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Posts Tagged ‘bambini’

Io la odio. Mamma non vuole che dica così ma, la odio. Da quando la cicogna l’ha portata tutto è cambiato. Maledetto uccello. Papà dice che è colpa della mamma, perché lui voleva un maschietto, invece è arrivata Stamila. Non ho capito. Potevano tenere la porta chiusa. Restituirla. Dire che si era sbagliata. Cosa ha fatto la mamma? Ma è cambiata anche lei. Sempre con gli occhi sopra a quella pisciaddosso. Tutt’e due. Mila di qua, Mila di là. A stento mi guardano, si accorgono che ci sono. E se mi guardano è per sgridarmi. E qualche volta ci scappa anche qualche scapaccione. “Tu sei grande.” –mi dicono.
Certo che sono grande. Io vado a scuola. E sto imparando anche a scrivere. Sono brava. Lo dice la maestra. Eppure se lei ingoia quattro cucchiai di pappa e ne sputa otto tutt’e dire a dire: “Brava! Brava!” e a battere le mani. E lei, quella nana che nemmeno è tanto bella, anche se loro dicono in continuazione che lo è, si batte le mani, anche lei, da sola. Scimmiotta come una scimmietta. E ride divertita. E io, se mi faccia una macchiolina, subito a dire che sono una sporcacciona, che devo crescere, e ancora a sgridarmi. E lei si fa ancora la pupù addosso che puzza. E loro le puliscono tutti pazienti il culetto. La mia vita è diventata un inferno: “Guarda la tua sorellina com’è brava”.
Mi hanno insegnato loro a farla in vasetto. Ora mi devo mettere in un angolo. E non mi dicono che sono brava. E non mi fanno compagnia mentre la faccio. Io non ci gioco con lei. Perché non sa giocare. Perché piagnucola sempre. Perché vuole sempre le mie bambole. Perché puzza di profumo. Perché la mamma a lei da mangiare ancora al seno e a me no. Perché se la fa nei pannolini senza avvertire e poi puzza. E dice “Cacca.” E glielo lasciano dire. E sbava. E le scendono lacrimoni dal naso. E rompe le cose con quelle zampe da orsacchiotto. E il pigiamo con le orecchie. Insomma io mica la volevo una sorellina. Avevo chiesto la casa di Barbie. Il libro di Peppa Pig. Il costume da principessa. Lo zainetto di Hello Kitty. Il cellulare dei Minion. Le bolle di sapone. Non una sorellina rovinattutto che non sa nemmeno fare la conta e se le dico nasconditi si nasconde dove tutti la vedono subito. Magari seduta sotto la tavola da pranzo. Sul divano con le mani davanti agli occhi. Crede che se lei non vede gli altri non la possono vedere, povera bamboccia sciocca.
Non è giusto. Sono stufa. Rivoglio le mie coccole. Ne ho diritto. Mi lasciano fuori. Si chiudono in bagno. Ogni volta. Per farle il bagnetto. La riempiono di talco come se impanassero una fettina. Però poi non la friggono. La lasciano nel fasciatoio e lei sbadiglia e si contorce. E’ un’idea. Entro di soppiatto senza farmi vedere né sentire. La sospingo solo un po’, senza tanta forza. Lei precipita nell’acqua. Divertita, insolente, protestante crede di doversi fare di nuovo il bagnetto. Le tengo giù la testa e lei fa tante bollicine, con la bocca e dal naso. Nemmeno quelle sa fare bene. Sono piccole e non hanno quei bei colori dell’arcobaleno. Alla fine fa solo glu glu. Io oramai mi lavo da sola: “Guarda mamma, galleggia come una paperella”.

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piccoli-amoriTutto era cominciato nel modo più banale, fra bambini. Nel bel mezzo del gioco. E’ sempre così che ci si litiga. Persino da grandi. Poi si perde il motivo. Semplicemente si continua. Forse fa parte anche quello del gioco.
«Uno, la luna»…
«Son giochi da bambine».
«Due il bue. Cosa vuoi dire»?
«Son giochi stupidi».
«Tu non sai niente».
«Invece io so più di te».
«Non è vero».
«E’ più forte il Milan».
«No! La Juventus».
«Cosa vuoi sapere tu di calcio»?
«Lo so perché lo so»?
«Chi te l’ha detto»?
«Me l’ha detto chi me l’ha detto. E poi lo so. Nella Juve c’è Baggio».
«E nel Milan c’è… Ma perché parlo con te»?
«Sei un cafone antipatico. Solo un pisciasotto».
«E tu sei… sei… Sei solo una ragazzina. Ecco cosa sei».
«Non ci gioco più, con te».
«Nemmeno io».
«E togli quelle mani dal naso».
«Perché»?
«Perché sì! Non è bello. E poi fai schifo. Con le caccole al naso»…
Entrambi sono usciti con i calzettoni abbassati e la palla, ma quella di lei è rosa con le stelline e quella di lui è proprio da calcio con lo stemma della sua squadra. Entrambi si sono scordati della palla perché non è possibile giocare in due con una di quelle due palle così diverse. Loro sono quelli della foto, anche se oggi non lo possono ricordare. E’ passato troppo tempo. Son cambiate troppe cose. Le foto non sono più in bianco e nero. Nemmeno la vita è più in bianco e nero. E’ tutto colorato e i giocattoli di legno restano negli scafali.
«Però il mio papà e più forte».
«Sei solo invidioso».
«E il mio papà ce l’ha più grande».
«No! E’ il mio. Carino».
«Chiedi a tua mamma».
«Non dire così della mia mamma».
«Lei lo sa».
«Tu non lo sai».
«Sì che lo so».
«Non è vero».
«Sì che è vero».
«Giura».
«Giuro».
«Sei bugiardo».
«Li ho visti di nascosto. E poi… Non potrei dirtelo perché è un segreto ma… Ho sentito io la tua mamma che lo diceva che era bello grosso».
«Sei uno… Stronzo».
«Sei una ragazzina».
«Tu mi racconti bugie. E poi?»…
Lei è spavalda, sicura di sé. Ogni sua parola è un dispetto. Gliela sputa in faccia. Lui ci pensa un po’ perché i maschietti non hanno sempre la risposta pronta come le ragazzine. Anzi perde tempo sempre prima di ogni risposta. Gli prudono le mani ma non vuole litigare, non ci si può azzuffare, anche se ne avrebbe voglia, non si può picchiare una bambina. Vorrebbe andarsene ma sono soli. Non saprebbe dove andare. Non gli va di tornare a casa. Spera ancora che arrivi qualcuno che sappia tirare due calci al pallone. Anche se dovesse essere quell’antipatico ciuccia moccio di Carlino che se la fa perfino addosso. Fortuna che ancora non piove.
«Poi sono scappato».
«Parli, parli. Tu ce l’hai piccolino».
«Non è vero».
«Vedere».
«Sei proprio curiosa come tua mamma».
«Visto»…
«Adesso me le fai vedere»?
«No»!
«Devi».
«Cosa vuoi vedere tu che sei»…
«Ti prego».
«Mi annoio. Poi facciamo un gioco… più gioco. Qualcosa di divertente. O ritorno a casa. Non dovrei… Guarda che non sei più il mio fidanzato. Che cosa mi dai? E poi sei antipatico. E poi non sai niente. E anche un po’ invidioso. E cretino. E poi… E va bene. Non capisco cosa c’è. Sei proprio noioso. Ma sei il mio amico, no? Però non dovrei. Ma poi la smetti e amici come prima».
Oggi la vita è molto più semplice. Lui giocherebbe al suo “Call of Duty: Black Ops” e ucciderebbe tutti i cattivi. Lei vestirebbe la sua Barbie, che è innamorata del suo Ken, e si sposeranno. Aspetterebbero di incontrarsi in Facebook. Lei con il suo flacone di anfetamine. Lui stringendo un boccale di birra dietro al quale tornare a essere quell’eroe. I tempi cambiano ma i bambini restano bambini: «Tre, la figlia del re».
«Me lo dai un bacio»?
E le bambine continuano ad avere l’ultima parola: «Ma sei matto»?

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Mi disse “Vieni con me!” promettendomi una vita che non avrei potuto immaginare. Macchine e allegrie. Feste e musica. Locali e boccali di birra. Notti sfrenate e stremate. Risate. Fumo. Benessere. Un tappeto volante, come nella favola di Alì Babà. O almeno così immaginai e mi lasciò fantasticare. E io fui così stupida da credergli. E fui così stupida da credere alla sua macchina nuova, ma ero ancora una ragazzina. Cosa può sapere una ragazzina?
Non avevo dormito per tre notti prima di seguire il mio principe azzurro. Prima di scappare per sempre da casa. All’inizio fu proprio così. Fu più di quello che ero riuscita a sognare. Almeno per alcuni giorni. Ero felice e facevo di tutto per poterglielo dimostrare. Mi sarei buttata sul fuoco. E’ proprio quello che avrei fatto. Era incredibile. Ero ammirata e corteggiata. Una sera mi ero trovata tra uno che diceva di essere un regista e uno che mi diceva che faceva l’attore e finii un po’ brilla. Quest’ultimo era proprio piacente e aveva un grande fascino, ma io non avevo occhi che per il mio lui. Non che fosse bello, né che fosse giovane, ma era tutto per me. Pendevo dalle sue labbra e non perdevo una parola. Cercavo di renderlo orgoglioso di me. E mangiavo quel poco perché era nell’etichetta e per non ingrassare. Guardavo quel mondo che mi regalava e imparavo. Imparavo per diventare anch’io una vera signora. La sua principessa.
Durò un mese, forse due. Poi cominciai ad avere i primi sospetti. Qualcosa che ci turbava. L’albergo che protestava per il ritardo nel pagamento della stanza. Cene disertate all’ultimo. Strane telefonate. Persone che non si facevano trovare. Piccole avvisaglie a cui forse non diedi il dovuto peso. Un giorno mi confidò che se non pagava gli avrebbero sequestrato la macchina, e che era un momento difficile ma passeggero. Come detto avrei fatto qualsiasi cosa per lui e glielo dissi.
Mi spiegò che doveva quei soldi ad un vecchio bancario che si era anche esposto per lui. Gli chiesi come potevo aiutarlo. Prima si fece evasivo e dovetti insistere. Poi, quasi con pudore, che stupida, mi spiegò che forse se fossi stata gentile con quello le cose, almeno per il momento, si sarebbero appianate. Gli dissi inorridita: “Tutto ma quello no”. Fu sorpreso. Poi come indignato. Alla fine si fece insistente e un po’ insolente. Anche un po’ violento. Mi rinfacciò e mise in dubbio che il mio fosse amore. Mi fece sentire un verme irriconoscente. Era come un obbligo e il sacrificio divenne la mia pena irrimediabile e da cui non potevo sottrarmi. Mi consolai dicendomi che sarebbe stato “Solo per questa volta”. Si scusò, mi ringraziò e mi consolò spiegandomi che aveva degli affari in vista; che la difficoltà era solo momentanea. Che tutto si sarebbe sistemato. Che mi amava, ma amava veramente.
Andai all’appuntamento in un sudicio alberghetto col vecchio maiale confortandomi, durante tutto il tragitto, col pensiero che lo dovevo e lo facevo per lui. La cosa non rese più facile né il viaggio né tutto il resto. Lui, il vecchio, mi aspettava già in camera e non ebbe la minima gentilezza per me né mostrò educazione. Sembrava con molta arroganza che tutto gli fosse dovuto. Non mi piaceva il modo con cui mi guardava né sentirmi la sua bava sulla pelle. Per fortuna era più esigente la sua fantasia di quanto la sua età e le sue forze gli permettessero. Alla fine mi sentivo sporca e mi vergognavo. Avrei voluto dirlo a quello che mi aspettava tranquillo nella nostra stanza, ma lui mi abbracciò, mi chiamò fatina, e mi riempì di coccole e complimenti che non ne ebbi il coraggio né trovai il modo.
Mi ronzavano però nelle orecchie poche parole fra tutte quelle laide che il vecchio mi aveva detto nel suo frasario indecente che anche le meno volgari mi sembravano oscene: “Povera stupida. –e, ancora peggio– Sei fatta per questo”. E il suo questo era naturalmente un epiteto scurrile. Quella notte non ebbi voglia di fare l’amore, anche se lui aveva insistito. Era stato tutto troppo orribile per me, ma lui non lo capì e ne rimase deluso e offeso. Fu la prima volta che mi dice dell’inutile e noiosa puttanella. Lui. Le ricordo ancora le sue parole poiché mi ferirono nel profondo. E ricordo la stizza con cui me le sputò in faccia. Il mattino seguente però sembrava tutto dimenticato.
Per qualche giorno tutto parve tornare alla normalità, certo senza feste e grandi chiassate; restammo soli noi due. Ma io non riuscivo e scordare e non mi aiutava il fatto che lui volesse sapere. Che fosse curioso. Che mi chiedesse particolari di quella brutta sera. Non mi piaceva la sua insisteva di sapere se quella sera mi era piaciuto. Capivo che non avrebbe accetto la verità, una reazione ostile. Ebbi la sensazione che questo lo eccitasse e lo rendesse soddisfatto di me. Ero quasi sul punto di sentirmene fiera o almeno di cercare di convincermene. Lui diceva le cose come non avessero quasi alcuna importanza né peso ringraziandomi, scusandosi e spiegandomi che in una coppia ci si deve aiutare nel momento del bisogno. Mi piaceva allora quella parola: “Coppia”. Mi dava il senso di un’importante vittoria e nascondevo la mia tristezza tra le sua braccia. E continuava ad insegnarmi tante cose dell’amore. Mentre io certo non avevo molto da rimpiangere della vita che avevo lasciato.
Poi, presto, tornarono le difficoltà. Nel frattempo si erano ripresi quella macchina e avevamo dovuto lasciare la stanza in albergo. Siamo andati a stare da un amico. Mi ha spiegato che per la generosità dell’amico avrei dovuto essere carina con lui. Il mio No era stato risoluto, ma tornò a dirmi che ero la sua fatina e la sua salvatrice. Alla fine pose termine alle mie ritrosie sputandomi in faccia che “Dopo la prima volta le altre son tutte uguali”. Tornò a dirmi che ero “Solo un’inutile stupida puttanella”, che non lo amavo abbastanza e che ero priva del senso dell’opportunità. Se ne rimase fuori fino a tardi perché io potessi soddisfare le voglie di quell’inquilino e pagare in quel modo la nostra pigione. Al ritorno chiese all’altro, e non a me, soddisfatto se era andato tutto bene. L’altro si mostrò lievemente deluso e gli disse che mi doveva insegnare, insegnare l’educazione. Fu così che quella notte la passammo a parlare e lui a rimproverarmi. Mi spiegò come fosse una cosa naturale e io dovessi imparare a non pensarci ed essere disponibile e cortese.
Capii in quel momento che era stata la seconda volta, ma che ci sarebbero state molte altre occasioni e bisogni. E contemporaneamente che ormai non avrei più potuto né avuto l’opportunità di dire di no, e che le occorrenze si sarebbero ripetute; lui non aveva né cercava più un lavoro e i suoi piccoli furtarelli non permettevano certo il minimo lusso. Gli ricordai le sue promesse. Mi rispose che la vita non regala nulla e che tutto bisogna guadagnarselo. Che potevamo ancora avere quella bella vita, se mi facevo furba. Che mi dovevo dire fortunata perché la natura mi aveva fornito di questa risorsa, di questo visetto carino e da ragazzina, del corpo da ninfetta, di quest’età nella quale non si è ancora donna. Mi spiegò che come facevo impazzire lui, che di queste cose ne sapeva, allo stesso modo facevo impazzire quelli che mi vedevano. Mi disse che ci avrebbe pensato lui. Che le preoccupazioni erano finite. Che la nostra vita si stava mettendo al meglio. Finì ripetendo che ci avrebbe pensato lui a me e io finii per capire che ero in gabbia.
Mi abbracciò ma i suoi abbracci non erano più gli stessi e provai l’impeto di sottrarmi e ribellarmi. Mi guardò stupito per chiedermi “Che cosa c’è, ora”? Cercai di spiegarmi con le lacrime agli occhi, ne ricavai in regalo il mio primo schiaffo. Fu lapidario: “Qui l’uomo sono io e tu fai quello che ti dico io”. Mi disse con rancore anche tante altre cose che mi ferirono talmente nel profondo che preferisco continuare a cercare di dimenticarle. Chiamai casa piangendo ma abbassai il ricevitore appena sentii la voce di mia madre. Non ebbi il coraggio di sostenere quella voce. Mi ripetevo all’infinito quanto ero stata stupida, ma non riuscivo più a credermi che lo facevo per amore.
Agli incontri si susseguirono altri incontri. La mia vita era diventata quella. A suo sconosciuto seguiva uno sconosciuto, o qualcuno che avevo già incontrato ma con cui magari non avevo scambiato nemmeno una sola parola. Di cui nemmeno sapevo il nome. Lui non faticava certo a trovarmi nuovi ammiratori. Se non cominciavano a sembrarmi normali quelle circostanze e quelle sempre nuove e incredibili richieste almeno cominciavano a sembrarmi meno odiose e moleste. Mi sentivo una cosa e cominciavo a riuscire a non pensarci. Tutto era come avvenisse fuori di me. Senza che potessi farci nulla. Mi stava diventando estraneo. Mi veniva chiesto di vestirmi in vari modi. Di fare questo o quello, così o cosa. Un pazzo mi chiese di essere picchiato, sfogai su di lui tutta la mia rabbia e lui mi prego di non esagerare e insieme di esagerare.
Incontrai anche uno studente che restò a guardarmi e chiese solo di parlare. Mi disse che viveva con i suoi ma che aveva una stanza solo per sé. Mi chiese di posare per lui. Lo frenai prima che andasse oltre, perché sapevo che lui, il mio uomo, non mi avrebbe mai lasciata libera. Eppure mai mi adattai né meno abituai a quella prigione, resistevo a quel po’ di rassegnazione. Mi chiudevo nel mio silenzio. Con lui c’erano sempre meno sentimento. Ormai era solo sesso e anche di quello ne rimaneva poco. Quando rientrava ero stanca e indolenzita. Lui sembrava non volerlo capire. Se ne stava lì e mi aspettava, oppure usciva e chiamava prima di rientrare. Per fortuna sapevo continuare a sognare, e in quei sogni ero ancora una principessa. Per mia fortuna non tutto quello che mi aveva detto era una bugia. Ho scoperto il tappeto magico nel fondo dell’armadio, ed è con quello che mi appresto a volare fuori dalla finestra.

N.B. le foto sono state “rubate” in Facebook tra leFoto del diario” di Enrico Mazzucato e non hanno alcuna relazione col racconto.

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Probabilmente storie del genere si sono già sentite e sono state raccontate. Niente di cui meravigliarsi, anche se ce ne sarebbe di che meravigliarsi. Magari cambiano i nomi, i posti e altri piccoli particolari, ma molte cose appaiono come le stesse, hanno dei tratti comuni. E si sarebbe benissimo potuta titolare questa nostra storia anche come “Il cuore della mamma”.
Dopodiché coi tempi che corrono, che per di più non corrono affatto ma al massimo zoppicano, in periodo prolungato di crisi, è frequente rifugiarsi nelle storie. Ma anche in questo, come su tutto, ci sono pareri discordanti. C’è chi dice che sia il frutto della crisi galoppante e chi sostiene sia per il ricordo del benessere perduto. Comunque sia la gente e le tradizioni non sono più le stesse. Nemmeno i valori di un tempo esistono più o almeno si stanno dissipando. Le certezze come Lascia o raddoppia sono ormai una lontana chimera; come il venditore di pere cotte, l’odore di una fuga di gas, restano solo come il sapore di un’età antica, sognante, di un’epoca andata. Senza nascondersi che Michelino, il nostro protagonista, aveva il sospetto di non essere il benvenuto. Non ricordava una volta che la mamma lo avesse chiamato per il suo vero nome. Non ricordava una volta che la mamma gli avesse preparato la cioccolata calda. Gli avesse risparmiato un rimprovero anche quando lui non capiva di cosa dovesse essere sgridato. Né si ricordava gli avesse mai tagliato le unghie, così aveva imparato a rosicchiarsele. Era sola, povera donna, sola con un figlio piccolo da crescere e per di più sempre o quasi di cattivo umore. Diceva che la vita era matrigna e che il pane costava troppo e che la luce non andava sprecata. Aveva dovuto arrangiarsi molto presto nella vita. Inoltre era spesso distratta, con la testa tra le nuvole, e non aveva molta memoria. Ma era brava a fumare, proprio brava; lo faceva da vera esperta.
Sì! a fumare era veramente brava e si allenava molto; continuamente. Le stanze erano piene di quell’odore nauseabondo. I posacenere erano tutti straripanti e spesso le spiaccicava nei piatti o il figlio se le trovava annegate in qualche bicchiere. Era tanto brava nel fumo, sua madre, quanto era disinteressata alle faccende di casa, ma aveva talmente altre cose in testa.
Appena cresciuto Michelino aveva imparato che nella vita bisogna ingegnarsi e arrangiarsi da soli. Quasi naturalmente aveva appreso ad asciugarsi il moccio sulla manica e tutte quelle cose che permettono di sopravvivere alla solitudine. Cresciuto si fa per dire perché era rimasto alto poco più di uno sputo e deriso dal mondo intero. A parte le ginocchia sempre sbucciate, i denti irregolari e non rendevano certo migliore il suo aspetto i due che erano già caduti, gl’occhi in fuori sempre socchiusi alla ricerca di mettere a fuoco il mondo intorno e due orecchi sparati a raccogliere vento, uno grande e uno più grande, e uno più alto dell’altro. Lui stesso si impauriva un po’ ed evitava di frequentare lo specchio. E’ comprensibile se nemmeno da piccino piccino nessuno avrebbe trovato il coraggio di mentire e spingersi a dirlo bello. Persino agli altri bambini non piaceva e si trovava spesso da solo a guardare gli altri giocare. E non eccelleva nemmeno dal punto di vista dell’intelligenza, le cose gli si dovevano dire almeno cinque volte per rendersi conto che era come non avergliele dette. Era pieno di domande ma non riusciva a comprendere la più banale delle risposte. Riusciva a scambiare persino i nomi dei colori. E’ così altrettanto comprensibile che la povera donna non ne fosse fiera. Non aveva mai ammesso che fosse suo figlio e gli camminava sempre almeno dietro metri avanti, o lui trotterellava dieci metri dietro lei. Era figlio di una distrazione, della sfortuna; figlio di quella donna che non lo avrebbe mai confessato e di serata di svago, di cui per di più non ricordava un fico secco tranne un dolorosissimo mal di testa. Un figlio completamente inutile, una vera palla al piede, e ne ebbe ulteriore e definitiva conferma quando rivolgendosi ai servizi sociali si ricordò che si era scordata di registrarlo all’anagrafe al momento della nascita. In quelle ore aveva ben altri pensieri e come detto non c’era nulla di cui vantare fierezza od orgoglio. Ma la colpa più grande di quella povera donna, se di colpa si può parlare, era la distrazione.
La prima volta se l’era scordato in un supermarket, anzi nel bel mezzo di un vero e proprio centro commerciale. Era un mattino di un sabato. Non si era nemmeno trovato troppo male. Fosse stato per lui avrebbe continuato a vivere tra quegli scaffali, ma all’ora di chiusura cominciarono a chiedergli con chi fosse e dov’era la sua mamma. Come si chiamasse e cose del genere. Il banconiere del banco del pesce si ricordava di lei perché lei era sempre fin troppo gentile con quell’uomo rozzo che anche puzzava. Si ritrovò a casa a notte fonda accompagnato dai carabinieri chiamati dai servizi di assistenza. Si ricordava che l’insieme delle persone ne avevano costruito un episodio ben più grande e grave di quello che era. In fondo lui s’era preso una pizza e s’era riempito gli occhi di tutte quelle cose meravigliose. E nessuno era stato troppo sgarbato nei suoi confronti.
La seconda volta si era trovato da solo in un area di sosta in autostrada, ma nemmeno quella volta s’era perso d’animo. Grazie al cellulare avevano rintracciato il suo indirizzo, ma la madre aveva la macchina in panne. Così grazie anche ad un automobilista gentile era stato riportato a casa, anche se quell’automobilista era stato fin troppo premuroso. Avrebbe preferito non viaggiare più né chiedere più un passaggio ad un viaggiatore che amava così tanto i bambini. Lui non era abituato a tanta gentilezza, a tanto affetto. E poi la radio era sintonizzata su un canale che non parlava che di cose religiose e mandava solo musica che era una vera nenia. Lui non aveva mai frequentato troppo la parrocchia e non aveva ancora l’età per la prima comunione. Non le capiva le cose dei preti.
Quella volta però non s’era fatto prendere di sorpresa, nel frattempo s’era, per così dire, fatto scaltro. Non è forse la mancanza di occasione che costringe l’uomo ad essere onesto? Partì per quella gita con cinque chili di pane raffermo nello zaino. E cominciò subito a sbriciolarlo fin dai primi passi. Naturalmente senza farsene vedere. Era stato proprio fortunato perché stavolta non ci sarebbero stati banchi di pesce in quel bosco, né banchi d’altro genere, né bottegai. Sì! proprio fortunato, e due volte, perché si accorse di non avere in tasca il telefonino, eppure era certo di averlo messo, e di là non passava alcuna macchina. Ma poi, come seppe in seguito, non c’era nemmeno campo. Sarebbe stato perso in mezzo al niente, e privo di niente, non fosse stato prudente e non avesse portato quel pane e sparso i suoi bruscoli. Allora senza perdersi d’animo si mise subito in cerca della pista che quei minuzzoli segnavano. Si sentiva allegro perché si sentiva furbo e perché la cosa gli sembrava semplice ma semplice non era. Quasi subito si accorse che l’intero bosco era ricoperto di briciole e non tardò a trovare il primo ragazzino che cercava di seguire le proprie in una grande confusione. Poi incontro il secondo. Poi il terzo. In uno spazio minimo di tempo si avvide che quel bosco era pieno di ragazzini come lui che come lui, senza entusiasmo, cercavano di ritrovare il sentiero per tornare. Erano una vera folla, si sarebbe detta una generazione.
Il bosco friniva di garrule voci argentine. Tra le ombre e i lampi di luce che filtravano tra le fronde era straordinariamente affollato. Sembrava che tutti i bambini del mondo si fossero dati appuntamento. E, come avviene tra bambini, non ebbero bisogno di molto tempo per fraternizzare e organizzarsi in vere e proprie bande, tutti a cercare la via del ritorno. Alla fine fu accettato pure lui, anche se con qualche riserva, ma il tempo passava e il bosco era immenso e quei ragazzini cominciarono a provare i primi bisogni dei loro corpi mentre affioravano malinconie e ricordi. E la fame è fame mentre il mondo che conoscevano era fuori da quella foresta, e lì non c’erano negozi né adulti che pensassero per loro. Perciò misero insieme i loro poveri saperi. Uno aveva imparato, ovviamente dopo qualche mal di pancia, a riconoscere le erbe; e le radici. Era stato il primo a farsi avanti e a mettere a disposizione del branco le sue conoscenze. Era un pelo rosso di bassa taglia pieno di lentiggini, non gli si sarebbe dato un minuto. Con grandi denti sporgenti. Diceva di aver perso l’apparecchio ma nessuno gli aveva creduto. Uno conosceva i funghi, quelli buoni, ma solo alcuni perché glieli aveva mostrati il nonno. In verità lui prendeva quegli altri perché del nonno non s’era mai fidato troppo, ma non confidò mai a nessuno quel suo segreto. Era troppo anziano, il nonno, e non c’era più con la tanto testa. Uno aveva imparato a fare trappole per gli uccellini e per i piccoli roditori, ma in fondo funzionava con qualsiasi animale, sempre di piccola taglia. E ce n’erano persino un paio che sapevano fare il fuoco. Era incredibile. Naturalmente più d’uno conosceva i frutti del bosco. E tutti conoscevano le pigne ma quelle facevano parte, come altre cose, dei loro divertimenti. Trovarono nella boscaglia anche più fitta tutto quello di cui avrebbero avuto bisogno tranne il bacio della buona notte e il tepore di un abbraccio.
Ma ci sono cose necessarie e altre di cui l’essere umano può fare a meno. Anche nella loro breve età compresero presto questa antica e imprescindibile lezione. Alla fine cominciarono a rendersi conto che quella vita non era poi così male, presero a scordare le vecchie nostalgie e anche gli ultimi cominciarono ad asciugare le ultime lacrime mentre il tempo procedeva al ritmo di un valzerino. I pro e i contrari si equivalevano e quella compagnia era persino divertente, valeva certamente qualche fatica supplementare. S’era ormai sparso un senso quasi profondo di cameratismo e le liti finivano sempre più velocemente. Il nostro Michelino aveva legato particolarmente con quello di pelo rosso che lui chiamava Carota senza che quello se n’avesse minimamente a male, almeno dopo un po’. Ma continuarono le loro ricerche come se una voce inudibile e indelebile o qualcosa dentro glielo comandasse imperativamente. Forse era la coscienza d’essere bimbi. Erano passati tre giorni, forse quattro, quando un gruppo, quello del Carlo, avvistò il limitare del bosco e un piccolo paesino. Inizialmente si diffuse l’euforia prima che sopravenisse un senso di sano e robusto realismo: di tornare nessuno aveva più voglia. Decisero che notte tempo avrebbero fatto le loro scorribande tra le povere case di quell’abitato ma che poi sarebbero tornati con le prime luci al loro bosco.
Dopo una certa ora, pressappoco quando la luna era alta nel cielo e il buio non poteva essere più fitto, scendevano a razziare per procurarsi quello che quella natura non poteva dar loro. Scorte giganti di caramelle e leccalecca, senza scordare la cioccolata, qualche fettina di carne dalla macelleria, indumenti; stoviglie, eccetera; fu proprio il nostro Michelino a tornare con un accendino. A rubare si impara presto come se non fosse un mestiere, e non c’è bisogno di geografia o geometria. E poi i grandi non possono riuscire a pensare che a fare quello siano proprio dei bambini, i loro stessi figli. I grandi sono dei semplici quando si tratta di ragionare, scelgono la logica più elementare e se non trovano una spiegazione si accontentano di nessuna spiegazione continuando a cercare dei ladri che non ci sono. I ragazzi si dissero come quel paese e gli altri dov’erano in seguito scesi come un’orda barbarica dessero l’impressione sinistra di città fantasma. Le vie erano silenziose e non le attraversavano le risa dei giochi dei monelli. A tradire leggermente questo senso di abbandono restavano solo poche luci accese dietro le finestre. Qualche pericolo c’era: una volta proprio Michelino fu colto sul fatto e preso per un orecchio da un robusto nottambulo che lo condusse fino all’uscio di una casa, forse scambiandolo nel buio per un altro, ma nessuno rispose al suono del campanello e lui riuscì a sgattaiolare via. Quella sera davano la partita di coppa dei campioni e sull’altro canale una sentimentale e lacrimevole telenovela. A loro non mancava la televisione perché avevano imparato a raccontarsi storie attorno al fuoco.

N.B. le foto sono state “rubate” in Facebook tra le “Foto del diario” di Enrico Mazzucato e non hanno alcuna relazione col racconto.

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The New Black by The Mavrix

The New Black by The Mavrix
words and music composed by Ayub Mayet and Jeremy Karodia
copyright 2012

Chorus:
Hai detto qualcosa?
Hai sentito le implorazioni dei bambini?
Nella notte tragicamente fredda,
senza speranza di calore o cibo
ti hanno pregato
pregato di togliere l’assedio,
di rendere disponibile cibo
e di rendere disponibili gli aiuti;
oh ti prego! togli l’assedio.
Non devi perdonare la mia insolenza, dato che vengo descritto rozzo e persino sfrontato
Puoi pensare che io sia una persona inutile, spacciatore di falsità, disilluso.
Sono l’interruzione alle tue conversazioni a tavola, una costante irritazione e sbigottimento
al contrario di una certa nazione sovrana che ha una storia vecchia di quaranta generazioni
un’incomprensibile mano umana ha approvato violenza, brutalità e la cacciata dalla terra di appartenenza
Verso una terra senza gente per un popolo senza terra
In modo ancora più inatteso, un maledetto incontro, una lista nera di superpoteri…
Non sono una vittima, sono un terrorista!!!
Per cui non perdonare la mia insolenza, limitati a rispondere alle mie domande
perché sto perdendo la pazienza ed è ora che io diventi la tua coscienza;
è ora che io diventi la tua coscienza;
è ora che io diventi la tua coscienza.
Hai detto qualcosa?
Hai sentito le implorazioni dei bambini?
Nella notte tragicamente fredda,
senza speranza di calore o cibo
ti hanno pregato
pregato di togliere l’assedio,
di rendere disponibile cibo
e di rendere disponibili gli aiuti;
oh ti prego! togli l’assedio.
Non perdonare la mia frustrazione, il mio risentimento e la mia rabbia
perché l’umiliazione dell’occupazione è aggravata dal pericolo.
E’ un tipico giorno soleggiato e tranquillo a Gaza oppure un massacro a bordo di una flotilla di aiuti.
I ricordi di Sabra e Chatila e di un ragazzino chiamato Mohammed al Durrah sbiadiscono.
Una nazione, oppressa nella lotta, bombardata e catapultata in un’irreale età della pietra, è immersa nel dolore,
in modo ancora più inatteso, l’oppressore si atteggia a vittima ed è accettato, lodato ed applaudito,
con una tempesta di propaganda e odio!!!
Per cui non perdonare la mia insolenza, limitati a rispondere alle mie domande
perché sto perdendo la pazienza ed è ora che io diventi la tua coscienza;
è ora che io diventi la tua coscienza;
è ora che io diventi la tua coscienza.
Hai detto qualcosa?
Hai sentito le implorazioni dei bambini?
Nella notte tragicamente fredda,
senza speranza di calore o cibo
ti hanno pregato
pregato di togliere l’assedio,
di rendere disponibile cibo
e di rendere disponibili gli aiuti;
oh ti prego! togli l’assedio.
Hai detto qualcosa? Hai sentito l’urlo dei bambini?
Quando le armi al fosforo bianco incenerivano i cieli e dissanguavano una nazione,
dov’era Obama, quando il diavolo giunse a Gaza?
Hai per caso implorato? Dateci misericordia, misericordia, vi prego.
Non perdonare il mio sarcasmo, la mia irriverenza o cinismo
perché qualsiasi antagonismo o critica al prescelto da Dio è proibita.
Visioni ed allucinazioni di pace vengono sputate dalla pancia di un M16.
Blackhawks & bulldozer, mortali ed osceni, fanno a pezzi e tradiscono la ragione.
Complotti fatti di massacri, convenzionali e chimici, convogliano un semplice messaggio:
la resistenza in azione sarà raggiunta dalla gloria della civiltà occidentale.
senza discorsi o ovazioni, io chiedo, qual è il prezzo del mio perdono, Jack?
Al diavolo, sopravviverò ad un altro attacco perché non mi fate alcuna concessione,
non c’è ritorno, sono sulla rotta della mia libertà
Perché I PALESTINESI SONO I NUOVI NERI!!!
I PALESTINESI SONO I NUOVI NERI!!!
Hai detto qualcosa?
Hai sentito le implorazioni dei bambini?
Nella notte tragicamente fredda,
senza speranza di calore o cibo
ti hanno pregato
pregato di togliere l’assedio,
di rendere disponibile cibo
e di rendere disponibili gli aiuti;
oh ti prego! togli l’assedio.
Come noi anche i palestinesi hanno intrapreso, per la giustizia sociale, quel percorso di resistenza attraverso il movimento di boicottaggio internazionale (BDS) che per primo portò a mettere in ginocchio e porre fine all’Apartheid. E’ toccante e stimolante provare la solidarietà dei nostri fratelli e sorelle del Sudafrica. Il New Black è un appassionato e potente riflesso di ciò che significa mostrare solidarietà umana. E ‘un riflesso di che cosa vuol dire “mai più”.
Nella mia vita ho visto la sconfitta dell’apartheid Sud Africa e nessuno può cancellare in me la speranza che l’apartheid israeliano e il dominio coloniale veda la finire.
Questa collaborazione musicale tra Sudafrica e Palestina è una manifestazione creativa di resistenza culturale all’oppressione israeliana, una parte indispensabile della nostra lotta globale nel movimento BDS per la libertà, giustizia e uguaglianza.
Mi conforta che oggi palestinesi e sudafricani stanno lavorando insieme per creare bella musica che risveglia i nostri spiriti e aiuterà a risvegliare la coscienza del mondo.
Al Sudafrica è stata necessaria la solidarietà del mondo per guadagnare la sua libertà, e oggi la Palestina ha bisogno del Sudafrica.
C’è una urgenza immediata, in questo momento storico, dopo la guerra del 2009 di Israele a Gaza (piombo fuso),
per una campagna di solidarietà internazionale nella volontà evidenziare le somiglianze tra apartheid e il sionismo.
Questa collaborazione tra musicisti palestinesi e sudafricani e attivisti, il primo nel suo genere, è un passo importante nella giusta direzione.

I Mavrix nascono da una collaborazione musicale nel 1984 come una band di protesta. Questa band è cresciuta fino ad accogliere 6 musicisti: con violini, chitarre, tabla africani, santoor e vocalisti. Le canzoni loro parlano di diritti umani, di razzismo, povertà, abusi di droga e oppressione.
Nel 2004 i Mavrix realizzarono il loro primo album “Guantanamo Bay” e stanno, attualmente, incidendo il loro secondo album “Pura Vida” che sarà completato in giugno 2012, da questo album è stato stralciato la canzone “The new black”, che è nata dalla collaborazione tra il Sud Africa a la Palestina.
Il video musicale e la canzone sono nati dall’incontro della band sudafricana e il musicista palestinese Mohammed Omar, che assieme hanno realizzato questo video musicale chiamato The New Black, che sarà inserito nel nuovo album “Pura Vida” di prossima uscita.
Il testo composto da Jeremy Karodia e Ayub Mayet è stato scritto come reazione all’orrore del massacro di Gaza “Piombo Fuso” del 2008-2009 e successivamente ispirato al libro “Ogni mattina a Jenin” dell’autrice Susan Abulhawa. La canzone scritta nel 2009 da Mayet è stata ripresa e riscritta dopo la lettura del libro della Abulhawa e oggi ci appare nella versione nuova.
Haidar Eid, esponente del BDS di Gaza e amico della band ha ascoltato la canzone nel 2011 e ha proposto immediatamente la collaborazione con il suonatore di Oud palestinese Mohammed Omar suggerendo una collaborazione con la band per creare un video in collaborazione sulle condizioni che accomunano il popolo sudafricano con quello palestinese.
La canzone è stata registrata dai Mavrix in Sud Africa e successivamente sovrapposta la registrazione di Mohammed Omar a Gaza, senza che le due parti si siano mai incontrate. Il risultato del brano mostra l’empatia che la solidarietà tra musicisti riesce a rendere.

Prodotto dal Palestinian Solidarity Alliance (Sud Africa) e dalla Palestinian Campain for the Accademic and Cultural Boycott of Israel (PACBI) accompagnati con scritti di Aldar Eid di PACBI, Barghouti del Movimento BDS, Ali Abunimah di Electronic Intifada e Susa Abulhawa, autrice di Mornings in Jenin” la canzone rappresenta un messaggio di supporto dei sudafricani che hanno vissuto in precedenza pure loro l’oppressione e l’apartheid. In solidarietà con i palestinesi che vivono ancora sotto l’oppressione dell’apartheid di Israele.

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Juliano’s way
DAM feat Juliano’s students¹

Jul, mi ricordo sempre quando mi dicevi che l’arte è rivoluzione,
e noi da quel giorno non siamo solo resistenti, noi siamo artisti.
Jul, non dimenticherò mai la resistenza che hai piantato dentro di noi!
Se sapessi volare
ti prenderei
e ti trasporterei nella notte,
ti porterei
come non hai visto fare mai.
Jul diceva che fare teatro ed esprimere la propria opinione è anche questa una forma di resistenza.
Noi ci siamo fermati davanti ai confini
mentre tu li hai semplicemente scavalcati.
Hai tracciato una freccia in una sola direzione:
nessuna svolta, nessun rallentamento, un unico obiettivo.
Sei morto con tutte le tue qualità amico mio,
mentre l’assassino mascherato ha paura di guardarsi in faccia.
Jul, chi è il folle tra noi?
Chi è il sano di mente? Chi ha chiaro il quadro della situazione?
Ci fosse stato tra noi un pizzico della tua follia
“libertà” non sarebbe stato solo il nome di un teatro.
Jul… Juliano è stato ucciso
lo stesso giorno in cui è stato ucciso Martin Luther King,
entrambi avevate un sogno che per noi è una speranza,
ma c’era gente disperata e armata.
Regista e attore fuori dal copione,
ci hai regalato i bambini di Arna, adesso lasciaci essere i ragazzi di Juliano.
Se sapessi volare
ti prenderei
e ti trasporterei nella notte,
ti porterei
come non hai visto fare mai.
Ci diceva sempre “non fatevi fermare dalla prima pallottola”,
e noi dopo 7 pallottole nel tuo corpo siamo ancora in piedi.
Chi incontra l’assassino gli chieda:
se Jul era su una lista nera, ditegli di mettere il mio nome dopo il suo,
a chi avete sparato?
Avete sparato al nostro uomo e alla nostra unità.
Lui, senza alcun effetto speciale è riuscito a salvare 3 ragazzi;
chiedi agli sbirri, dì agli occupanti di continuare a opprimere.
Noi non ci arrendiamo.
Jul… ci ha lasciato la sua eredità,
ma se l’assassino è uno di noi
sapete a chi abbiamo sparato?
Abbiamo sparato ad un teatro? ad una danza? ad un dipinto? Tutto questo è eresia?
Io ho aperto i libri, ma non trovo la pagina,
fammi capire, la religione combatte l’oscurità e l’arte ha lo stesso proposito,
questa è la differenza: non c’è bisogno di trasformare il bastone in un serpente per convincerci della vostra ideologia.
Basta combattere la schiavitù, e noi vi seguiamo.
Jul, se tu tornassi ai tempi dei profeti li proteggeresti con il tuo corpo:
mentre chi ti ha ucciso ha in mano i chiodi e il martello,
riposa in pace,
Se sapessi volare
ti prenderei
e ti trasporterei nella notte,
ti porterei
come non hai visto fare mai.
La libertà è libertà di pensiero, è libertà di espressione, e la cosa più importate è libertà di scelta.
Non capisco: perché si uccide la cultura?
Fa così paura la cultura? Jul ha risposto a questa domanda.
Ci siamo incontrati a Led, mi avevano detto che stavi girando un videoclip,
ad un certo punto iniziò una manifestazione, fu allora che capii una cosa nuova:
se l’occhio dietro la telecamera è coraggioso
allora ci si può trovare dinanzi ad una rivoluzione.
Per te una rosa e una grande tristezza; tutte le strade portano a Jenin,
e da qui che è iniziata la storia: impara dal maestro,
non avere paura dell’uomo mascherato che vuole far vivere nelle tenebre.
Sicuramente lui avrà seguaci tra i pazzi
mentre tu, in futuro, illuminerai la storia della liberazione, e nella storia della liberazione
ci sarà il poeta, lo scrittore e il combattente,
e stai sicuro che ci sarà anche il teatro.
Per chi ha ucciso e organizzato la scena nel teatro cupa, mentre quella di Jul sarà colorata, illuminata e terminerà con:
la storia continua.
Se sapessi volare
ti prenderei
e ti trasporterei nella notte,
ti porterei
come non hai visto fare mai.
Se sapessi volare
ti prenderei
e ti trasporterei nella notte,
ti porterei
come non hai visto fare mai.
Tu ci hai sempre insegnato che se nella resistenza non rimaniamo tutti uniti, l’uno accanto all’altro, finiremo tutti impiccati uno accanto all’altro.
I DAM sono il più importante gruppo rap palestinese, con sede a Lyd, Palestina, nati nell’anno 2000. Due membri del gruppo sono conosciuti per le loro canzoni di protesta che parlano di politica, sui diritti delle donne e altro. La band ha inciso due album (Dedication and Sligshot Hip Hop ST) e attualmente stanno completando l’album “Dabka on the moon”

La canzone Darb Juliano – Juliano Way è stata scritta nel 2012.
Nel 2004 i Dam hanno lavorato assieme al regista Juliano Mer Khamis (ucciso il 4 aprile 2011) al loro video clip del singolo Born Here e nel 2006 del loro album Dedication hanno dedicato il secondo brano (I have no freedom) al film di Juliano “Arna’s Children” tributo alla madre del regista stesso Arna, donna che ha passato la vita dedicandosi ai bambini e ragazzi di Jenin, insegnando loro di esprimere le loro paure e le loro difficoltà attraverso il teatro.
Dopo la morte di Juliano, che ha lasciato un profondo segno nelle persone che l’hanno conosciuto, hanno usato il video ed inciso la canzone per ricordare a tutti quale fosse la strada indicata da Juliano.
Il disco è uscito il giorno stesso della sua morte il 4 aprile 2012 e per la sua incisione sono state usate le immagini del funerale di Mer Khamis e delle riprese durante il suo lavoro e del suo teatro del campo profughi di Jenin dal nome significativo Freedom Teater. Il teatro stesso è stato più volte attaccato e distrutto e arrestati i collaboratori di Juliano.
L’opera del regista che si diceva essere al 100% israeliano e al 100% palestinese, non era molto gradita in quanto lui l’aveva destinata alla parte oppressa della popolazione e ai bambini e ragazzi del campo profughi che attraverso la recitazione e il teatro hanno preso coscienza della loro condizione e hanno superato paure e condizionamenti tipici di una popolazione privata dei propri diritti.
Juliano Mer Khamis, apprezzato all’estero più che a casa propria, a parte quella che si trovava nei territori palestinesi, lascia dietro di sé un grande insegnamento e delle persone che continuano la sua opera. Di questo parla il video e trasmette immagini di speranza e di volontà di emancipazione.

¹ Il video viene riproposto in quanto era già stato pubblicato con testo leggermente differente.

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Gerusalemme

Dopo la notte. Perché la notte sporca tutto; di nero. Nulla è diverso. Solo un grande universo di ombre. E i colpi improvvisi fiondati delle luci. Come buchi; baluginanti. Come bugie. Come sussurri sfuggiti di mano. Frettolosi. Come un vuoto cavo; privo di emozioni. Come se non esistessero altri mondi. Senza eccitazioni. E’ stato tutto fin troppo facile. Non resta che l’incredulità. Ed essa si mescola alla fretta. E alla stanchezza. Guardarsi intorno è trovare solo un grande vuoto. Febbricitante. Mi sembra di non essere mai partito. Non fosse perché mi trascino il sonno di queste piccole ore. Non fosse perché so, perché mi hanno raccontato: pagine, voci, ricordi. Perché ho già una guida. E lei mi guida. Mi dice che questa non è la luna, che non sono entrato nel ballo. E non aspetto il mattino, lui viene da solo. Si fa spargendo sole in un paesaggio piatto. Ed è Palestina.
Diario di viaggio. Mi alzo pigro. Svuotato di forze. Forse è la febbre. Spero sia solo quella. Senza il coraggio della resa. Il fuori mi aspetta. Mi accorgo subito che il viaggio non è fuori ma dentro. In me. A mettermi ansie, e dubbi. A dirmi che non era vero. Non così. E’ un viaggio nella pancia, nel cuore. Banale dire: un viaggio nell’anima. Le emozioni tradiscono. Niente è uguale. Credi di sapere. Ti accorgi che non sai. Devi sentirle le cose. Devi vederle con i tuoi occhi; lì. Toccare quella terra che pare non essersi mai bagnata che di sudore. E mai abbastanza. Terra che si fa polvere. Che si fa pietra. E la carne è pergamena, sui volti scavati, sotto le schiene curve. Adesso sì, sono sulla luna. Su un altro mondo. Il paesaggio altro non è che paesaggio. La gente è gente. So che l’uomo è uomo da per tutto. Non cambia con le stagioni, né per una limite immaginario e immaginato. E la gente va di fretta come da noi. E’ mattino. Si comincia. L’inquietudine è solo nello stomaco, nel mio stomaco. Ho timore di aver sbagliato posto. Eppure le voci hanno suoni diversi. Che ricordo appena (senza dovere spiegazioni).
Dimmi che è vero? Siamo a Gerusalemme. Dove è cominciato tutto. Dove sono nate le storie (e anche chi le ha raccontate). Dove hanno scritto l’odio. Dove hanno ucciso l’uomo. E lo tornano ad uccidere ogni giorni. Ogni minuto. Ciò che mi colpirà è la testarda perseveranza. L’ostinazione di un rancore senza tregua; lì dietro torrette cieche. E la gente per strada, che sa ancora sorridere. Che sa ancora guardare a domani. Che inventa un motivo continuamente, e la voglia di vivere. Quella voglia frettolosa di frugare nel nulla per preparare almeno un tè. Per farti sentire a casa. Eccoli i terroristi. Certo che non ci avevo creduto. Certo che non può esserci un popolo che vive solo e tutto di terrore. Sono uomo tra gli uomini. In ogni paio d’occhi c’è un benvenuto. Voglio vedere l’altra faccia. Ho fretta.
Cos’è un’occupazione? E’ lì, dietro un muro. In quelle torrette da dove ti guardano e non li vedi. E’ nelle armi di un paese di guerra. Ma è questa la guerra? I bambini vanno a scuola. I negozi aprono. Tutti vanno di fretta. Una fretta scomposta. Passano vicini alla guerra e non la guardano. I soldati paiono anacronistici. Usciti da un altro raccolto. Scesi da un altro mondo. Da un mondo distante. Maschere. Finzione. E paiono anche loro a disagio. Fuori dal tempo. Imbarazzati. Appaiono all’improvviso e scompaiono lentamente. Cercano di non guardati, ma quando lo fanno ti sfidano. Credono che quello sia il loro compito: sfidare tutto e tutti. Sfidare il mondo. Forse è questo il mestiere del soldato. Raccontano in silenzio un’altra storia. Ancora un’altra. E tutte quelle storie si intrecciano. Senza una vera trama. Senza un ordine. Più alto delle case si leva il minareto. Più delle voci si alza l’adhān. Ora so di essere arrivato: sono a al-Quds.

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Foto dei bambini di Jenin in fila davanti al teatroA volte una canzone può dire più di tanti libri. A volte il suo testo è poesia. Riungrazio l’amica Giuseppina che ha tradotto in italiano direttamente dall’arabo (e dal cantato, senza testo in mano) e Martina che ci ha coaudiuvati e per la parte inglese. In fondo qui c’è tutta la storia di Juliano Mer-Khamis. E’ passato quasi un anno. Questo è lo splendido risultato: lasciatecelo dire:

Juliano’s way
DAM feat Juliano’s students

Jul, mi ricordo sempre quando mi dicevi che l’arte è rivoluzione,
e noi da quel giorno non siamo solo resistenti,
noi siamo artisti.
Jul, non dimenticherò mai la resistenza che hai piantato dentro di noi!
Se sapessi volare
ti prenderei
e ti trasporterei nella notte,
ti porterei
come non hai visto fare mai.
Jul diceva che fare teatro ed esprimere la propria opinione è anche questa una forma di resistenza.

Noi ci siamo fermati davanti ai confini
mentre tu li hai semplicemente scavalcati.
Hai tracciato una freccia in una sola direzione:
nessuna svolta, nessun rallentamento, un unico obiettivo.
Sei morto con tutte le tue qualità amico mio,
mentre l’assassino mascherato ha paura di guardarsi in faccia.
Jul, chi è il folle tra noi?
Chi è il sano di mente? Chi ha chiaro il quadro della situazione?
Ci fosse stato tra noi un pizzico della tua follia
“libertà” non sarebbe stato solo il nome di un teatro.
Jul… Juliano è stato ucciso
lo stesso giorno in cui è stato ucciso Martin Luther King,
entrambi avevate un sogno che per noi è una speranza,
ma c’era gente disperata e armata.
Regista e attore fuori dal copione,
ci hai regalato i bambini di Arna, adesso lasciaci essere i ragazzi di Juliano.
Se sapessi volare
ti prenderei
e ti trasporterei nella notte,
ti porterei
come non hai visto fare mai.

Ci diceva sempre “non fatevi fermare dalla prima pallottola”, e noi dopo 7 pallottole nel tuo corpo siamo ancora in piedi.
Chi incontra l’assassino gli chieda:
se Jul era su una lista nera, ditegli di mettere il mio nome dopo il suo,
a chi avete sparato?
Avete sparato al nostro uomo e alla nostra unità.
Lui, senza alcun effetto speciale è riuscito a salvare 3 ragazzi;
chiedi agli sbirri, dì agli occupanti di continuare a opprimere.
Noi non ci arrendiamo.
Jul… ci ha lasciato la sua eredità, \ ma se l’assassino è uno di noi
sapete a chi abbiamo sparato?
Abbiamo sparato ad un teatro? ad una danza? ad un dipinto? Tutto questo è eresia?
Io ho aperto i libri, ma non trovo la pagina,
fammi capire, la religione combatte l’oscurità e l’arte ha lo stesso proposito,
questa è la differenza: non c’è bisogno di trasformare il bastone in un serpente per convincerci della vostra ideologia.
Basta combattere la schiavitù, e noi vi seguiamo.
Jul, se tu tornassi ai tempi dei profeti li proteggeresti con il tuo corpo:
mentre chi ti ha ucciso ha in mano i chiodi e il martello,
riposa in pace,
Se sapessi volare
ti prenderei
e ti trasporterei nella notte,
ti porterei
come non hai visto fare mai.

La libertà è libertà di pensiero, è libertà di espressione, e la cosa più importate è libertà di scelta.
Non capisco: perché si uccide la cultura?
Fa così paura la cultura? Jul ha risposto a questa domanda.
Ci siamo incontrati a Led, mi avevano detto che stavi girando un videoclip,
ad un certo punto iniziò una manifestazione, fu allora che capii una cosa nuova:
se l’occhio dietro la telecamera è coraggioso
allora ci si può trovare dinanzi ad una rivoluzione.
Per te una rosa e una grande tristezza; tutte le strade portano a Jenin,
e da qui che è iniziata la storia: impara dal maestro, non avere paura dell’uomo mascherato che vuole far vivere nelle tenebre.
Sicuramente lui avrà seguaci tra i pazzi
mentre tu, in futuro, illuminerai la storia della liberazione, e nella storia della liberazione
ci sarà il poeta, lo scrittore e il combattente,
e stai sicuro che ci sarà anche il teatro.
Per chi ha ucciso e organizzato la scena nel teatro cupa, mentre quella di Jul sarà colorata, illuminata e terminerà con:
la storia continua.
Se sapessi volare
ti prenderei
e ti trasporterei nella notte,
ti porterei
come non hai visto fare mai.
Se sapessi volare
ti prenderei
e ti trasporterei nella notte,
ti porterei
come non hai visto fare mai.

Tu ci hai sempre insegnato che se nella resistenza non rimaniamo tutti uniti, l’uno accanto all’altro, finiremo tutti impiccati uno accanto all’altro.

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Addii

 

Grandi stanze di vecchie case avite

di provincia

piene di fischi di navi lontane, piene

di spenti rintocchi di campane

e di battiti profondi

d’orologi antichissimi. Nessuno abita

piú qui dentro

eccetto le ombre, e un violino appeso

al muro,

e le banconote fuori corso sparse

sulle poltrone

e sul letto largo con la coperta gialla.

Di notte

scende la luna, passa davanti

agli specchi esanimi

e coi gesti piú lenti rassetta dietro

i vetri

i fischi d’addio delle navi affondate.

Ghiannis Ritsos

Poeta della Resistenza greca

 

CANZONE PER GLI UOMINI

Io cammino verso la riva più bella.

Non piangete, miei piedi, che la spina insanguinata

Io cammino verso la riva più bella:

non piangere, cuore mio, straziato dal criminale.

Il mio cuore, immagine della terra,

è un vento leggero che accarezza la mano dell`amore,

tempesta per i lupi dell`odio.

Io cammino verso la riva più bella.

Se le mie scarpe restano senza suola

Camminerò sulle mie ciglia.

Che importa dormire?

Io tremo, pensando ai morti addormentati a mezza strada.

Compagni tristi e incatenati,

noi camminiamo verso la riva più bella.

Non perderemo che i nostri sudari, e vinceremo!

In alto i petti,

in alto gli occhi,

in alto le speranze,

in alto le canzoni.

Con le nostre forze,

con le croci presenti e passate,

noi supereremo i cammini

del paziente domani,

apriremo il paradiso dalle porte chiuse.

Dai nostri petti, dai nostri lamenti,

tesseremo poesie e le berremo,

dolci come il vino delle feste.

Tewfiq Zeyyad

Poeta della Resistenza palestinese

 

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La nostra presentazione al convegno.

Venerdì 2 marzo 2012

Manifesto manifestazione CITTA' LENTA - VENEZIA OLTRE LA MODERNITA'Siamo qui a nome del gruppo Restiamo Umani con Vik.
Nome strano vero? Solo all’apparenza, se vi spiego non è poi più così strano. ”RESTIAMO UMANI” era la chiusa degli articoli che venivano inviati, quotidianamente, da Gaza, durante i bombardamenti dell’operazione Piombo Fuso, dall’attivista dell’International Solidarity Moviment e pacifista Vittorio Arrigoni, chiamato dagli amici Vik. In questo modo lui sollecitava il mondo a dare valore all’umanità anche se di fronte a profonde ingiustizie e alla negazione dei diritti umani elementari di un popolo.
Vittorio ci ha lasciati circa un anno fa, ucciso da chi lo riteneva scomodo e fastidioso. Paura e fastidio che viene provocato da chi, quotidianamente, mette a disposizione la propria vita per una causa. E nel suo caso aveva consacrato la sua giovane esuberante vita alla causa della Palestina: i diritti umani dei più deboli, ossia quelli senza voce che ogni giorno rischiano la loro vita nei campi da coltivare, sotto il tiro di cecchini capricciosi, nei pescherecci al largo di Gaza, sempre più vessati dalle motovedette militari e nelle ambulanze a portare i feriti durante i bombardamenti. Il suo lavoro era fare lo “scudo umano”, mestiere ingrato che gli è costato la vita e solo indirettamente il giornalista e blogger per denunciare quello che gli altri media tacevano. Insomma una vera spina nel fianco dei suoi detrattori.
Ecco noi siamo tra i tanti che hanno voluto raccogliere il testimone di Vik e ci siamo presi l’impegno di denunciare ed informare attraverso le nostre attività, dove si presentino soprusi e scarseggi l’informazione, per operare, fin dove è possibile, perché vengano ripristinati i diritti umani negati e vengano demoliti i Muri vergognosi, i ghetti dell’apartheid, che come allora pure oggi esistono. Noi cerchiamo di aprire un dialogo tra le varie realtà inseguendo un giusto equilibrio che tenga conto dell’importanza del rapporto umano finalmente a scapito di quello meramente economico e aridamente legato alle convienienze. Per parlare ci vuole tempo e buona volontà. La Pace costa fatica ed interminabili e pazienti mediazioni. Se in Palestina in 64 anni non c’è stata Pace, noi pensiamo che sarà difficile e lungo il percordo per una Pace possibile, lungo appunto, ma non impossibile.
Quindi siamo in piena sintonia con il tema di oggi: “Città lenta, Venezia oltre la modernità” e con Venezia porta dell’Oriente, città aperta ai flussi di genti e merci e miscuglio di culture e di diversità. In questa città che dall’Oriente ha preso l’eleganza, le forme e i colori assieme al ritmo lento e riflessivo della vita, la modernità prende un nuovo respiro, abbandonando la superficialità del consumo veloce della cultura stessa, delle idee e del rapporto mordi e fuggi di ogni pensiero. Luogo che si tramuta ancora in un crogiuolo di idee e conoscenze, di culture e di espressioni che solo attraverso una lenta rielabolazione e assimilazione diventa luogo ideale, officina di pensiero, esperienza di vita.
Proprio per questa fratellazza con la cultura orientale e per le capacità di Venezia di essere “Res Pubblica”, ossia luogo di tutti, per tutti e aperta a tutti, già in tempi lontani, oggi diventa dote irrinunciabile di una città progredita e civile. Noi, suoi figli, cresciuti nei principi di una cultura attenta alla giustizia e all’uguaglianza, senza pregiudizi razziali o verso le diversità, vogliamo aprire altre vie di dialogo con tutte quelle parti che vogliono collaborare per condurre il mondo verso una nuova cultura di Pace e di tolleranza, per combattere le più evidenti ingiustizie sociali e per ricondurre sulla strada della ragionevolezza chi pensa che nuovo voglia dire senza memoria e lentezza significhi incapacità e inefficienza invece che riflessione e capacità di inclusione.
Siamo degli idealisti? Può essere. Ma noi abbiamo progetti e azioni che si sviluppano un po’ alla volta, giorno dopo giorno, per raggiungere una realtà migliore e per diffondere una cultura di Pace che sostituisca l’attuale e prepotente economia di guerra, che vede i potenti come vincitori e i deboli destinati a soccombere. Su questo la Palestina ne è metafora dolorosa. Venezia veloce e senza anima non è la città dove vogliamo vivere e un mondo senza etica assetato di potere non è il luogo dove vogliamo contare. Un’altra terra comune è possibile e noi profondamente ci crediamo.
E chiudo questo lungo e forse confuso discorso con un’unica frase che è il nostro motto, forse saremo lenti e forse capiremo male il significato di modernità ma convintamente e pienamente:
Restiamo Umani, con Vik nel cuore

Qui tutte le nostre foto:
Qui le diapositive che hanno accompagnato la nostra presentazione: CITTA’ LENTA – VENEZIA OLTRE LA MODERNITA’

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