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Il professor Carlo Maria, laureato a pieni voti a Padova con una tesi sulle malattie veneree, praticone in un paesucolo della bassa padana per un’accusa di procurato aborto, (in una notte senza vento né luna, dove l’aria mite diventava silenzio fra spazi che parevano infiniti) l’aveva trasformata da fiera a giovane di bella presenza. Una presenza che si poteva definire qualcosa di molto più che graziosa ma negl’occhi era rimasto quel fascino particolare; pieno di lampi e bagliori.
Ormai non guaiva più, anzi aveva acquistato una proprietà di linguaggio raffinata e sicura. Se mai vi fu donna niente era mai stato più femmineo, più consapevolmente donna. Aveva l’eleganza del velluto e nulla poteva celargli imbarazzo. Per quanto dotta nessuna discussione la trovava estranea o spettatrice; per quanto ardita potesse farsi la situazione riusciva ad attraversarla (e trarsi d’impaccio) con consumata compostezza e in modo non privo di delicato umorismo o tagliente sarcasmo; rapida se ne liberava.
Si poteva, senza esagerazione alcuna, definirla brillante. I caffè venivano illuminati dal suo sorriso. Non un pettegolezzo che potesse durare oltre l’arco di un sussurro. Al suo creatore non era mai appartenuta. Non un gesto esagerato. Ogni discussione, che si potesse definire tale, era squarciata dalle sue sagaci osservazioni. Era ancor più fonte di ammirazione che di malcelati (e appassionati) amori.
Di questa donna, e del suo passato, non ci saremmo trovati ad interrogarci perché non sarebbe rimasto che lo spessore fragile delle parole tradito dal consumarsi nel tempo; se non fosse ritornato ad affiorare, improvviso quanto inatteso, quel suo passato.
Cacciata di casa da un’insonnia ormai sempre più frequente, da uno stato di disagio, ad ora insolita vagava per le strade buie tenendosi volutamente lontana dai lampioni. Era il venerdì santo. Scivolava e l’ombra si allungava sottile. Fiutava un rumore di passi.
Fu proprio per quel fascino di cui si accennava prima che non ebbe problemi a trovare una giovane vittima che come lei vagava senza meta apparente. Ancora una volta la scelta denotò il suo raffinato gusto.
Era un giovane alto, ben modellato (spalle larghe, non un etto eccedente), dal vestire curato ed elegante, i cappelli pettinati con cura, i gesti sicuri; che profumava ancora di dopobarba. I suoi baci sapevano di tabacco e alcool. Lo sbranò fra le mura compiacenti della sua camera.
Quando riuscii a parlargli si lasciò sfuggire che non si era trattato tanto del sapore di carne ma del riscoprire il gusto del cacciare. Che questo era apparso come mai dimenticato. Del fascino del disegno della strategia del cacciatore. Confidò solo a me, con gran circospezione, che il cibo più inebriante era stato gustare la sorpresa e il finale abbandono nella preda. Per questo era tornata fiera. Ora lo sapevo.
Non ebbe rimorsi perché, a differenza di quanto comunemente si é invitati a pensare, il rimorso si nutre nel gesto che lo rende pubblico; che lo scopre. Anzi tornò sempre più spesso a cacciare e le sue prede furono numerose. La sua attenzione non la tradì mai e così ogni giorno poté tornare ad essere signora.
Dico questo, che so vero ma che non posso provare, perché un vincolo di sangue mi legava a una di quelle ignare prede. Un peso che si é fatto sempre più insopportabile da portare mi grava. Ora, nemmeno io riesco a dormire e, vago continuamente per quelle strade.¹


1] scritto il 18 aprile 1991

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Superbo pezzo Galatea.

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