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Archive for 14 agosto 2008

Blas de Otero Muñoz (Bilbao, 15 marzo 1916 – Madrid, 29 giugno 1979) è da considerare il più grande continuatore della grande tradizione della poesia spagnola del primo novecento, quella di Federico García Lorca, Rafael Alberti, Antonio Machado, Luis Cernuda, Jorge Guillén, etc.
Il linguaggio di Otero (vedi queste brevi note), spesso aspro e contratto, possiede una violenza espressiva che fa pensare a Quevedo. Essa costituisce una nota originalissima nel panorama della poesia spagnola di allora. Come Jesús López Pacheco¹ e gli altri vive la Spagna del franchismo, la soffre e la descrive. La dittatura non può che lasciare ferite e cicatrici nelle carni del poeta; di un poeta sociale e corale².
Per chi volesse saperne di più sul poeta e sul periodo consiglio la lettura della splendida e breve prefazione di Elena Clementelli al volume Blas de Otero Poesie, edito sempre da Guanda (1962), da cui mi prendo la licenza di ricavare qualche stralcio.

«Nulla di meglio delle parole di Paul Eluard, il fratello coinvolto nel medesimo dramma (la censura di vivere sotto il tallone di ferro di una dittatura; ndr), riuscirebbe a rendere questo immediato e imprescindibile calarsi nella verità del proprio tempo: “La poesia è combattimento. I veri poeti non hanno mai creduto che la poesia appartenesse loro in proprio. Sulle labbra degli uomini, la parola non è mai venuta meno: le parole, i canti, le grida si susseguono senza fine, si incrociano, s’urtano, si confondono. L’impulso della funzione del linguaggio è stato condotto fino all’esasperazione, fino all’incoerenza. Le parole dicono il mondo, e le parole dicono l’uomo, quel che vede e sente… Abbiamo bisogno di poche parole per esprimere l’esenziale, abbiamo bisogno di tutte le parole per renderlo reale“.»

Come sempre, piuttosto che parlare sopra, preferisco lasciare voce al poeta. In questa scelta del tutto arbitraria, di cui mi assumo la responsabilità, preferisco proporre da Que trata de España; ed. Guanda (1967):

Notizie da tutto il mondo
A 47 anni compiuti,
fa paura dirlo, non sono che un poeta spagnolo
(fanno paura gli anni, l’essere poeta e la Spagna)
della metà del secolo XX. Questo è tutto.
Denaro? Amore è ciò che voglio,
dice la canzone. Applausi? Sì, ma non me ne accorgo
Salute? Quanto basta. Fama?
Cattiva. Però buona lana.
Fa paura pensarlo, ma sì e no che mi leggono
gli analfabeti, non gli operai, non i
fanciulli.
Però mi leggeranno. Adesso sto imparando
a scrivere, ho cambiato scuola,
avrei bisogno di una macchina per fare versi,
pardon, di versi per la macchina
e di una buona paga per il macchinista,
e, soprattutto, di pace,
ho bisogno di pace per continuare a lottare
contro la paura,
per combattere in mezzo all’arena
e spalancare il futuro,
per piantare un albero
in mezzo alla paura,
per dire “buongiorno” senza truffare nessuno,
“buongiorno, postino” e che mi consegni una lettera
in bianco, da cui spicchi il volo una colomba.


1] Amo molto la poesia spagnola e i due nomi ricordati fanno parte di una nuova generazione di notevoli poeti, della seconda metà del novecento, di cui dovremmo ricordare almeno anche Josè August¡n Goytisolo con Gabiel Celaya, José Hierro, Carlos Bousoño, Victoriano Crémer, Vicente Gaos, Eugenio de Nora, e potremmo continuare perché lo stuolo di quel coro poetico è foltissimo.

2] Nella Spagna di allora veniva ancora usato uno degli strumenti (feudali) più crudeli per le esecuzioni dei condannati a morte, la Garrotta, considerata anche come strumento di tortura.

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