiche. Il mercato della vergogna. La complicità della classe politica locale. La connivenza e il favore delle forze dell’ordine. Naturalmente ometto di fare il nome di Buonadonna, appuntato. Così come, di mia autonoma iniziativa, taccio il suo, per rispetto sia di lei che di Sarti, sergente. Mi limito a scrivere: «con la gentile e professionale consulenza di una notissima e famosa professionista del mestiere, nonché grande diva letteraria, interpretata sullo schermo da Cristiana Borghi. Con grande orgoglio firmato Bernardo Carafa e la Biondina».
Finalmente pubblicano un mio articolo nel quotidiano più importante del comune. Quello che chiamano “La servetta puttana docile”. Mi avverte Afro dandomi del soffia. Lo leggo con Matilde che smaniava di raggiungermi per assicurarsi che la Biondina fosse già ripartita. Non sono moralista. Lo lascio fare agli altri. Obietta che è solo sesso. È domenica. Naturalmente non lo pubblicano per intero. Stralciano gli attacchi alla classe politica e alle forze dell’ordine. Edulcorano un po’ tutto, ma la denuncia c’è. Si chiedono chi sia la coppia nobile ospitante tanta dissoluta depravazione? Chi la turpe massaia? Chi l’attore più resistente? Lasciano a intendere che non c’è sorpresa per le studentesse che sono tutte puttane. Spiegano –come ho dovuto fare anch’io– che non possono divulgare nessuna foto perché troppo esplicite. E soprattutto non pubblicano a mio nome. Alla fin fine è meglio così.

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Piccoli gialli italiani17. La sua voce è concitata e frettolosa, la linea disturbata: “ Non ho molto tempo. Li senti? Quei due demonietti stanno facendo il diavolo a quattro. In salotto. Volevo solo sentirti. Dirti… Tutto bene”? Balbetto: “Sì! Sì! Sì! Certo”. Lei avverte che i miei sì non sono molto convinti. Ha quella sorta di radar. Inoltre di quella casa non so se mi posso fidare. Lo so che ci vediamo stasera. Non so se riuscirò ad aspettare. Abbasso lo stereo. Insiste. Per me un po’ di tempo lo trova: “Dimmi cosa succede. Non farmi stare in ansia”. Cedo: “Gliel’ho detto che io non mi occupo degli eventi culturali. Mi hanno risposto che, quello, si è rotto una caviglia scendendo dalla sua preziosa moto. Che erano disperati. Che doveva uscire. Che in cambio mi fornivano una traccia succosa”. Tira un sospiro di sollievo. Si tranquillizza: “E allora va tutto bene”. Ma… “E sarebbe”? “È solo che il portatile è in panne. E sai la mia vita con il modem”. Lei ha sempre una soluzione semplice, facile, per tutto: “Puoi andare da me, usare il mio. La password la sai, no? E allora”? Questa volta la soluzione non può funzionare. Non sono proprio quello che si dice uno scassinatore provetto. Lei legge il mio tentennamento e il mio: “Però”… Matilde, dovresti smettere di spiarmi in testa. “Dovrebbe esserci ancora Cencio. È il mio padrone di casa. Aveva bisogno di alcune cose che gli tengo. Lo avverto. Magari perché Cencio te lo spiego un’altra volta. Devo proprio andare. Vedrai che lui ti aspetta. Ciao. Bacini”.
Suono e viene ad aprirmi una ragazza alta, con un accappatoio bianco che a lei sta naturalmente corto, e i capelli ancora bagnati. “Scusa… non credo tu sia Cencio”. Ride e porta la mano a nascondersi i denti: “Cinzia, Puoi anche chiamarmi Hollywood party”. “Va bene solo Cinzia”. Non riesco subito a capire. Non so chi sia e perché sia venuta lei ad aprire. “Lui doveva andare. Ero passata a vedere se c’era Tilde, per farmi prestare un libro. L’ho chiamata. Mi ha avvertito. Le ho detto di stare tranquilla. Che ti avrei volentieri aspettato io. Che non era nessuna fatica. Che glielo avrei fatto un piacere. Ho approfittato per farmi una doccia. Ti spiace? Ero sotto, come puoi vedere, quando hai suonato”. L’accappatoio le sta corto, e il cordone della cinta è appena allentato. Non si vede molto più delle lunghe gambe sottili e qualche brandello di pelle ancora umida. Non che sia troppo curioso… O almeno cerco di non esserlo. O almeno di non darlo a vedere. Ho l’impressione che non si darebbe comunque più cura.
Sembra che nulla la possa preoccupare. Forse deve finire di sciacquarsi. È solo per questo… Mi spiace di essere arrivato così… subito. All’improvviso. Non sapevo… né potevo immaginare: “Fai pure, tranquilla”. Non era certo quello che intendevo. Lei slaccia il nodo e lascia cadere il chimono di spugna. “Spero che non ti dia imbarazzo”. Che alto posso fare? Non è vero, ma nego: “No!”. È sottile. La pelle ha un pallore quasi irreale. Gli occhi sono due piccoli sputi trasparenti. Ha due minuti seni da ragazzina. E sotto è depilata. Quando la mia faccia lo nota lei ride. Diversi tatuaggi le arredano il corpo qua e là. Sembra completamente a suo agio. Anche così. Nuda. “Ti dispiace”? Mento per la seconda volta. Temo non l’ultima. Lo faccio consapevole di mentire, e del peso della menzogna: “No”! Non è niente male, anzi… “Allora… saresti il nuovo ragazzo di Tilde”? “In un certo senso”. Sembra divertita. Si fa guardare e vuole che la guardi. “Lei mi ha detto che saresti passato. Che vorresti diventare giornalista. E che scrivi già in alcuni posti”. “Già”! “Vorrei raccontarti una storia. E magari viverla assieme”. “Prova”. Mi giudica per un istante, indecisa: “Non ti piaccio”. “Tutt’altro, ma”… Forse dovrei fermarmi qua. La mia immobilità la sconcerta, ma non la turba né la frena: “Non mi trovi abbastanza bella”? “Certo”.
A volte le donne sono fin troppo curiose. Quasi sempre le donne restano quel mistero. I capelli prendono luce dal sole che filtra dalla finestra, ma non riescono a dare colore al suo viso. Credo che le tende non siano nemmeno accostate. Le labbra non hanno quasi rossetto. Nemmeno gli occhi. Bella è bella. Almeno carina. Ha dita lunghe e nervose. Il naso sottile. Forse la fronte lunga. Ha un che di… androgino. “Perché non mi scatti una foto”? “Non saprei cosa aggiungere”. “Guarda che puoi respirare. Guarda che siamo amiche. E per te? Perché non scrivi… parole di fuoco sulla mia pelle? Potresti provarci, almeno. O sono così male”? Mi suona fasulla. studiata: “Io scrivo vera”… Ride e mi sbeffeggia: “Un romanzo minuzioso con lettere di saliva su tutto in mio corpo. Ora”. Balbetto come un cretino. “Non credo di”… Vorrei vedere un altro. Davanti ad una proposta simile. Esplicita. Al mio posto. “Guarda che… solitamente… Invece con gli ex di Tilde, povera sciocca, con tutti. Mai avuto… nessun problema. Mai un no. Come vedi… proibito dire no”. Vorrei sottarmi al fascino di quello che mostra e reclamizza. Basterebbe un semplice no, ma… Non riesco a dire quel no. In questo momento nulla è semplice. E il semplice non lo so dire. Il mio è un atto di assoluto coraggio. Di abnegazione: “C’è sempre una p”… “Da buoni amici. Pensa quello che vuoi. Guarda che ci so fare. E non ho alcun imbarazzo. Non vuoi essere amico mio? Non ho proprio nessuna ritrosia. Nessuna”. “Ti credo, ma”… Si sfiora delicatamente, quasi oscenamente: “Non l’ho mai fatto con uno che scrive”. Per quello nemmeno io: “Nemmeno io”. Non coglie il solito mio umorismo involontario e cretino.
Credo che non si sia mai sentita dire quel no: “Cosa c’è, non ne hai voglia”? Per andarmi anche mi andrebbe, ma… Spero non se ne accorga. Mi ruba anche gli occhi, però… Non vorrei offenderla. Non sarò certo io quello capace di dirglielo. “Non è che”… La sua faccia non esprime né sensualità né lascivia. Non riesce a mostrare nemmeno troppo interesse. Sembra del tutto indifferente. “E allora”? “Forse io dovrei”… “Se è per quello… guarda che sono brava. Te la faccio venire la voglia. Fai fare a me”. Certa di regalarmi una specie di sorriso, ma anche quello sembra incolore nel suo viso. Si avvicina e mi passa le mani sul petto. Lentamente. Mi graffia delicatamente con le unghie viola. Un brivido percorre tutta la mia pelle. In sogno. Fatico a tenere ferme le mani. “Perché non cominci col toglierla. Poi passiamo al resto. Lasciami fare. Ti faccio sognare”. “Ti prego… Cinzia”… “Cos’è, non ti piaccio”? Forse avevo già cercato di rispondere a questa domanda: “Non è quello”. “E allora”? “Forse è meglio che prendo il portatile e vado”. Le giro le spalle deciso, col portatile sottobraccio, e prendo la porta. Mi puta dietro: “Fanculo, coglione”. Non paga la sento rincarare la dose dopo che sono già uscito: “E anche finocchio. Fanculo”.
Non mi sono ancora rilassato. È stato faticoso. Non so cosa scrivere sul «cinema emergente, con particolare attenzione a quello tzigano, del basso volga e… andino o albino?». Per provare ci provo. La cosa succosa si rivela la solita storia inutile. Me la cavo in due righe. Dandomi solo un po’ di arie. Ha preso fuoco un magazzino. Sono morti il solito branco di topi, un paio di scalmi con i relativi remi, il copertone di una vecchia bicicletta, alcuni annuari scolastici, e sette, dico sette, romanzi d’appendice. Sembra che l’episodio sia doloso. Ma sono ancora alla tastiera quando lei richiama. E sono giù le nove passate. “Sei ancora da me. Potrei raggiungerti”. “No! sono da me. E qui non staremmo bene”. Perché ha fatto così tardi? “È successo qualcosa”? “Assolutamente no”. “Sei sicuro”? “È solo che qui sto più tranquillo”. Lei è la solita sospettosa. E la solita che legge anche i silenzi tra una sillaba e l’altra: “Non me la racconti giusta”. “Ti racconto tutto domani”. “Non ci vediamo stasera”? Dirle no mi costa sacrificio, e… Ho già avuto tutte la mia dose di avventura per oggi. Voglio cancellare Cinzia dalla mia testa. Da davanti gli occhi. “Vorrei finire quello che sto facendo”. “Come vuoi. Se non hai altro da dirmi… A domani. Bacini”. “Ti… ma… Baci”.
Domani è sempre il giorno dopo di oggi, cioè di ieri. “Ciao amore”. Non mi ha mai chiamato così… Mi bacia sulla porta e mi fa entrare. Mi chiede di scusarla un attimo. Va a sistemarsi i capelli. Quando torna si informa del lavoro. Dice che lo vuole leggere, ma dopo. Mi fissa negli occhi. Sorride: “Ho sentito Cinzia”. Cosa può averle raccontato? Mi sento sprofondare: “Allora”? “Mi ha detto che sei stato stronzo”. “E?”… “Non ha aggiunto altro”. “Bene”. “Cosa c’è? ti conosco. Non è da te”. “Non era il momento opportuno”. “In che senso”? “Era sotto la doccia”. “Come”? “È venuta ad aprire in accappatoio”. “Il mio”? “Il tuo”. “Le sarà stato corto” “Le era un poco corto”. “Dimmi anche il resto”. Vorrei avere una storia migliore da raccontare. “Preferirei di no”. “Preferirei di sì. Non fare il bambino. La conosco bene quella. È capace che… Ci ha provato”? “Si è messa a parlare e”… “Falla breve. E dopo”? Forse ce l’avrebbe lei una storia migliore da raccontarmi. Non mi sembra il caso di essere troppo curioso e indagare. In fondo non ho fatto nulla di male; credo. “Si… cioè… Se l’è tolto”. “Davanti a te”? “”. “E tu”? “Io… niente, ho preso il portatile e sono andato a lavorare a casa”. “Lo potevo immaginare”.
Le viene da ridere: “Sei venuto via e l’hai lasciata lì”. “In poche parole… sì”. “Lo so che Cinzia è… lei”. Improvvisamente ho il sospetto assurdo che non me venga raccontata giusta. Né da lei né dall’amica: “E io sono io”. “Sono orgogliosa. Non sai il piacere a sentirtelo dire. Ecco perché ha detto così. Ti bacerei da qui all’aldilà”. La metto alla prova: “E se avessi capitolato”? “Non avrei potuto prendermela con te. So com’è. Ma mi sarebbe un pochino dispiaciuto. Comunque non ti ho dato nessun permesso”. “Sei gelosa”? “No. Ma se guardi un’altra ti ammazzo”. E ride di nuovo. Forse non parla sul serio. Spero. Forse non del tutto. Però poteva avvisarmi del cambio di programma. Con una telefonata, un messaggino. Dirmi che ad aspettarmi non c’era più Cencio. “Perché non mi hai avvisato”. “Una donna dovrebbe sempre voler sapere”. “Ho superato la prova”? “A pieni voti”. “E”… Lei si sta già sfilando la maglietta: “Andiamo a letto e te lo spiego”.
Mi permetto, nell’articolo, di indicare un mio sospetto: «C’è già un piano di recupero e riqualificazione depositato in municipio? Firmato Bernardo Carafa, responsabile per la cronaca nera».

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Nel silenzio della notteSegue: Nel silenzio della notte
Non è certo il migliore dei lavori il mio. Cominciare poco dopo l’alba. Quando, a volte, non è ancora chiaro, il mattino. In compagnia solo del raschiare della saggina. Scacciando i gabbiani, brutte bestie, che squartano i sacchetti e distribuisco le immondizie inzozzando le strade. Che sparpagliano tutto razzolando disordinatamente. E cercare di cancellare le orme e i ricordi della vita della città di notte. Raccogliendo quei sacchetti. Pesanti o lacerati che siano. Bicchieri vuoti. Lattine vuote. Siringhe vuote. Preservativi vuoti. E il vomito degli ubriachi. I bisogni dei cani e degli umani. Le pisciate sui muri. Contro le porte. Maledetta città.
E non incontri mai nessuno. Quel nessuno che a volte preferiresti non incontrare. E i ragazzi mi dicono: “Almeno tu un lavoro ce l’hai”. Ma molti di loro non sanno cos’è la fatica. E il sacrificio. Sempre curvo. E per quattro lire maledette. Io mica ho potuto studiare. Subito a lavorare. E un lavoro brutto dopo l’altro. Prima del lavoro sicuro. Di questo maledetto lavoro sicuro. Perché non facciamo fare anche questo a loro. Certo prima o dopo ci ruberanno anche questo. Questo mondo non è più fatto per noi. Se non c’è lavoro non c’è decoro. Cazzate. A pulire la loro merda perché non ci pensano loro? Il mio contributo l’ho dato. Possono versare la loro misera carità clemente direttamente sulla mia carta di credito. Me ne starei volentieri a godermela in panciolle. Se devo continuare a fare il pezzente preferirei farlo stando comodo.
Sì! È proprio un lavoro di merda il mio. Un lavoro che non augurerei nemmeno a un delinquente. Al mio peggior amico. Già è brutto di suo. Magari fosse solo quello che si è perso. Che non trova più il suo albergo. Ma non sono mica l’ufficio informazioni, io. Invece… Peggio diventa quando incontri quello che non vorresti incontrare. Quello che ti chiede la sigaretta con fare minaccioso. Il barbone che ti chiede la carità e puzza. Come se a me i soldi crescessero in tasca. Come il prezzemolo. Sono stato minacciato anche da una siringa. Mi hanno rapinato dell’orologio. La città sta diventando una vera giungla. Non puoi sentirti mai al sicuro. E quelli si chiedono perché. Il perché è davanti agli occhi di tutti. Basta non voltare la faccia. E stamattina si presenta peggio delle altre. Anche se ha smesso di piovere. Quella che cade è solo pioggerellina. Non dà nemmeno fastidio lasciarsi bagnare.
La vedo là su quei gradini. Sembra aver restituito l’anima al Creatore. Il suo incontro non dev’essere stato migliore dei miei. Vorrei non essere qua. Mica posso scappare. Non so che fare. È tutta sporca di sangue. I vestiti in disordine. Sembra proprio morta. È una sporca faccenda. Per senso civico mi avvicino. Vorrei non farlo, ma sono costretto a farlo. È nel mio giro. Sono comunque guai. Un muto lamento le esce dalle labbra. Quasi non si sente. È più morta che viva. La devono aver picchiata ben bene. Con impegno. Con ferocia. Magari anche con qualche oggetto contundente. Ma il peggio è che pare le abbiano sbattuto ripetutamente la testa sullo spigolo di marmo. Mica sono un medico, però. Magari è anche troppo tardi, ma qualcosa devo fare. Forse farei meglio a chiamare subito la guardia medica, la polizia o il pronto intervento. Che cazzo ne so?
Non mi è mai capitato di trovarmi in un casino simile. Sudo e balbetto. E balbetto e sudo. Brutto mestiere il mio. Brutto mestiere il suo. Non molto meglio del mio. Pieno di insidie e di pericoli. Dovrebbero conoscere i rischi che corrono. Ma magari è stato il suo magnaccia. Magari solo un marito incazzato. E mi guardo intorno. Troppo presto per trovare anima viva. Per contare in un incauto soccorso. E cosa gli dico a quelli? C’è ancora la borsetta. Non gliel’hanno presa. E allora la raccolgo. Ci guardo dentro. Non sono curioso. È solo per avere un minimo di informazioni per chiedere aiuto. Quando chiami fanno sempre un gran casino di domande. Ha pochi spiccioli. Dalla carta d’identità risulta fare l’infermiera. Se non fosse in quelle condizioni saprebbe meglio di me venire fuori da questo pasticcio. Non posso sperare in lei, per togliermi dalle rogne. Ha anche l’ordine di servizio.
Doveva fare il turno di notte. Non è come in uno di quei cazzo di film gialli. Sta capitando proprio a me. Però, a guardarla meglio, è una bella signora. Non fosse per le sue attuali provvisorie malaugurate condizioni. Se non avessi letto avrei giurato che fosse una donna a cui piace divertirsi. A cui piace farci divertire. Una che la vive intensamente la notte. Se non fosse… Però ha delle belle gambe. Veramente belle. E nella scollatura non riescono a nascondersi due seni che, seppur colati di sangue, non sembrano per niente male. No! per niente. Ma cosa vado a pensare? Beh! Pensare non è peccato. E lei è una donna. Non è colpa mia se andava in giro così. Per andare al lavoro. E io sono pur sempre un uomo. Un maschio. Nessuna si è mai lagnata di me.
I suoi occhi sbarrati non sembrano più in grado di vedere. E… la bocca è già aperta. Che c’è di male? Forse domani sicuramente non è in grado di ricordare. Magari nemmeno le dispiacerebbe. Forse per lei non ci sarà nessun domani. E forse è una che sa essere carina. Non le ho certo alzato io le vesti. Ci ho dato solo una sbirciatina, questo sì, ma erano già sollevate. E poi si sa quante ne succedono tra quelle corsie. Non sarà certo lei l’ultima santarellina. E in quella la sua posa è invitante. Seducente. Affascinante. Non le potrà fare più male di quello che ha già sofferto. Basta fare in fretta. In fondo è solo uno capriccio. Non mi è mai successo con una che non protesta. Che lo fa così assente. Che c’è di male nel togliersi un ultimo sfizio? E alla fine prendo anche quei pochi spiccioli. Non per avidità. Tanto li ruberebbero gli infermieri o i portantini. Magari lei non potrebbe più spenderli. Poi telefono e la lascio senza aspettare. Tanto ormai il mio turno è finito.

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Piccoli gialli italiani16. Mi sbatte fuori dalla notte un fracasso incredibile. Mentre cerco di svegliarmi penso che sarei più tranquillo a casa. Stiracchio le braccia. Sbadiglio. È un’ora che non fa per me. Mi domando a cosa sia dovuta la grande confusione. Non faccio in tempo a chiedermi altro. Ciabattando li raggiungo in cucina. Non capisco tutto. Non sono ancora completamente sveglio. Sembra che mi si imputi di aver fatto qualcosa. Forse mentre dormivo? Quella strana donna non manca di un coraggio che non le conoscevo. In fondo sono solo un suo ben strano affittuario. Mamma non parla con lei. Ha dovuto perorare la mia causa Papà. Abbiamo una lontana e strana parentela. Ambigua. Nemmeno è veramente mia zia, la Zia. Credo che lo faccia per una cifra praticamente simbolica. Comunque come un piacere.
Lei, la Zia cerca di opporsi con tutte le forze al mio arresto. Fronteggia sbraitando i due poveri questurini. Facendomi scudo col corpo. Spingendoli via. Mulinando le mani. Decisa. Indomita. Gridando che sono un bravo ragazzo. Che non ho mai fatto niente. Che non vado a donne. Che me ne sto sempre in casa. Per gli affari miei. Che non faccio che studiare. Perché mi trascinano via senza che abbia potuto prendere nemmeno un caffè. Continua a gridare mentre esco in mezzo ai due militi. In verità non mi trascinano via. Più Semplicemente mi hanno invitato a seguirli. Il più gentile, perché ce n’è sempre uno più gentile, mi dice che mi vogliono solo parlare. È così che mi trovo, in un ufficio buio e triste, davanti l’appuntato Buonadonna. Per un attimo non alza gli occhi dal suo mucchio di carte. È una mossa palesemente studiata. Poi ci guardiamo come si sbirciano due sfidanti.
Dura poco. “Finalmente abbiamo qualcosa da dirci, noi due”. “A cosa debbo… l’onore”? “Qui le domande le faccio io”. È un classico di ogni libro e film giallo. È una frase che non manca mai. Lui ne sembra orgoglioso. “L’ascolto”. “Bene, finalmente non me la ritrovo tra i piedi a rompere per niente”. “Veramente”… Cerca di essere formale: “Lei è stato fermato”… Non posso ricordare il fatto. La parola “Fermato” mi pare avere già in sé un indizio di sospetto. Se non già di dolo. Lo faccio notare. Mi attengo al lei anch’io: “Mai stato fermato, come dice lei”. “Le sono state prese le generalità la notte del… alcune notti fa. In una località del Lido. Mi può dire cosa ci faceva”. Comincio a ricordare. Cosa c’entra? “È passato un bel po’ di tempo”. “È irrilevante. Come si dice: il tempo passato non macina. Lei sa che quei luoghi sono frequentati di giorno da persone che si spogliano. Senza nemmeno il costume. Capisce quello che intendo”? “Mi è stato riferito”.
Altra piccola pausa per fissarmi: “Cosa ci faceva, in spiaggia, di notte”? “Passeggiavo”. “E lei va in spiaggia, a passeggiare, in piena notte”? “Non mi sembra un reato. A volte, se non prendo sonno. Se ho voglia di camminare. Di silenzio. Di stare solo. Di riflettere. Altro”? Sembra pronto a sferrare la sua mossa. Proprio come il gatto con il topo: “Conosce il signor Bisson”? “Non credo. Perché dovrei”? “Non crede oppure?”… “Mai sentito nominare”. “Il signor Virgilio Bisson, di anni cinquantatré, nato il… eccetera eccetera, residente in via… eccetera eccetera… Dicevamo il citato Bisson è conosciuto in loco, e anche da noi, per la sua passione pervertita. Come guardone”. “Non frequento. Non capisco la domanda”. “Il signor Bisson è stato trovato, cioè il corpo del dissoluto poveretto, ormai senza vita, ma la legge è uguale per tutti, è stato ritrovato, come dicevo, riverso sulla sabbia nei pressi… dove lei è stato fermato”. Mi pare allucinante: “E allora”?
Penso rapidamente: Finalmente c’è il morto. Il morto ammazzato. La vittima e la trama. Ho il mio giallo. Sono quasi euforico. Poi comincio a diffidare della fortuna. Non vorrei trovarmi in un guaio. Lui non demorde: “Non mi ha ancora detto la verità. Cosa ci faceva di notte”? Mi sento stanco. Stanco di tante domande. Di tanta stupidità. Di tanta inutilità. E anche guardingo: “Confesso, mi sono recato per cercare di fare una mia indagine. Per quella povera ragazza. Per quel povero ragazzo”. Per un attimo scorda le formalità: “Vedi cosa succede a mettere il naso in cose che non ti riguardano. Più grandi di te. Nel nostro lavoro. Eppure te l’avevo detto. Perché non usi la spiaggia come tutti”. Mi sono rotto: “Ci ho provato. Ci ho provato a usarla anche come tutti. Questo è il risultato”. “Forse”. “Non può essere che uno stupido caso”. “Le conclusioni le lasci trarre a me. Prego. È sicuro di non essere tornato sul posto anche la sera di ieri. E la notte. Ha qualcuno che può confermare dov’era ieri sera”? Per niente al mondo metterei in mezzo a questo casino il nome di Matilde. Piuttosto mi mordo la lingua. Me la taglio. Non mi fido molto del fiuto dell’appuntato. Delle loro indagini. Della legge ancora meno: “No! nessuno”. Non ho il tempo di pensare che coinvolgerei anche lei.
Preferisco un cauto silenzio. L’attesa. Sbrigarmela. Vedere come va a finire. Sono certo che la Zia confermerebbe che sono tornato alle otto. Che ero a letto. Ma Matilde deve restare fuori da questa faccenda. E poi non c’entriamo niente, né io né tantomeno lei. “Vediamo cosa mi dice ora”? Prima che lo realizzi la fa entrare e me la trovo al fianco. “Lei conferma che nell’occasione era in compagnia del qui presente signor Bernardo”? “Confermo”. “Mi può cortesemente dire cosa ci facevate in piena notte”? “Cosa vuole che ci facessimo, commissario”? “Appuntato, prego. E che era con lo stesso Bernardo, e nello stesso posto, non più tardi di ieri”? “Confermo”. “Siete stati visti, diciamo così, in intima discussione”. “Confermo”. L’appuntato ha un sorriso furbetto. Certo che è impossibile passare inosservati.
Certo che questo mondo ha più occhi che vizi e voglie. Certo che… Tutto. “Posso pensare che tra voi siate?”… “Buoni amici”. Lo trovo un po’ insistente. E un pochino impiccione. Tengo per me la mia opinione. “E lei, signorina, con gli amici?”… Non ha un attimo di esitazione: “Confesso”. Non può non ridere. Non abbiamo che preso il sole. Niente di più, niente di meno. “Fossi in lei non la prenderei tanto alla leggera”. Lei si finge seria: “Non lo faccio”. “Come dicevo, il signor Virgilio Bisson eccetera eccetera, manovale, come da verbale, è stato trovato cadavere riverso nella spiaggia. La bocca spalancata digrignata a mordere la sabbia. Gli occhi sbarrati volti alla luna. Tenuti dilatati con due cerotti”. Matilde non si perde d’animo: “Morto soffocato”? L’appuntato Buonadonna non la richiama. Non le dice come ha detto a me. Si limita a rispondere con un’affettata cortesia: “No! strozzato”. “Ora presunta”? “Tra le tre e le quattro del mattino”. “Che lavoro fa la moglie”? “L’infermiera”. Questa non l’ho capita ma se i delitti li vedo in tv c’è sempre qualcosa che non capisco. Più di qualcosa. Finché non svelano la fine.
Quello che mi mette in crisi sono le domande simili che, a prima vista, non c’entrano un fico. In questo caso anche se la guardo più volte. “Con cosa è stato strozzato”? “Tramite calza di seta. Rinvenuta stretta al collo della vittima”. “È la prima volta che si parla del signor Bisson”? “Più volte è stato oggetto di denuncia per lo stesso motivo. E più volte si è rivolto al pronto soccorso, e a noi, per essere stato malmenato”. Non so di che ma Tilde prende ancora più animo. Ha un’aria trionfante: “Come può vedere non porto calze di nylon”. Per guardare lui guarda: “Seta”! “Nemmeno di quelle”. La mia solita spiritosaggine involontaria: “Nemmeno io”. E lei si dà anche un po’ di arie: “E studio. A tempo perso faccio la baby-sitter. Capisce. Mansione nobile”. L’appuntato Buonadonna pare arrendersi. Le spalle gli penzolano dentro la divisa inappuntabile. L’indumento sembra svuotato: “Capisco. Certo”. Lei: “Credo che ora possiamo andare”. “Certo”. In realtà il povero scomparso non faceva del male a nessuno.
Per un po’ passeggiamo sottobraccio in silenzio. Poi lei mi guarda stupita: “Hai capito”? “C’era qualcosa da… Non ci ho capito un acca” “Ricapitoliamo: Lui si chiama Virgilio Bisson da tutti conosciuto come il Lince. Lei è una donna robusta, direi massiccia. Ricordi cosa fa? Te lo ricordo io: l’infermiera. Hai capito ora”? “No”! “Era di turno”? “Che ne so”? “È facile verificare”. “Continuo a”… “Volevi il giallo. Hai avuto il tuo delitto. Te la scrivo io la fine dell’articolo. La soluzione. Va”… Quelli del Centro erano già pronti a indire una manifestazione contro la repressione sui compagni. Antifascista e contro la violenza delle forze del disordine. Non faccio parte di quel mondo. Non faccio parte di nessun mondo. Faccio parte di un mondo a parte. Noi non siamo delatori. Noi, io e Matilde, non denunciamo nessuno. Lasciamo che resti classificato come delitto di ignoto. Il mondo resta lo stesso. Forse ha ragione lei: che quella donna non ne poteva più del vizietto del marito. Forse era stanca di lavorare mentre lui si andava a divertire. Sono solo povera gente. Portate pazienza con il vostro Bernardo Carafa, aspirante giornalista, possibilmente di nera. Magari ci leggiamo un altro giorno.

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Piccoli gialli italiani15. Ho aspettato con impazienza. Ho aspettato Matilde. Colmo di speranza. Non sono cieco e mi accorgo che ha qualcosa nello stomaco. Che non sa come dirlo. Che fa fatica. Che le rode. Aspetto. Paziente. “Da domani ci potremo vedere meno. E qualche volta sarò stanca. Devo tornare a lavorare. Ho bisogno di quei soldi”. Lo so da me che è stupido: “Ma io ho bisogno di te”. “Tu hai già me. Ma io non posso stare senza lavorare”. Decidiamo, in fretta, per un altro giorno al mare. Passiamo da me e poi da lei per quello che le serve. La aspetto sotto la porta, irrequieto. Conto i minuti. Anche i secondi. Non riesco a comprendere come potrò aspettare le ore. Forse giornate intere.
La spiaggia è il solito carnaio. Ho voglia di stare solo con lei. Nel pomeriggio ci siamo appartati tra gli scogli. Eravamo fuori dal mondo. Eravamo soli. Soli e qualche gabbiano curioso, alto nel cielo. Con un silenzio assoluto disturbato solo dai nostri baci. Avete presente quei minuscoli costumi con poca stoffa morbida e leggera? Con due cordoncini ai lati che s’intrecciano in una ciocca? E col reggiseno uguale, sempre piccolissimo, e sostenuto da un cordoncino simile? Proprio quelli. Matilde ne ha addosso uno così. È un invito. È una tentazione. Si prende gioco dei miei occhi in adorazione. Mi dà un leggero scappellotto benevolo e si stende al sole. Poi si appisola e io resto a guardarla. Uno di quei gabbiani precipita, come un proiettile, con le ali chiuse, fracassa la superficie del piano quasi immobile dell’acqua, ed esce risalendo verso il cielo con l’ultimo pesce stretto nel becco.
La tentazione è troppo forte. Slaccio prima l’una, dopo l’altra ciocca. Abbasso, lentamente e con precauzione, con fare complice, quella parte posteriore del piccolo slip. Quella piccola stoffa. Proprio come un ladro. Lei probabilmente sta sognando. È completamente assente. Potrebbe scoppiare la guerra. Non mi muoverei di un muscolo. So di essere un cialtrone. Nessuno mi può vedere. Nessuno ci può vedere. Nessuno mi può scoprire; tranne lei. Che resta tranquilla. E… Ma niente dura quanto vorrei. Resto ad ammirare quella meraviglia. Per alcuni minuti; finché non torna dal mondo dei sogni. E torna lentamente, con una calma sazia, e poi piomba nella realtà. Mi dice con un senso di fastidio: “Coprilo”. Le verrebbe da ridere, se non fosse… “Stupido”. Ho ancora la stoffa tra le dita. Si ripete sputandomi addosso il suo imperativo: “Coprilo. Stupido”!
Lo copro con la mano, e cerco di farmi perdonare soffocandola con un bacio. Lei per un poco non protesta. Non vuole interrompere quel momento. Lascio quella mano abbandonata. Non so cosa aspettarmi dopo. Forse l’ho fatta grossa. Forse non dovevo. Mi riempio il palmo con la carne liscia e soda della sua… natica. Non stringo la presa. Poi si stacca e cerca un’espressione forzata di rimprovero: “Sai che non mi piace”. “Perché”? Mi toglie la mano indispettita senza ricoprirsi: “Semplicemente non mi va. È grosso”. Continuo a riempirmi gli occhi: “È bellissimo”. “Non mi piace. Ed è invadente”. Io la trovo perfetta. Mi prende il polso e mi allontana la mano. Si fa scorrere sopra la stoffa, con un gesto disinvolto, e si allunga desiderosa di un altro bacio.
Siamo solo nel nostro bacio. Cerco di consolarla tra le mie braccia. Abbiamo ancora tutto il tempo che vogliamo. E c’è il mare. E c’è il sole. E siamo io e lei. Lei che cerca disperatamente di trattenere quella poca stoffa. Il costume. Che la copre. Che non la copre. Di non farla scivolare. Ma non vuole restare nuda. Come se non fosse già abbastanza nuda così. La sera può ancora aspettare. Ma non ha ancora molta pazienza, la sera. È stata una giornata lunga. Ma proprio in quell’istante i nostri respiri si interrompono. In un attimo. Abbiamo un sobbalzo. Blocca entrambi un rumore vicino e minaccioso. Non simo più da soli. È un attimo, mi guarda allarmata. Sono paralizzato. Il tempo di reagire e lei si è già sistemata lo slip. Ha già allacciate tutte quelle ciocche. E sistema le coppe sulle poppe. Allungo il collo per spiare oltre gli scogli. Guardingo.
Settembre non mi ha mai portato fortuna. Faccio a tempo a vedere una figura ignota che si allontana rapidamente. È probabilmente l’ombra di un semplice guardone. Deve essere rimasto deluso. Siamo stati noi a interrompere lui. Se non fosse per la paura che ha causato… In fondo che male c’è. Non reca danno a nessuno. Non c’è colpa se non c’è danno. Siamo più colpevoli noi che… C’è a chi piace guardare. A chi fare. A chi semplicemente sognare. E a chi piace farsi vedere. A Matilde non piace, ma è una gran cosa bella da vedere. Se non fosse che ero con lei, vorrei essere stato al posto dell’altro. Di quell’uomo. Spiarla. In fondo cosa stavo facendo di diverso se non guardarla? È solo che lei ormai ha voglia di tornare. Cocciuta. So che non riuscirei a farle cambiare idea. Che abbiamo finito il tempo. E ci salutiamo quando per me è ancora troppo presto. Cocciuta la miseria.
Quando non sono con lei penso solo a lei. O quasi solo a lei. Forse l’ho già detto. Almeno a me sono sicuro di averlo già fatto. Penso che le vorrei dire e non trovo mai le parole. Penso che non so cosa pensare. Penso che non so cosa sia. E cosa siamo. E che non mi interessa di scoprirlo. Penso che lei mi ha aperto gli occhi. Mi ha aperto un mondo. Penso che lei mi ha dato tutto. Troppo. Che non mi è mai abbastanza. Penso al suo corpo. Penso alle sue carezze. Penso alle nostre debolezze. Ai suoi occhi cosi intensi. Alle sue gonne, e rido. Penso che vorrei girare un video. Di noi due. Con cellulare. E metterlo in Youtube. Penso che vorrei che tutti ci vedessero. Penso che è una sventura, per chi non la può vedere. Penso che vorrei vederla solo io. E continuare a guardarla. Penso che odio gli occhi degli altri. E quello che posso, o potrei, leggere in quegli occhi. Penso che settembre non è poi così male. Penso che non c’è un lavoro che nobiliti l’uomo. Aspetto di rivederla il giorno dopo.
Me la vedo capitare con un diavolo per capello. Ha fretta di parlare. Mi racconta che il marito mandrillo, appena soli, ha provati ad allungare le mani. “E tu”? “Me le sono tolte subito di dosso. Prima ancora che mi sfiorasse. Non gli ho lasciato il tempo. L’ho fulminato. L’ho sputato con rabbia. Ho preso la porta e gliel’ho sbattuta in faccia. Non sono tipo… E ora ho te. Mica mi faccio mettere sotto. Così. Il primo giorno”. È fuori di sé. Cerco di calmarla. Siamo in un bel guaio. Ci mancava solo questa. Per terminare bene la giornata. Certo che ha fatto bene, ma… “E adesso che farai”? “Cosa posso fare? Cosa potevo fare? Fortuna che poi ha chiamato. Si è scusato. Ha detto che non succederà più. Che è stato un attimo. Mi ha pregato di non farne cenno alla moglie. Come se fossi più stupida di quanto sono. Che avevano bisogno di me. Ha fatto leva sul mio affetto per i bambini. Sul loro. Mi ha dato la giornata libera. Ed eccomi qua”. Proprio una fortuna.
C’è un confine molto sottile, labile, tra la legalità e il crimine. A volte è quasi invisibile e fragile. Per un istante ho un solo istinto: vorrei ammazzarlo, il maiale. Vorrei cercarlo e sgozzarlo, con le mie mani. E un coltello da cucina. Si che non mi potrò più fidare. E lo maledico. E bestemmio. Non le chiedo che ne pensa. Temo che la sua risposta non sia la mia. Mi limito a stare in silenzio. Vorrei parlare dell’impossibilità di restare soli. Di trovare uno spazio di intimità. Anche di semplice riservatezza. E forse anche quell’uomo, e la sua ombra, si sentivano soli. Poi torno a penare all’altro. A quel padre. E lei è una vera tentazione.
Perdono chi spia. Non riesco a perdonare la prepotenza. L’arroganza. La presunzione. Ma mi è difficile condannare. Sono un Pilato. Sono un fabulatore senza argomenti. In fondo siamo tutti un po’ guardoni. E non è stato nemmeno un tentato stupro. Forse. Dentro le case succedono cose ben peggiori. E magari quel padre ha veramente perso, per un attimo, la testa. La guardo. Sono quasi tentato di capirlo. Non sempre siamo quello che gli altri vedono. E magari sperava. Non ho nessuna risposta. E non tutte le risposte sono uguali. Mi metto al portatile per scrivere che hanno sequestrato una quintalata di riviste porno. La città dorme sopra le sue fatiche.

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Nel silenzio della notteLe parole scritte non hanno suono. Puoi gridarle. Urlarle. Sono caratteri piatti; tutti uguali. Piccoli tipi neri che nemmeno si dibattono e si affollano su un universo di bianco. Che si scompongono e compongono ordinati. Sono come piccioni sopra uno spago del bucato. Su di un filo della luce.
Se nella mia testa rimbombano, nella carta tacciono. Puoi metterle tutte in maiuscolo. Puoi usare il grassetto. Sta nella prerogativa di chi le legge. Nel suo diritto. È nella sua facoltà. E chi le legge è spesso distratto. Nella testa diventano afone. Sono tutte uguali. Non fanno rumore. Non hanno colore. Nemmeno luce. Non sono che caratteri di stampa. Mantengono solo il fruscio delle pagine. Il lettore non si bagna. Nemmeno se piove e non c’è riparo da quella pioggia. Non ha l’obbligo di partecipare. E allora come puoi rendere il buio della notte? La mia voce che urla? Il suo disperata lamento?
Forse non dovrei più uscire la notte. Forse non dovrei più uscire. Guardare i negozi ormai chiusi. Le strade vuote. Cercare in quelle strade le storie che ho in testa. Cercare le parole. Cercare le vibrazioni delle stesse. La loro musicalità. Il loro coniugarsi a qualcosa che non appartiene a loro. Ormai dovrei saperlo. Ma quando la vedo non so resistere. È più forte di me. Voglio sentirla la sua voce. Per poi farla riecheggiare nel racconto. Sentire che si propaga in mezzo a tanta inutilità piatta. Tra le descrizioni e le riflessioni. Vanamente. E quando la prendo alle spalle anche la sua sorpresa e muta. Persino il silenzio non ha suono del suo raccontarlo.
Forse pensa che io voglia solo immergere le mie mai tra i suoi vestiti. In quella ricerca di lei. O forse lo spera. Io tengo un diario di tutto. Minuziosamente. E degli appunti. Aiutano a ricordare. Ma poi stanno lì mansueti. Privi di personalità. Senza memoria restano come paralizzati. Inermi. Taciturni. Inutilmente futili. Sono solo quella geografia fatta in inchiostro. Forse dovrei aggiungere delle immagini. Di ricordi ne prendo sempre uno. Forse dovrei smettere con tutto questo. Non ci riesco. È più forte di me. Un giorno ci riuscirò. Riuscirò a scrivere una storia che si racconta da sé. Che esce dalle pagine. Che si riappropria dei rumori. Che si allarga come in un concerto. Con l’urlo che è un urlo. Un colpo di grancassa. Con i violini che piovono tristezza. E malinconia. Con tutte le note al posto giusto.
Povera pazza, mi porge la borsetta. Come se fossi solo un lurido pezzente. Io sono un artista. Sono qui a cantare le sue lodi. Una donna non dovrebbe andare da sola, di notte, per le strade buie. “Puttana”! Non può che essere una di quelle. E poi per com’è vestita. Con le gambe scoperte. Con quei tacchi. Con il rossetto. Con quel profumo addosso. Con quell’aria da sgualdrina –e scritto, “sgualdrina” ha lo stesso identico suono di “santarellina”, e di “astratta”, e di qualsiasi altra cosa. Lo stesso assente odore. Cioè nessun suono. Persino il suo nome non sarebbe altro che poche sillabe. E potrei usare qualsiasi nome. E qualsiasi epiteto. Non potrebbe descrivere di più questa donna. Entra tutta nell’immaginazione degli altri. O nella loro mancanza di immaginazione.
La colgo di sorpresa. Non ci si dovrebbe mai distrarre. La spingo contro il muro. “Mi scusi signora”… Tra il muro e il portone. Lei grida. Anche se a descrivere quell’urlo non si può sentire. Le metto ugualmente una mano sulla bocca. Non prova a mordermi. Al secondo colpo lei perde le forze. Si accascia al suolo. E come se si svuotasse. Seduta su quei gradini. Non reagisce. “Fai la brava”. Le donne non pensano che si possa reagire o resistere. La forza è uomo. La donna è pazienza. È ostinata docilità. È rinuncia. Mulina solo le braccia nude per proteggersi. Per chiedere scusa. E la colpisco. La colpisco ripetutamente. Con rabbia. La colpisco perché smetta di difendersi. Semplicemente se lo merita. Lo so. Lo so e basta. So di cosa ha bisogno il mio furore: “Apri quella cazzo di bocca”.
Ma la sua bocca era già aperta. E i suoi occhi spalancati. Nemmeno più terrorizzati. Non avevano più colore; nell’ombra. Erano due orbite opache. Erano solo il grido che solo io avevo potuto sentire. Erano solo silenzio. E dalle labbra colava un rivolo di sangue. “Maledetta troia”! Le scivola sulla guancia. E giù, fino a insinuarsi nella scollatura. È come un rossetto sbavato. Le sporca il mento. Le lambisce il seno. “Fammele vedere”. Ma dalle sue labbra esce solo un flebile lamento. Non vorrebbe ancora cedere. “Stupida sgualdrina”. Non mi insudiciare la camicia bianca. Devo tornare a casa. Dopo. “Prendi questo”. Certe donne non sanno. Non possono sapere. L’uomo non vive solo per loro. Io non le pago. Non le pago coi soldi. “Volevi il piacere. Eccolo il piacere”. Ne sei fiera ora? Porto con me solo un suo orecchino. Certe parole non sono come le altre. Sì! “Troia!

Troia!

Troia”!

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Piccoli gialli italiani14. A fare all’amore si impara subito. Ad amare non si finisce mai di imparare. Per alcuni giorni sono stato in catalessi. Sorpreso. Muto. Da solo. Non riuscivo a pensare che a lei. A quello c’era stato. Al nostro amore. Aspettando solo di rivederla. Perché non chiamava? Perché non rispondeva? Poi, lei, mi avrebbe confessato che è stato lo stesso. Anche per lei. Che si è trovata sbigottita a chiedersi cosa eravamo. E cosa eravamo diventati. Che aveva avuto bisogno di tempo per pensarci. “Non che mi sia pentita. Questo mai”. Solo aveva bisogno di tempo per capire: Non era solo una ragazza per… Era una ragazza da amare. E che sapeva amare. Stupido. Con gioia mi aveva detto in un orecchio: “Ora lo sei, veramente, il mio ragazzo. Per me”. Come sono stupidi gli uomini. Nel frattempo ero già passato un paio di volte sotto casa sua. Senza il coraggio di chiamare. Di suonare. Di salire. Dopo averla vista… nuda, solo allora ho capito che, non c’è niente di più bello.
Ora che lei è tutto, è troppo, non c’è che lei. E ho paura. Non puoi temere di perdere quello che non conosci. Ma dopo… E c’è sempre incertezza. E non puoi che essere confuso. E mentre cerchi di distrarti, di pensare ad altro, non c’è che lei. Lei e i suoi occhi. Lei è i suoi baci. Lei e tutto di lei. E hai sete di lei. E hai fame delle sue carezze. E non credevi che l’amore fosse così… qualsiasi cosa. Che ti senti persino volare. E gli uccelli ti cinguettano nello stomaco. E ti sembra di non provare fame. Altro appetito. E la vita diventa solo attesa. Sì! sono egoista. La vorrei solo con me. Sempre con me. Non si può avere tutto. Mi sembra che lei me l’abbia dato quel tutto. È solo che non è mai abbastanza. Il giorno dopo è sempre così.
E poi non è così che vorrei. Il mio sogno è diventare un cronista, possibilmente di nera, non di rosa. E raccontare la realtà, non il mio privato. Ma oggi ho meno rabbia. Il vostro Bernardo Carafa è in pace col mondo. Ma è questo il mestiere dell’inviato? Temo di no. Vorrei avere la memoria Sarti Antonio, sergente[1], la sagacia del commissario Luigi Alfredo Ricciardi[2], La pignoleria mai rassegnata di Sandrone Dazieri[3], l’arguzia del Commissario Carlo De Vincenzi[4], la perseveranza dell’ispettore Camilla Cagliostri[5], non certo la confusa sbadataggine dell’ispettore Coliandro, ma piuttosto la perspicacia immaginifica di Grazia Poletti[6], l’intuizione del commissario Salvo Montalbano[7], la fervida immaginazione deduttiva di un Carlo Lorenzini –o del suo amico Jarro– più che la fredda razionalità insensata del delegato Masi[8], e poi… che ne so? eccetera. Ma ho solo un portatile, una linea instabile –che anche in questo momento mi ha abbandonato– e dieci dita. E non sono quelle le armi del buon giornalista. Dovrebbe raccontare i fatti. Registrare. Trarne anche delle conclusioni più o meno sociali. Avvertire i rumori di fondo. Limitarsi a informare, a suo modo, i lettori. L’indagine spetta a loro, ad altri.
Vado in tribunale più che altro per vedere l’ambiente. Semplicio è appena uscito. Se avevo dubbi ora ho solo certezze. Si giudicano, e si condannano, solo poveri disperati. Si finisce lì dentro per un maglione. Per due arance. Per aver scordato la patente. Per essersi confusi. Per un cazzo di niente. Solo perché non si hanno santi in paradiso, né santini. Nemmeno in tasca. Solo perché non si ha una giacca per la festa. Solo per aver bevuto per una delusione. Solo per essersi ingarbugliati con le parole. Solo per aver gridato “Pace” o “Libertà”. Solo per aver gridato troppo forte. Solo per aver scelto la maria sbagliata. Solo per aver creduto nel Dio sbagliato. E sono tanti. E sono troppi. E qual è quello giusto? Sono solo poveri disgraziati. Se continuo così viene anche a me la colite.
Eppure c’è una sorta di emorragia, uno alla volta se ne vanno. Quelli famosi muoio tutti. Chi perché ha finito di raccontare la sua storia. Chi per vizio o per droga. Chi di piombo. Muoiono come una litania. Come grani di un rosario blasfemo. Chi suonerà la musica da domani? Sarà perché prima si dovrebbe diventare famosi, per poi poter morire. Sarà perché di miti non ne nascono più. O ne nascono troppi. E nemmeno la televisione riesce a partorire eroi. E resta solo un grande silenzio. A dire la verità sarebbe morto anche Sarti Antonio, sergente. Sarà perché o sei famoso o non sei. Degli altri non gliene frega a nessuno. Devono solo morire senza far rumore. Dovrebbero andarsene alla chetichella. E per fare lo fanno, senza fanfare. Basta un prete e quattro parole. Mandano in paradiso anche chi non ci vuole andare. E se paghi ti danno due righe sul giornale di tutti santi. E qui non muore nessuno.
Con Beatrice, da bravo vigliacco, ho scelto di tacere. Sperando che il tempo le desse la mia tacita risposta. Che capisse da sola. Solo poi ho scoperto, ma non confessato da lei, che mentre mi lasciava tutto il tempo per capire, lei aveva capito. E si era messa con un senegalese robusto. E all’improvviso aveva scoperto, e provato, tutte le bellezze del sesso. I segreti e le posizioni. Mi aveva chiamato mentre era con lui. Senza un minimo di pudicizia o vergogna. Con la solita aria da santarellina. E il suo fisico slanciato da indossatrice. Che lui si stava spupazzando alla grande, ma che a me non ha mai fatto vedere né toccare. Appena annusare. Credo si sia fatta buddista. Ma questo dopo quella sua breve infatuazione per l’esotico. Credo si sia fatta ritrarre in pose e situazioni ardite. Non le ho viste. E sinceramente non me ne frega un cazzo. So però che qualcuno, dietro le spalle, per i corridoi dell’ateneo, mi adita, con rispetto, come: quello è stato il ragazzo di Beatrice.
Avrei voluto che di quella mattina, la nostra storia, fosse il mio post. Il mio articolo. La carta d’identità del mio farmi giornalista. Naturalmente non potevo farlo. Naturalmente era importante, e interessava, solo per noi. C’erano cose da non dire per pudore. Altre da tacere per delicatezza. Altre per rispetto degli altri. Tutte solo nostre. E forse le parole avrebbero solo sporcato quella nostra storia. Per quel giorno Nardo Carafa avrebbe scritto solo un necrologio: per un ragazzo scomparso per un buco. Un ragazzo per cui nessuno avrebbe potuto più fare niente. Di cui prima non era importato molto a molti. Per il quale prima tutti avevano fatto poco. Un ragazzo che era un ottimo studente. E che aveva lasciato la scena in silenzio.

[1] Personaggio dei romanzi di Loriano Macchiavelli.
[2] Personaggio dei romanzi di Maurizio De Giovanni.
[3] Personaggio dei romanzi di Sandrone Dazieri.
[4] Personaggio dei romanzi di Augusto De Angelis.
[5] Personaggio dei romanzi di Giuseppe Pederiali.
[6] Personaggi dei romanzi di Carlo Lucarelli.
[7] Personaggio dei romanzi di Andrea Calogero Camilleri.
[8] Personaggi dei romanzi di Leonardo Gori.

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Piccoli gialli italiani13. Mi ha invitato da lei. Per la prima volta. La bacio sulla porta. Mi guardo intorno, è tutto nuovo, per me. È un monolocale, ma è carino. Davanti c’è una porta socchiusa che è certamente quella di un piccolo bagno. A destra c’è una scala che porta sopra a un soppalco colmo di grosse scatole colorate. Sempre a destra un vecchio armadio e una strana spalliera dove sono appesi degli. Sempre a sinistra c’è un lettino invadente e un po’ insolente ancora sfatto. Accostato al muro. A una piazza. Vicino una specie di cassetta a mo’ di comodino, con un libro aperto sopra, un posacenere e una piccola lampada. Una seduta tipo Wassily-Marcel-Breuer, credo, ma solo tipo. L’illuminazione consiste in una serie di lampade e faretti a terra o sospesi.
Lei è palesemente imbarazzata. Confusa. Non sa cosa fare e come mettermi a mio agio. “Ti serve il bagno”? Mi siedo in punta della sponda del letto. “No! Grazie”. Non voglio allontanarmi. Aspetto che mi venga vicino per baciarla. Aspetto soltanto. Poi si preoccupa se ho preso il caffè: “Sei proprio sicuro di aver fatto una buona colazione”? Di come ho trascorso la notte. Di che libro sto leggendo. Non oso dirle che sto provando a giocare a uno di quei sparatutto. Non mi hanno mai appassionato i videogame, e non ci so fare. Semplicemente l’ho trovato in rete. Semplicemente mi sembrava presto per andare a letto. Cercavo una scusa che non ho trovato. Dondola sulle ginocchia. Finché si stanca di aspettare. Lei mi raggiunge. Non mi stancherei mai.
Ci blocchiamo all’improvviso perché mi suona il cellulare. Mi chiama Beatrice. “Ci hai pensato? Forse possiamo rivederci”. Ancora una volta ha sbagliato momento. “Magari. In questi giorni avrei da fare”. Breve pausa. “Non sarai mica arrabbiato. Guarda che è stato un bene. Credo di aver capito tante cose. Non è che sei arrabbiato? Ma… Non ti sarai mica messo con quella. Con quella Matilde”? Faccio quello stupito: “Cosa c’entra lei”? Lei è là, Matilde, che ascolta. Che non può non sentire anche se volesse. Ride in silenzio. Ritrovo quella mia Bice moralista: “Lei è una che non ci pensa due volte. Sarebbe una scelta terribile. È una tappa. Una vera nana”. Cerco di essere convincente.
La situazione farebbe venire da ridere anche a me: “Siamo solo amici. E poi Matilde è la ragazza di Baldo. Che c’entra? Come ti è venuta in testa”. “Di lui e di altri”. Matilde si stringe nel nostro abbraccio. Ridacchia e mi sfiora, impertinente. Si rannicchia tutta addosso a me. L’altra, Beatrice, è colta da un sospetto improvviso: “Sei con lei”? Sono inorridito. Certo che certe balle non sono mai così complicate da dire: “Perché dovrei”? Sono con le due donne della mia vita. Beatrice è la donna da sposare, per chi crede ancora al matrimonio. Tilde è quella da scopare, almeno è quello che sembra. Ci ho pensato, ho solo toccato: “Non è da te. Sei diventata gelosa? Ti ripeto che è solo la ragazza di Baldo”. Non so se l’ho convinta. “Beh! Allora… sto tranquilla. Magari ci sentiamo più avanti”. “Buona idea”.
Dovevo aspettarmi commento di Tilde: “Solo amici, eh?”… Cerco di rabbonirla, scusarmi e ruffianarmi: “Tesoro… Non mi… Non era il caso”… Ride del mio imbarazzo: “Hai fatto bene”. La magia però si è volatilizzata. Lo leggo da come lei si irrigidisce e si scosta. Ha bisogno di andare al bagno. È come se cercasse di soffocare un singhiozzo in gola. Fuori è una giornata di sole. La luce allaga la stanza in modo invadente. Prendo il libro in mano. È Ubu re. Non ci va giù leggera. Continuo a preferire un bel album di fumetti, o Ken Follett, nella vita Kenneth Martin. Continuo a parlare del grande niente, e lo faccio a voce alta per farmi sentire.
Torna con un’aria indispettita. Forse resoluta. Forse solo caparbia. Si siede vicino a me. Non abbastanza vicino. Mi guarda come se volesse insultarmi. Mi sorge il dubbio di dovermi scusare. Non so perché. “Ora… ti faccio vedere io solo amici”. Si tortura le dita. Tortura la maglietta. La stropiccia sul fondo. Si sistema i capelli. Il suo alito sa di menta e di dentifricio. Fa un sospiro di sufficienza. Si alza. Alza le spalle. Mi fissa e poi distoglie lo sguardo. “Ho deciso. Facciamolo”. Accende una candela profumata. Si sfila la maglietta. Mi metto comodo, per quanto posso, per godermi lo spettacolino.
Forse stavolta è… è la volta buona… che mi lascia guardare. Che me le fa vedere… Per bene. Le devo ancora toccare. Sono certo che ne abbia avuto voglia anche lei. Il reggiseno è bello pieno come sempre. E come sempre le contiene a fatica. È minuscolo. Le copre appena quei minuscoli indici che mi puntano. Solo che… non lo slaccia. Aspetta. Non si ferma che per un attimo. Fa lo stesso con quei maledetti jeans. Ho pensato che li avesse messi per dispetto. E precauzione.
Sono stupito. Senza respiro. Io la desidero già più che subito. Più che tanto. Mi fido di lei. Finalmente li abbassa e li scalcia lontano, nonostante che quelli cerchino di impicciarla e intralciarla. Si ferma un altro attimo. Si è pentita? È indecisa? Vuole che la guardi così? Ci sta ripensando? Dovrei dirle qualcosa? Non ho parole. Temo solo di soffocare. Gli slip, anzi il leggero tanga, ha delle tenui trasparenze. C’è un’ombra impudica in quella sua residua pudicizia. Si slaccia il reggiseno dietro la schiena e lo lascia cadere sul pavimento. Forse sto sognando. Esplodono all’aria che credo di sentire il rumore. Nude sembrano ancora di più. Danno una sensazione diversa e di appagamento. Per piacere stai ferma e lascia che mi ingozzi la vista di questa meraviglia.
Una donna nuda non è più solo una donna, è un intero universo misterioso tutto da scoprire. “Fanni posto, sbrigati”. Mi alzo dal letto. Lei ride con un suono isterico e imbarazzato. Si stende. “Vieni qui, stupido. Voglio che me le togli tu”. Ecco cosa voleva dire. L’abbraccio e sento tutta la sua nudità contro di me. Lei sente il mio entusiasmo e, ancora una volta, ride piano, in modo isterico e imbarazzato. “Perdonami ma… Non sapevo decidermi”… Voglio indagare solo nel delitto commesso da chi non ha saputo amarla. Le abbasso le mutandine e gliele sfilo. Cerca, per quanto le è possibile, di agevolare i miei movimenti. Ha ancora qualche remora. Mi sussurra solo all’orecchio: “Cerca di essere gentile. Per me… Per me… È la prima volta. Scusa”. E affoga le sue parole in un altro bacio. Mi scuso anch’io.
Al vostro Nardo Carafa, aspirante grande reporter di cronaca, possibilmente nera, non resta che scrivere un lungo articolo sulla morte di Cesare. Proprio Giulio Cesare. Lo so che è un episodio un po’ datato. Lo so che non interessa nessuno. Male. È sufficientemente cruento. C’è il delitto, la vittima e i colpevoli. «Io vengo per seppellire Cesare, non per elogiarlo. Il male che gli uomini compiono vive dopo di loro; il bene è spesso interrato con le loro ossa. Quindi lasciate che sia così per Cesare. Il nobile Bruto vi ha detto che Cesare era ambizioso. Se così era, era una colpa grave. E gravemente Cesare le ha risposto. Qui sotto il permesso di Bruto e dei rimanenti (poiché Bruto è un uomo d’onore, e così tutti gli altri, tutti uomini d’onore), io vengo a parlare al funerale di Cesare. (Cesare. Atto III, Scena II)» Come in ogni buon giallo che si rispetti. Come in quelli di Agatha Christie.
Odio l’ignoranza, soprattutto la mia. Che quelli credono che Brecht sia il cognome di Galileo e quel Giulio Casare, di cui non si sa il nome di famiglia, sia ancor in vacanza. nella costa bretone. «I paurosi muoiono mille volte prima della loro morte, ma l’uomo di coraggio non assapora la morte che una volta. La morte è conclusione necessaria: verrà quando vorrà. (Cesare: atto II, scena II)» Almeno gli studenti di storia dovrebbero interessarsi alla storia. Alle date. Mettendo ordine. La guerra di Troia, 1250 a.C. o tra il 1194 a.C. e il 1184 a.C.; allora non c’era nessuna certezza. La scoperta dell’America, 1492. La Rivoluzione d’ottobre, 1917. Il maggio francese, 1968; questa è facile. Lo scioglimento dei Beatles, 1970, nonno ci fece una vera malattia. Lo stesso della morte dei grandi del rock. Anno particolarmente funesto. Il giorno della morte di Luigi Tenco, Sanremo, 27 gennaio 1967. Il giorno del giudizio, a futura memoria. Non molto, ma le cose che so le so. Magari confuse.
Matilde mi fa i complimenti per il pezzo. Dice che, pure se con un linguaggio fin troppo elementare, potrebbe essere utile anche per una tesina. Mi corregge solo sulla Rivoluzione russa: febbraio 1917 del calendario giuliano. Cavolo, col cirillico nemmeno i mesi sono gli stessi. Merda.
Ci sono momenti in cui bisogna saper tacere. Singhiozzare piacere e stupore al silenzio. L’unico mistero che m’interessa in questo momento è il mistero dei suoi occhi. Lascio le indagini a chi le dovrebbe fare per dovere. Non me ne frega un cazzo di tutti i crimini di questa città.

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07_21Sono stata cattiva. È colpa mia. Perché non ho ascoltato la mamma? Perché sono grande. So le cose. Ma lui è molto più grande, un gigante. Quando appare sono piccolina. Tanto piccola. Sono una stupida. Non è vero che sono grande. Perché ho ancora paura. Ho guardato sotto il letto, non c’era. Ho spento la luce, poi l’ho riaccesa, ed ero sempre sola. Ho tolto il cappotto dall’attaccapanni, ed è sparita quella stupida maledetta ombra.
Non è vero che è meglio con la porta chiusa. Lui deve aprirla quella porta. È solo un’ombra. Un’ombra nera. Io mi sveglio ma sto ancora sognando. Lo stesso incubo. Cerca di svegliarmi. Il brutto sogno è davanti al letto. Io grido ma mamma non sente. Io grido e il grido mi si soffoca in gola. Ho imparato a piangere in silenzio. Cerco di scappare, non sono abbastanza svelta. Cerco di dibattermi, non sono abbastanza forte. Lei mi aveva avvertito. Perché ora non mi crede? Lo so che è un segreto, ma alla mamma… Lei mi vede triste. Un po’ ho detto e un po’ m’è rimasto nella pancia. Mi ha detto che invento le cose. Che leggo troppo.
Avevo scordato: l’uomo nero può venire di notte, ma anche di giorno. E di giorno assomiglia a papà Giordano che sembra proprio lui. Però anche lui mi dice che sono la sua piccola bambolina. E mi dice che sono una bambina golosa. Sono stata stupida. Non dovrei raccontare le bugie. Ma non si possono dire i segreti. Non è vero? E non ti crede nessuno. Per i grandi sono solo una bambina sciocca. Ho troppa fantasia. Confondo i sogni con la realtà. Ma non ci credono nemmeno gli altri bambini. Mi prendono in giro. Ridono e dicono che sono pisciasotto. Che allora non ci giocano più con me. E io piango. E allora dico che va bene e non è vero. Non sono sogni. Il male è male vero. E non sono una pisciasotto. Io non dico le bugie.
Gocciola una cosa appiccicosa, è come marmellata, come un gelato al sole. Lascia piccole pozze. Io le vedo e quando c’è mamma quelle non ci sono. Cacca. O almeno lei non le vede. Eppure sono lì. Come se fossero vere. Ma quando c’è mamma quell’uomo non viene. E quando grido tremano le cose. E mi dice che le parole. Mi sculaccia. Mi mette nell’angolo. Mi sgrida perché le bambine alla mia età non la fanno più. E io invece ho ricominciato a bagnare il letto. Mi dice che non capisce. Che devo pulire io quello che sporco, perché non ha i soldi per portarmi dal dottore. Ma io non sono malata. Non ho la febbre. Ho solo paura quando sono sola. Quando viene il gigante.
La prima volta mi ha portato le caramelle. Non dovevo accettare. Ma non era come gli altri. Mi sembrava di conoscerlo. Di conoscerlo prima, non dopo. Le ho prese, quelle caramelle. Ho sbagliato, credevo di potermi fidare. Non era ancora diventato l’uomo nero. E l’avevo sempre chiamato come si chiamava, ma prima. Io credo che lui abbia la maschera. Che vuole che io creda che non è lui. Anche la mamma dice il suo nome. Lei però non sa. E quando lo dice già mi prende la paura. E tremo. E le devo dire che è per il freddo. Lei si preoccupa sempre che sia febbre. Non vorrei dirle le bugie, ma non posso dirle. Lui, l’altro, con lei è buono.
Con me è cattivo. E mi fa male. Anche le sue parole sono cattive. Anche quando ha la voce dolce le parole sono cattive. La voce è cattiva. Non mi piace. E puzza di fumo. Ma poche volte ha la voce dolce, le parole gli tuonano in gola. Lo so che non posso dire il suo nome. Se lo dico lui appare. E mi fa ancora più tanto male. Forse anche mi ammazza. Ma io non voglio che torni. Invece lui viene. Viene quando mamma non c’è. O quando mamma è in cucina. O sta facendo le faccende. Lui viene quando vuole. Quando sono in cameretta. Quando sono fuori, e mi porta in cameretta o nel granaio. Anche se sto giocando. È tanto forte. Non posso scappare. E le gambe non mi portano lontano. Sono come il legno, le gambe.
Mi dice ciao e gocciola. Gli gocciola anche la bocca. So che mi farà ancora sempre male. Mi viene da gridare ma non ho voce in gola. Vorrei dire Vattene; non ci riesco. Mi ruba le parole. E poi tutto diventa nero. Mi dice che devo fare la brava. Che sono una donna. Io non sono una donna. Sono solo una bambina, piccola. E mi fa tanto male.

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Piccoli gialli italiani12. Suona e vibra il cellulare. È Tilde. Ci metto un po’ a riconoscerla e capire. Guardo l’orologio. “Ciao sono io”. “Ho sentito che sei tu”. “Ciao”. Cazzo, sono appena quasi le dieci. “Hai voglia che vengo fino a là”? “No… cioè sì… ma ora no. Non ho chiamato per quello”. Cazzo vuole a quest’ora? “Ti ricordi della nostra prima volta”? “Che vuoi dire”? “Quando ci siamo dati il primo bacio e ho dovuto chiedertelo”? “Certo che ricordo”. “Quando te l’ho… sì… insomma… La prima volta”. “Certo che ricordo, Matilde”. Non avevo bisogno di tutti i particolari. “Ti ricordi dove ti avevo portato”? Era partita seria. È chiaro che a questo punto le viene da ridere. Che ha voglia di prendermi per il culo. È chiaro che non ha chiamato per questo, e che gli è già passata subito la voglia di farlo. “Ricordo tutto, Matilde”? “Ti ricordi dov’eravamo seduti”? “Certo, vuoi dirmi cosa c’è”? “Non ti incazzare. Abbi pazienza. Guarda che metto giù. Non sei tu quello che vuole fare il giornalista? È che sono una stupida. Per me io mi farei i cazzi miei. Se mi ci fai pensare… Se mi fai pentire… ti dico solo: vieni. Corri subito qui. Che ho voglia di… pensare con te. Ma non darti troppe arie. Non è niente di”… Mentre ride la interrompo irritato: “Vuoi dirmi perché hai chiamato”?
Sono sveglio completamente. Presente. “Scusa. Non lo penso, veramente. Mi andava di scherzare. È una cosa importante. Dando le spalle al portone esci dalla corte. Giri a destra e poi a destra e poi ancora a destra. Sei abbastanza sveglio? Credi di aver capito”? “Certo che ho capito. E allora”? “C’è una riva. La vedi subito. Ma vedrai prima il capannello di gente intorno. Non puoi sbagliare. Ma… mettiti qualcosa addosso prima di uscire”. “Cosa è successo”? “Sembra, ma è sicuro, che hanno trovato un corpo che galleggiava sul canale. Risputato dall’acqua”. “Morto”? “Come dici che sia? Non stava certo nuotando. Non ti avrei chiamato per uno, magari pazzo o ubriaco, che fa il bagno di notte”. “Ci vado subito”. “Sappimi dire”.
Ci sono tutti: «dal commissario al sagrestano». Naturalmente con l’appuntato Buonadonna in prima fila, ritto come un chiodo. Sono cose che non succedono da noi. Che non dovrebbero succedere. È questa la sorpresa. È questa la novità. “Sta arrivando la mafia anche da noi”? È naturale che non lo penso affatto. Quelli sono già arrivati da un pezzo. Non amano fare troppo rumore. E non gli avrebbero permesso di fare il bagno senza un paio di scarponi di cemento ai piedi. Che l’acqua non è nemmeno abbastanza alta. Si sarebbero spinti più al largo. Voglio solo provocarlo e vedere cosa dice. Dice solo quello che mi posso aspettare da uno come lui: “Sembra”.
Nel giro di poche ore ne trovano un altro, di corpo. Tale Ottaviano Li Castri. Uno dell’ambiente, ma non è un delitto di mafia, questo è certo. Le solite voci informate, ma in questo caso molto meno loquaci, spiegano che è un delitto d’onore. La vittima ha ucciso e buttato in acqua il presunto amante della presunta moglie. Una giovane donna di bell’aspetto, quella del Li Castri, belloccia, di una bellezza piuttosto evidente. Molto dipinta. Spesso notata nei negozi del centro. Con un passato un po’ complicato. È certo che era stata in gioventù prima un’aspirante attrice, poi un’affermata battona. Gli uomini d’onore non hanno perdonato, allo stesso Li Castri, l’errore. E il troppo baccano. L’hanno consegnato come un pacchetto per la polizia.
Finalmente: «Cari amici. Non c’è di che preoccuparsi. Siamo in buone mani. E navighiamo in buone acque. Le stesse acque che ci hanno restituito il corpo di Sante Giovinazzi, noto donnaiolo. Il quale pare aver tratto diletto dalla donna sbagliata. Il marito della stessa, Ottaviano Li Castri, è stato già rintracciato dalla polizia, un poco morto. La donna affranta non sa chi piangere per primo dei due. L’autore di queste poche misere righe non ha mai detto che il Li Castri sia uomo in odore di mafia. Sospettato di essere nel giro della droga.
Lo stesso autore del presente articolo si guarderebbe bene dall’affermare, in mancanza di prove certe, che giustizia è stata fatta dagli stessi uomini d’onore. Non s’erano mai visti atti simili nella nostra città, e speriamo non si ripetano. La legge ha vinto, grazie alle nostre amatissime e efficientissime forze dell’ordine. L’indagine è chiusa. È risultato che i due non possono che essersi uccisi reciprocamente. Pur a distanza di qualche ora e di quasi un chilometri. Il primo vittima da arma da taglio. Il secondo con un colpo di pistola alla nuca. I nostri cittadini, come dice il questore, possono tornare a dormire sonni tranquilli. Il vostro attento Bernardo Carafa».
P.S. Sul mio scoop è piovuta una vera tempesta di like. E un paio di telefonate, più che altro prive di parole. Solo in un paio sono stato chiamato “Coglione!” e “Stupido coglione!” e in un altro invitato a starmi attento e guardarmi le spalle.

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