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Posts Tagged ‘indagine’

Disegno in BN

Sospettava un sospetto. La girava, la voltava tra le dita ma una corda non restava nient’altro che una corda. Filamenti erano rimasti nel collo; niente di alcuna utilità. Dopo il minuzioso sopraluogo si alzò deluso. L’unica certezza era che quella corda gli aveva tolto la vita. Era un’indagine che poteva apparire complessa quella dello strangolatore di Arcave. Lui aveva un corpo e mille ragioni per un delitto ma niente in mano; già! tranne l’arma: la corda. Nessuno, naturalmente, aveva visto niente. Non c’erano testimoni attendibili, solo voci e chiacchiere e parole di impacciato imbarazzo e conforto per Giulia. “Cara… non faccia così. Vedrà. La vita continua”. Lei non aveva che lui. Carlo Spillare non sapeva come dirglielo ma lui la pensava così e ormai ne era quasi certo. Lo strangolatore di Arcave non era nemmeno uno strangolatore. Si poteva supporre che ne fosse rimasto impigliato da solo. I gatti sono animali strani: cadono sempre con le zampe, hanno quell’aria felina che sembrano sempre in caccia, vedono le cose molto da distante e quando noi non le possiamo vedere e poi finiscono sotto una stupida macchina o impiccati ad una corda dei panni. “Venga, l’accompagno per un pezzo. Le posso… magari un caffè”?

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CARTE: Analisi di un omicidio (33*48) 6 giugno 2010Quello che aveva reso l’indagine così complicata e difficile era stato proprio quello: solitamente in quelle faccende non ci si imbatte in una donna e perdipiù così donna. Quando l’aveva vista per un attimo non aveva voluto credere ai propri occhi e per sempre aveva continuato a sperare di poter continuare a guardarla. Era stato un lavoro lungo e meticoloso, avevano tracciato un gran numero di profili, rilasciato interviste poi, come quasi sempre, il caso ci aveva messo lo zampino e l’avevano trovata sulla vittima ancora calda. Sporca del suo sangue e del suo piacere come una qualsiasi donna e (peggio) come un qualsiasi delinquente che ha il momento della distrazione (ma non era così). Lui pensava avesse voluto farsi prendere di proposito per farsi vedere (soprattutto proprio da lui); curiosa. Fosse scesa alla stazione successiva nemmeno quella sarebbe stata l’occasione buona e si sarebbero ritrovati ancora con le pive nel sacco. La sposa aveva poggiato il vestito bianco sul letto e s’era chiusa nel bagno in attesa di essere in ritardo. Lo sposo aspettava in anticipo davanti al municipio ed era già preda dell’impazienza e di uno strano senso di confusione. Nessuno saprà mai come sia riuscita a farlo salire su quel treno e lui era la tredicesima vittima. Dopo essersi assunta tutte le sue colpe, e aver spiegato che non era vero niente che quello fosse un mondo maschio, non aveva voluto spiegare né aggiungere altro. Dopo la condanna, senza ragionevole perché, era andato a trovarla e le aveva portato dei fiori. Se mai l’aveva fatto non faceva certo paura e muoveva ad altri sentimenti tra cui la compassione e la dolcezza.

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La solita frase: “Pareva tanto un brav’uomo ma”… Con quel ma lasciato sospeso per far sospettare altro. Poi una processione di volti che sono i volti delle nostre periferie. In qualche modo uguali. E poi, con pazienza, l’altro usciva tra silenzi imbarazzati e omissioni. Ed era un altro fatto di frammenti. Frammenti che assieme andavano a completare un disegno complesso. Una vera e propria storia. Ne ho fin troppo di queste storie. E’ sempre così. Ci sono volte che le cose le sai già prima. E’ sempre così. Non potevo comunque esimermi di fare i soliti rilievi e quel minimo di indagine. Eppure tutte quelle carte mi sembravano inutili. In fondo era già successo. Naturalmente siamo stati chiamati dalla solita vicina di casa: «Come botti di carnevale». Come si potessero sentire, tra tanto fracasso, mica lo so. E i vicini a curiosare. Abbiamo dovuto sfondare la porta in un frastuono irreale. E lui era là, senza badare a noi né a quello che gli succedeva intorno, sprofondato nella poltrona, ciabatte ai piedi, cicca che aveva finito di consumarsi nelle labbra, la cenere caduta sulla canottiera; lì con la tele accesa.
Era un marito fedele e premuroso, gran lavoratore, tollerante, anche troppo, ma”… La moglie mostrava meno dei suoi quasi quarant’anni ed era ancora piacente, molto; almeno così appariva, per quel poco. Difficile essere certi o più precisi. Non si è mai così attenti davanti ad una scena simile, sfuggono certi dettagli che non servono strettamente al nostro lavoro, ovvero si guarda tutto con quel distacco che ci regala l’abitudine. Bionda; certamente non naturale. L’avevamo trovata in sottoveste, e senza calze, cioè a gambe nude. Si raccontavano talmente tante storie su di lei che si sarebbe potuto farne un libro, e anche voluminoso. Comunque tutti confermavano la bellezza della donna anche se con toni diversi. Gli uomini ne parlavano per via della sua prosperosità o di quel qualcosa o della sua gentilezza e lo facevano tutti con entusiasmo. Le donne… ne parlavano meno volentieri. Alcune la trovavano un po’ volgare, altre un po’ sopra le righe, altre ancora leggermente altezzosa, un po’, ma solo un po’, sovrappeso, troppo truccata, fino a dirla sfrontata e via di questo passo. La critica maggiore però era che il povero marito fin troppo spesso era costretto a farsi da sé da mangiare. E che lei passava più tempo dal parrucchiere che a casa. Tutto il resto veniva più che altro suggerito. Con quel “mi capisce, commissario?” … tipico di quelle donnette. Mi sono stancato a ripetere che non sono commissario e che non stiamo in un film.
Si conoscevano da una vita ed erano come fratelli, avrebbe dato la vista per quell’amico, ma”… Il suo migliore amico aveva una concessionaria di auto. Mingherlino e, si sarebbe detto, non molto alto. Avevano fatto le scuole assieme e assieme avevano militato nella locale squadra dilettantistica di calcio. Solo il militare era riuscito a separarli per un poco. Lui aveva fatto il servizio civile. Gli aveva fatto anche da testimone alle nozze, e di battesimo della piccola. La coppia aveva solo quella figlia. In quell’attimo aveva i pantaloni allacciati approssimativamente ed era a torso nudo. A quanto venimmo a sapere la relazione durava da alcuni mesi, sotto gli occhi del marito che pareva non farci caso. «Non che fosse contento, quello no. Forse solo rassegnato». Così mi era stato riferito da tale Caterino Ognisanti al bar da Guido. Niente di più preciso. A dire il vero non era nemmeno il primo e la donna da molto aveva preso a portarseli a casa, quegli amici per così dire intimi. Persino il parroco alzava gli occhi al cielo se si accennava a quella moglie: Una famiglia distrutta. Ma si sa come sono i parroci: dove entra il peccato lì finisce la vita. E don Albino è un vero e proprio terrorista. Le sue pecorelle si toccano al solo vederlo.
Era un padre affettuoso, anche troppo buono, ma”… La ragazza era senz’altro carina, molto carina. Non gli somigliava affatto. Mostrava molto più dei suoi quasi quindici anni. Era una donna fatta. Però non aveva molta testa. Aveva lasciato presto gli studi. Non pareva avere nemmeno molta voglia di lavorare. La si vedeva tutto il giorno in giro per i bar frequentati dai giovani, e sempre in compagnia. Sì! sembrava non possedere nemmeno molta… come dire? moralità. Era parlata e lei sembrava non farci caso; alzava le spalle. Con pazienza si vengono a sapere parecchie cose. E il chiacchiericcio sospettava che fosse rimasta, come il medico aveva poi confermato: la giovane era incinta. Capelli lunghi e top cortissimo. E non indossava in quel momento le mutandine; se ne avvide per primo l’appuntato Rotella. In compenso portava una quarta piena di reggiseno. Eppure nel nostro mestiere non dovremmo dare molto peso alle voci. Baratella, che dice di averla conosciuta, dice che sì non parlava molto ma non c’era molto da dire con lei. Diversamente dal resto la testa sembrava rimasta ai sei anni. Poi sembrò ripensarci e quasi voler ritirare quello che ormai aveva detto come gli fosse sfuggito di bocca.
Nemmeno ai giornali interessano più storie come questa. La miseria resta appiccicata ai posti in maniera ereditaria. Tutto era chiaro fin dall’inizio. Avrei potuto risparmiare a me e a de Martinis e a tutti tanto lavoro. Il fucile, un browning da caccia modello phoenix, era appoggiato al pavimento ancora caldo. Vicino la bottiglia di birra vuota. Un posacenere pieno fino a scoppiare. Una busta di affettato scaduto. Lui era sulla poltrona davanti alla televisione accesa, il volume altissimo. Girava continuamente i canali e variava il volume, in modo ossessivo e maniacale. La barba mal rasata. E una cicatrice sottile lungo il viso come una sorta di sorriso. Più che altro un ghigno. Gli occhi fissi sullo schermo con fare schizofrenico. Due grandi e rossi occhi che parevano sul punto di schizzare come tappi di spumante tepido una volta tolta la gabbietta. Era irrealizzabile parlargli ed era stato difficile strascinarlo via e impossibile distoglierlo da quello stato.
L’appartamento era in disordine. Tutto aveva un aspetto vecchio, trasandato, di cose prese in economia. La nostra è gente che trasforma anche il centesimo in risparmio. Strideva solo l’enorme schermo panoramico e stereofonico. La scena che si presentava inizialmente era raccapricciante. Il frigo tremava ma nessuno poteva ascoltarlo. Sul gas c’era un fuoco acceso. Al momento dell’irruzione i tre corpi giacevano immersi in enormi pozze di sangue. L’altro, l’amico, ci dava le spalle; il volto non si vedeva. Era stato colpito alla schiena. Come stesse scappando, verso la camera. E’ probabile che avesse cercato proprio di mettersi in salvo. Gli altri due corpi avevano il braccio teso allo stesso modo verso l’uomo, l’indiziato. La ragazza era stata colpita al ventre; la madre in pieno volto. Con la mano sinistra la donna sembrava avesse cercato di proteggersi la faccia, inutilmente. Lei, la faccia, non ce l’aveva più. Il sospettato continuava a ripetere morbosamente: “E’ mio, è mio, è mio!” stringendo il telecomando energicamente con entrambe le mani.

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pittura con tecnica mista su cartone telatoA volte il nostro lavoro sembra avere un fascino solo suo e riservare solo emozioni. E’ colpa di quel velo di avventura sparso a piene mani da certi scribacchini della penna e della celluloide. Invece è dura fatica e razionalità. Si devono osservare anche i minimi dettagli, le più piccole cose che ad un occhio poco allenato sarebbero sfuggite. E ci vuole anche un po’ di fiuto e, perché no, di fortuna. Prendiamo come esempio quella storia del cinese. Nel caldo opprimente del mio ufficio non riuscivo a togliermi un’idea che mi ronzava in testa. Era solo poco più di un sospetto ma comunque non mi convinceva. Le foto erano lì, sparse sul tavolo, ma non riuscivo a capire quello che non vedevo. Stringevo in mano il mio bourbon caldo come piscio di un terrier e mi arrovellavo grattandomi il cappello. Non dico ma… il cinese non poteva essere solo la vittima. C’era qualcosa di losco nella faccenda, e le conclusioni facevano acqua da tutte le parti. Era stato troppo facile per essere vero e per convincermi; a me non la si fa. I cinesi hanno quegli occhi in cui non riesci mai a capire cosa pensano e sono tutti anche un poco criminali. E poi escludendo lui non avrei saputo di chi sospettare.

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Tecnica mista su cartaEra stato il primo ad arrivare sulla scena. C’erano solo tre persone presenti al momento del delitto: la vittima, che non poteva parlare; l’assassino, che non voleva parlare, e quel gingillo da borsetta col calcio di madreperla. Tralasciando, per un attimo, la pistola (viene spesso usata un’arma del genere proprio per far pensare ad una donna), c’era lei, la moglie, che si beccava tutto, e il socio. Non c’era e non ci sarebbe potuto essere nessun’altro sospettato. Avevo appurato che con quel socio i rapporti erano tesi, lo si poteva intuire anche da come guardava lei. Lei era sul posto con il volto stravolto e lui era stato rintracciato subito in macchina in un parcheggio, a pochi isolati di distanza, con una mora conosciuta dalla buoncostume che avrei fatto bene a risentire più tardi. Al momento era stata inviata a spargere le sue insolenze in una stanza accanto. Non sarebbe servita nemmeno la scientifica. Non restavano più dubbi che non poteva che essere lui. Aveva un alibi ma era certamente fasullo. Era chiaro che aveva il motivo, che aveva avuto l’occasione e che aveva la faccia di chi lo fa. Certamente non poteva essere lei, con quegli occhi azzurri, quella carrozzeria e soprattutto quel gran paio di paraurti.

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Tecnica mista e acrilico su cartoncinoPerché lo faccio? Non lo so. E’ solo un ragazzo. Uno come tanti. Non può avere molto di più di diciotto anni. Forse meno. Non ho avuto coraggio di chiederglielo. Soffre già abbastanza. E’ chiaro che ama ancora quella ragazza. Perché continuo in tutto questo? Dovrei avere almeno pietà per le persone. “Mi è stato detto che era il ragazzo di Silvana”.
Diversamente dall’altro non è in grado di sostenere il mio sguardo. Abbassa gli occhi. Come fosse in colpa. Eppure so che non ha nessuna colpa. Non lui, almeno. “L’ex. Solo ex. E’ finita un paio di mesi fa”.
Anche questa era una cosa che sapevo. Ho chiesto in giro. E’ stata facile da scoprire. Lo chiedo perché da qualcosa dobbiamo pure cominciare. Vorrei farlo sentire a suo agio. So che non può esserlo. Sono solo un idiota. “Perché”?
Ha un piercing al naso. Non mi da nessun fastidio. Sono affari suoi. Mi hanno detto che è uno di quelli che scrivono sui muri. Questo gli potrebbe causare qualche guaio. Non siamo qui per questo. Spero che gli vada sempre tutto diritto. La sua voce prende un tono ancora più amaro. “Non lo so, commissario. E’ stata lei. Mi ha detto una delle solite cose. Ho sentito dire… ma sono solo voci”.
Dovrei finirla qua. Non so ma non ci riesco. Mi sento di merda. “Non ha pensato di chiedere spiegazioni”?
Ed eccolo un briciolo di rassegnazione. “Non mi sono mai fatto illusioni. Sapevo che doveva durare quanto doveva durare. Era anche troppo bella, per me. Ci conoscevano fin da bambini. Quando se ne andata me ne son fatta una ragione. Era come se me l’aspettassi. Se lo sapessi che prima o dopo sarebbe successo. Se posso dirlo però non credevo sarebbe stata così dura.” –il ragazzo sembra sul punto di piangere. Si trattiene a stento– “Naturalmente non me l’aspettavo. Che finisse così. Non se lo meritava”.
Intanto mi portano il caffè. “Riesce a darsi una ragione? Gliene aveva mai parlato”.
Mai. Era una persona solare. Sembrava felice anche di quel niente. Credo mi amasse. Quando stavamo assieme. Poi l’ho vista perdere quella luce. Ho capito che qualcosa non andava. Gliel’ho chiesto. Credo sia stata felice con me. Di averla fatta felice. Almeno per un po’. Almeno questo pensiero mi consola. Ho cercato di restarle amico. Ma ci siamo persi un po’ di vista. E doveva esserci qualcosa di cui non mi voleva parlare. Forse un altro”.
Certo un altro. “Lei conosce l’ingegner Garbin”?
Quello? E chi non lo conosce. Qui. Il campione. E’ rimasto il campione del mondo. Qui è il padrone di tutto. E’ figlio del padrone. Era il padrone anche di ogni goccia del suo sudore. Ma poi lei ha lasciato quel lavoro. Non lo so perché. Me lo sono chiesto. E anche come faceva. Lei lo sa che non poteva contare su casa. Una famiglia mica ce l’aveva. Aveva solo i suoi sogni. Forse troppo grandi. Non ho capito ma quando è finita c’era qualcosa che non andava. Era strano Mi ha detto che non voleva finire così. Restare povera. Che non ce la faceva più. Che si meritava un’altra vita. Non la stavo più ascoltando. Lei mi capisce? Una donna che ti ha appena lasciato. Credo volesse dire che le cose stavano cambiando. Doveva essere felice e invece non lo era. Bisognerebbe chiederlo a lei ma a lei non lo si può più chiedere; credo”.
E’ possibile che loro due… cioè che si vedessero”?
Mi guarda perplesso. Se non lo è lo sa fare bene. Ne dubito. Eppure deve sapere. Forse nemmeno lui ci vuole credere. “Intende dire che ci fosse qualcosa? E che ne so. Lui non mi piace. Non credo. Non ne abbiamo mai parlato. Lei era ancora così giovane. Quasi una bambina. Non c’è stato niente tra noi. Niente di importante. Mi capisce? Qualche bacio. Niente di più. Un amore puro. Cose da ragazzi. Certo che quando lo incontravamo la guardava in quel suo modo. Che pare che tutto sia suo. Forse… credo di ricordare… penso mi abbia accennato qualcosa. Che una sera l’aveva invitata per un aperitivo. Un aperitivo. Silvana si può dire che nemmeno sapeva cos’era. Si fa per dire. Offrire un aperitivo a una che a stento ha di che mangiare. A una sua operaia. Allora m’è sembrato semplicemente ridicolo”.
E’ perfettamente inutile mettergli altri dubbi. O mettergli in corpo del rancore. Si vede: è già pieno di ricordi. E di amarezze. E di rimorsi. Si sta chiedendo cosa ha fatto. E temo se lo stia chiedendo da molto tempo. Forse c’è anche qualcosa da cui vorrebbe tornare indietro. “Non volevo dire quello. Semplicemente non so perché gliel’ho chiesto. Vorrei capire. E il Garbin mi sembra uno che le chiacchiere le fa fare. E le fa. Uno che le cose le sa. Ma ripeto: era una domanda come tante. Nemmeno a me piace. Scusi se mi permetto. So che non dovrei. Scordi di avermelo sentito dire”.
In fondo è solo il ragazzo di una che dopo averlo lasciato ha deciso di annegarsi nel Brenta. Di una che per quanto bella adesso sta sotto un lenzuolo. Nel bigliettino che abbiamo ritrovato, vergato di suo pugno, quella ragazza aveva lasciato detto «Lui non è come Riccardo. Credo di aver sbagliato tutto. Sono solo tanto stanca». Vorrei consolare quel ragazzo. Dirgli che lei lo aveva amato. Che quello era amore. Non so se faccio bene. Alla fine decido di tenere quel segreto per me.

Primo lo trovo al bar il giorno dopo. E’ lui che mi ha detto tutto quello che non sapevo. Ma parla mal volentieri. E lo vedo da me che ci sono cose che non vuole dire. Forse per pudore. Forse per salvare un ricordo. Forse perché sono troppo difficili da dire. “Si diceva che stava diventando la più bella che si fosse mai vista per le nostre strade”.

Certe conclusioni non stanno proprio a me. Sono solo un magistrato.
Qui la storia finisce. Se una storia come questa trova mai una fine. Ma tranquilli: non c’è nessuna Silvana; non ancora, almeno.

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Tecnica mista e acrilico su cartoncinoForse dovrei chiederlo ad Enrica. Ma lei non può averlo mai visto. Non mi piacerebbe comunque vederla guardarlo come lo guardano tante mogli di tanti che poi sono così riverenti con lui. E lui deve essere considerato un gran bell’uomo. Non so con che occhi guardano le donne ma ci potrei scommettere. Ed è sempre perfetto come si è presentato. Lasciando il suv parcheggiato davanti al portone. Cravatta in tono, non una piega. Capelli pettinati perfettamente. Un dopobarba insinuante. Occhi profondi e imbarazzanti anche se in questo momento sono a riposo, imbarazzati loro. E all’erta. Un tipo intendo preciso e sempre composto. Il classico bravo ragazzo diventato uomo importante, l’ingegnere. Un tipo che mi piace poco. Anzi non mi piace nulla. Intanto parlo come parlassi con me. Come pensassi a voce alta. “Non era molto alta. L’altezza non è tutto. Avrebbe potuto avere un futuro davanti. Lei conosceva la Bibiani”?
Era stato un campione nazionale. Cosa che in un posto come questo ne fa automaticamente un eroe. Una celebrità. Quando aveva smesso aveva ripreso gli studi. E si era laureato. E aveva avuto sempre tutti gli occhi delle donne addosso. Soprattutto in un paesino come questo. Ne giravano di chiacchiere. Come in ogni piccolo borgo. Tutto è provincia. Qualcuna diceva che era così bello che non sarebbe stata affatto sorpresa scoprendo che era gay. E subito aggiungeva un “non lo è, per fortuna”. Era cioè il sogno di ogni donna, maritata o no. Anche dopo il suo matrimonio. Anche dopo che sua moglie aveva avuto quei due bambini. E aveva l’invidia e la deferenza anche di tutti gli uomini. Parevano non vedere. Risponde fin troppo in fretta: “No! come tanti altri. Di vista. Ci si conosce tutti”.
Già! ci si conosce tutti. Non suda. Non mostra imbarazzo: “Scusi se glielo chiedo: quanti anni ha sua moglie”?
La voce è suadente con una lingua lenta ma tranquilla. Con parole che possiede perfettamente e che sembrava preparate; già pensate. La mano in tasca per darsi un’aria rilassata. Una tranquillità che non ha. Vorrei prenderlo per il collo. Non ne ho nessun diritto. Tutto lo ha sempre protetto. Per quel padre. La legge lo protegge. Non è stato lui. Non in quel modo. Fa parte di quelli che possono uccidere con un sorriso, ma loro le mani non le sporcano mai. Al massimo, per casi estremi, le fanno sporcare agli altri: “Venti… Perché? Cosa vuole intendere con questa domanda commissario”?
La fabbrica di scarpe è sua. Del padre. E hanno casa a Montecarlo. E a Cortina. E molte in paese. Uno così non te lo fai mai nemico. E il nodo della cravatta sembra disegnato da un architetto: “Niente. Assolutamente niente. Dicevo. E poi non sono commissario”.
Comunque non abbassa la guardia. Ma sembra doversi giustificare: “Una ragazza carina. Non lo nego. Non so cosa va a pensare; ma lei mi vede. Lo sanno tutti: potrei avere tutte le donne che voglio. Ma sono fedele. Fedele alla mia Cinzia”.
Aveva sempre trovato chi sistemava le cose. E poi uno così non sbaglia. O sbaglia poco. Il minimo. E c’è sempre quello. Un avvocato; naturalmente il più bravo. Il papà. Qualcuno pronto a dire la vera verità. Un viaggio all’estero. Si dimentica presto per uno come lui. Non sopporto nemmeno l’odore del suo dopobarba: “Solo una ragazzina. Poco più di una bambina. A lei piacciono giovani o mi sbaglio”?
Ha la sfrontatezza tipica del padrone. Ma perde un po’ della compostezza. E’ così che noto che il suo argomentare si fa solo un po’ confuso: “Guardi che sono loro. Come le dicevo. Sono le donne a ronzarmi torno. Non le saprei dire se conta l’età. Mai fatto caso. Nemmeno le vedo. Non è colpa mia. Chieda. Chieda in giro. Pensi che una volta… Meglio non dirlo, sono un galantuomo. Sfacciatamente. Con mia moglie là. E sembrerebbe tanto una signora. Meglio non parlarne. Bocca taci. Una cosa… imbarazzante; le dico. E mica è stata la sola volta. Pensi che ho dovuto perfino minacciare delle diffide. Come le dicevo sono fedele a mia moglie. E’ per questo che non me ne devo occupare. Non può rimproverarmi nulla”.
Vorrei averti per cinque minuti tra le mani. Non le sopporto più queste ipocrisie. Dovrei essere qui per questo. Per scoprire. Dove c’è da scoprire. Ma oggi ho le mani legate. Non ci posso fare niente. Vorrei almeno fargli paura. Vorrei… è solo che tutto questo mi fa star male. “E’ stato visto con lei. Non una volta”.
Entra nelle difensive. Sa che non posso fargli nulla. Pensa che io sappia qualcosa. Qualcosa che gli può far comunque male. Deve essere curioso. Curioso di capire dove voglio andare a parare. Se non ha una morale, e non ce l’ha, avrà almeno dei dubbi. “Due chiacchiere, tra compaesani. Come diceva lei era solo una bambina. Niente che possa averle detto. Ho solo cercato di essere gentile, con lei. Non so cosa si possa essere messa in testa; se si è messa in testa qualcosa. Certo non le ho fatto promesse”.
Per la prima volta si è tradito. Non posso approfittarne. E’ già tanto quello che faccio. Se si ricorda che può tranquillamente alzarsi lo fa. E se ne va. In fondo non può essere nient’altro che una chiacchierata. Come tra amici. Anche se non lo siamo. E non lo saremo mai. Non c’è nessun reato. Non posso provare niente. Niente tranne quello che sanno tutti. Ma lui non ha paura della verità. Lui la sa la verità. Non può averne paura uno che ha poco da temere anche dalla legge. “Cosa si prova con una ragazzina? Me lo chiedo. Me lo saprebbe dire lei? Io la conoscevo. La conoscevo di vista. La guardavo e mi metteva allegria. Non ci ho mai parlato. Quello che mi ispirava era tenerezza. Solo tenerezza”.
Sta per reagire ma ritrova il controllo. Ho perso prima di sedermi. Ho perso anche il buon senso. Dovrei trovare l’intelligenza di liberarmene. Di licenziarlo, da questa chiacchierata. “Anche a me”.
Per cui tra lei e la signorina Bibiani non c’è mai stato nient’altro… mi conferma che la conosceva solo come una semplice conoscente”.
Certo che lo confermo. Dovrei chiamare il mio avvocato? E poi non ci posso fare niente comunque se lei ha deciso di finirla così. Mica è stata spinta da nessuno a fare quello che ha fatto”.
Un suicidio non è mai un delitto. Dopo un suicidio chiudi il fascicolo e lo lasci lì. Al massimo cerchi di sottrarti alla stampa. Non hai giustificazione. Non hai niente da dire. Hai solo voglia di mettere la parola fine. Di tacere. Soprattutto per una vita così breve. Sfoglio l’agenda. Faccio finta di leggere: “Ci sarebbe anche quell’episodio. Di quella… come si chiamara… Clara. Anche lei ancora una bambina, molto di più; non ne conviene”?
Solo cattiverie. Nient’altro. Invidia. E poi sono solo chiacchiere. La denuncia è stata subito ritirata. Lei mi offende, commissario. Vuole rimproverarmi per qualcosa”?
Non sono commissario e poi si dice accusa, non rimprovero. Quello lo lasciamo alle mamme. Si fa per dire. Per chiacchierare. Altrimenti non saremmo qui a parlare così. Diversamente l’avrei convocato in ufficio. Mi piacerebbe sapere che ne pensa. Alla fine, come dice lei, sono solo chiacchiere. Non c’è più alcuna denuncia. Il fatto, come si dice da noi, non sussiste. Invece è stato… archiviato”.
Cosa vuole che ne pensi. La penso esattamente come lei”.
Per un attimo sto per perdere il controllo. “E io come la penso? Me lo dica. Vorrei saperlo anch’io”.
Meglio che la faccia finita con questa pagliacciata. Tanto meglio per lui. E per me. Non aspetto che lui parli. Gli stringo la mano. Le mie parole sono solo un invito affinché liberi la mia vista dalla sua presenza. “Lo so. Ma so anche che sto male. Lei non mi può capire. Non credo. E’ stupido quello che dico. Lo so da solo. E poi dirlo proprio a lei. E’ come se l’avessi spinta anch’io. Se l’avessimo spinta tutti. E se qualcuno in particolare… mi capisce. Non voglio dire… mi sento strano, a disagio. E’ un suicidio, questo è chiaro. Solo che la testa mi dice… come se qualcuno l’avesse… come dire? invitata a farlo. Le avesse detto: accomodati pure. Le avesse spiegato che non c’era posto per lei. In questo mondo, intendo. Che non aveva speranze. Ma credo che ci vedremo ancora”.[Audio “https://sites.google.com/site/semario2/UnMazzoDiFiori.mp3”%5D
Continua…


Per il brano musicale scelto a corredo si tratta della canzone “Un mazzo di fiori” di  Lucio Dalla dall’album Anidride solforosa del 1975.

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Tecnica mista e acrilico su cartoncinoNon fosse cronaca potrebbe essere una favola, una favola triste. Ma sono stanco di queste cose. Ne ho già viste troppe. E poi il destino ha chiuso la pratica ancor prima di aprirla. Non potevo farci niente ma non riesco a non fare niente. Dentro la miseria non c’è legge.
Io la conoscevo la Silvana. Fin da bambina. Una come tante. L’ho vista crescere. E farsi bella; una bella ragazzina. Veramente bella. Nonostante tutto. Dovrei non pensarci. Una storia avara, la sua. Queste storie di paese sembrano spesso uguali. Sembrano avere un destino fin dal loro inizio. A guardarti intorno sembrano sempre gli stessi come una condanna.
Veramente conosco tutti i protagonisti. Gambarare è un buco. Un posto che definirlo piccolo è dargli importanza, valorizzarlo. In fondo due strade e una piazza. Nemmeno un paese. Che poi certe cose sembrano naturali. Le ho sapute dopo. Solo in queste ore. Le ho sapute per averle chieste.
La madre era stata ricoverata. Non aveva resistito. La testa. Quando sono andati a prenderla era un fantasma. Tutta pelle e ossa. Nemmeno si vedevano gli ematomi. Cosi mi dicono.
Mi raccontano che era chiusa nel suo mutismo assoluto, non parlava già più da un paio d’anni. Gli occhi parevano non saper vedere nessuno. Vagavano senza metà. I capelli già bianchi tutti arruffati. Una cosa da far pena. Sporca come quelle che una casa non ce l’hanno. La loro era piccola e vecchia, ma c’era l’acqua nel pozzo.
Allora avrà avuto sei o sette anni, Silvana. La guardò portare via con gli occhi sgranati. Sembrava non capire. O capire fin troppo bene. Forse solo non volere capire. Cercare di cancellare. Per salvarsi. Ma lei era diversa. Sembrava non doversi sporcare di nulla. Che lo sporco non la potesse proprio sporcare. E dentro si portava il suo dolore.
Quella storia era sua e la teneva solo per se. I suoi incubi riapparivano la notte. Il padre era un orco di poche parole. Ma tra tante chiacchiere non si sa mai dove si nasconde la verità. Comunque quello che è certo è che Silvana la vita l’ha conosciuta presto. Troppo presto.
A scuola non andava bene. Forse non era una cima, ma come si fa a pensare alla scuola in quelle condizioni? Quando tutto sembra remare contro? Quando la testa non ti segue? Comunque non si è mai trovato niente. E sul niente non si costruisce niente. Niente tranne quello che si definisce un teorema. Solo teoria. E cose a cui la gente non vuole credere.
Eppure era una ragazzina solare. O almeno pareva. Era il suo modo di reagire. Di difendersi. Aperta con tutti. A modo suo cercava di sopravvivere. Di non farsi rubare il sorriso. E aveva trovato lavoro in un calzaturificio.
Lavoro duro. Le bastava per stare distante da casa. Per liberarsi del bisogno. Per fuggire. Da quello. Dall’orco. E dai fantasmi. E dai ricordi. Avrà quindici anni, non più di sedici. E li dimostrava tutti. Non ne potrà contare altri. Forse sta meglio dov’è. E’ amaro dirlo.
Quando la vedevo la vedevo sempre col naso attaccato a qualche vetrina. Vicino a Piazza Vecchia. O direttamente a Mira. Per lei vie del centro. Con gli occhi rapiti, sempre gli stessi, quelli di una bambina. Ci passava delle ore, lì davanti. A guardare quello che non avrebbe mai potuto comparsi. E mica potevo immaginare che ci sarebbe andata anche l’ultimo giorno. E poi perché avrei dovuto?
Non le ho mai parlato. Avrei voluto. Parlo spesso con le persone. Per conoscerle. Per capire e convincermi di dove sono. Per vincere la loro diffidenza. Magari bevo un gotto con loro. Ma lei era cosi giovane. E innocente. Sembrava appartenere ad un altro luogo.
Stupidamente pensavo che le mie parole avrebbero potuto offenderla. Che sarebbero state inopportune. E inutile. E lo sarebbero state. Perché non si può cambiare il destino delle persone. Sono quello che vogliono essere, le persone. O quello che possono. Da qui non si esce; mi sono sempre detto.
E’ la storia più vecchia del mondo. Un segreto che non è segreto per nessuno. Piccoli pettegolezzi. Non li ascoltavo. Pensavo non potessero appartenerle. A volte servono per sentirsi vivi. Per questo quotidiano. E questa monotonia. Ché nemmeno mi interessano le storie di corna. Quelle cose lì. Magari nascondono il dramma. Ma prima, e il più delle volte, quel dramma resta dentro casa. Tra quelle quattro mura.
Non è compito nostro. Non siamo né i confessori ne quelli che debbono parlare all’anima. L’inferno è solo qui, nella terra. Una donna può decidere per quello che vuole. Ma non è proibito sognare. E lei non era ancora donna.
Pensavo a quel suo sguardo fisso sulle vetrine. Certo che lo sapevo. Lui l’aveva sporcata, e poi uccisa ma non c’era delitto. Aveva ucciso solo i suoi sogni. Era stata lei a togliersi le scarpe e le calze. A ripiegare il vestitino, che si era comprata il sabato prima in una svendita, per non stropicciarlo. A lasciarsi infine scivolare nel Brenta. Ma la borsetta di Carvis era vera.
Continua…

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pittura con tecnica mista su cartone telatoSospettava un sospetto. La girava, la voltava tra le dita ma una corda non restava nient’altro che una corda. Filamenti erano rimasti nel collo; niente di alcuna utilità. Dopo il minuzioso sopraluogo si alzò deluso. L’unica certezza era che quella corda gli aveva tolto la vita. Era un’indagine che poteva apparire complessa quella dello strangolatore di Arcave. Lui aveva un corpo e mille ragioni per un delitto ma niente in mano; già! tranne l’arma: la corda. Nessuno, naturalmente, aveva visto niente. Non c’erano testimoni attendibili, solo voci e chiacchiere e parole di impacciato imbarazzo e conforto per Giulia. “Cara… non faccia così. Vedrà. La vita continua”. Lei non aveva che lui. Carlo Spillare non sapeva come dirglielo ma lui la pensava così e ormai ne era quasi certo. Lo strangolatore di Arcave non era nemmeno uno strangolatore. Si poteva supporre che ne fosse rimasto impigliato da solo. I gatti sono animali strani: cadono sempre con le zampe, hanno quell’aria felina che sembrano sempre in caccia, vedono le cose molto da distante e quando noi non le possiamo vedere e poi finiscono sotto una stupida macchina o impiccati ad una corda dei panni. “Venga, l’accompagno per un pezzo. Le posso… magari un caffè”?

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