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La grande manifestazione di Roma

Foto di Elena Bellini

Tra i tanti video “amatoriali” sugli scontri del 15 ottobre a Roma in uno c’è una frase sulla quale ho soffermato in particolare la mia attenzione. E’ rivolta ai “violenti” tra i “dimostranti” da un “poliziotto” in tono di spregio e di sfida: “…mi fate schifo. Siete tutti cagasotto”. Perché mi soffermo su questo poche e povere parole di astio che non rappresentano nemmeno chissà quale novità? Forse rappresentano solo ignoranza e intolleranza. Mi soffermo considerando che la piazza non è unita, è anzi frantumata. Ci si unisce solo nella piazza, dentro al vocabolario degli slogan, anzi ci si divide in una semplificazione tra chi vuole utilizzare gli strumenti del pacifismo e chi invece crede nella necessità dello scontro anche violento. Onestamente mi sembra una inutile semplificazione. Quel poliziotto è un frammento di uno stato frammentato. Certo che finché si tollerano interi settori degli apparati dello stato che deviano dallo stesso ordinamento statuale, come è sempre stato, interi settori con profonde matrici fasciste, nessun confronto è possibile tranne quello della Resistenza, qualsiasi Resistenza portata attraverso qualsiasi forma si renda possibile. E’ però sconsolante il modo in cui la sinistra, nelle sue organizzazioni, non ha capito quella piazza andando completamente in confusione. O diamo delle risposte progettuali o rischiamo una deriva autoritaria come risposta.
Io non credo, in tutta onestà, nel grande complotto. Non ho mai creduto in una regia occulta. Credo che un corpo disordinato produce sia gli effetti dello scontro sia una situazione di instabilità che porta la “paura” (che destabilizza) e la conservazione (la richiesta di ordine come sicurezza). Quella piazza ha bisogno di una leadership? Non se ne esce allo stato attuale. Non vedo apparire figure significative al di sopra di quelle divisioni. Ma perché non una “intelligenza” diffusa, una scienza multipla? Ma queste domande mi portano fuori tema, non sono un teorico. Cerco di dire solo alcune cose piuttosto pratiche. La rivoluzione come cambiamento radicale della società può passare attraverso strumenti difformi. La storia ci insegna che è passata attraverso la lotta armata come attraverso un movimento popolare pacifista. Unico dato comune è in quel “popolare”. Ora abbiamo Pacifismo e pacifismo e Violenza e violenza. Non starò qui a soffermarmi in analisi, magari altrove o un’altra volta. Mi sembra solo che la situazione attuale sia piena di incognite ma anche di speranze. Mi pare sia alquanto complicata. Io credo che un “movimento” dovrà inventarsi nuovi strumenti di lotta. E che nulla dovrebbe essere trascurato. E’ pur vero che la mia visione, che può apparire utopia, mi spinge a sostenere che solo una lotta “pacifica” di massa può portare quel cambiamento radicale costruendo contemporaneamente una nuova concezione di struttura statuale. Solo un paese di uomini liberi sarà un paese realmente libero. La domanda in fondo è ancora la stessa: Ma chi aveva interesse a non far arrivare quel mare di folla nella “loro” Piazza?

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Roma dopo gli scontriRoma: 15 ottobre 2011. Arriviamo in piazza della Repubblica con moltissimo anticipo. Ci metto un po’ per capire dove siamo. Anche la politica è un’arte. Questo movimento (15-M più conosciuto come “indignados”) è un soggetto multiplo, una sorta di idra dalle moltissime teste. In grossa parte dice niente bandiere. La traduzione di quella parte è: nessuna bandiera di appartenenza, di partito; tutti sono responsabili di questa crisi. La totalità la riconosce come quella famosa crisi strutturale. Alcuni si spingono persino oltre l’utopia e vorrebbero mettere in piazza assieme destra e sinistra. Nella realtà in piazza già troneggia un enorme striscione: “Falce e martello”. Subito dopo arrivano in pompa magna, con tanto di gazebo e bandiere, quelli di SEL. Come dire che spuntano all’improvviso quelli che fino a ieri erano solo fantasmi impalpabili. La rete dopo si divide tra chi nega il diritto a queste presenze e quelli che soffrono della mancanza della destra. Non sono certo sbigottito: non c‘è piazza, almeno di questo tipo, in Italia possibile senza la sinistra e nel corteo la sinistra rappresenterà una presenza se non totale molto maggioritaria. Quella dietro le proprie orgogliose bandiere di appartenenza e quella, come noi, dietro istanze specifiche come, appunto, la richiesta di giustizia per la Palestina (ma di ciò ho più che parlato). Di cosa vogliamo parlare allora?
Alcune osservazione schizofreniche, altre di assoluta improvvisazione priva di veri strumenti di analisi, altre ancora solo parziali o funzionali e comunque davanti ad un fatto di tale rilievo richiederebbe lo sforzo di cercare di capire. Sospeso tra chi condanna incondizionatamente quella violenza (e forse tutta la violenza), chi a giochi fatti ancora continua a cavalcarla e glorificarla e quelli che condannano per pavidità qualsiasi espressione ancor ferma ma pacifica. Vorrei provarci almeno su alcune piccole cose senza la presunzione di riuscirci perché a volte è sottile la frontiera che passa tra eversione e sovversione, cioè può sembrare quasi labile. Riparto allora da un piccolo messaggio di accompagnamento ad una testimonianza fotografica trovato in rete: “qua colgo l’occasione per ringraziare pubblicamente l’esemplare servizio d’ordine svolto dai compagni del “Cafiero” di Roma, senza i quali difficilmente avremmo portato le chiappe più o meno incolumi”. E’ naturale che dopo la violenza le anime candide la condannino in toto e ne prendano le distanze e venga criminalizzata qualsiasi forma di violenza fino alla resistenza. Che cosa c’è in gioco, a mio avviso, in quella manifestazione: “la possibilità di dare da sinistra «una prospettiva, una piattaforma, un progetto» alle variegate proposte di quella indignazione spontanea e generalizzata fatta di mille anime”. Il tempo ci dirà chi ha partecipato agli scontri e, se c’è, chi li ha provocati e fomentati.
Parte una caccia alle streghe contro gli anarchici e gli antagonisti che va respinta. Io non condanno nessuno soprattutto i compagni né accetto di entrare nella logica della delazione. Onestamente io non ho ancora elementi per parlare almeno con approssimazione di responsabilità e credo sia sbagliato criminalizzare un intero movimento. Però dobbiamo andare a fondo prima di una sollevazione indignata in difesa generalizzata dei coraggiosi. Il primo arrestato, o tra i primi, il lanciatore di estintore, si dimostra essere un ragazzo bene estimatore di Hitler. Non corro in soccorso di questo tipo di “compagni”; scusate ma dopo una pausa qualche domanda dovremmo porcela. Come dicevo certo FB è uno strumento schizofrenico se il 18.10 trovi commenti come questo da parte di una persona non giovanissima di cui è inutile fare il nome non essendo un caso singolo: “sarò considerato una merda ma sabato godevo come un riccio…” quando la stessa persona sabato 15, di ritorno, per esempio non solo li definisce teppisti ma va oltre esternando così il suo pensiero: “NON BLACK BLOC… QUELLI VESTITI DI NERO CON I CASCHI E IL TATOO S.P.Q.R. SONO FASCISTI …e Alemanno li conosce…”. A questo punto si tira in ballo il Che, la Resistenza, i tupamaros fino ai fedain, tutte figure (o figurine?) su cui si può tornare e probabilmente tornerò ma non ora perché renderebbe il post eccessivamente lungo. Mi preme dire che sono stati richiamati tutti, a mio avviso, in modo improprio e inopportuno. Comunque non mi nascondo certo che in momenti simili ci possano essere quelli che possiamo definire “danni collaterali”. Non è questo il posto idoneo, ripeto non è questo, per parlare di “guerra per bande” o di “guerriglia urbana” o di “strategie insortive”. Non credo alle notizie che ci vendono i giornali e le televisioni. I primi obiettivi colpiti non erano certo strategici. Nessun centro del potere ha tremato, tutt’altro. Nella manifestazione oceanica c’erano donne, bambini e invalidi, con loro si sarebbe dovuta prendere e difendere quella Piazza. Sono stati messi in pericolo. Molti in quella piazza, me compreso, nemmeno ci sono mai potuti arrivare. Non i pavidi. I numerosi e organizzati Compagni del PMLI nemmeno sono partiti, nella pratica. Tutto stava finendo ed erano ancora davanti alla stazione Termini. Quale politica si nascondeva dietro quelli scontri che sono almeno inizialmente sembrati come semplici atti di vandalismo? Difendiamo i Compagni ma non evitiamo i distinguo. Col senno del giorno dopo dobbiamo capire cosa abbiamo ottenuto e cosa abbiamo perso. Non posso finire che con: “niente finisce, tutto continua”. ORA E SEMPRE RESISTENZA.

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Forgone polizia incendiatoRoma, 15 ottobre 2011. Mi è stato chiesto di raccontare la mia esperienza. Naturalmente ero sul posto, in pancia alla manifestazione, assieme alla mia Compagna e a vecchi e nuovi amici. Separati da nostro figlio e dalla figlia di un’amica e da altri nostri amici. Credo che non lo farò perché l’ha già testimoniato fin troppo bene Lei e perché nessuno ha visto nulla. Cioè ognuno ha visto solo un piccolo frammento di un film che mi pare, a me sessantottino, di aver già visto sgradevolmente più di una volta. Mettere insieme i frammenti è alquanto difficile e forse ancora presto. E guarda caso si torna a parlare di strategia della tensione. A questo gioco non ci sto. Dicevo: ero nella pancia della fiumana incredibile e interminabile di quella manifestazione di cui nessuno da ancora numeri, almeno approssimativi, più verso la testa che al centro, anzi quasi in testa. Ero a testimoniare la presenza della Freedom Flotilla e la nostra attenzione al problema della Palestina. Allora, se non un resoconto molto personale, cosa posso raccontare? Vorrei fare solo una piccola premessa su quel fiume in piena e poi narrare una storia che in quanto storia è frutto solo di fantasia, forse un po’ surreale, come sembravano essere quelle figure nere che abbiamo visto. Incutevano una certa soggezione ma più che paura si trattava di un senso di incredulità, di figure appunto surreali, da un altro mondo. Ai pochi che abbiamo visto gli abbiamo gridato inutilmente dietro. Io è pochi altri li abbiamo anche apostrofati in malo modo. Non hanno fatto caso a noi. Avevano qualcosa di più importante da fare: andare alla loro guerra che era solo loro. Mi spiace perché sarà solo quella e poche l’altre l’immagine che resterà di questa grande protesta mondiale.

Noi, io e Lei alla manifestazioneOra proviamo ad analizzare da chi era composta quella manifestazione. Chi va in piazza e in quella piazza, come me, non ci arriva mai? La manifestazione è indetta, in modo spontaneo (spontaneo?), in varie parti del mondo dal movimento 15-M più conosciuto come “indignados”, fin qui è aria fritta. Un movimento apartitico; circa 900 (novecento) piazze nel mondo scendono a protestare. Si vede dal mattino che l’utopia di mettere insieme, sugli stessi obiettivi, un popolo che va dall’estrema sinistra “disubbidiente” all’estrema destra “eversiva” è appunto solo utopia. Nessuna bandiera, s’era detto, si intendeva nessun simbolo di partito. Io Comunista ero stato un po’ emarginato pur non avendo tessere o referenti in una sinistra che mi riempie di perplessità; nella quale stento a vedere un progetto. Di bandiere e simboli di partito è piena la piazza fin dal primo mattino. Una manifestazione senza quella sinistra non è realtà nel nostro paese e di questo ero orgoglioso seppure io rappresentavo un’istanza particolare. Comunque la parola d’ordine era in estrema sintesi “Noi il debito non lo paghiamo”. Uno slogan in sé sovversivo che potrebbe scardinare (finalmente) dalle basi questa società “borghese”. Una parola d’ordine per “abbattere” lo “sfruttamento dell’uomo sull’uomo” di questo “capitalismo” e della “finanza”. Il resto è contorno. Mi chiedevo è mi chiedo se su questo, che credo si incarni nel tessuto stesso di qualsiasi elaborazione marxiana, la sinistra sia in grado di elaborare risposte, di prospettare un futuro, di incarnare un progetto; questa sinistra confusa e nebulizzata. Qui finisce la mia premessa con l’ultima mia considerazione più volte ripetuta in rete: “Ecco il coraggio e la lotta in cui credo. Ci vogliono più coglioni a fare da scudo umano che a sfasciare mille vetrine”.

Immagine di Vittorio ArrigoniOra la storia e scusate se non è una storia molto originale. Questo è solo un racconto di pura fantasia. Personaggi e altro sono solo frutto di una mente malata che si lascia all’immaginazione. Da giorni c’è un via vai strano per la città, un indaffararsi che passa quasi completamente inosservato. C’è tensione ma nessuno può né vuole crederci. La paura non può fermare la manifestazione. Il meccanismo è già in moto, entrambi i meccanismi. E’ mattino presto ma non prestissimo. Un capitano vicino alla pantera parla con alcuni individui. A vederli sono inquietanti, sanno di quelli che chiamano “black blocs”, eppure sono tranquilli, intenti nel loro chiacchiericcio. Non puoi covare sospetti, sono così disinvolti, quasi normali. Non si può tramare gli ultimi dettagli così alla luce del sole. C’è il teorema Kossiga a fungere da vademecum; credo sia inutile ripeterlo per l’ennesima volta. Sono storie di un’altra Italia e quando sono vere il gioco si fa pesante, si mette in gioco la vita. Sono storie di un Italia dove c’erano parti dello stato “deviate”, golpiste. Sono uno stupido sessantottino. E la marea parte e non parte perché siamo in troppi e i più sono ancora in Piazza della Repubblica. Da un furgone scendono quegli individui ed altri. Alcuni sono poliziotti in borghese ma stranamente sembrano i cattivi della nostra storia. Da un’altra parte sbucano quelli, i cattivi veri, un misto di ultras della curva e di fascisti che sono usciti da Casa Pound, che poi un po’ sono la stessa cosa e comunque non si può notare la differenza. Si muovono sicuri, sono addestrati, si vede. Sanno che troveranno ragazzi, la maggior parte molto giovani, con in corpo un carico di adrenalina senza controllo facile da far infiammare. Raccolgono il loro armamentario che avevano in precedenza preparato e nascosto e precedono il corteo. Solo una piccola parte cerca di entrarci da uno slargo. Sistematicamente iniziano la distruzione di qualsiasi cosa si trovano davanti, non si danno nemmeno cura di accanirsi su quelli che si potrebbero definire simboli di opulenza o almeno obiettivi simbolici. Spargono la voce che ci sono disordini, che la polizia carica. Lontano si comincia a vedere una grande e alta colonna di fumo. Le prime auto sfasciate e quelle incendiate. Si trascinano dietro questo seguito di giovani che sognano l’avventura e la grande lotta. Si muovono verso la testa del corteo per invitare i manifestanti ad unirsi a loro. Il corteo li respinge coraggiosamente quanto decisamente, li sfida e li apostrofa pesantemente. Li riconosce, cioè li riconosce nell’ideale che incarnano: gli grida fascisti. La piccola parte infiltrata esce dal corteo senza averne mai fatto parte, cacciati dallo stesso corteo. Stampa e televisioni sono già state invitate alla festa, a quella della distruzione indiscriminata. Uno di loro si stacca dal branco e si accanisce contro gli arredi di una chiesa. La polizia lascia un furgone al centro della piazza, aperto, e loro gli danno fuoco, fa parte dall’inizio della sceneggiatura. Gli strani individui che sono apparsi all’inizio di questa storia tranquillamente se ne vanno. Alcuni si permettono di salutare romanamente ormai paghi del lavoro e certi dei risultati. Lasciano nella piazza quei ragazzi che si son riusciti a trascinare dietro e che credono che quella sia la rivoluzione. Lì lasciano in preda alle forze dell’ordine (ordine o disordine?) disorganizzate, in preda alla paura, impreparate. Scoppia la battaglia delle vittime. Il capitano è davanti alla televisione e sogghigna soddisfatto: le immagini son quelle di una battaglia. Nessuno bada più alle tante centinaia di migliaia di persone che hanno cercato qui, come in quasi tutto il mondo, di cambiare la storia e la società. Silvano è tutto orgoglioso dice che gli ha gridato che gli avrebbe spaccato il culo e che questa volta gliele hanno date. Umberto ha due costole incrinate e un occhio nero e gonfio e tornando a casa circospetto improvvisamente si sente defraudato. Uno stormo di trolls si accanisce in rete intorno a quelli che erano stati nei giorni precedenti i luoghi di organizzazione della protesta. Intanto una voce fuori campo invita alla delazione. Partono i titoli di coda. Propongo di farli accompagnare dall’Internazionale e di aggiungere alla fine: ORA E SEMPRE RESISTENZA.

Un aspetto della manifestazione: il camion rosso.

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