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Posts Tagged ‘puttana’

13 giugno, tarda mattinata. L’uomo è affacciato alla finestra. Fuori continua una pioggia sottile. Osserva le gocce scivolare sui vetri, in silenzio, e tutto resta in silenzio dietro quei vetri. La stanza non è un granché ma lui non ha intenzione di fermarsi per molto tempo. I suoi giorni sono preziosi e contati e non ama particolarmente stare lontano per molto tempo. Non ha nemmeno disfatto del tutto le valigie, sa cosa vuole e dove può trovarlo, inoltre non gli piace la confusione e la città, preferisce il mare. Da allora non è più riuscito a liberarsi di quelle immagini che gli sono rimaste impresse nelle retine. Non è una vendetta la sua, è solo un contratto. Una volta quel posto lo conosceva bene. Era da lì che era cominciato tutto. Era da lì che erano partiti.
Come ogni città anche quella è un insieme di logiche e segreti e mondi; poco è lasciato al caso. Per conoscerla veramente c’è bisogno di una guida locale esperta, ma l’offerta è ampia e può soddisfare ogni esigenza. Per ragazzi e ragazzini bisogna scorrere la tangenziale, meglio se in certe ore, ma tutte le ore si rivelano adatte se non si hanno pregiudizi. Le droghe dei poveri scorrono a fiumi. Per quelli che hanno gusti più… più classici si può anche restare dentro il perimetro delle mura del centro. Un grande richiamo per chi ha fantasia e sogni e ambizioni, e sete di avventura da spendere e dilapidare, è il locale casinò, meno nominato di quelli della Croazia ma non inferiore nelle offerte; meno chiacchierato e più facilmente raggiungibile. E anche lì c’è tutto, anche le slot.
Chi in città vuole veramente divertirsi e può permetterselo, cioè chi cerca il lusso e donne giovani non necessariamente mozzafiato, ma anche un po’ di pulizia e presunta riservatezza, ed è disposto ad illudersi di poter trovare l’avventura, allora deve recarsi nei grandi alberghi del centro, grazie a compiacenti portieri, sapendo prima dove andare e quali sono i lasciapassare. Certo molte cose appartengono all’illusione poiché ciò che è bello appartiene agli occhi di chi guarda e i misteri sono sempre segreti che appartengono a tutti.
Per entrare in questa nicchia riservata conviene farsi precedere e guidare da una telefonata ai coniugi Benedetti, una coppia molto introdotta nel giro, intraprendente e dinamica, capace di trovare soluzioni a qualsiasi pretesa, purché, appunto, non si pongano troppe limitazioni di prezzo. Come in ogni luogo la differenza è data da vari fattori, oltre alla qualità della merce, di come viene presentata, e di altro, e anche influenzata dal tipo di incontro: se viene richiesto un incontro singolo o multiplo. Fin dagli esordi i due avevano puntato ad un commercio serio e d’alto bordo e i primi spiccioli che avevano messo da parte se li era guadagnati direttamente la moglie, gran bella donna e prosperosa, che aveva occhi ammalianti e, lei stessa, desideri altrimenti inconfessabili e inappagabili. I due hanno costruito la loro reputazione molto velocemente, soppiantando la concorrenza dei russi e degli albanesi, e ora hanno un catalogo che si potrebbe definire infinito, alcuni indirizzi informatici dove si possono vedere anticipatamente le immagini delle ragazze e scegliere, delle agende da perderci la pazienza e gli anni, e hanno fondato una loro casa cinematografica.
Alcune studentesse della locale università e dei licei cittadini sono ultimamente e comprensibilmente tra le stelle più richieste della loro scuderia. Per Samantha 3246 bisogna prenotare con almeno tre settimane di paziente anticipo, però in quei giorni la ragazzina è sotto periodo di esami, pertanto non accetta incontri che il martedì e il venerdì, naturalmente in orario scolastico. Come detto la scelta è illimitata e va dallo stipendio mensile di un impiegato di medio livello a vere e proprie fortune, alcuni imperi si sono dissolti in poche notti fra quelle lenzuola morbide e profumate, così alcune di quelle bellezze ormai giunte alla notorietà maggiormente chiacchierata, ma con rispetto, sono uscite dal giro per quello più importante, risolvendo tutti i problemi che avrebbe potuto riservare loro il futuro. Non è un mistero che la contessa Acquadolce prima, da signorina, si concedesse all’hotel Astor, e che l’affascinante presidentessa dell’associazione giovani industriali, nonché imprenditrice di grandi fortune ereditate in un lasso di tempo molto contenuto, abbia dovuto lasciare gli studi per curare i propri affari, né come prima offrisse la sue preziosissime grazie, e a quanto pare la sua sapiente arte, nelle camere e nei saloni dell’albergo conte d’Abruzzo, che di stelle le annoverava tutte.
La malignità popolare sussurra con deferenza come la contessa ami ancora ricordare quel passato con qualche rimpianto, concedendosi di tanto in tanto qualche svago, con amici o ospiti importanti, ma solo tra le mura della sua villa e ai bordi della piscina, per intrattenere quella clientela molto selezionata di affezionati e introdotti. Pare che le sue feste siano occasioni difficili da dimenticare. A parte qualche favore personale, o vecchi e nuovi e rinnovabili debiti di riconoscenza, la contessa lo fa solitamente solo in cambio di piccoli regali raffinati, preferibilmente con diamanti incastonati, o comunque preziosi almeno quanto una decappottabile di lusso. Sono questi gli ambienti dove, come volgo popolare dice, lo champagne scorre come l’acqua dei torrenti di montagna quando si sciolgono i giorni del ghiaccio, dove i soldi aprono qualsiasi porta e soddisfano qualsiasi debolezza e virtù, e dove si accettano anche le carte di credito. Lì storie Hollywoodiane si intrecciano e eredità nostrane di antica data.
Chi invece è di più miti pretese ed è costretto ad accontentarsi deve raggiungere via della Misericordia o le sue stradine secondarie, un po’ fuori mano e subito, dal primo aspetto, posto di minore decoro e decenza. Affollata di grida, di studenti e di ogni tipo di perdigiorno, ha però un suo fascino e richiamo peculiare giacché ogni portone è una meta cercata, e, davanti a qualcuno, si snodano piccole fila di appassionati e abituali, molti dei quali ormai si conoscono tra loro e non di rado ci vanno anche per elogiare le proprie esperienze o solo per parlare. Il vero motto però è che, sapendosi accontentare, si può trovare soddisfazione anche a prezzi veramente contenuti e spesso si riesce a tornare salvando qualche euro nelle proprie tasche. In realtà quelle strade sono anche un vero paradiso per gli occhi giacché la virtù di cui sono meno generosi e dotati i clienti, come le fornitrici di servizi, è la pazienza. Ultimamente si fa un gran parlare bene di Marcella, ma sono passioni destinate a durare poco nel tempo, quelli che sono giunti per primi hanno potuto illudersi che fosse quasi una prima volta, e andare in giro a raccontare questo e quello, i più grandi prodigi e le più incredibili meraviglie. Non che non sia ancora una primizia e una bellezza, ma presto ogni sua specialità diverrà l’offerta banale rintracciabile in tutte le professioniste, tanto che già si comincia a favoleggiare e spasimare di una certa Tamara, e non sarà difficile trovare ragazzine, più giovani e altrettanto belle, a fare altrettanto se non anche di più; ammesso che sia rimasto ancora nel quartiere un di più.
Lì si avventura con precauzione anche qualche benestante e persino qualche facoltoso per soddisfare il proprio bisogno di volgarità, e sono i più blanditi, ma si riconoscono subito, come uno cernia in una boccia di pesci rossi. In quel territorio la fanno da padroni figure mitiche locali con la camicia aperta fino all’ombelico e pesanti catene d’oro al collo, e modi spicci, mescolati, in una guerra concorrenziale, al loro equivalente di nuovo insediamento, di ogni provenienza, etnia e colore, per lo più glabri in petto e con meno entusiasmi per la visibilità. Ultimamente si stanno affacciando, con timidezza, anche i cinesi ma pare incontrino una certa difficoltà. Lì si vende proprio di tutto e anche di più e al ventitré esercita, con ostinata tenacia, da quanto è dato ricordare, la signora, fermata in una recente retata.
17 giugno, prime ore di un pomeriggio senza sole. Naturalmente il posto più frequentato dalle professioniste a tutte le ore, anche e soprattutto in quelle in cui non sono al lavoro, è il centro commerciale, ed è nel parcheggio, seduto dentro la sua macchina, che l’uomo sta aspettando. Osserva attentamente entrare e soprattutto uscire quel mondo di consumatori. Loro, le donne generose, sono sempre perfettamente riconoscibili, sempre pronte a suggerire la tentazione. Per onestà si dovrebbe convenire come tutti siano perfettamente riconoscibili, tranne un certo tipo di assassini. Davanti all’attenzione dell’uomo passa frettolosamente la vecchietta in ciabatte. Può riconoscere la massaia sola e quella che può disporre del marito. Così osserva scorrere le coppie, l’operaio che è costretto ad accompagnare la moglie, e la sposina che si porta dietro il ragioniere, il pensionato deluso, il commesso servizievole che esce solo per poi tornare subito al lavoro, e anche l’orgoglio dello scialbo illetterato che si porta a casa il televisore piatto di tanti pollici che solo la piazza grande può contenere. A tutti il protagonista presta ben poca attenzione e neanche un attimo del proprio interesse. Poi la vede.
L’uomo non scende dalla macchina e apostrofa la signora alzando leggermente il tono della voce ma restando al volante: “Mi scusi… permette una parola, signora Milvia”?
La donna si mostra dapprima seccata e non fa caso di venire chiamata per nome da uno sconosciuto. Senza neanche riflettere che il suo nome sia abbastanza chiacchierato da diventare popolare. Lei stava pensando ad altro, anzi quello non era il tempo di pensare. Semplicemente si stava chiedendo se non aveva scordato niente. Fa per proseguire diritta. Poi si ferma e torna sui suoi passi. Naturalmente si mostra sorpresa ed esterrefatta nonché infastidita ed annoiata. Guarda le borse gonfie che sta trasportando, quasi chiedendo comprensione; da una spuntano delle foglie di carciofo e un manico di finocchio. A quella vista, nella stessa donna, scatta un attimo d’ilarità che riesce a controllare a stento, poi cerca di ritrovarsi: “Prego?”…
Per un po’ l’uomo si limita a guardarla fissamente. Gli anni non hanno avuto nessuna misericordia della signora, sono passati come un nubifragio su una spiaggia del littorale, lasciando solo ricordi di rovine. Sulla faccia uno strato d’intonaco, spesso e crepato, se possibile peggiora la situazione, e fa ricordare all’uomo una barca in disarmo, con gli alberi tristi e le vele parzialmente ritirate; spiaggiata. Anche sugli abiti che indossa gli occhi dell’uomo non sono maggiormente clementi. Anche se ha sempre saputo che una professionista resta professionista sempre, e anche quando cerca di vestirsi da signora resta una di quelle, una del mestiere. I tacchi sono troppo alti, i colori troppo sgargianti, le gonne troppo corte, la maglia troppo attillata e scollata. Tutto è appariscente, vistoso e chiassoso, per non essere troppo notato e non denunciare lo scempio e la menzogna di quel travestimento: “Mi hanno indirizzato a lei. Ho da proporle un affare”.
Guarda dentro la macchina e cerca di farsi un’idea della persona che sta alla guida. La macchina è di lusso e dev’essere molto comoda, magari anche con l’aria condizionata. L’occupante è vestito in modo impeccabile ed elegante, lei ha sempre avuto rispetto per quel tipo di uomini con un vestito stirato, preferibilmente gessato, e la cravatta intonata. Rasati e pettinati. Che sanno profumare di buono. Dal polsino della camicia gli spunta un orologio massiccio, d’oro. Peccato abbia occhiali da sole che non le permettono di capire il colore degli occhi. L’insieme le dà una buona impressione e quel po’ di fiducia; la fa anzi sentire fiera. Controlla senza troppo attenzione l’ora; alza le spalle e si dice: perché no?
Si è appena tolta qualche capriccio e ogni ora alla fine è buona per fare un po’ di soldi. In fondo quel loro maledetto mestiere è quasi come una missione, come adoperarsi per un opera meritoria di sostegno ai bisogni, come fare l’infermiera o il dottore, come era nei suoi sogni, o più essere nella protezione civile o tra i vigili del fuoco, non ci sono orari. Alza le spalle sulla testa e decide di ascoltarne il desiderio, anche se non ne avrebbe molte voglie e l’orario non è quello che invoglia a soddisfare i capricci del primo venuto. Lei lo sa che gli uomini che la cercano possono avere tutto, ma scordano sempre di portare con sé la calma, e che non vogliono accettare orari, né si chiedono quando le loro richieste sono opportune. Loro, gli uomini, credono sempre che quelle come lei siano a loro completa disposizione, giorno e notte, in qualsiasi momento, e che non abbiamo una vita propria, tantomeno normale, come se non mangiassero, non andassero dal parrucchiere e non facessero i loro bisogni. Solo che l’uomo elegante la incuriosisce, ha qualcosa di insolito.
L’uomo è riuscito a catturare l’interesse della donna che finalmente si abbassa e si affaccia al finestrino appoggiandoci i gomiti. Con un tic probabilmente dettato dall’abitudine gli occhi pesantemente sottolineati fanno cenno alla generosa scollatura e al seno pesante. Lui ha la stessa pazienza e la stessa fretta dell’uomo d’affari, eppure sembra un tipo deciso, di quelli che annusano come lupi la preda e vanno diritti al loro scopo, decisi a ghermire la vittima e a ottenere quanto si erano preventivamente prefissato. Misurato nelle parole, dove non c’è spazio per il superfluo, e pronto all’azione. Lei ormai ha occhio per i rappresentanti dell’altro sesso, e per i rappresentati di commercio, e se non pensasse che è per lavoro ne potrebbe essere affascinata. Ha spesso avuto momenti di ammirazione per il successo e per il bel mondo, sono debolezze di tutti, e si è data a volte spazio per sognarsi dentro quel mondo, a fianco di una persona interessata, che avesse attenzioni e gentilezze per lei, oltre a portarla nei locali di moda, proprio facendola salire in una macchina come quella. Pensa a quanti resterebbero ammirati a bocca aperta a guardarla, e che forse in quella mattina potrebbe non essere la cosa peggiore che le potesse capitare: “Cosa posso fare per te, bel giovanotto”?
Giorgio”.
Inizialmente le sembra di non capire. La donna guarda l’uomo con attenzione e pazienza, il suo silenzio odora di sospetto lontano lontano, e di sudore non mentito dal profumo asfissiante, e prima di parlare disegna, come di abitudine, le labbra a cuore, con un vezzo da ragazzina delle medie. Poi decide di indossare il suo sorriso migliore di disponibilità, vuole essere altrettanto gentile, e lo fa diventare largo e accomodante, e pieno di quelle che lei crede promesse, mentendo a sé stessa e a quanto aveva pensato solo un attimo prima: “Carino; non faccio in macchina ormai da un po’, solo in casa. In più… Giorgio? Non conosco nessun Giorgio. Un vostro amico? Se intendete… per tre dovete impegnare in modo più interessante e persuasivo il portafoglio”.
L’uomo mal sopporta perdere tempo e dover correre troppo dietro alle cose e alle risposte. Cerca di mantenersi tranquillo: “Noi sappiamo molte cose di voi, signora –e quel signora sottolineato ha perso anche il minimo aspetto di educazione per farsi solo sberleffo e insulto– Giorgio, il vostro uomo. Quel Giorgio. Ora vi ricordate”?
La signora lo guarda allibita, ma poi, da persona di intelletto, capisce che qualcosa non va, che non è come aveva previsto, che non è stata cercata per i suoi servigi, per le sue grazie, che non c’è nessuna voglia, nemmeno una frettolosa esigenza, né particolare né mediocre. Nemmeno per un attimo pensa di elencare all’uomo in quanti e quali modi si potrebbero divertire, e in quanti luoghi, perché l’uomo non è un cliente. Ne è un po’ delusa. Percepisce una certa impazienza. La donna appoggia le borse: “Fossi interessata; diciamo: se lo conoscessi… di cosa parliamo? Quanto”?
Potrebbero esserci per lei… diciamo… mille euro”.
La donna ci pensa solo brevemente, la cosa la confonde. Non si chiede cosa possa aver fatto; non ne ha il tempo. Certamente quel signore non può essere un piedipiatti. Capisce che può provare a strappare di più, forse molto di più, non che voglia essere cupida, ma nemmeno stupida, e la vita è dura per tutti, e non si lascia scappare la possibilità: “Ma è il mio uomo”.
Lui sapeva fin dall’inizio che probabilmente si darebbe trovato in un situazione simile e che avrebbe dovuto contrattare, ma non ha la pazienza necessaria; è come se fosse inseguito da un destino inesorabile, però non perde la calma né la sua compostezza. Guarda l’orologio, lo sfila e lo porge alla donna; è una grossolana imitazione ed è placcato, ma ha visto come lo guardava incantata. Forse aveva previsto anche questo o qualcosa di simile: “Perdonate, parole grosse. Direi piuttosto il vostro papa. Comunque… capisco. E non sono affari miei. Diciamo che potremmo arrivare a cinquemila euro. Mi sembra una proposta onesta; anzi molto generosa. Per molto meno troviamo chi ci scarica anche un’intera chiatta”.
La donna si mostra subito fin troppo velocemente soddisfatta e si riempie gli occhi di bagliori in un sorriso cordiale ancorché confidenziale, sforzandosi però di fingersi indignata; di insolenze ne ha conosciute tante da essere ormai avvezza a farsene una ragione, e darvi il peso che meritano, cioè la stessa densità di un sospiro d’inverno, il fastidio della brina sulle foglie. Probabilmente una cifra simile, tutta in una volta, non l’ha incontrata di frequente e ha la sensazione che stavolta non la dovrà dividere con nessuno: “Non siete molto cortese. Dovrei sentirmi offesa, Ma gli affari sono affari”.
Per un attimo teme di aver avuto troppa fretta. Pensa di provare ad alzare ulteriormente la richiesta. L’altro ha ceduto troppo velocemente. Vince la paura di lasciarsi sfuggire l’occasione e di veder sfumare quella fortuna, di mostrarsi ingorda. Vince la sua solita arrendevolezza. Quella che è stata la sua condanna. Ormai le cose sono andate come sono andate. Perché dovrebbe porsi troppe domande? Non servirebbe a niente. E le hanno sempre complicato la vita. Si vede i soldi già in mano: “Posso chiedere con chi sto parlando”?
Non ha importanza. Se proprio è necessario può chiamarmi Drusan”.
Lei non è una stupida: “Parliamo dei soldi”.
Duemila subito e gli altri tremila dopo, quando Giorgio fa la cortesia di farsi… trovare. –come a confermare quelle parole l’uomo estrae un mazzo di banconote nuove dal cruscotto, le conta con attenzione e le allunga alla donna mostrando che era già preparato a quella richiesta– Ecco a voi. I patti sono patti”.
La donna artiglia il malloppo con un velocità impressionante, come un’aquila che afferra un agnello, e se lo porta via. Infila le banconote nella scollatura senza contarle, soddisfatta di mostrare fiducia nei confronti del suo interlocutore. Fruga nella borsetta finché non trova una penna e sul retro di un conto degli alimentare verga un indirizzo e glielo porge. L’uomo lo guarda con finta distrazione e lo mette nello stesso cruscotto da cui aveva estratto la cifra pattuita quale anticipo sul loro accordo. Lei si sente leggera e felice e non ne fa mistero, anzi non cerca nessun pudore per nasconderlo. Torna ad accennare al seno e a cercare di richiamare su di esso le attenzioni dell’apparentemente disinteressato, e poco plausibile, partner, nel tentativo di elogiare le proprie formosità in un gesto estremo di sfacciata fiducia, tanto poco credibile che non riesce a mentire nemmeno a sé stessa. Sceglie di prendere il suo destino momentaneo con decisione come un toro per le corna. Afferra la maniglia della porta chiusa e la tira a sé, naturalmente senza che quella ceda alla quella violenza, facendo il cenno di voler salire: “Pagato avete pagato. Posso essere gentile per voi”.
Lui declina l’offerta con un semplice e laconico ma eloquente: “Grazie”!
Lei riesce a nascondere magistralmente la propria delusione. Vorrebbe aggiungere che l’uomo non sa quello che si perde e che è tutto pagato, ma non è cosa. Non fosse perché il mondo va così sarebbe anche disposta a non farsi pagare, persino a farlo lei. La situazione l’ha intrigata e in un qualche modo incuriosita. Non è interessata al momento alle conseguenze della loro transazione e, anche fosse più padrona di sé, e fredda, probabilmente non cambierebbe una virgola alla decisione; non ha più l’età per cercare di rammentare lontani ricordi e antiche paure, per altro non ha mai creduto alla ragionevolezza di una rappresaglia divina. Lo ha imparato che era solo una ragazza che la vita non è una questione di ragione o torto, di giusto o sbagliato, ma di opportunità; e ne ha sempre avuto conferma fin dall’inizio, fin dentro in casa. Deve ammetterlo che probabilmente puttana è nata, ma che, se così non fosse, non aveva mai avuto nessuna possibilità di fuggire a quel destino; che poi c’è ben di peggio nella vita.
L’uomo mette in moto e prima di partire si allunga ancora una volta verso di lei per dirle le ultime cose. Lei sa che non l’avrebbe più rivisto e ritorna dai suoi pensieri: “Naturalmente non ci siamo mai incontrati; inutile dirlo. E’ più che un consiglio. Avete il tempo per dare ancora un saluto al vostro Giorgio, ma fate in fretta”. Mentre la macchina si allontana lei si sistema le calze, ma lo sa da sola che è un gesto inutile e che lui non la sta più guardando. Lei torna sui suoi passi, verso il centro commerciale, ora non è costretta a rinunciare a quelle scarpe di finto pitone.
21 giugno: Su La gazzetta urbana, in prima pagina, viene diffusa la notizia: Giorgio De Vittis, ex discusso cooperante durante la guerra dei Balcani, ed ex contractor in vari scenari di conflitto, ben conosciuto in seguito alla magistratura, nonché alla cronaca cittadina e ai nostri lettori, per accuse di rapina, detenzione e spaccio, ricettazione, induzione e sfruttamento della prostituzione, è stato trovato stamattina, alle prime ore dell’alba, sull’uscio della sua casa freddato con tre colpi precisi di pistola. Le forze dell’ordine sono state chiamate in loco da un vicino che aveva portato fuori il suo cane. Le dichiarazioni dell’uomo, che sono state prontamente verbalizzate sul posto stesso, significano che l’amara scoperta è stata fatta passando casualmente in loco, trattandosi di una piccola costruzione in località scarsamente frequentata, e che, per non nascondere la verità, ad accorgersi del corpo riverso è stato il cane stesso che è andato ad annusare i poveri resti. La cronaca nera della nostra città non ha spesso occasione di intrattenersi in simili atti criminosi, tanto efferati, ma si pensa ad una vendetta nell’ambiente, anche se gli investigatori sono decisi a non tralasciare nessuna ipotesi come nessuna traccia. Il soggetto, che era anche sospettato di essere in odore di vicinanza o commistione alla mafia, ma si ritiene la cosa poco probabile, lascia una moglie, da cui era da tempo separato, e due figlie di diciassette e diciannove anni. L’unica cosa certa è che non si è trattato di una rapina in quanto gli assassini non sono nemmeno entrati in casa dove sono stati rinvenuti oggetti di refurtiva, alcuni libretti al portatore e una certa quantità di dinari di dubbia provenienza. Naturalmente, come sempre, verrà setacciato l’ambiente del malaffare, e verranno sentite tutte le persone che sono entrate in contatto con la vittima e che possono essere informate sui fatti. In primo luogo, quella che sembra essere la sua attuale compagna, e altri nomi che paiono, allo stato attuale delle indagine, appartenere prevalentemente al mondo del meretricio. Naturalmente il vostro giornale sarà sempre presente sul posto, e sugli sviluppi del caso, pronto a darvi tutti gli aggiornamenti di questa intricata vicenda istante per istante.
22 giugno, prime ombre della sera. La donna comincia a temere di poter avere più seccature di quanto avesse preventivamente calcolato e messo in conto; sospetta di aver chiesto una cifra fin troppo modesta per quel suo servizio. Non le va di avere a che fare con le forze dell’ordine, di rispondere alle loro curiose domande, ma spera ancora che non sia necessaria alcuna sua testimonianza. Non si sente in torto, in fondo ormai erano mesi che Giorgio non si faceva vedere e si faceva depositare i soldi senza casuale su un conto postale. Lei mantiene ancora ostinatamente la speranza che i due fatti possano non avere alcuna connessione diretta tra loro, e che il delitto sia stato compiuto senza che gli assassini avessero bisogno delle sue indicazioni, conoscendo in anticipo le mosse e l’indirizzo del nascondiglio del loro bersaglio. Si convince che tra il suo colloqui con lo sconosciuto e il fatto di sangue non ci siano legami. Quell’uomo non può essere un assassino. Entra nella sua testa anche un’altra ipotesi: che tutto dipendesse da uno sbaglio o per rabbia nell’impeto di una qualche accesa discussione dalla quale lui non si sottraeva mai. La donna andava riflettendo in questi termini e in silenzio, costeggiando quella stradina senza marciapiede posta a ridosso dell’estrema periferia, dove non passa mai nessuno nemmeno a pagarlo a peso d’oro; non ricordava di esserci mai venuta, ma l’appuntamento era stato fissato là con la telefonata. Naturalmente non era stata nemmeno sfiorata dalla tentazione di chiamare il porco. Capiva quella eccessiva riservatezza che però le sembrava anche un po’ esagerata; la verità è che aveva accolto quella telefonata con sollievo, come una liberazione, quando già cominciava a sospettare che non avrebbe più visto il resto dei suoi soldini. Quando arriva la macchina non l’avrebbe potuta distinguere poiché era un’altra macchina, del tutto diversa sia nel colore, che nella marca, che nel modello. Si dirige verso la stessa solo perché lui si fa riconoscere suonando le trombe e lampeggiandole coi fari. Lei fa un cenno d’intesa con la mano, un sorriso spontaneo e si affretta. Certo per lei i soldi erano importanti, ma non sa negarsi il piacere che le riservava il rivedere lo sconosciuto, non era riuscita a proibirsi, di tanto in tanto, di pensare a lui, e per quell’incontro aveva cercato di prepararsi come meglio poteva, delusa da tutto e da tutti, ma armata del suo grande coraggio. In fondo forse c’era un segreto tra loro. E un’intesa. In fondo non aveva mai creduto a chi le aveva sempre detto che i sogni muoiono all’alba, e stringe a sé la borsetta. Intenta in tutti quei pensieri tarda un po’ più del dovuto ad accorgersi che la macchina non rallenta, anzi accelera. Fu trovata nel fosso quasi due giorni dopo, sulla faccia era rimasto un grido disperato e vicino alla mano protesa c’erano tre banconote da dieci euro. Banconote che però furono subito nascoste nelle tasche di chi per primo aveva rinvenuto la povera e sfortunata donna.

P.S. La foto del titolo è stata rubata dal profilo Facebook di Enrico Mazzucato. L’altra è di una “vanitosa” trovata in rete.

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Copertina del romanzo: Il nazista & il barbiere di EDGAR HILSENRATHSembra banale ma è meglio precisarlo: chi ha provato la frusta non se ne libera mai. Chi è stato vittima prima o dopo torna ad esserlo. Trova sempre qualcuno pronto a frustarlo. Anche quando le sue ambizioni sono quelle del carnefice. A volte anche per proprio per questo. Anche quanto i suoi desideri vanno oltre. Quella vittima che è stata gli resta appiccicata addosso. Come fosse un’aspirazione. Come se non ambisse ad altro. Resta impressa nella pelle. La si porta dentro. Naturalmente questo è anche il caso di Itzig Finkelstein, una volta Max Schulz. Non è possibile liberarsi del proprio passato, anche dopo essere stato massacratore, in lui qualcosa lo spinge a tornare vittima. A riassaggiare il nerbo. Ad accettare. Qualcosa lo trattiene legato a quella sofferenza. In fondo l’amore è anche sempre un po’ odio. E la donna è sempre un po’ strega. Non che lui abbia rimorsi, i rimorsi non vengono più ospitati in questo mondo. La guerra non ha delicatezze. Quando hai conosciuto il grande orrore tutto il resto sono dettagli. E in ogni donna cerca sua madre, Max Schulz, anche ora che è Itzig Finkelstein. Quella grassa puttana di sua madre Minna Schulz. Benché il passato lo abbia lasciato alle spalle e ora sia solo Itzig Finkelstein quando sorride il suo sorriso è d’oro. I suoi denti sono d’oro. Sono i denti strappati agli ebrei in campo di concentramento. Prima di ammazzarli. I suoi denti sono i denti di Max Schulz. In fondo a lui continua a vivere un po’ di quel tedesco con la faccia da ebreo. Con gli occhi da rospo.
Ha imparato ad uccidere Max Schulz e lo ha imparato per uccidere gli ebrei. Erano ordini, non solo piacere. Gli ordini non si discutono. E’ tutto così semplice quando si sono sconfitti i dubbi. Quando si riesce a farne tranquillamente senza. E ora che ha imparato uccidendo ebrei lo farà per difenderli. Il mondo è di chi lo sa attraversare. Di chi sa nuotare. Di chi si sa adattare. Gli ebrei hanno vinto e ora nei suoi abiti vive Itzig Finkelstein. Lo stesso che lui stesso ha ammazzato. Ammazzato assieme alla famiglia. E lui e Itzig, come meglio non potrebbe lo stesso Itzig, ma non riesce a smettere di essere anche Max Schulz.
Ve l’ho detto? No! non era necessario. Questo ve l’ha già detto l’autore. In un altra vita sono stato sterminatore; ma quella era un’altra vita. Io ero allora Max Schulz. Figlio di Minna e di cinque padri. Cinque padri e un patrigno. Cinque padri e un patrigno dal pene enorme violentatore di bambini. Un libro è fatto per essere letto. La pigrizia non giustifica. Non mi piacciono le cose una seconda volta. E non provo simpatia per l’uomo con gl’occhi da rospo che si chiamava Max Schulz e oggi è Itzig Finkelstein. Ma non è necessario provare simpatia per qualcuno. Nemmeno per sé stesso. E la simpatia è una bene superfluo. Molto superfluo. E forse nemmeno un bene. E’ una catena. E la realtà è una catena. Quando non si può cambiare. Ma io la posso cambiare. La parola è magica; può tutto. E io sono un uomo che è stato morto. E con me porto tutti gli uomini morti. Anche quelli. Loro non sanno che li ho uccisi io. Nessuno più lo sa. Ho i documenti in regola. E porto quei morti viventi. E tutti gli altri, che torneranno a vivere. Piantando le radici nella sabbia del Negev. Un albero per ogni morto. Perché questa oggi è la mia terra. E i morti oggi parlano un’altra lingua. Nessuno mi può più condannare. Perché ho imparato a volare. Perché non si può ammazzare più di una volta un uomo, per quanto colpevole esso sia. Perché non c’è riscatto. Anche se io morissi non farei tornare in vita quei sei milioni. Nemmeno i miei duecentomila. I morti non tornano mai indietro.

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ResistenzeCosì impettiti nella loro arroganza. Nelle loro divise tristi. Non mi piacevano. Nemmeno lui; anzi soprattutto lui che cercava d’esser gentile. E non piacevano a nessuno al paese. Entravano e se ne andavano come i padroni di tutto. Distribuivano e insegnavano la loro ignoranza. E dopo che erano partiti molti sputavano per terra. E tiravano sospiri di sollievo. Non era l’autorità, ma la loro stupidità che faceva timore. E lui, il podestà, era della stessa pasta. E della stessa ignoranza. E anche il prefetto. Fatti della stessa materia; bocca mia taci. Schiumavo rabbia ma non potevo che ingoiarla. Mica potevo dirgli di no: io ero solo una puttana. E sembravano farmi loro un piacere. Dovevo mostrarmi soddisfatta. E pretendevano che dicessi loro che erano bravi. Come se non pagassero la marchetta, ma mi facessero un regalo. E a volte qualcuno era anche violento, perché erano padroni. Perché tutto era dovuto. Stabilivano le regole, ma le regole erano solo per gli altri. Con quei loro stivali… E poi erano loro stessi ad applicare la legge. E poi appendevano i loro editti ai muri; dopo. Certo che tutti li guardavano male. Solo Vittorandrea, quel povero, gli gironzolava volentieri attorno. Solo lui se li lisciava, e si inchinava perdendo bava, ma lui faceva il soffia e in paese tutti lo sapevano. E tutti gli raccontavano solo quello che volevano. Solo quello che andava bene a dire. E gli raccontavano le favole. Ma anche che il bosco stava perdendo la pazienza. E che prima o poi da lì sarebbero venuti a cacciarli tutti. E fu un inverno freddo quell’inverno. Freddo e triste.
I loro orizzonti erano solo di sbarre e catene. Prima non le avevo mai conosciute. Ma a volte anche l’aria aperta può sembrare una galera. In qualsiasi momento ti può mancare l’aria. Io non pensavo al domani, avevo già troppe preoccupazione per il presente. Non riuscivo a sognare. Eppure anche se sapevo che ero solo una puttana io gli volevo bene al Luigino. Appena potevo non gli facevo pagare nemmeno la marchetta. Di danari lui non ne aveva molti. Credo che anche lui un po’ di bene me ne volesse. Non veniva che con me. Era diventato comunista, il Luigino. Forse lo era sempre stato. E non riusciva più a tenere la bocca a freno. Per troppo tempo si era allenato. Il tempo della pazienza per lui era finito. Poi era andato anche lui, come gli altri. Così era stato meglio così. Anche se lo vedevo sempre più raramente. Veniva di notte solo per me e per dire al paese che lo spirito di noi paesani non era morto. Di stare buoni che mancava ancora poco. Poi se ne andava via senza nemmeno darmi un altro appuntamento. Lasciava i soldi lì, quelli che aveva. Se ne andava in salita a farsi inghiottire dal buio del bosco. E io ricominciavo ad aspettarlo.
Invece loro al paese ci venivano sempre più spesso. E più spesso usavano le mani e i manganelli. Come se gli mancasse il tempo. E poi venivano a cercare consolazione da me. Da me che non potevo dire loro di no, perché ero solo una puttana. Ma questo forse l’ho già detto. Ma quando è passato avevo una voglia matta che non riuscivo a tenermi, di dirgli quel “No”! Lo odiavo perché mi aveva insegnato ad odiare. Lo odiavo che gliel’avrei strappato. E quando lui ha detto: “Domani sera non farti trovare in casa.” –mica ha parlato con una sorda. Erano due mesi che non lo vedevo, al Luigino. Pareva un’eternità. E invece è venuto proprio sul più bello. Proprio quella sera. Ho gli ho chiesto al Luigino che mi dicesse perché. E lui mi ha risposto fiero di sé: “Perché siamo ribelli. Siamo i ribelli della montagna”. Fortuna che la montagna sa tenere i suoi segreti. E così io gliel’ho detto al Luigino. Ma mica volevo dirgli di no. Era tanto che era lontano. E avevo proprio bisogno delle sue coccole. E così, anche se avevo paura, paura per lui, l’ho fatto annegare tra le mie tette. E per un attimo ho creduto di sognare. Ho smesso di pensare a niente. E quando ho sentito i primi rumori l’ho fatto scappare. Mi viene da ridere come lo vedessi, correre ancora con le brache in mano. E l’ho visto diventare un’ombra e poi sparire. Ed è scappato giusto in tempo. Passando da dietro. E la Marietta gli ha aperto la porta. E poi attraverso il fienile. E giù per l’argine. Mentre io credevo ancora di vederlo lì, lontano. Nel buio.
Una puttana è una puttana. Non è bello dirlo ma ero solo una puttana. Ma non ero, come dicevano, la loro puttana. Una puttana è una puttana di tutti. Anche se io avrei voluto esserlo solo di uno. Non certo di loro. Anche una puttana può essere una donna onesta. Io le bugie non le avevo mai dette. Mai fino ad allora. E ne hanno ammazzati sette. E sette giorni sono rimasta nelle loro mani. Non voglio pensarci. Anche se ero puttana io di quelle cose non le avevo mai fatte. Sono uscita con tutte le ossa rotte. E’ per questo che son rimasta zoppa; di quelle loro premure. No! che non hanno pagato la marchetta. E intanto la loro rabbia era diventata paura. Ma al Luigino mica l’hanno preso. E nemmeno gli altri. Solo quei sette. E a me non è uscito un fiato. Non sono servite le loro botte. E’ per questo che diventavano sempre più cattivi. Mi hanno pisciato addosso. Sapevo quello che mi aspettava ma gli ho sputato lo stesso in faccia. E quando il Luigino è tornato, rasato di fresco, loro erano già scappati. Ma non sono mica andati lontano. Le loro facce ce l’eravamo segnate.
Poi il Luigino è partito perché mi ha detto che avevano liberato il paese ma restava ancora da liberare l’Italia. E io son tornata ad aspettarlo. Ma ormai sapevo che sarebbe tornato. Ora per sindaco ci abbiamo un democrista, ma io non capisco di politica; mica ho studiato. E non m’hanno dato certo una medaglia; io ero solo una puttana. Se la mettano al culo la loro medaglia. A me non può servire. Io ora sto con Luigino. Lui mi ha sposata perché mi vuole bene. Lui in montagna ci va per funghi e non me l’ha detto. Non me l’ha voluto dire dove l’ha messo il suo parabello. Io son rimasta muta. Non gliel’ho chiesto, che forse era solo una pistola. Sono una donna e di queste cose non ne voglio sapere. Io lo so e non lo voglio sapere. Non lo voglio sapere perché ora al paese si sta meglio e non c’è più paura. Ma se tornano allora lo so. E non mi servono medaglie. E a casa stavolta ci può stare Luigino, se lo vuole. Io mica ci sto. Sono stata puttana ma con loro non ci voglio tornare.

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Quello che nel romanzo non si dice è che:
Copertina del romanzo: Il nazista & il barbiere di EDGAR HILSENRATHDopo aver ascoltato la voce del grande affabulatore, del nuovo messia, Itzig Finkelstein quando era ancora Max Schulz, ariano purissimo, tornato a casa non fu più lo stesso. Guardandosi attorno vide: non più la vittima ma una nuova fierezza di sé. Ogni passato è un peso enorme da portarsi dietro e soprattutto lì e in quei giorni. E i banditori, i salvatori, gli imbonitori e tutti quelli regalano un sogno a quelli che nella mente coltivano incubi o miseria, a tutti i derelitti, agli scontenti danno una fede. E lui, Itzig Finkelstein, quando era ancora Max Schulz, era stato illuminato e credeva e aveva bisogno di credere. Aveva un mondo nuovo. Fu per questo che si prese un caffè, naturalmente di cicoria, e poi entrò silenziosamente e strangolò suo padre Anton Slavitzki senza un attimo di esitazione. Lo aveva colto assopito dopo il solito niente con ancora quel suo enorme coso fuori che ancora gocciolava per aver pisciato nel lavandino di bottega. Gli tolse la vita avvolgendogli attorno al collo la frusta gialla e stringendola con tutta la sua forza. «Maledetta sia la frusta nella mano del falso padrone. Ma quando la frusta cambia padrone e il nuovo padrone è il vero padrone, che sia sacra» –gli era stato annunciato sul monte degli ulivi. In realtà Anton Slavitzki, che era un vero ariano nonostante il cognome che portava, non era nemmeno il suo vero padre perché non era nemmeno uno tra i suoi cinque padri. Questa era fatta –pensò.
Non aveva mai meditato che potesse essere così facile ma anche così faticoso, né che un morto avesse quell’orribile e inutile attonito aspetto, era la sua prima volta. Chiuse bottega mettendo il cartello “TORNO SUBITO” e chiamò Minna con voce stentorea e autoritaria. Lei portò il suo grande peso e il suo enorme culone lentamente e lo fissò negli occhi e parve capire subito le intenzioni del figlio. Si era limitata ad esprimere la sua inutile domanda solo con gli occhi. Certo, Itzig Finkelstein, che era ancora Max Schulz, non era dotato come Slavitzki, lo stupratore di bambini, ma bastava e avanzava. E Gli era bastato mostrarlo nel pieno del suo orgoglio perché aveva già quel pensiero in testa: “Oggi è un nuovo giorno, non ci sarà più nessun Slavitzki. Chi ha osato ha pagato, e la vittima è diventata padrone del suo destino e del destino del paese ed è per ciò che Max, perché era ancora Max Schulz e non ancora Itzig Finkelstein, oggi fotterà sua madre”. Lei si era limitata ad alzare la veste e ad allargare le gambe senza nemmeno togliersi quella pidocchiosa vestaglia.
E così fece sul letto e in ogni luogo in cui lei era giaciuta con colui che ora era il cadavere di Anton Slavitzki. E per affermare la sua nuova autorità pretese anche di farlo allo stesso modo che piaceva tanto a Finkelstein, e che lui aveva subito dolorosamente, e anche a lui la cosa piacque, e anche in ogni altro modo. Sua madre, la puttana rispettabile e onorata cioè la puttana perbene, l’enorme Minna Schulz, lo aveva lasciato fare senza nemmeno un gemito, come se la cosa non la riguardasse; si sarebbe detto che si stesse persino annoiando, durante. Non aveva battuto ciglio nemmeno quando si era sfogato con rabbia sul suo enorme culone, eppure ci aveva messo tutto il suo impegno e il suo rancore per farla gridare e per sentire che era viva. Ma lui, Max Schulz che non era ancora Itzig Finkelstein, non si arrese né desistette, doveva farlo e lo fece, seppur irritato, e non aveva nemmeno paura dei denti di sua madre, di quei due quintali di puttana perbene che era Minna, proprio come il macellaio Hubert Nagler, uno dei suoi cinque padri, che a dirlo lo diceva ma poi adorava le labbra sensuali di Minna e anche particolarmente quei suoi denti forti e bianchi. Ora che Max, non ancora Itzig, aveva ritrovato l’onore ed era divenuto padrone della sua vita e della storia si sentiva meglio, ma non come avrebbe creduto. Era forse solo un po’ più sicuro di sé, nonostante gli occhi da rospo e il naso a becco che lo facevano tanto sembrare uno di quelli che lui odiava così tanto, proprio all’opposto del suo grande amico Itzig Finkelstein che era biondo e con gli occhi azzurri che pareva lui l’ariano. Non l’aveva mai fatto, né con sua madre, la puttana Minna, né con nessun’altra donna e forse era stato per questo che aveva tanto insistito: per esserne certo e non potersene scordare. Anche questa è fatta –si disse già dopo la prima volta, e dopo ogni volta.
A lei sembrava continuare a non interessare, all’enorme Minna, proprio come quella prima volta, e a lui la cosa diventava col tempo sempre meno influente. E’ la prima quella che veramente conta –concluse. Ma lo si sa che la vita deve andare avanti e la sua non era certo una vita per palati fini. Lui Max Schulz, ariano purissimo, che non era ancora Itzig Finkelstein, a suo modo un precursore anche se i libri e la storia si sarebbero scordati di lui di lì a poco se non subito e durante. In fondo nulla del suo aspetto era cambiato nemmeno dentro quella splendida divisa, e in verità la Goethestrasse e la Schillerstrasse non erano mai state veramente la sua casa; un rifugio.
«Io, Max Schulz lo sterminatore, ho baciato la terra. Ho la bocca piena di sabbia. Mi alzo, sputo la sabbia, noto che anche Hanna Lewisohn, accanto a me, sta sputando sabbia, poi, improvvisamente la vedo girarsi: mi butta le braccia al collo e dice: ‘Itzig… siamo tornati a casa

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raccontiLuci ed ombre di una città. Un lungo viale notturno. Come dicevano: farmacie ed edicole sempre aperte perché a Milano è sempre giorno. Lui, che aveva quel maledetto vizio, si sarebbe accontentato di un tabaccaio; non aveva spiccioli. Trovò il coraggio di avvicinare la donna e lei gliela offrì con cortesia. Senza imbarazzo si trovarono a parlare amabilmente anche dopo aver consumato quella prima sigaretta. Si scordarono di tutto e anche di quello che erano. Fu lei, alla fine, a ringraziarlo. Era la prima volta che andava, se si può dire così, con una di quelle. Non gli era sembrata diversa dalle altre. L’unico imbarazzo gli era sembrato che l’avesse provato lei mentre lui cercava il portafoglio. Lei sarebbe stata tutta la notte a parlare. Lui si pentì ma qualcuno lo aspettava a casa ed era già in ritardo.

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