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Archive for luglio 2010

Non lo credeva ancora di essere stato lui. Aveva trovato quelle parole che aveva detto ai suoi occhi. Parole che gli erano parse belle e di suoni belli quanto trovate da un altro e in fine aveva trovato anche quel coraggio. Ogni cosa dopo sembra semplice, ma lui sapeva che per lui non era stata semplice; e non lo era mai stata. Molto spesso le cose erano successe perché dovevano succedere. O era stato solo l’oggetto delle storie. Fino ad allora non se ne era dato pena. Ma Elena aveva un sorriso che lo metteva a disagio, molto a disagio. Un sorriso che gli sussurrava sottili favole che lo rivoltavano dentro. Lo faceva… sentiva un calore come fosse stato rinchiuso in una stanza col riscaldamento a mille. Non gli era facile da spiegare. Gli sembrava bella, bella come non ne aveva mai visto una più bella. Bella da fargli scordare tutto il resto. Lo vedeva che non era proprio come la vedeva, ma la vedeva, eppure, così: bella. E la sua voce aveva suoni che lo distraevano trascinandolo distante. (“Lascia che ti tenga la mano”) Qualcosa di gentile prima o qualcosa di malinconico dopo. Si sarebbe accontentato che gli dicesse anche solo “Tienimi ancora stretta.” ma lei era solo curiosa di farlo con uno con la barba. Con uno con la barba non lo aveva ancora mai fatto. Era solo una ragazzetta viziata.

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La cometa

piccola operetta morale

Il modo si era come corrotto, forse la colpa era stata del passaggio della cometa. Io ero tentato a dar colpa di tutto a quell’avvenimento astronomico perché quella notte mi successero veramente alcuni fatti strani e inspiegabili altrimenti. Avevamo un canarino bello vispo e pieno di vita a cui mio figlio aveva dato il nome di Pavarotti. Aveva sempre cantato a becco spiegato fino a quella notte. Prima che andassimo a letto aveva cantato per l’ultima volta. Il mattino seguente lo trovai steso sul fondo della gabbia. Fui costretto a dire a mio figlio che avevo dimenticato la porta aperta e quello se ne era volato via. Che forse, probabilmente, prima o poi, sarebbe tornato.
Non che io sia uso a incolpare delle cose il sopranaturale. Semplicemente non sapevo darmi una spiegazione razionale. A quello e a tutto il resto. Anche perché m’ero destato insolitamente da un sogno che mi aveva lasciato in un piacere lascivo; eccitato. Ma inizialmente avevo pensato che forse era solo una mia impressione o, ancora, era cambiato solo in me e attorno a me perché non avevo notizie differenti e che smentissero queste mie riflessioni. Eppure la gente mi sembrava presa da una strana e insolita euforia e aspirazione a vivere. Da una nuova fretta. Per essere più espliciti semplicemente da una curiosa e anomala frenesia che almeno io non avevo colto in precedenza.
Qualcuno dirà che sono un sognatore, un illuso, che non sono sufficientemente smaliziato, per la mia età, e che avevo cercato di vivere in un mondo su misura. Forse è in parte vero eppure le coppie che mi circondavano, prima erano coppie, come si dice, regolari. I rapporti erano rapporti rispettosi e normali di coppia. Quelli che ci si aspettano tra coniugi o fidanzati. Poi, una dopo l’altra, in breve tempo, di quelle coppie non sono rimasti che detriti. Erano scoppiate. Da quelle tranquille coppie erano uscite altre coppie e mille altri rapporti complessi che si intrecciavano; e rapporti cosiddetti clandestini.
Ritenevo (e ritengo tuttora) che per i nostri anni l’unica eccezione dovrebbe essere rappresentata dai giovani che, anche per età, hanno relazioni instabili, in continuo mutamento. Perché si sa che anche gli ambienti che frequentano invitano, per così dire, alle distrazioni e alle divagazioni. Quella musica a volumi insopportabili e quei suoni ipnotici. Inoltre le cose che ingurgitano in quelle piccole ore e che io non so nemmeno immaginare (e che Dio solo sa). Tutto insomma può diventare ricerca di emozioni e del piacere. Corrompere i costumi e le abitudini. Aiutare alla dissoluzione. E’ difficile crescere un figlio di questi anni.
Ora, come appena spiegato, sembra che mi sbagliassi e della grande (ma non può essere così) e che stesse cambiando il mio mondo. Mi sembra di vedere sempre nuove coppie, una enorme instabilità e precarietà. Coppie strane. Gente con gli occhi sfuggenti e un’aria clandestina. Confidenze esagerate. Allegrie. Mi sembra che anche ogni programma della televisione si sia fatto malizioso quando non sconveniente. Che si ammicchi sempre al nudo, ai rapporti e alla sessualità. Così come i giornali e la musica. Le edicole sono state invase da quelle riviste. Anche i notiziari della televisione; persino quelli. E’ difficile esser padre oggi.

P.S. In qualche caso nei commenti è stato osservato che i miei racconti brevi, quelli dei Profili e altri, paiono degli incipit. Allora allego un vero incipit; così, per divertimento. Quei raccontini brevi cercano di lasciare spazio a variazioni. Tendono a suggerire (sul tema); a muovere a variazioni. L’incipit invece lascia a metà aspettando un seguito. Ma forse è solo una cosa che mi racconto da me. Questo  naturalmente è un vecchio scritto. In realtà è solo l’inizio del primo capitolo di un intero romanzo, veramente il secondo di due, che naturalmente non ho nemmeno mai pensato di cercare di pubblicare.

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carte su carta, bianco su bianco

CARTE: Sussurri (33*48) 4 giugno 2010: tecnica mista su cartoncino.

P.S. quello che l’immagine non dice:
I sussurri sono sottili e leggeri, paiono non lasciare il segno. Increspano appena la superfice. Questi sono ottenuti con carte su cartoncino leggero. Senza alcun intervento di colore. Bianco su bianco. Che vi devo dire? mi sono divertito.

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Era il giorno del derby. Può sembrare un giorno come un altro, ma solo uno stupido lo potrebbe scambiare per un giorno qualsiasi. Si sente nell’aria, per giorni, che non è come gli altri. Per strada. E nei bar. Verso lo stadio qualcosa non andava. Le strade erano insolitamente vuote; come per un ferragosto. La sciarpa al collo lo faceva sudare e pungeva perché era sintetica ma aveva i suoi colori; come la macchina. A Gualtiero non piaceva il calcio; non ne conosceva un altro; non doveva essere troppo uomo. Lo stupido era Gualtiero che ne sapeva più la moglie che lui. Gli piaceva parlare con quella donna perché c’era gusto parlarci e non solo quello; ci sarebbero stati anche altri gusti a dirla tutta. Ma tutti quei pensieri gli stavano facendo perdere la concentrazione; contento lui e contenta lei che lei non poteva che essere una che si accontentava, con uno così. Sul cancello c’era scritto che si sarebbe giocata a porte chiuse. Si sentì morire. Forse se avesse fatto in fretta sarebbe riuscito ad arrivare da Mario per l’inizio del secondo tempo. Certo non sarebbe stato come dal vero ma almeno ci avrebbe trovato i soliti. Ma non gli avrebbe detto che lui c’era andato senza saperlo. Chissà quant’era verde l’erba? Sentì gridare e capì che avevano segnato, ma chi?

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pittura con tecnica mista su cartone telatoNon lo sopportava. Non era una stupida. Forse non ne conosceva la ragione ma lo vedeva. Vedeva il modo in cui gli occhi di Eva, sua figlia, guardavano Ermes. E non riusciva a convincersi che si era trattato di un caso. Per caso si erano trovati lì. In vacanza. Nello stesso posto. Nello stesso periodo. Certo era stata mirabile l’interpretazione di Eva. Sembrava veramente sorpresa. Non potevano dargliela a bere. Lei non era una stupida. E poi erano sempre assieme. Non va certo bene. Anche per gli altri, per la gente. E poi non è una questione di etica. Certe cose non si fanno. Né in pubblico né in privato. Nemmeno si pensano. Quando una donna ha marito dovrebbe pensare solo a lui. Nemmeno farsi sfiorare dalle distrazioni. Non che lei volesse pensare male. Solo che il male viene anche quando non lo pensi. Ed è una buona politica tenersi distanti dalle tentazioni. Lei aveva sempre fatto così e si era sempre trovata bene. Insomma una donna seria ha delle regole. Deve avere dei comportamenti. Aveva deciso di parlarne nuovamente. Non era molto sicura che alla fine l’avrebbe fatto. Invece si fece forza e trovò il coraggio.
Il suo solito imbarazzo. Non era riuscita che a ricevere frammenti; risposte evasive. “Tu non puoi capire”. Cosa c’era da capire? E perché? Non era più una ragazzina. Lei, a quasi sessant’anni. Ne aveva viste di cose. Credeva di aver visto tutto. Cioè molto. Insomma avere comunque imparato quello che le serviva. Lei non aveva più guardato nessuno dopo il suo povero marito. “E’ solo un amico”. Cosa voleva dire? Non si guarda così un amico. Non sapeva come si guarda. Anzi lo sapeva. Non sapeva cioè non conosceva quello sguardo. In una donna. In sua figlia. Ma una donna sposata può avere un amico? E guardarlo così? Si vergognava dei propri pensieri. Si sentiva stupida. E stupita. E confusa. Aveva visto ragazzine guardare così. O almeno in un modo simile. Con quell’aria confusa. Sorpresa. Sognante. Ma erano solo stupide ragazzine. Non avevano delle figlie quasi da marito. Avrebbe fatto meglio a non pensarci. Semplicemente a non pensarci. Pensò a Genziana.
Era rientrata. Perché toccava a lei ricordarsi. Preoccuparsi delle spese. Non fossero mai partite. Madre e figlia in vacanza. Le nipoti ormai per conto loro. Stava riponendo le cose. Canticchiando semplicemente una canzone. Sicuramente non l’avevano sentita. Le erano giunti quei rumori. Senza un perché era salita. Provenivano dalla sua camera. Era come un guaito. Non era riuscita a resistere. Qualcosa la tratteneva. Qualcosa la spingeva. Aveva ancora le scarpe addosso. Come voleva non averlo fatto. Aveva avvicinato la testa. Aveva spiato. Era Eva. Cosa facevano nel suo letto? Ci fosse stata possibilità di dubbio. Nessuna. Era nuda. Sotto Ermes. Erano sudati. Ignari. Troppo presi di se stessi. Troppi abbrancati ad un amore osceno. Era quella la loro amicizia. Forse lo era fin da sempre. Pensò a suo genero. A quel povero marito. Rimasto a casa. Ignaro. Per lavoro. Era come se fosse lei quella tradita. Non trovava giusto quello che faceva sua figlia. Non aveva parole per giustificarla. E per di più sul suo letto. Lui, suo genero, avrebbe avuto tutte le ragioni del mondo…
Si sentiva colpevole, come una ladra. Non solo per averli spiati. Non era stata nemmeno curiosità. E poi quel suono non era un suono… di due che lo fanno. Avrebbe voluto sprofondare. La verità è che non riusciva a togliere gli occhi. E sua figlia ansimava, si liberava di sillabe, suoni gutturali. Forse voleva, in quel modo, gratificare il suo amico. Il suo amante. Come suonava assurda e oscena quella parola. E non voleva credere che fosse proprio sua figlia. E non aveva mai sentito quel modo di fare, per così dire, l’amore. Quel modo così sconveniente. Di giorno. Senza intimità. Senza buio. Lasciandosi andare. Gridando. Così. Sguaiatamente. Come cani. Come pazzi.
Come se non conoscesse l’amore. Come se non avesse amato suo marito. Era vedova da nove. Ne conservava memoria. Una buona memoria. E improvvisamente si ricordò: spesso si era risposta se era tutto lì? Ma soprattutto… comunque una donna non avrebbe dovuto farlo. Non con un amico. Non con un estraneo. Una donna per bene dovrebbe farlo solo con il marito. Con il proprio marito. Così era scritto. E si vergognò di sé. E per lei. Non era forse amore anche il suo? Quello con il suo povero Piero? Cos’era quel bisogno di… di… gridare? L’amore sta nelle parole. Sta nel cuore. Il sesso c’è quando c’è l’amore. Ma era quell’amore che le sembrava in qualche modo diverso. Esagerato. Sudati. Sembravano impazziti. Scatenati. Incapaci di controllarsi. Era come qualcosa che aveva solo letto. In qualche romanzo. Senza averlo mai cercato. A cui non aveva mai creduto. Un pettegolezzo esagerato. Se ne dicono tante che non ci sono. Fu il quel preciso momento che decise. Si allontanò prima di poter essere scoperta.
Il mattino seguente disse a Eva che se n’era proprio scordata. E non poteva farne a meno. Prese il primo treno e se ne tornò. Non voleva restare oltre. Non voleva sentirsi di più responsabile. Non voleva collaborare ulteriormente a quella… bestemmia. Sua figlia. Non poteva ancora crederci. Durante il viaggio pensò a Gualtiero. All’uomo tradito. Al marito ingannato. Alla vera vittima. Se avesse saputo… non sarebbe stata certo lei a dirglielo. Non avrebbe potuto. Era un segreto che le pesava. Che avrebbe voluto non avere. Che avrebbe mantenuto. Le sembrò più solo che se fosse rimasto l’ultimo uomo al mondo. Ma pensò anche a quel modo di fare all’amore. A come quei due corpi sembravano provare quella sorta di pazzia. Le sembrò un modo indecente. Un uomo è una donna non dovevano farlo. Avevano entrambi dei doveri. Lei verso il compagno di una vita. Il padre delle sue figlie. Lui anche verso l’amico. E non dovevano farlo in quel modo. Era una follia. E sembravano proprio folli. Non riusciva a togliersi quell’immagine dagli occhi. Forse era stata stupida. Ingenua. A non averlo capito prima. E forse non doveva sbirciare. Poteva pensarlo trovando la porta chiusa. Ma una madre non pensa. E poi questo non cambiava. Anche se lei avesse continuato ad ignorare. E a crederle. La cosa era successa e stava lì. Non avrebbe spostato di una virgola. La colpa di sua figlia c’era.
Quella sera lo invitò a cena. Quel povero uomo non poteva restare solo. Le sembrava un modo di scusarsi. Di liberarsi di un rimorso. Preparò le lasagne come gli piacevano. E poi l’arrosto con le patate. E lui la raggiunse puntuale. E portò il vino. Gualtiero era sempre stato così, non si era mai fatto attendere. Era sempre stato una persona a modo. Non capiva cosa non andava in lui. Forse era solo Eva che non capiva cosa si perdeva. Pian piano la sua tensione prese a stemperarsi. Si rendeva conto che lui non sapeva. Che lui si fidava della moglie. Che nemmeno sospettava. Che tutto era rimasto uguale. Che il mondo continuava. E lui aveva la stessa voce. Aveva sempre quella sua invidiabile calma. Si trovava bene con lui. Parlare cominciò a esserle più facile. Le parole scivolavano leggere. Scorrevano. Qualcosa di più. Le scappò anche qualcosa che forse avrebbe dovuto pensare prima. Niente di sconveniente. Pensò che… Forse avrebbe dovuto fermarsi. Smettere di bere. La testa le ronzava. Lui le versò un altro bicchiere. Le sembrò di tornare ragazzina. Non aveva più cinquantanni. Per dirla tutta cinquanta tre. Era tornata ad averne venti. Pensò ad una cosa stupida: aveva ancora un bel seno.
Cercò di capire cosa le stava succedendo. Un poco tutto intorno girava. Era tutto confuso. Provava quella specie di euforia. Si sentiva come ubriaca. Non lo era mai stata. Vide quella mano. Sentì la mano di lui sul suo ginocchio. Lui le spiegò calmo che le cose con Eva non andavano proprio bene. Che stavano passando… Non riusciva più a capire. Le venne da ridere. Non sapeva perché. Non riusciva a trattenere quella euforia. Il vino scendeva fresco. Leniva l’aria di quella sera torrida. Tutte le sue preoccupazioni. Tornò a guardare quella mano. Continuava a non capire. Ne sarebbe dovuta essere lusingata? Stava per aprire la bocca. Cercò di dire qualcosa. Improvvisamente non seppe più cosa doveva dire. Era suo genero. Era un uomo. Non capiva più alcunché. Gli disse Gualtiero! Lui le disse Adelina! Non aveva nessuna scusa. Aveva sentito il respiro dell’uomo addosso. E non riusciva a crederci: era stata proprio lei a tirarlo fuori. A liberarlo. E aveva scoperto quanto quell’uomo, suo genero, era uomo. Non aveva mai visto niente di simile. Ne era rimasta affascinata. Si erano trovati sul divano. Non ricordava come né perché. Chi era stato… Chi aveva guidato l’altra. E si era persa. Aveva finito di perdersi.
Non può una donna della sua età… Quello era il marito di sua figlia. Era Gualtiero. Aveva scordato chi era lui. Chi era lei. Ed era tanto Gualtiero. Certo che non ci aveva mai pensato. Non ci aveva più pensato da quando era rimasta vedova. Ma non avrebbe mai immaginato. Era una persona diversa. Era solo un uomo. E lei… lei… quello che la sconvolgeva di più… era solo una donna. E per la prima volta… quella donna. Un’altra donna. Ma era ancora una donna. Tutto era… era tutto un’altra cosa. Una fretta la prendeva. Lo accolse come una condanna. Come una liberazione. Con un’enorme impazienza. Qualcosa le era impazzito dentro. Non poteva essere lei. Non quella che gemeva. Non quella che si sentiva crescere quel grido in gola. Non quella che provava… le sembrava di impazzire. Non poteva pensare di non provarne vergogna. Quello che provava la squassava dentro. Non riusciva più a trattenersi. Era una cosa… indescrivibile. Lo teneva a se. Lo tratteneva. Lo stringeva. Lo implorava. Lo incitava. Sperava che non smettesse mai. Le scappavano parole che credeva che nessuna bocca di donna potesse dire. Le frasi più oscene. Era un’altra nel suo corpo; una che non conosceva.
Non era mai stato così. Aveva cominciato a provare un piacere che non aveva mai provato. A ondate. Che sembrava mai pago. Mai domo. Non finire mai. Che chiedeva… ancora. Che inseguiva altro piacere. Senza nessun pudore. Senza tregua. Senza nessuna vergogna. Affogava nella sua bocca. Nei suoi baci. Non voleva aprire gli occhi. Non voleva vederlo. Non voleva svegliarsi. Non voleva scoprire che era proprio lui. Ma allora era vero? Esisteva quell’amore? Quel modo di fare all’amore? Poteva essere così pieno. Così coinvolgente. Cos’era stato quello con Giuseppe? Non le importava più nulla. In quel momento era solo… solo quella donna. Era solo in quel piacere folle. Illegittimo. Smisurato. Pazzesco. Ed era solo in ansia per lui. Voleva solo… cioè non voleva… ma voleva. Voleva che lui restasse soddisfatto. E che le strizzasse il seno. Anzi le tette. E continuasse a succhiargliele. E non finisse mai. Ma anche di sentirlo dentro. Non sarebbe nemmeno riuscita ad immaginarlo che farlo poteva essere così… così… bello. Stupendo. Gli passò una mano tra i capelli e sospirò mentre lo sentì. E lui cadde tra le sue braccia.

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Michele sorride. “Questo posto mi piace proprio”.
Silenzio. A volte il silenzio dice tutto. Lui non è mai stato bravo, a stare in silenzio. Non era bravo nemmeno con le parole, dette. Per quello nemmeno a raccontare bugie. Mai stato bravo. Ed era come se gli mancasse qualcosa. Non c’era mai stato, ma era come se conoscesse quei posti. Forse perché quei posti, in fondo, son tutti uguali. Forse solo perché erano quei fantasmi che sfioravano quelle foglie, in quel leggero rumore come di sciabordio; quel fantasma. Forse più semplicemente perché lei ne aveva parlato. E scritto. Ma lui non era bravo, e a volte le parole gli scappavano.
Cercava parole gentili. Per questo l’aveva detto. Solo per compiacerla. Come una carezza. Il posto non aveva nessuna colpa. Il posto era bello. Gli piaceva veramente. Lui era felice. Felice di stringerla tra le braccia. Di cercarla in un bacio. Di essere finalmente con lei. Ma c’era un passato a rimestargli nello stomaco. Avrebbe voluto gridare: “Pazza”! Gridare: “Fermati”! Gridare con tutto il fiato che aveva in corpo; nei polmoni. Come se avesse il potere di tornare indietro. Di cambiare il passato. Come un pazzo mago del tempo. Ma era tardi. Irrimediabilmente tardi. Non puoi gridare ieri. Quale leggerezza? Nel momento che era lì avrebbe voluto esserci sempre stato. Liberarla di sé. Che lei non fosse sola. No! non era sola. Peggio. Era solo sola con le sue paure. Col suo segreto che non voleva uscire dalle sue labbra. Con quel rancore a cui non aveva mai trovato tregua. Con la sua incapacità di perdonare. Chissà se ne sarebbe mai stata capace? Il dopo cambia le cose. Troppo facile guardarle così. Ma forse lui sapeva solo sbagliare. Non poteva capire. E questo serviva solo a rendere ancora più difficile tutto.
Certo che era una pazzia. Certo che era inutile. Lo sapeva da sé. Lo avrebbe capito chiunque. Non poteva farci niente. Non in quel momento. E le ferite restavano aperte. E non riusciva a perdonarsi nemmeno le colpe che non aveva. I pugni in tasca. Già! i pugni in tasca. Esserci. Gli anni di mezzo. Strana generazione la loro. Avevano vissuto una rivoluzione che non c’era mai stata. Avevano sognato e trovato la paura dei sogni. Tutto cambiava intorno, ma troppo in fretta. Loro erano incapaci di cambiare così in fretta; di cambiare comunque. Ma loro non erano più. Semplici sopravvissuti aggrappati a gravidi rimpianti. E non lo voleva più. Non voleva essere che se. Che il proprio passato. Non era onesto ricordare quei ricordi. Ricordi non suoi. Gli occhi a scivolare su quegli spazi. Solo per fuggire i suoi. Stringerla con quella tenerezza che non aveva potuto. Che poi ognuno decide per se. E decide per tutti. E condanna anche gli altri; incolpevoli.
Mica lo puoi sapere, prima. Sei sballottato in mezzo. Tra sensazioni e sentimenti e, appunto, rabbie. Credi di possedere le cose. Di, appunto, poter decidere. Tu sola sei (ed eri) il mondo. Nemmeno gli amici più cari ti possono portare via da te. Ti possono fare compagnia. Gli regali solo la tua apprensione. E loro a soffrire con te la tua sofferenza. Senza poter intervenire nelle cose. Perché sono amici. Perché se vuoi sentirti dire un “auguri” non possono dirti “mi dispiace”. Non possono chiederti “sai cosa fai”? Perché non lo puoi sapere. Mica ti è mai successo. Lo credeva facile. Cominciava a capire quanto è doloroso. Avrebbe voluto cambiare e cominciava a capire che non si può. Anche lui non poteva essere che lui. Non sarebbe stato mai nulla di diverso. Lo era già in quel primo bacio. E gli amici non possono che mostrarsi felici della tua finta felicità. Che darti quel senso di vicinanza. Che cercare di renderti tranquilla. In fondo la vita va anche sfidata.
Già allora. Quell’uomo, allora. Già la prima volta. La loro prima volta. Succede. Non era stato bello; ma mica lo puoi raccontare. Niente era stato bello. Non come avrebbe voluto. Non come aveva pensato. Forse non lo è mai, bello. Forse è così la vita. Forse è questo amare. Forse perché ci si aspetta di più; troppo. E lei si aspettava. Almeno quello lo sapeva: non lo avrebbe rifatto. Ma non poteva tornare indietro. Un uomo può anche farsi perdonare. Certo non lo aveva fatto. Non era più in tempo. Ormai. Ma quanti no avrebbe dovuto dirle? Certo che le cose le doveva fare lei. La vita era la sua. 33 anni e non sentirli. Pessima età. Chiedetelo al cristo. Era veramente finita. In quel momento. Poi sarebbe ricominciata. E Michele avrebbe voluto gridare “Basta”! Anche per quello era tardi. Mica era colpa del posto.
Questo posto mi piace proprio”.

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BUIO
Mai tanto buio
mai quanto adesso
nemmeno un chiarore
muta intorno      la luna
un chiarore, nulla
nient’altro che buio      a essere.

Dove essere?
Come?
Fra cose distratte
dieta di quotidiano
oggetti che tentano identità      mentre
l’illusione tace i suoi neon:
Misero silenzio – silenzio
neanche rumori lontani porta
né lo sferragliare del treno.
Immobile      immenso globo,
sibilo tremendo,
sfera senza coda,
increduli spalanca      occhi d’acciaio.
Cerca il posto…
il posto dell’appuntamento
ma lei è andata, fuggita…
e con quei sussurri di voilà
difficili equilibri
acquieta la notte,
rincorrersi diVersi
mescolarsi di vuoti e ombre
quasi giustificazione
del tempo

scorre lento come lenta
la corrente spegne il rancore.

E chi non ha nulla
sceglie un dio
in cui credere.

E chi non crede in se
di se stesso i canti canta

mentre al suo corpo
usa violenza
e i suoi oggetti violenta
oppure
avvinghiato
a loro s’accoppia.

Ma chi si teme
d’altri parla
e balbetta.

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Vorrei non chiamarmi anch’io Michele. A proposito di comunicazione: la vita non è un viaggio. Non puoi prendere il biglietto sapendo già la destinazione. Girandoti indietro tutto sembra più facile. Si sono perse le emozioni, i particolari, l’ambientazione. E’ la facilità della confusione. La sua fragilità. E’ la sintesi della memoria. Perché è proprio quell’insieme, il paesaggio, che fa quel viaggio, che decide dove approdi. Lei non ci aveva mai pensato, oppure ero io che lo credevo. Sono alchimie sottili e distratte a mutare il metallo vile in oro e viceversa. Quando era andata alla festa era stato per un semplice dispetto. A lui. Più ancora a sé stessa. Alla propria stupidità. A lui proprio perché non lo avrebbe voluto. Ma che diritto aveva? E alla propria stupidità per essersi infilata in quella situazione. Per aver inseguito quel niente e quelle solitudini. Per quella sua incomprensibile incapacità di uscirne.
E’ qualcosa che a volte si chiama amore, ma quasi sempre assomiglia solo ad una malattia. In fondo anche con lui, Michele, era stato lo stesso. Era cominciato come da niente. Una simpatia. Poi avevano cominciato a parlare. Cioè le sembrava più facile confidarsi. Si era mostrato gentile. A dire il vero avrebbe dovuto diffidare. Forse si era sentita presuntuosamente forte. Le cose vanno verso un inizio, o verso il precipizio, e tu fai seguire un passo all’altro. Non c’è un progetto. Vivi. Ti accorgi dove sei arrivato quando sei arrivato. Quando è tardi. Aveva pensato che in fondo era solo un bacio. Poi si era chiesta cosa era quel bacio. Poi aveva pensato che dentro c’era la sua libertà. Aveva dovuto aspettare anche troppo tempo per capire che era la sua prigione.
Così, allo stesso modo, era andata al ballo. Per ribellarsi alla sua gelosia. Per la sua possessività. Proprio perché sapeva chiedere ma non le aveva dato che nulla. E c’era andata anche senza sapere perché ci andava. Certo non ci cercava nulla. E’ quasi sempre così. Certo non credeva che avrebbe incontrato niente. Semplicemente Lilly aveva insistito. Semplicemente era uscita di casa. Un po’ per disperazione. Un po’ di malavoglia. Non era il massimo. Non conosceva nessuno. Quasi. La padrona di casa. Pochi altri. E poi era stanca di starsene sola in casa. Tutte le feste. Ad aspettare.
Se avesse dovuto dirlo, dopo, avrebbe detto che Carlo incarnava tutto quello che lei aveva sempre evitato in un uomo. Anche quello che odiava. Come la sfacciata sicurezza. Anche quello… perché già le altre la invidiavano. Su quello, ma solo su quello, si assomigliavano; quei due uomini. Quando avrebbe dovuto dirsi pensaci Rossana, non ebbe nemmeno il tempo di farlo. Ma vivere è un diritto, e un dovere, mai una colpa. Non andare sarebbe stato solo tradire sé stessa. Già! lei non lo avrebbe mai ammesso. Quella lei era così diversa da lei. Era un altro gioco. Interpretava la parte di quella donna che detestava, che non avrebbe mai voluto essere. La voce di lui la rapiva. Si rifiutava e non poteva sottrarsi al fascino dei suoi suoni. Agli occhi di Carlo. E già si malediva e si rimproverava. Avrebbe voluto ma nessuno la aspettava. Cercava di fingere che non fosse così. Che tutto fosse solo come avrebbe voluto. Intanto si sentiva nella parte del torto.
Uno ci nasce con la propria faccia. E con tutto il resto. E quella faccia, bella o brutta, ti devi tenere. Non ci si può mica rifiutare. E non ci si può incolpare per il proprio aspetto. Ne usarlo per scusarsi. Poi, dopo, aveva capito che era lusingata delle sue attenzioni. Quando era tardi. Forse. Non per i suoi occhi. Nemmeno per la sua voce. Solo perché era lì. Solo perché le parlava. Solo perché alla sua età si ha quel diritto a vivere. Ad un briciolo di attenzione. A sentirsi importante. Appunto, viva. Ad un film. Uno stupido film. Ma cos’era un film? Anche solo un film era tutto quello che non aveva avuto. Che non poteva avere. E passeggiare dopo per le calli tranquilla. Parlando senza dover fare attenzione ad ogni parola. Con uno che ti accompagnava fin sotto casa. Con qualcuno che mostrava interesse per te. E se fosse venuto a saperlo: tanto meglio. Era tentata di dirglielo lei.
Certo che doveva essere amore quello che provava per Michele. Ma quello di Michele cos’era? Lui aveva la sua famiglia, le sue cose, persino le sue altre avventure. Lei era… meno persino di quelle. Lui nemmeno si ricordava di lei. E poi però la voleva trovare ad aspettarlo. Lei non gli aveva mai chiesto nulla. Non l’avrebbe fatto. Non aveva mai chiesto. Non gli aveva mai aperto il proprio cuore. Forse aveva detto di più a Carlo, quando era ancora poco più di uno sconosciuto. In poco tempo. Quasi in fretta. Lo aveva fatto perché sapeva che di lui si poteva fidare. Perché a lui poteva rinunciare. Di lui avrebbe potuto fare a meno. In qualsiasi momento. E’ strana la vita: eppure quell’uomo le aveva dato molto di più di quello che mai il suo uomo le avesse dato. Certamente più di quel nulla.
Non era facile ammetterlo. Non voleva mostrare le proprie debolezze nemmeno a se stessa. Quello era il punto. Perché parlare? Cercare di farsi capire, dove non c’era niente da capire? Come sempre era colpa sua. Anche questo è un modo di fuggire. Certo che lo credeva diverso. Tutti sembrano diversi all’inizio; altre persone. Lei era fatta così: una che credeva, che non mollava. Ma come poteva continuare a vivere parlando solo col proprio silenzio. Pietendo un po’ di attenzione. Consumando le proprie ore aspettando quello che non poteva mai arrivare. Aspettando solo di invecchiare. Aspettando lo stesso niente. Ordinandosi di non guardarsi indietro. Cercando di dimenticare mentre le cose le stava ancora vivendo. E gli altri ti dicono bella e tu non sai che fartene. Gli altri ti guardano e non ti vede l’unico che ti interessa. E le ore sono lunghe. Ma era vita quella? Che colpa ha una donna di sentirsi sola se è sola? Lei non si accettava. Tornava a darsene ogni colpa. Non poteva incolpare che sé.
Lui non era presente nemmeno per assumersi una colpa. Ma come poteva dirlo a lui delle sue angosce se non sapeva confidarle nemmeno a sé stessa. Come poteva capirla se lei non si capiva. Il mondo le aveva promesso tutto e non le aveva dato niente. Non aveva chiesto. Allora è facile accontentarsi anche di un piccolo amore. Di una attenzione. Di un sorriso. Di una carezza. Di un consiglio. Sapeva che lui aveva ragione, ma non voleva accettare di ammettere che si stava sbagliando, anzi non poteva farlo perché non poteva tornare indietro. Non poteva che accettare il proprio errore. A qualsiasi costo perché le cose non sono mai come le avevi sognate. Ma le cose non sono mai come te le ricordi.

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A quindici anni si era vista allo specchio e non si era piaciuta. Già a dodici era diventata donna, ma erano due che già era dovuta diventarlo. Quando aveva visto il sangue, povera stupida, aveva creduto che fosse colpa sua. Davanti a quello specchio si era chiesta cosa quell’uomo trovava in lei. In fondo lei lo amava o almeno credeva, anche se lui era gentile solo dopo e per troppo poco. E poi con quella storia che non lo doveva dire come se una ragazza, cioè una donna non avesse altro da andare a raccontare. Ed era bello avere un segreto. Ed era bello avere un uomo grande, anzi lo sarebbe potuta essere. E poi quella storia che lui si arrabbiava degli altri ragazzi. La vita non è come nei libri. Se avesse avuto più tempo per sognare avrebbe creduto che dovesse essere tutto diverso. Ma in fondo lui era il suo uomo e pensava, allora, che sarebbe stato sempre così. Non era bello, non come papà, ed era anche più vecchio; se avesse potuto avrebbe pensato che bello era Giuliano. Ma quello parlava e parlava e non le aveva mai chiesto nulla. E poi lui aveva detto che doveva smettere di parlare con Giuliano. Erano troppo le cose che lui le diceva che non doveva fare. Poi aveva sentito che non era giusto e lei non aveva capito perché; era come se fosse sempre stato così. Era facile sentirsi confusa. Davanti allo specchio le erano cresciute quelle che chiamano tette e si erano fatte grosse. A lui piacevano e lei non capiva cosa ci avesse sempre trovato di bello. Anche a toccarsele non lo capiva.

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CARTE: La protesta (33*48) Tecnica mista su carta; 14 maggio 2010

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