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Archive for 5 febbraio 2010

Disponga di me come vuole”.
Quante volte avevo sentito ripetere quella frase? La gente ritiene sia il doveroso commiato. Si crede autorizzata e quasi in obbligo ad usarla per dar fiato alla voce. Sono quelle formule che garantiscono l’appartenenza ad un gruppo, nel caso ad una corporazione. Come un codice, o un titolo. Forse l’utente così crede di garantirsi almeno la tolleranza, se non un trattamento di comprensione o la bonarietà. Anche perché si entra sempre con un senso di disagio. Eppure siamo qui per fare unicamente il nostro dovere. Come cita la scritta: al servizio del cittadino. Probabilmente la gente vede troppi polizieschi, americani. Ma mica siamo la omicidi; mica siamo i Ros. Ma non ci pensavo perché le cose non sempre si pensano quando non servono. A me fanno ridere quelli del sesto senso. Quelli de “Lo stavo giusto per dire”; “Ce l’avevo sulla punta della lingua”; “Mi hai proprio rubato le parole”.
Lo dice sempre anche quel Gargiulo che qui è di casa. Lo pizzichiamo almeno una volta alla settimana. Piccole cose, certo. Mi fa pensare che non sia troppo sveglio, quel Gargiulo, perché sembra farlo apposta a farsi pizzicare. E lui la parte l’ha imparata bene. E’ di quelli che la dice uscendo con un inchino; dopo averla usata alla nausea per infarcire ogni frase. Sulla porta con quell’aria melliflua e falsa tutta impomatata. Alternandola con quel “Se potessi esserVi utile”. Ma chi potrebbe confidarsi con una nullità simile che ha stampato in ogni mimica che lui il soffia lo farebbe anche, se solo avesse anche niente da spiare. Lui non conta e non è certo che ispiri fiducia. E poi è soprattutto il vino a farlo così sicuro. Ogni volta devo faticare a tenerlo distante ché ogni sillaba che gli esce di bocca naviga in un mare di saliva. Ma venire a trovarci deve farlo sentire orgoglioso, non giustificherei diversamente un balordo come lui che riesce a farsi beccare anche, come la scorsa settimana, per aver rubato quattro bustine di zucchero al bar del centro commerciale Città/Dino di Dino Attilio Mercanzin & Co.
Che poi questo Dino Attilio Mercanzin è uno di quelli che ti ispirano una naturale repulsione; ma questo che centra. Il centro è suo ed è pure presidente della proloco. E’ proprio vero che sono i soldi che fanno le persone. Senza quelli sarebbe un trascurato ignoto qualunque, invece tutti si alzano il capello quando lo vedono. E si fa vedere spesso con dei pezzi di stangone che a volte ho il sospetto che siano anche minorenni. Sono cose che succedono nelle piccole città. E poi se non c’è una denuncia cosa possiamo farci noi piccoli servitori dell’arma? E figuriamoci se quelle, con la vita che fanno, i regali che gli regala, si mettono a sputare nel piatto? Se fanno le difficili nel letto con cui mangiano? Che non gli basterebbe il mio di stipendio solo per il rossetto. Son tutte della stessa razza, giovani e più giovani; amano la bella vita e esibirlo sculettando. Ma quando l’ho visto con Immacolata quasi mi prendeva un coccolone. A quella, Immacolata Piasentin, ci ho fatto, è vero, varie volte un pensierino. Ma non mi vedeva proprio. Solo “Buon giorno appuntato”. Le avevo detto che poteva chiamarmi pure Tano; niente. Eppure dovevo immaginarlo che, nonostante il nome… si sa come sono le venete. Generose. E servizievoli. Eppure sembrava una di quelle proprio serie; insomma la credevo più seria. Invece l’ho vista io, con questi miei occhi, salire sulla sua macchina. Mostrando tutto senza dar attenzione a fin dove saliva la gonna. E ridere sguaiata che se fosse la regina. E allora che mi sono accorto ancora di più quanto è abbondante di grazie, per quella scollatura abissale che aveva indosso in quell’occasione. Ne ha davvero un gran paio che devono essere almeno una quinta, anche se io a sbagliare su certe misure sono proprio bravo. Infatti della povera Concetta, vista così sul tavolo, avrei detto che non avesse più di una seconda. Gargiulo dice che erano almeno una terza e anche soda, come terza. Un infarto, la poveretta. E’ stato così che ho scoperto che non era sempre stata Concetta, sono sempre l’ultimo, all’anagrafe era ancora Napoleone. Quando si dice che nemmeno il nome.
Stavo dicendo che quella frase, in tanti anni, l’ho sentita ripetere alla noia. E pensare che di persone credevo di averne visto ogni tipo di persona. Persino a Gargiulo qualche volta scappa battendo i tacchi. Me la son sentita dire spesso anche al telefono. Persino la Renata, al bar, allungandomi il caffè me la dice con gentilezza che io, il caffè, lo prendo corretto. La Renata me la serve mentre versa la correzione con abbondanza pensando magari che non si sa mai: “A sua disposizione”.
Ma mai l’avevo sentita dire a quel modo, trascinato oltre ogni tempo, con tanta seduzione e… e… libidine suadente. Accavallando le gambe fasciate di seta che rifletteva anche il riverbero della voce. Spettinando con un tic della testa quei capelli rossi che sembravano prendere fuoco. Sogghignando con quei suoi occhi immensi e traditori e ammiccanti. Gonfiando la maglietta di petto. Battendo le ciglia come schiocca le dita il domatore. Come in quel film. Quel film lì, con quell’attrice lì, quella bionda; ma sì, proprio quello.
Che ci ho pensato tutta la sera e anche quando sono tornato a casa. Che Albertina ne è rimasta sorpresa e soddisfatta. Ha detto solo che potevo almeno aspettare che finisse di preparare la cena. Ho sempre pensato che a volte chi ha tempo non deve aspettare che passi. Questo mi è stato spesso utile anche nel lavoro. E non è un lavoro qualunque il nostro. L’arma è come se ce la fossimo sposata. Hai anche momenti di calma ma, se c’è da correre, bisogna pensare prima al cittadino e al fatto. Ieri, ad esempio, ci è stato segnalato che stavano vuotando i serbatoi di alcune macchine al parcheggio di via del Borgo Antico. Insomma che c’erano dei succhia in azione. Mica potevamo girarci i pollici e fare, come dire, “Si serva pure”; aspettare che avessero con comodo finito. E’ pur vero che per quanta fretta è più spesso che si arriva in ritardo; minchia signor tenente. E così ero rimasto senza parole.
Da controllo: risponde al nome di Tamara Gjolekaj detta Tamara, che già con quel cognome lì dovevo saperlo che era tutta un programma. Solo a dirlo, quel cognome, mi si storcono le vocali e le budella; e non ci riesco ancora. A riprovarci ora semplicemente mi ci strozzo le parole in gola. Tamara Gjolekaj, via degli Sprechi, 33; anche se non si dovrebbe mai dire per le norme sulla privacy, ma anche perché siamo tenuti al segreto d’ufficio. Per una cosa così me ne fotto del segreto d’ufficio, e faccio pure bene. Bisogna vederla per guardarla; ed è un gran bel guardarla. Roba di lusso.
Stavolta mi preparo la risposta, non sono mica il più fesso, questa volta non mi faccio sorprendere e trovare impreparato, la faccio richiamare. Faccio rifare il verbale e, con la scusa che lo deve firmare, la faccio riconvocare. Una telefonata e… voglio risentirmelo dire con quel suo tono. Con quella voce che da sola vale un rapporto completo e soddisfacente. Mentre continuo a pensare a come la vorrei disporre e non so scegliere.

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