“Niente di meglio che un buon piatto di tagliatelle al ragù”. Ma doveva ancora imparare che se diceva buono intendeva ancor più abbondante. Lui era esterrefatto e la cuoca s’era messa in azione. Aveva sposato una ragazza minuta e molto discreta. Il giorno dopo delle nozze se n’era uscita chiedendo quel primo prima ancora della colazione. La nuova vita le doveva aver messo appetito. Forse era stata quella prima notte in cui nessuno dei due aveva dormito molto. Lui si sentiva a pezzi ma lei appariva fresca come una rosa. Ridente e soddisfatta. Divorò tutto con una velocità incredibile per poi chiedere del pane per fare la scarpetta. Si dissetò direttamente dalla fiasca sulla tavola sgolandosela tutta e poi scoppio in un allegro rutto rumoroso che fece ondeggiare le tende come bandiere che garrivano al vento. Come se stesse passano un uragano a gonfiare le vele di velieri in alto mare. Come un tornado. E disse soddisfatta: “Ora sì che va meglio. –ma aggiunse– Però avrei ancora un buchetto, caro, da soddisfare. Un poco di appetito”. Lui trovò la cosa alquanto sconveniente davanti agli ospiti e alla servitù e non aveva proprio più forze, ma si sentì risollevato quando capì d’avere frainteso. Eppure doveva sapere che lei era una ragazza per bene e non si sarebbe mai permessa di sbandierare certi appetiti e la loro intimità davanti ad estranei, quando era restia e si vergognava di parlarne anche quando erano soli.
Subito le fu portata una gran tazza di caffelatte e tre cornetti, e poi un’altra tazza e altri tre cornetti, e così via e questo per altre tre volte mentre lei si massaggiava la pancia che si andava ad ingrossare. Si fece portare un abito più largo che s’era portato da casa quale dote assieme a dodici paia di lenzuola ricamate e ad un enorme recipiente, una sorta di grande tinozza rotonda, che si rivelò un enorme paiolo in rame da polenta. Per la seconda volta restò esterrefatto solo perché gli occhi spiritati della sua donna non gli avevano ancora spiegato quant’era cambiata dopo quella notte di sfrenati bagordi coniugali. Ma come avrebbe potuto? Era ancora in affanno (risate da parte dei presenti). Il poveretto aveva avuto solo il tempo per essere estremamente orgoglioso di sé e delle lenzuola macchiate, poi svuotato e privo di forze come se si fosse cimentato in una battaglia campale, ma era ancora certo che si trattasse di una sorta di inconveniente temporaneo ancorché passeggero.
La sua speranza doveva essere presto se non subito smentita. Decise di sacrificarsi per non esagerare e di rinunciare agli antipasti aggiungendo però: “Per ora”. Si mise comoda. Non chiese un tris di primi ma, per precauzione e per non essere fraintesa, tre primi abbondanti e altri tre brandendo una forchetta nella destra e una forchetta con la sinistra e ammettendo che non gradiva molto il brodo che non si mangia ma si beve con l’eccezione di un gran piatto di tortellini serviti quasi asciutti. Alla fine si lasciò andare an un altro soddisfatto e roboante ruttò. Lui era incredulo. Pulì le dita sulla tovaglia bianca, bevve a garganella tenendo sollevato il fiasco e sporgendosi sotto come ad una fontana e ammise che finalmente si cominciava a ragionare: “Ora passiamo ai secondi”. Esplicitò che non avrebbe disdegnato ma anzi gradito un po’ di carne preferibilmente al sangue o almeno poco cotta magari del buon rosbif all’inglese, anche un po’ di lesso e d’arrosto, per il pesce potevano ancora aspettare e soddisfatta nella sua richiesta si mise alacremente all’opera: “Ho proprio un po’ di appetito”.
Naturalmente pretese che le portate fossero accompagnate da insalatina fresca, un po’ di peperoni e pomodori, magari ripieni, cavolfiori gratinati e per l’arrosto patate anch’esse arrosto. Con l’ampio vestito ormai unto fino a non avere un lembo di stoffa del colore originale e che le saliva sopra le ginocchia lei batteva le mani, faceva svolazzare le dita e le unghie, si puliva le labbra col dorso della destra e subito accorrevano con altri piatti colmi di pietanze: “Mi sento come se non mangiassi da anni”. Lui si sentiva sazio e satollo al solo vedere quello che mangiava lei e il gusto con cui lo faceva. Le gote le si erano fatte rubizze, il ventre prominente, i seni pieni anzi abbondanti anzi straripanti come due enormi mousse o due meloni ma molto più che maturi. Ormai lui aveva perso il conto e non riusciva più a seguire la velocità con cui richiamava l’attenzione degli alacri servitori che accorrevano subito e con cui ingurgitava tutto quel ben di Dio che le veniva portato. Si preoccupò solo per la frazione di un attimo per quei poveri cuochi sudati ed in affanno in cucina e poi per le sue stesse finanze che anche se non meschine né irrisorie erano state messe alla prova dal banchetto nuziale ed ora dovevano fronteggiare quello di banchetto.
Pregò che gli fossero portate un pochine di salse per aggiungere ulteriore gusto ai piatti e non lesinava nell’aggiunta di condimenti grassi. Concesse che per andare bene andava bene ancora del rosso anche col pesce e volle provare il paiolo che aveva portato: una cernia, tre orate, degli sgombri e un nasello e una vera montagna di polenta gialla e un’altra di polenta bianca. Qualcuno corse in tutta fretta fino alla pescheria e in panificio; naturalmente tutto doveva essere accompagnato dal pane. Prima ancora di finire espresse il desiderio –ogni volta questa parola lo faceva inutilmente sobbalzare– per qualche polipo lesso e qualche calamaro ai ferri e perché no un generoso soutè di cozze e vongole e per quest’ultima, ma non ultima, portata succhiò avidamente e con soddisfazione anche il sugo di cottura inzuppandoci due sfilatini. Si frugo nel naso, sollevò l’urlo per liberare un silenzioso peto, si stropicciò gli occhi acquosi e implorò ancora una porzione abbondante di un salmone intero affumicato, anzi tre. Alla fine di quella mangiata senza fine espresse il desiderio di una breve paura– “Solo un attimo.” –che non durò che pochi secondi. Si soffiò il naso, sembrava felice e contenta e quasi soddisfatta. Ci pensò su e scacciò un ciuffo indispettita e ordinò che gli fossero portati e serviti un bel po’ di formaggi e salumi dalla dispensa che cominciava a mostrarsi desolatamente svuotata e ancora qualche bel fiasco vino buono.
Afferrò qua e là fette e fette e fette, ora gruviera, ora crudo, ora mozzarella di bufala, ora mortadella, ora dell’ottimo parmigiano e grana padano, per non tacere del salame, e le divorò senza tregua e distrattamente ingollò anche il servitore. Poi, non ancora del tutto soddisfatta chiese se era rimasta almeno una fettina di torta dal giorno prima e che gli fosse cambiato il vino con del frizzantino bianco dolce; andava bene anche quello che c’era in cantina ma meglio sarebbe stato se si fosse trattato di un prosecco di annata o anche dello spumantino. Poi chiese datteri e fichi secchi e noccioline americane ma oltre alla frutta secca pretese anche della frutta fresca e che non mancassero delle banane e un ananas che lei amava la frutta esotica. Per finire –proprio così disse– un buon caffettino, e per un po’ si assopì mentre tutti la guardavano e rumoreggiavano cercando di farlo sottovoce mentre lui cercava di non sentire i commenti e se ne stava muto a guardare quella che era stata per una sola notte la sua mogliettina, quel che rimaneva di quella giovane graziosa che era quasi una ragazzina, e inorridito l’enorme donnone in cui si era trasformata.
Quando si era ormai fatto il far della sera la giovane e innocente e casta sposina, con una mano a nascondere le labbra, gli sussurrò ad un orecchio brandendo una coscia di tacchino come fosse una spada che roteava sul capo degli instancabili ultimi invitati: “Avrei un po’ di appetito, caro”. Orai niente più lo poteva sorprendere e il tono della sua voce cercò solo di fingere lo stupore: “Ancora”? La giovane donna, che sembrava aumentata notevolmente in volume, in peso e persino in altezza, scoppiò in una sonora risata grassa: “No, stupidino. Cos’hai capito? Ho voglia di soddisfare quel appetito che viene ad una sposa quando è finalmente giunta l’ora di andare a letto”. Capito aveva capito arrossendosi in viso e non gli riusciva di inventare una scusa buona per trattenersi almeno un po’ se non per rinviare ad altra data quella nuova sfida in singolare tenzone quando la notte era ancora giovane. Si sentì sprofondare, ma il suo orgoglio di maschio la ebbe quasi presto vinta sulla sua completa mancanza di energie e, sistemandosi nelle brache, si alzò annunciando che allora potevano andare tentando così di accomiatarsi rendendosi il più invisibile possibile dai presenti; nelle estreme difficoltà ci sono sempre degli intrusi a rendere le cose ancora più complesse. Fece solo un’enorme fatica a sollevarsi da quello scranno.
Giunti nel talamo coniugale lui guardò il grande baldacchino e l’enorme letto ed ebbe un rigurgito soffocato di sazietà e di nausea che lo costrinse a correre al bagno dove si trattenne anche giusto il tempo di pensare per un bel po’ e cercare il coraggio che non riusciva a trovare. L’enorme donnone non era più la dolce mogliettina che aveva chiesto e a cui si era poi unito convolando rapidamente a più che fastose nozze. Tornato in grande imbarazzo lei lo squadrò, poi gli tirò giù i calzoni poi lo squadrò –non era al meglio ma sicuramente pensava di essere abbastanza all’altezza del compito– e non riuscì a fingere mostrando esplicitamente e apertamente in viso di rimanere estremamente delusa. Si sfilò la veste e si stese nel letto completamente nuda mostrando senza alcun podure quell’enorme ammasso di cicce e invitò in modo esplicito l’amante a prendere posto, a darsi da fare e, davanti agli occhi allibiti di quel che rimaneva del povero marito, ne ordinò altri tre.