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Archive for 23 aprile 2011

Disegno di due mani che si disegnanoPorta il caffè e si siede sul divano accanto a me e, con voce mesta, comincia a raccontarmi delle sue cose. E delle disgrazie di Simone che sono anche le sue. Le scivolano le ciabatte dai piedi; le rimette. Fuma pigramente. “Quanti”? Fuori la giornata non è delle migliori, pioviggina. Non ci sono mai stati problemi tra noi. Nel mentre sorseggia la bevanda calda mi spiega che va di male in peggio. “A volte vorrei mollare tutto. Forse dovremmo”. Mi chiede di Marta e di Luca. Di come va con il lavoro e di come sta mia madre: “Quanti anni ha”? Passa da una cosa all’altra senza interrompersi; non lasciandomi tempo per risponderle. Spiaccica nervosamente la cicca sul posacenere. Si passa la mano sulla testa per invitarmi ad ammirare il colore che ha rifatto. Ha un vestito leggero con dei fiorellini orribili. Con la sua voce roca dice che c’è il rischio che le portino via casa; e anche il resto. “A volte vorrei poterlo fare”. Al piano di sotto il marito ha un negozio di souvenir, vecchi 45 in vinile e foto d’epoca; ci lavorano entrambi. Solo una scala divide il negozio dall’appartamento che non ha una entrata autonoma. “Si è mangiato tutto con i gratta e vinci e anche di più”. I creditori sono in fila famelici in ressa fuori dalla porta. Non ha mai avuto testa per gli affari, ma questo lo tengo per me.
Sai com’è lui”.
Un clacson che passa mi distrae dalla sua voce. Sono immerso in una sorta di assenza. Simone è un uomo dalla voce sottile ma penetrante, sempre rapido nel commento malizioso. Bello non lo è mai stato, per questo nemmeno lei, ma con le donne non ha mai mostrato di avere problemi. Parrebbe spaccare il mondo. Alto e secco, è sempre stato fatto così. Vive la vita in fretta. E sempre oltre le sue possibilità. Ci siamo conosciuti prima ancora che loro due si incontrassero. Non ho mai capito il perché ma siamo diventati amici subito. E da allora abbiamo continuato a vederci dividendo tutto o quasi tra una bisboccia e l’altra. Mi ricordo di quella volta della francese. Solo che lui non ha mai messo la testa a posto. Mi avrebbe anche chiesto di fargli da testimone, ma il quel periodo ero fuori dall’Italia per lavoro. Mi sono fregato le mani. Lei invece è sempre stata una donnetta, l’immagine della casalinga. Quelle che non hanno una loro vera opinione. Che la pensano come gli viene chiesto di pensare. Fatta apposta per stare a casa e aspettare e soffrire in silenzio. Avrei giurato che non sarebbe durata e invece sono ancora assieme.
Sai com’è lui; è così orgoglioso”.
Li conosco tanto bene che quello che non sapevo lo avevo potuto immaginare. E non è la prima volta che mi accennano, separatamente, alle loro disgrazie. Forse l’ho guardata con una sorta di compassione o forse avevo una faccia fin troppo comprensiva. So che non posso certo fare molto: quando c’è una falla inutile svuotare acqua, o si chiude il buco o la nave affonda. E’ una legge fisica, sempre valida; e loro affonderanno. Non posso più aiutarli, e nemmeno voglio farlo. Mi limito a metterle una mano amichevole e pietosa sulla spalla, a consolarla, e di sottecchi guardo annoiato l’orologio rendendomi conto che si sta facendo tardi. Forse nemmeno tardi, ma è il momento di levare le tende. Mi fa capire che si tratta di una buona sommetta, circa cinquantamila euro; o che almeno con quelli potrebbero affrontare i primi problemi; forse uscirne. Non mi pare abbastanza convinta. “Non per… questo no”… La stringo a me senza entusiasmo e senza affetto convincendomi che da questa storia non torneranno mai i cinquemila che già le ho dato quando sembrava l’unica emergenza calmare quel fornitore. Forse sapevo già prima di darglieli che li avrei persi. Per queste cose lui non trova il coraggio di parlarmi. Lui è un vincente. Avrei voglia di fumare. Il rumore del traffico scivola sulla strada ed entra dalla finestra.
No, scusa ma… mi è scivolata la mano. Non volevo”.
La guardo e la guardo per la prima volta. Guardo la mano. Come fosse cosa d’altri. Non è mai stata bella e l’età non l’ha certo aiutata. Ha intorno e da per tutto almeno una buona ventina di chili di troppo, e la pelle grassa. Occhi di un colore a cui è impossibile dare un nome. Dita che cerca di curare ma che hanno lavato troppi piatti in una vita piatta. Dita che vivono una vita propria anche quando non accompagnano i discorsi. Potrei inventarmi di crederle senza offenderla, anche per il rispetto che mi lega all’amico Simone. Le guance le sono scese ulteriormente e le si sono ingrossati i polpacci. Non assomiglia nemmeno minimamente alla donna che ho sempre sognano nonostante quegli occhi abbassati in un cenno di vergogna: “Scusa”. Avrei anche una domanda che mi prude in gola ma che riesco, anche se faticosamente, a trattenere. E’ solo noia. Una noia che ottunde in una sorta di assopimento leggero. Mi sistemo seduto. Aspetto. Non riesco proprio ad essere più presente. Ho un perché? Ha sempre avuto quegli occhi che piangono anche quando cerca di mimare una risata. E divento immobile. Ascolto. Sento il vento ed ogni più piccolo rumore. Il brusio della sua voce che lentamente smette di parlarmi. Il silenzio che entra ingombrante. Potrei persino inventare una scusa. Se solo togliesse la mano traendomi da quest’impaccio. Ormai è già troppo tardi. Andarmene sarebbe solo la questione d’un attimo; non avrei bisogno di fare nemmeno tanta fatica. Lei ormai vuole giocare a fare l’innamorata imbarazzata o la sposina recalcitrante. Non posso certo toglierle io la mano se non la toglie lei. Mi limito a stringerla un po’ di più distrattamente, senza alcun interesse. Un abbraccio di cui non mi importa d’altro. So che la cosa finirà presto. Lei si abbandona come se si svuotasse.
Alza gli occhi: “Cosa stiamo facendo”?
Mi viene di sputarle in faccia la realtà. E lo sta facendo lei. Ci sono donne che sono proprio pazze. Completamente. Pazze. Mi chiedo se ci credono. O se pensano proprio che gli si possa credere. O se non gliene frega affatto. Forse credono di doverlo fare. Che faccia parte del copione. Solo che lei è lei. Lei è Enrica. Enrica; la moglie di Simone. Proprio Enrica. L’Enrica che è sempre sembrata rispondere a tutto con un’alzata di spalle. Che sembrava vivere la sua storia d’amore. Quella che era la stessa vita che la rassegnava. E ne aveva dovute ingoiare tante con Simone. Con il suo Simone. Spesso mi ha detto “Tu non sai”. Ed è invecchiata più degli altri e prima. Credevo fosse l’ultima a potersi mettere in testa fantasie simili. Strane idee. Non ha mai avuto nulla di fatale. La trovo noiosa anche quando non parla. Non imparerò mai a conoscerle. Non conoscerò mai abbastanza le donne. Non la sto molto ad ascoltare in quella sua misera interpretazione. Lo sa benissimo cosa sta facendo eppure riesce ad arrossire anche se le si imporporano solo le orecchie. Ed è goffa. Abbassa gli occhi sulla mano e li distrae subito, ma i suoi movimenti diventano inesorabili ed io sono trascinato sotto il palmo di quella mano. Forse crede di lusingarmi. Che le dovrei essere grato. E lo fa mentre guarda un altrove che non vede.
Ma io… ma tu… ma tu… ma tu”…
Si lascia scappare delle sillabe balbettate. Dovrei fermarla? Fa per baciarmi dimenticandosi per un istante chi siamo. Inseguendo un tempo che non può trovare più. Un suo sogno. La pazzia non ha mai confini. Né l’idiozia. Quasi lo implora quel bacio. Poi lo chiede una seconda volta col doppio mento. E una terza col terzo. E una quarta con il gozzo. Ci manca altro che mi sporchi del suo rossetto. Che lasci traccia del suo capriccio. Poi, subito, allontana le labbra. Vive disperatamente il suo pentimento. Una vergogna tardiva. Sono stanco di crearmi paranoie. La sua mano che mi cammina dentro la rende solo donna. Anzi fa di lei una cosa. E nemmeno troppo allettante. Mi dice, come se le costasse una immane fatica: “No! proprio non posso. Questo no. Mi sembrerebbe troppo brutto. Di fargli… male. Scusami”. Mi sento un coglione se non fosse che la sua mano non sa star ferma e sta diventando curiosa e frenetica. Parrebbe non sapere quello che sta facendo e cosa succederà, ma lo sa anche troppo bene. A cinquantacinque anni non sono queste le cose che si possono fingere di ignorare. Non so mentire. E’ una mattana.
Cosa fai”?
Faccio quello che mi ha chiesto. Che vuole. Che mi implora. Ma non ho trovato nessuna collaborazione per quel bacio. Nessun senso di colpa. Certo nessun rimpianto. Troverei offensivo fingere l’amore. Non ne ho bisogno. Penso si possa fare senza. E sembra pensarci e pentirsi e riflettere e ripensarci. Con gli occhi e col viso fa la timida e l’impacciata e l’esitante, ma la sua mano ormai mi stringe con forza ed è decisa e disinvolta a depravata. Inesorabile. Marcia verso il burrone. Sembra importarle solo di me. E’ rigida come di legno e poi molle come di sacco. Tira fuori un seno cadente e remissivo pensando forse di spronarmi. Come ne fosse obbligata. Con lo stesso entusiasmo. Forse dovrei toccarlo e mostrarmi interessato. Forse lo vuole e se lo aspetta. Non capisco se il suo sguardo vuole essere provocante. Mi sento un verme. I suoi occhi si fanno ancora lucidi come se gonfi stessero trattenendo un pianto. Un disperato lamento. Un’implorazione. Troppe cose per un momento tanto inutile. Certo un bacio avrebbe aiutato a far diventare tutto meno squallido. Forse il mio disinteresse rende la cosa quasi irreale, e ancora più imbarazzante. Vorrei solo andarmene. Lo faccio. La strattono invitandola a girarsi perché non è un gran bel vedere, ma ho una eccitazione stupida e cieca e pigra. Resiste un po’ come se dovesse, poi mi lascia fare e anzi è lei a scivolarmi di schiena. Stancamente. Non vuole pensare e vuole smettere di fare. Vuole lasciare fare a me. La sua mano scivola vuota sulla stoffa del divano. La mia l’agguanta.
Fallo… fallo… da dietro. Mi sembrerà… forse… meno. Senza vederti”.
Non ho bisogno di incoraggiamenti, né tanto meno di suggerimenti. Lo sto già facendo. Anche per me così è meno Enrica. Occhio non vede, cuore non duole; o qualcosa del genere. Così scivolo sulla sua schiena e le faccio abbassare la testa. Non ho né la voglia né mi sembra opportuno ritrovarmi davanti quei suoi occhi vuoti. Non voglio guardarla. Né che mi guardi. Né tanto meno vederla nuda. Non mi sembrerebbe carino che lui salendo ci trovasse in quella posizione. E la trovasse nuda. Anche se sono certo che non crederebbe nemmeno ai suoi occhi. Mi limito ad alzarle il vestito. Lei s’è già messa in posizione. Mi riprometto di fare presto. Le alzo la veste e le abbasso quelle sue gigantesche mutande. E’ un indumento che sembra non finire mai, e mi sta dissuadendo. Sono nuovamente tentato di rinunciare, e desistere, ma è veramente ormai troppo tardi anche per lei. Mi deve aiutare per facilitarmi nell’operazione. Solo con la sua collaborazione riesco a sfilargliele. Sembravano non volersi arrendere; testardamente per oppormi resistenza. E’ vedere il suo enorme culo flaccido denudato che mi fa venire l’idea, né ho il capriccio ormai da un bel po’ di tempo. Non so se pensa a lui. Se ha ritegno. Paura. L’ultimo pudore. Onestamente me ne frego. Improvvisamente abbiamo fretta. E’ troppo presa nella sua lotta. Sembra un’anguilla e sputa parole singole a scatti. Si fanno ancora più brevi e faticose e sincopate. Le stacca isteriche le une dalle altre. Quando inizia a capire cerca di divincolarsi.
Non così. Cosa fai? Non voglio. Io… io… Fa male. Non così”!
Ma non cerca veramente di togliersi. Di scappare. Cerca di tirasi verso l’alto e farmi scivolare più giù, di guidarmi, di decidere. Insisto incurante. Ormai sono deciso. Sospira il mio nome. Forse anche la sua testarda resistenza mi eccita ancora un po’. Forse perché ha estratto dalla scollatura anche l’altra tetta. E penzolano tristi e flosce come due tasche vuote. La similitudine mi sembra sconveniente e poco rispettosa. Lei mi sembra ancor più sconveniente. Non trovo nient’altro a suscitare il mio interesse e che mi possa attrarre nemmeno quel poco, ma l’immagine di lei è… oscena. Forse anche perché lei continua a dimenarsi nel tentativo di sgusciare da sotto ma non vuole perdere il contatto. Così i movimenti del suo culone, che trattengo per i fianchi, fanno sì che me lo strusci addosso. Dovessi definirla la definirei una posizione, e una visione, laida. Sono deciso a non arrendermi e intestardito e mi sto leggermente irritando, quasi incazzando. Ha i capelli corti, irti come spini, biondissimi; d’un biondo che non ha pudore di denunciare quanto è falso. Il collo largo e un odore di vaniglia. Forse si rende conto che non c’è nulla da fare. Che non mi può ormai sfuggire. E in quella lotta comincia a sudare; lo vuole fare anche lei. Forse è per il bacio che per compassionevole comprensione le ho appoggiato sul collo, appena sotto all’orecchio. Forse semplicemente ha deciso che è finito il momento di fingere resistenza. Smette di lottare. Perde energia. E lo fa lentamente. Certo il colore dei suoi capelli sopporta di più il passare del tempo. Nasconde più facilmente il bianco che li incanutisce. Sono distratto e assente. Non me ne frega niente. Ogni suo movimento non fa che motivarmi di più. Rendermi più deciso. Più sicuro. Lei sussurra un ultimo fiacco e disperato “Non così.” che si trasforma in un sospiro lungo e interminabile. Che si stempera e le ritorna in gola. Si rassegna. Si arrende alle proprie fantasie.
Sì, così”!
C’è sempre la possibilità di una scelta. Simone, da giù, la chiama e le grida di chiedermi se voglio fermarmi a cena. Guardo verso la porta come aspettandomi di vederlo entrare. Le do un colpo più deciso. Lei risponde !, gridandolo verso le scale. Ha una sorta di piccolo balzo. Il divano non è stato pensato per i nostri giochi e rischia di cedere, e lei di cadere. La trattengo e le sferro una gran pacca. Lei si aggrappa ancora di più al bracciolo. Le molle cigolano addolorate. Mi esorta ad essere delicato e attento. E’ come se la cosa non mi riguardasse, non mi coinvolgesse. La vedo senza riconoscerla. Le rispondo cagna! Le sento stringere i denti con un agghiacciante scricchiolio. Temo frantumi la dentiera. E’ ancora incerta. E’ curiosa. Cerca di tenermi testa. Ormai è disposta a tutto. Non avanza né indietreggia. Squittisce: “Sì, così”! E’ solo carne. Siamo completi estranei. Cerca di rilassarsi con rassegnazione: “Non mi è… mai”. Mi sorprendo di esserne sorpreso. Certo che le donne sono strane. La sua voce si fa un soffio flebile e sempre meno preoccupata: “Non mi è capitato mai; ma”… Ha fianchi larghi multistrato. Le mie dita affondano nella carne cedevole. Devo ammettere però che lì è soda. E tenace.
Sì, così”!
Rincula. La sua voce va assumendo entusiasmo. E speranza. E sfida. E una nuova curiosità. Cerca di rilassarsi. Non vuole scoprirsi delusa. Le ha preso gusto. Solo il pensiero da gusto anche a me. Me lo ripeto per mantenere entusiasmo. Chiudo gli occhi per non guardarla e mi impegno. Solo gli animali lo fanno come animali. Non mi ci vuole molto per capire che non sarà una cosa così breve e che non sarà tanto facile ritirarmi. Penso con rabbia e poi gliele dico proprio tutte le cose che penso di lei. Non ha nessuna importanza. Non ha tempo per offendersi e nemmeno la voglia. Forse per lei fanno parte del gioco o del prezzo. Forse nemmeno mi sente o non le interessa. O non vuol fare caso a me o ad altro. Forse. Forse è ancora convinta che è destino della donna. Ubbidire. Assecondare, Sacrificarsi. E diventa sempre più difficile tenerla ferma, restare aggrappato a lei. Potrebbero salire anche tutti i figuranti della processione per il sabato santo e tutti gli interpreti della festa di ogni santi. Grida che da sotto non la possono non sentire e poi s’acqueta e aspetta paziente. Non ci impiego ancora molto.
Scusa”.
Guardo fuori e ha smesso di piovere. Lei mi attende ancora un attimo immobile. Così è ancora più sconcia. Dopo mi pulisco con le sue mutande e le lascio cadere dov’erano e tiro su la lampo. Senza aspettare accendo la sigaretta. Sudata è sudata. Cheta l’affanno. Si alza per ricomporsi il vestito. Lo stira col palmo inutilmente e poi si arrende. Mi da le spalle. Spinge quelle mutande sotto il divano con un calcetto. Cerca di non guardarmi e si rassetta i capelli. Si deterge il sudore dalla fronte. Sono al capolinea. Non ho più alcuna energia. Dentro di me la ringrazio di risparmiarmi almeno le solite stronzate: Che è stato bello. Che no… abbastanza. Se io… Che lei… che io… che noi… che c’è un noi. Che non avrebbe… che non credeva… che non crede ancora… Che è stata una pazzia. Che no… che però… che sono stato… Che le dispiace. Che ne so. Devo togliermi di lì subito. Ogni minuto è di troppo. Indosso il giaccone e le dico che spiegherò io a Simone che non posso fermarmi: mi dispiace ma che me ne devo proprio scappare. Che non si preoccupi per i soldi: me li darete quando potete. Anche lei sembra contenta che finisca lì; senza altre parole, né spiegazioni. Quando sono in strada mi guardo indietro e stento a credere che sia successo.

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