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Archive for aprile 2017

labbra-giovaniQuel giorno non c’era nessuno con lui. Si era avvicinata e poi si era seduta al suo tavolino. Aveva una maglietta gonfia e orgogliosa. Una maglietta con delle stelle di brillantini. Capelli corti e un volto dove non riusciva a nascondere che i suoi anni migliori erano passati. Eppure aveva ancora quell’arroganza e quella sicurezza della gioventù. Di essere donna. E due occhi penetranti. Da mettere in imbarazzo. Perché poi? Ma gli era successo più d’una volta. Lei non aveva detto nulla. Si era limitata a cercare il suo sguardo.
Provava la vaga sensazione di averla già incontrata. Poi le solite cose quasi buttate là, banali Vieni spesso? Sì… cioè… vedo che spesso lei è a quel tavolino; sola. L’hai notato. Ora che mi ci fa pensare… Lei si compiacque Non sempre. Già! forse è vero. Perché del lei. Mi viene spontaneo. Vuoi dire…? Non la volevo offendere. Sei solo? Oggi sì! Volevo dire… Quelli erano affari suoi Separato, in attesaTutti aspettano qualcosa, qualcuno. Già! Lei sorrise e lui si guardò intorno Posso offrirle qualcosa? Non riesci a togliertelo dalla bocca. Mi riesce naturale.
Sapeva che lei, in precedenza, aveva fatto caso a lui. Non s’era mai chiesto il perché. Semplicemente s’era sentito osservato. Aveva sentito parlare, anzi sparlare, di quella donna. Non sapeva chi fosse e naturalmente come si chiamava. Aveva sentito dire che aveva due figli maschi, grandi. A dare ascolto alle chiacchiere della gente, anzi di Gualtiero, pareva che lei avesse partecipato anche a dei porno, amatoriali. Cose girate per il quartiere. Che avesse la fama di essere anche una brava, specialmente in rapporti orali. Certo era che prendeva il caffè a quello stesso bar. E rimaneva lì seduta a lungo, guardandosi torno.
Lui non era un cacciatore. Piuttosto si sarebbe definito una preda. La verità era che aspettava la sua grande occasione. Si limitava ad aspettare sognando ancora l’impossibile, il grande amore. Con sempre maggiore rassegnazione. Io prenderei un prosecco. Scusi, m’ero distratto. Alzò la mano per richiamare l’attenzione del cameriere. Perché non mi guardi mai negli occhi, li sfuggi? Frugò rapidamente nella sua testa, ma trovò solo la scusa più banale. Era semplicemente così. Lo faceva senza pensarci. Forse per un qualche strano disagio, con lei Veramente m’era sembrato che stesse arrivando qualcuno. Aspetti qualcuno? Non proprio. Lei si limitò a sorridere soddisfatta.
… Com’è Parigi? Come? Parigi, come ti è sembrata? Non credo di capire. Non sei andato a Parigi? Cosa sapeva o credeva di sapere quella donna di lui. Ed erano passati ormai un paio d’anni. Forse tre. Allora era ancora con Alda. O forse avrebbe dovuto chiamarla Samantha. Non sapeva niente Ahh! Veramente era Brest, Quimper e Brest. Sa, Prevert. Le bombe. No! lasciamo stare. Sempre Francia è. Non proprio, Bretagna.
Mise i soldi sul tavolo Devo andare. Devi proprio? Devo proprio. Peccato, è divertente parlare con te. E’ stato un piacere. Chi ti aspetta? Non erano affari suoi. Non si preoccupò di apparire sgarbato. Già! non lo aspettava nessuno. Si sentiva in tensione. Ne aveva abbastanza di chiacchiere. E Gualtiero non si era nemmeno fatto vedere. Forse era di turno. Forse in qualche avventura.
In seguito, senza motivo, avrebbe riavvolto più volte il nastro di quella conversazione, di tutto quel pomeriggio breve. E certe volte, stupidamente, aveva evitato quel bar. Non voleva sentirsi in una sorta di trappola, come quello che cerca di prevenire ogni domanda e se le aspetta sempre diverse per poi non trovare mai le risposte. Ma lei non era certo il tipo da farsi scoraggiare.
Poi un pomeriggio come gli altri, con la testa vuota e niente da fare. Mentre lei sorseggiava calma un martini e si portava l’oliva alle labbra Posso chiederle una cosa? Tieni ancora le distanze. E allora…? Tutto quello che vuoi. Mi chiedevo…? Ti hanno detto. Fu così che scoprì che quello che gli era stato confidato era proprio vero. Davanti alla porta del cesso degli uomini, di fianco al telefono a muro. Anche se a lui sembrava ancora così inverosimile. Nel frattempo aveva trovato casa.
Si ricordò di non averle nemmeno mai chiesto il suo nome. Se lo ricorderà per sempre. Tutto questo dopo di Alda, che forse avrebbe dovuto chiamare Samantha. E prima di incontrare Lidia.

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donna-libroAnche lei leggeva romanzi d’amore. Si sa come sono fatte le donne, se non c’è l’amore non è un romanzo. Spesso si faceva consigliare perché è facile dire, ma trovarli è un’altra cosa. Perché le librerie le facevano confusione. Meglio dall’edicolante. Ma non ce ne sono mai abbastanza. Perché le prime volte ne era stata delusa. Sembra che tutto sia amore. Anche i drammi di gelosia. Anche i grandi romanzi epici dove l’amore è solo di contorno, relegato in un angolo. Dove una donna guarda il suo uomo combattere e farsi sbranare dalle guerre. Lo guarda e lo aspetta. Ne condivide le pene. Lo vede eroe anche quando eroe non è. E’ già pronta al sacrificio, al sacrificio di perderlo. Perché questo è essere donna.
Poi ci sono anche quelli di lettere che non sono veri romanzi. Che sono amori tormentati. Almeno quasi sempre. Patire, partirò, partir bisogna. Lei che aspetta. Quando torni? Un bimbo piccolo che piange. La fatica di vivere. Il poco da mangiare. Vorrei essere là, ma… Il dovere. Delle ragioni più grandi. Cosa c’è di più grande? Più grande di un grande amore? Che cerca di sopravvivere anche a se stesso? Perché poi… Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Come può una donna avere la completa fiducia dell’amore? In quelle condizioni? Se lei a fatica deve vincere le tentazioni, e nemmeno sempre ci riesce, come può sopravvivere un uomo? Che coraggio può avere? Insomma l’amore diventava tutta una domanda. Ma perché l’amore deve essere sofferenza e rinuncia?
E gli amori tormentati. La vittima è quasi sempre donna. Perché la donna è preda. E quando ama lo fa senza riserve. Senza compromessi. Completamente. Per tutta la vita. E può perdonare tutto, purché sia per amore. E a volte è difficile. E a volte niente è troppo. Nessun sacrificio. Nessuna rinuncia. Si può persino non vedere. Non sentire. Raccontare agli altri un’altra storia. Una storia in cui è principessa, non domestica. Per fortuna che lei era stata fortunata. Ma quello che le mancava lo trovava in quelle pagine scritte da quegli autori così bravi e… sensibili. Aveva i piedi per terra, ma aveva anche bisogno di sognare. Che poi aveva anche quel nome. Insomma era nata e l’amore lo aveva già scritto sulla pelle. Anche se lei non sapeva lavorare a maglia.
Insomma lei li voleva d’amore amore. Magari anche con qualche odore forte, leggermente piccanti. Cioè d’amore e di passione. Non necessariamente, ma era meglio. Non volgari; no. Anche il sesso, per lei, era una cosa dell’anima. Il sesso andava suggerito. Descriverlo gli faceva perdere quella magia. Lo vanificava. Era da rozzi. Inibisce la fantasia. E lei voleva essere padrona della propria fantasia. Immaginare. E immaginarsi protagonista. La protagonista di quelle attenzioni. Cioè quando si scrive che si baciano non le interessava che le spiegassero in che modo. A seconda del momento, delle sue emozioni, riusciva a vederlo quel bacio. A provarlo. A provocarlo. Ad impadronirsene.
No! Anselmo non era bravo nemmeno in quello. Certo che nei romanzi è tutto un po’ esagerato. Lo deve essere. Nessuno cerca la noia nella lettura. Perché per lei non era mai stato proprio come per le protagoniste di quelle gesta. Cioè… non sapeva come dirlo. Nella vita è tutto più pacato, più controllato. Non si sfida una tempesta. Ecco… non si perde la testa. Forse è solo molto più semplice. La passione è più semplice. Se una potrebbe anche lasciarsi travolgere, lasciarsi andare, ci sono poi mille altre piccole ragioni per ritrovare il controllo. Soprattutto il momento dovrebbe essere lo stesso momento per due. E questo è impossibile. Se mai era successo, quando per lui era il momento, per lei era già passato o doveva ancora venire. Cioè non era il tempo o il luogo.
O una pensa alla cena o pensa a quello. Comunque nella vita di due tutto è amore. Anche la pazienza e l’impazienza di mettersi a tavola. Anche lui che legge il giornale. Anche la partita di calcio. La sua serata con gli amici. Anche aspettare. Anche la sua gelosia. Soprattutto quella. Anche una camicia stirata. Persino la bolletta della luce; perché lui la lasciava sempre accesa da per tutto. E le ciabatte in mezzo alla camera. E i calzini da lavare. E il tubetto del dentifricio aperto. Magari non tutto è romantico ma è quel tutto che è amore. Perché la vita in due non è mai veramente un romanzo. Anche se cerca di imitarlo. Chi mai direbbe certe frasi che si possono trovare solo scritte? A pensarci lui però non le aveva mai portato nemmeno un mazzo di fiori.
Magari sbagliava a credere troppo in quei romanzi. A fasciarsi la testa e a lasciarsi convincere. Magari l’amore non è sempre come in quelle pagine. Ma pensarlo era bello e le dava piacere.

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nonna-nipote-neonatoQuaranta due anni. Forse era presto. Non lo piaceva che glielo ricordassero. Era diventata nonna. Se glielo avessero chiesto non era pronta.
Susanna. Sei mesi. Un batufolo di tenerezza. Quando non frignava. Quando lo faceva, di strillare, era insopportabile. Sembrava non volere finirla mai. Per quanto la si dondolasse. Le si parlasse. Le si accarezzasse il pancino. Aveva provato anche con la tisana. Persino sciogliendo due pasticche sedative. Niente da fare. Era stata tentata di afferrare un cuscino.
Quella sera, quella sera maledetta, avevano deciso di andare al cinema; Claudio e Anna. Gliela avevano lasciata; Susanna. Senza nemmeno prendersi la briga di chiederglielo. Come se per lei fosse un dovere. Come se fare la nonna fosse un obbligo. E la piccola peste si era messa subito a sbraitare. Ogni attenzione sembrava vana. Pareva che sapesse che c’era solo lei. Di essere stata abbandonata da papà e mamma. Si disse di portare pazienza. Di sopportare. Cominciò a girare per le stanze. Non sapeva più cosa fare per calmarla. E la cena si era bruciata sul fuoco.
Fu così che, venendo pian piano meno la pazienza, prese un coltello e le tagliò la gola. Aveva le idee annebbiate. Non voleva più pensare. Quanto sangue poteva contenere una cosa tanto piccola. Ne succhiò un po’. Era dissetante. Aveva un sapore… buono. Il resto lo raccolse in alcune bottiglie, aveva intenzione di conservarlo. Del resto fece piccoli pezzi che ripose nella ghiacciaia. Tranne le guance che le servirono per quella cena che era andata in fumo. A lei bastava poco. Erano ormai le undici. Pulì tutto prima che tornassero. Poi ruppe una finestra. Rovesciò la poltrona. Un paio di soprammobili, compreso quel vaso da fiori che le piaceva tanto (con rammarico ne guardò i frammenti sparsi per il salotto). Sbatté per terra un paio di quadri. Sprimacciò i cuscini. Guardò il risultato di tutta quella sua laboriosità. Poteva andare, era stata brava, e chiamò i carabinieri.
Genitori e carabinieri arrivarono quasi insieme, come si fossero dati appuntamento. Si giustificò che stava guardando la televisione, però la bambina era buona. Si era addormentata subito. E anche lei aveva preso il sonno. Un sonno pesante. E poi quello era mascherato. Perché si trattava certamente di un uomo. E’ solo che le bugie hanno le gambe corte, proprio come le sue, e lo doveva sapere. La spiegazione di un rapimento perse presto di credibilità, di veridicità. E quelli, i maledetti carabinieri, presero a rovistare da per tutto. Mentre papà e mamma, che avevano lasciata da sola la loro bambina, si impegnavano ad interpretare nel modo più credibile possibile la disperazione. Basterebbe essere previdenti e pensarci prima alle cose.
Alla fine aprirono quella ghiacciaia. Cercò di inventare delle altre storie, su due piedi, ma quelli, i soliti carabinieri, sembravano non credere a niente. Nessuna giustificazione gli bastava. Fu così che fu tratta in arresto. Pensava si dicesse così. Non ne era certa. Era la prima volta. Fu tradotta in caserma. Chiusa in una stanza piccola e angusta. Una vera cella. Messa davanti al magistrato non le restò che ammettere la verità: «Dicevano tutti: Guarda com’è bella. Sarebbe da mangiare”». A lei non sembrava nemmeno così bella.

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crisi-lavoroLe cose son più facili a dirsi che farsi. Sembra la più semplice delle banalità. Forse per Lidia non era così. Erano tornati assieme. Era stato tutto come una favola. Come si fossero salutati la sera prima. La stessa bellezza. Si potrebbe dire la stessa passione. Forse anche di più. Erano più maturi. Più consapevoli. Ma lei aveva cominciato a sognare. Nella notte lui la lasciava. Ancora una volta. Cento volte. Come quella volta. In modo diverso ogni volta da quella volta. E lei si svegliava disperata. Sudata. In preda all’ansia. E lo cercava al suo fianco, tra le lenzuola. Sarebbe stata una pessima giornata. Dopo era sempre di cattivo umore. Irascibile. Non poteva farci niente. E quei sogni erano sempre più frequenti. Se di giorno le era stato facile, la notte non riusciva a scordarlo il suo tradimento. Si ripeteva e si ripeteva.
Teresa diceva che aveva fatto male a rimettersi con lui. Teresa diceva che era una sciocca a pensarci. Teresa diceva che i sogni non sono che un’immagine complessa della verità; ma non sono la verità. Teresa diceva che quelli, i sogni, non contano, sono solo fantasie; bizzarrie della mente. Teresa diceva questo e quello e lasciava libero sfogo alle parole, alle innumerevoli parole. Sempre così sicura di sé. Certa nei suoi fallimenti. Mille amori e nessun amore. Lei non sapeva che lei sapeva. Era stata anche Teresa una tra i suoi tanti tradimenti. Glieli avrebbe perdonati. Quello che non riusciva a perdonargli era che alla fine l’aveva lasciata; e il come. Almeno non riusciva a perdonarlo la notte, nei propri sogni. E lui le diceva che era una stupida. Che era stato il più grande sbaglio della sua vita. Che non si sarebbe ripetuto. Che aveva capito. Che era cambiato. Che aveva bisogno di lei. Che non sarebbe mai successo. Persino che l’amava.
In certi momenti le sembrava tutto vero. Tutto bello. Poi sognava quello. Non riusciva a liberarsene. Gli credeva ma non riusciva ad aver fiducia in lui. A sentirsi sicura. Protetta. Veramente non si era mai sentita protetta vicino a lui. Si era sempre sentita… precaria. Anche allora. E quel mattino si era svegliata più agitata delle altre volte. Aveva cominciato a radunare le sue cose. Cosa fai? Me ne vado. Cosa succede? Ti lascio. Non puoi farlo. Posso e lo faccio. Perché? Perché non posso vivere per sempre di questa paura. Ma io non ti lascio. Ma tu l’hai già fatto. E’ stato uno sbaglio; ti ho già chiesto scusa. No, è stato un incubo. Ti mancavo? Sì! mi mancavi. Ecco, vedi! Preferisco perderti che continuare ad aver paura di perderti.
Più ne parlava e meno era certa di quella decisione. Cominciava a sentirsi stupida. Con lui era sempre così. La rabboniva e poi ricominciava tutto. Lo vedeva distratto. Ora la guardava come si guarda una che straparla, che si lascia trascinare da un’isteria tutta al femminile. Che ha solo voglia di litigare solo per il gusto di litigare. Come se si fosse bruciata la cena e non sapesse come dare la colpa a qualcuno tranne che a se stessa. La guardava, insomma, in quel modo; incredulo. Mentre lei infilava gli abiti in una borsa Ma capisci quello che fai? A male estremoNon vedi che è una cosa stupida. Non posso più vivere con la paura di perderti. Era determinata, o almeno cercava di esserlo E’ una pazzia. Mai stata più lucida. Sapeva che lui le leggeva dentro. Cercava di nascondergli ogni incertezza. Si svuotava la testa e buttava tutto dentro alla rinfusa, disordinatamente. Forse avrebbe dovuto farlo prima. Forse nemmeno ricominciare. Doveva capirlo che una storia non più sopravvivere a se stessa. Ma lui sembrava tranquillo, non le credeva. Pensava che sarebbe bastato un abbraccio. E lei sarebbe scoppiata a piangere. Si sarebbe data tutte le colpe. Si sarebbe detta una stupida.
Quando uscì dalla porta non sapeva dove andare. Fu solo un attimo di panico. Non gli aveva lasciato il tempo per quell’abbraccio. Sapeva solo che non sarebbe tornata indietro. E aveva gli occhi gonfi di lacrime.

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darlin_maxresdefault-2-1Vi ho mai parlato di Africa, cioè di Augusta detta Africa? No! credo proprio di no; perché questa è un’altra storia. Una delle tante. Per chi non la conoscesse nel nostro complesso lei cantava e suonava il violino. Non era alta, questo si dice di chi è abbastanza piccolina. Piccolina e formosa, ma sapeva farsi apprezzare. Aveva il diavolo in corpo e nessun ritegno. Carnagione scusa, da questo quel soprannome. Lunghissime treccine e forme piene. Molto piene, abbondanti. E non cominciava mai un concerto senza averlo fatto, dopo essersi fatta un bel po’ d’erba. Lei diceva proprio come Janis. Ma così vanno le cose, o andavano allora. E noi dovevamo suonare al King’s Palace. E doveva venirci ad ascoltare un produttore.
Quella sera avevamo appuntamento nel furgone mentre gli altri continuavano con il Sound Check. Non che dovesse rimanere un segreto. Ma io la raggiunsi furtivamente. Era la mia occasione. Ero emozionato, Non solo per la serata. Ero preparato al meglio, al massimo, non a una delusione. Invece, con lei, avrei dovuto esserne pronto. Infatti lo stava già facendo con quello stronzo buono a nulla che avrebbe dovuto occuparsi solo delle luci. Mi stava su quel posto già da appena l’avevo visto. Per un attimo non si accorsero di me. Mi sentivo un imbecille. Poi lei mi guardò e mi sorrise con quel suo fare innocente come se fosse la cosa più naturale del mondo. Come se si stesse lavando i denti. Scusami un attimo. Sai… è solo che lui è arrivato. Mentre stavo aspettando. Non te la sei presa, vero? Magari ci… sentiamo dopo il concerto. E me ne uscii.
Non è stato il più bel concerto della nostra brevissima tournée. Ero distratto. Lei si era scordata di rimettersi le mutandine. Ero incazzato. Moisse aveva perso il tempo. Il piano aveva troppi tasti. Ad un certo punto le luci si erano spente. Fanculo, lo avevo detto che quel figlio… Dopo non avevo più un briciolo di energia. Lei aveva cercato di rabbonirmi, di consolarmi, facendomi vedere e giocare con le sue bocce. Già! da quando avevamo cominciato erano il successo maggiore e la cosa più gettonata di tutta la provincia. Forse è in un’occasione del genere che qualcuno ha coniato il detto che il tempo è d’oro. Ero fuori di me. In fondo la canzone era la mia.

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interno_di_un_sala_da_cinemaGiustino non si era fatto vedere. Pazienza. Si infilò in un cinema di seconda visione, forse anche di terza. Avrebbe mangiato un boccone più tardi.
Il film era già cominciato. Non c’erano che un paio di spettatori. Il cinema non esercita più il fascino di una volta. Ormai è come un abito passato di moda. Ci vanno quattro gatti. I disperati e gli sfigati. E quelli che come lei non sapevano come sprecare un paio d’ore. Però, nonostante fosse solo una piccola sala, le poltrone erano comode; in velluto rosso. Ci si sprofondò dentro.
Stava guardando distrattamente lo schermo, forse seccata dal mancato appuntamento, troppo presa da sé e da quello che le succedeva intorno. Perché non avrebbe dovuto pensarci anche una donna della sua età? Si accorse che aveva sbagliato sala. Che era una storia stupida e che per di più l’aveva già visto. Raccontava, o cercava di raccontare, di una cosa che veniva chissà da dove, da un altro mondo, e la cui attività consisteva nel cacciare. In particolare, cioè in quel caso, dare la caccia a uomini. Tutto era di una banalità incredibile. Ne aveva già abbastanza. Forse facevano di meglio in televisione. Si stava per alzare quando era entrato quel tipo.
Era entrato senza fare troppa attenzione a rispettare il silenzio. Si era seduto due file dietro. Poi si era guardato intorno. Poi aveva tossito. Poi si era alzato ed era andato a sedersi proprio di fianco a lei, alla sua sinistra. L’aveva guardata. Sapeva di fumo e di vino. Un odore forte. Da dare quasi la nausea. Lei frugò nella borsa. Si sentì tranquillizzata. Non aveva mai imparato a lavorare a maglia, ma portava sempre con sé un paio di ferri. Non si poteva mai sapere chi si poteva incontrare girando, magari nelle ore più tarde, per le strade di quel quartiere. Era pieno di disperati. E di immigrati.
Magari era un vezzo ridicolo, non aveva certo mai pensato al perché, che le potessero tornare utili, semplicemente le davano sicurezza. E cercò di tornare a cercare di guardare quello stupido film. Lui, il tipo, sembrava irrequieto. Faticava a stare fermo e tranquillo. Forse era proprio uno di quei disgraziati arrivati per cercare fortuna. Tornò a guardarla. Forse nel buio le aveva sorriso. Difficile da dirsi. Certo era che le aveva appoggiato una mano sul ginocchio. Poteva essere suo figlio. Forse aveva l’età di sua nipote. Cercò di mettere disprezzo nel suo sguardo e gli tolse la mano. La sala era buia, se non aveva potuto vedere i suoi occhi, lui non poteva comunque ignorare il suo netto rifiuto.
Per un po’, quell’individuo, si mise tranquillo, se così si può dire. L’odore da sgradevole era diventato insopportabile. Si stava per alzare per andarsene quando si sentì di nuovo, ancora, quella mano addosso. Non avrebbe voluto che le smagliasse le calze. Era completamente fuori di sé. Era decisa. Stava per toglierla seccata un’altra volta. Tentata di fare uno scandalo. Di protestare con la maschera. O alla cassa. Magari si mettevano in testa che era solo una povera donna isterica. Preferì restare in silenzio. Non fare niente. Non reagire. Come curiosa di vedere dove quello strano tipo voleva arrivare. In un cinema. Non le era mai capitato.
Lui la guardò. Forse ripeté quel sorriso e si mise comodo. Dopo pochi attimi quella mano cominciò a salire. Era proprio una cosa dell’altro mondo. Ma come si permetteva? Non era più una ragazzina. Era una donna matura. Con due figli e una nipote. Stava per gridargli i peggiori insulti che fosse riuscita a scovare. Si vergognò per lui. E per se stessa. Senza sapere perché, senza nessuna decisione, curiosa, lo lasciò fare, almeno finché non decise che non poteva lasciarlo andare oltre. Ormai quella mano aveva superato il nailon. Ormai le dita dello sconosciuto le stavano sfiorando le mutandine. Poteva capire la disperazione e la solitudine. Non erano affari suoi. Non era Santa Maria Goretti. Quello era troppo. E si sentiva rimescolare dentro. Non sapeva. Indignazione? Rabbia? Vergogna? Questo e quello? Forse un inizio di… Ne era provocata? Impossibile.
Gli tolse la mano e gli sputò addosso un sussurro: “Stai fermo”. Lui la guardò sorpreso e confuso. Le sorrise e tornò a mettersi comodo. Stravaccato sulle poltrona fino quasi a scomparire. In quel momento lei poté leggere tutto nei suoi occhi. Si guardò intorno controllando gli altri spettatori. Sembrava che tutti trattenessero il respiro. Decise di fare lei: “Faccio io”. Doveva essersi impazzita. Nemmeno lo conosceva. Ma era strano avere un uomo, e per di più giovane, tra le mani, dopo tanto tempo. Quasi le sembrava come la prima volta, di non esserne più capace, di non essere certa di sapere cosa fare. Irritata. All’inizio la cosa la intimidiva. Poi sempre meno. Ritrovò la vecchia sicurezza di sé.
Lei stessa non riusciva a crederci. Come aveva potuto infilarsi in quella situazione? Per di più in quella scomoda posizione? Sotto tutti i punti di vista. Si ricoprì le gambe. I suoi occhi fissavano lo schermo senza vederlo mentre proseguiva determinata. Si dava dell’idiota. Dava a quel tipo odioso dello stronzo. Mandava tutto e tutti a quel paese: “Ora ti faccio vedere io”. Anche quegli spettatori ignari che continuavano e guardare il cinema. Come se tutto intorno a loro fosse solo trama. Trama e finzione. “Vediamo se la smetti di importunare le povere donne, le signore”.
Era passato tanto tempo da quando aveva fatto una cosa del genere, ma si ricordava ancora bene cos’era un uomo. Certo. Non ci volevano studi. Non ci voleva un genio. Era quasi naturale. Com’era facile da capire che quel delinquente stava ormai per restare soddisfatto. Pareva beato e aveva chiuso gli occhi. Si limitava ad aspettare. Fu proprio all’ultimo momento che la sua mano tornò a frugare nella borsetta. Trovò il ferro. Lo afferrò con decisione e gli trapassò la gola con un colpo secco e netto. Lui emise solo una specie di singhiozzo. Poi, cosa strana, soffiò fuori la vita con un sibilo. Lei lo spinse distante prima che gli si afflosciasse sulla spalla. Si pulì le mano. Si guardò intorno nel silenzio più assoluto. Si alzò e si avviò.
Un tipo che faceva la fila alla cassa le chiese se era già finito. Lei rispose che non era certa ma non doveva mancare molto, e che comunque l’aveva già visto. In strada fu tentata di chiamare un taxi. Non sapeva se era ancora irritata o appagata. Non aveva molto appetito. Certo si sentiva stranamente stanca. Quasi esausta. Non ne capiva la ragione. Pensò stupidamente nemmeno un bacio. Le strade del suo quartiere erano sempre meno sicure. Preferì comunque prendere la metro.

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redcook_meatAda, questo mi sembra uno dei tuoi soliti capricci.
So solo che non posso più andare per strada con questi due cosi davanti.
Dopo quello scambio di battute le cose erano precipitate. Lui aveva deciso che questa volta non avrebbe ceduto. Lei che avrebbe tenuto duro costasse quello che doveva costare e smise di rivolgergli la parola. Poi prese a fargli piccoli dispetti. Non fargli trovare il giornale il mattino. Non portare più fuori il cane. Non fargli trovare la cena alla sera o abbondare sbadatamente con il troppo sale che già a lui la cucina Tex-Mex non riusciva a digerirla.
Non era passato nemmeno un mese da quando aveva deciso di farsi mussulmana. Si era giustificata dicendo che ormai erano gli unici italiani rimasti. A nulla era valso che lui con pazienza le spiegasse che quello era un quartiere multietnico, dove convivevano tranquillamente varie razze, ma che non frequentavano abitualmente nessun arabo. Era stata irremovibile, hijab e Ramadan compreso, e lui aveva dovuto impazzire finché non aveva scoperto che l’unica moschea era dall’altra parte della città.
Lui adorava l’anguilla ma purtroppo non era kasher. Che cavolo voleva dire? A ognuno la propria cucina e a dirla tutta lei come cuoca era proprio una frana, nonostante l’impegno che ci metteva, soprattutto nella teoria. Aveva riempito la casa di libri sulle varie cucine. A sentirla seguiva tutto alla lettera, ma alla fine qualcosa non andava. La teglia? Il forno elettrico? La freschezza degli alimenti? Il diavolo che ci mette la cosa? Il risultato era sempre e comunque un disastro. E lui non aveva nessuna intenzione di farsi circoncidere.
Per non parlare poi del periodo animista. Del periodo naturista. Del: Sarebbe bello… l’infibulazione è amore e pulizia. Ma mi fa paura. Di quello orientalista, buddista o induista o giainista che fosse, non aveva importanza. Del periodo avventista, per fortuna molto breve. Di quello metensomatosista o che diavolo era; in quei giorni si erano presi in casa quel maledetto cane senza razza né nome. Di quello evangelista. Zoroastrista o Zoroastrianesista che dir si voglia. Della sua infatuazione improvvisa per Schopenhauer. E del periodo intimista. Di quello surrealista. Di spiritualismo, sincretismo, sciamanesimo, esoterismo eccetera. E di tutti i suoi fugaci amori per tutti gli ismi. Voleva forse farlo impazzire? Forse fare semplicemente la casalinga non le bastava. Ma lui l’amava semplicemente per quello che era. Così come era.
Era grazie a Google che aveva tentato di capirla. Ora si era messa in testa di farsi ridurre drasticamente il suo meraviglioso e florido seno. Non c’era religione che glielo imponesse. Filosofia che glielo chiedesse. Era solo perché… Perché le dava imbarazzo. Perché le altre come lei erano pressoché piatte. Così magre. Così slanciate. Così nordiche. Così… intellettuali. Così mogli. Così… insomma così. E mille altri strampalati così. Nessuna nel quartiere né aveva altrettanto. Non devo nemmeno allattare. Non abbiamo figli e non voglio averne mai. La mia linea… Faceva storie per uscire di casa. Nemmeno il pane voleva andare a comprare. Che poi il pane è un vizio solo di noi italiani.
In realtà lui, Ma Mingyu[2], era venuto in Italia per un provino con il Ricco Barbone, ma non aveva sfondato per incomprensioni con l’allenatore, probabilmente dovute anche alla lingua. L’italiano era un idioma talmente complicato e con una scrittura così assurda, ancora non poteva affermare di destreggiarlo in modo sufficiente. Appena arrivato poi riusciva a spiegarsi a malapena a gesti. Ma con la palla ci sapeva fare. Non era bastato. Si era accontentato a fare il muratore.
Ancora non gli parlava. Lui glielo aveva ripetuto e spiegato in tutte le salse che era naturale: Le cinesi erano così, come le italiane erano così. Era normale che le cinesi fossero piccole e senza seno. Per le italiane, le mediterranee, era diverso e qualcuna, come lei, ne aveva un po’ di più; anzi un bel po’. Anche lui si poteva dire che aveva i pettorali incassati, cioè non li aveva proprio. Non gli sembrava di essere così esigente. Mica aveva chiesto una zuppa di chow chow. Possibile che non gli potesse preparare almeno una volta un semplice Hong Shao Rou[3]? Ormai era la signora Mingyu, Fernanda Mingyu detta Ada.

[1] Huihui qing: Blu islamico https://it.wikipedia.org/wiki/Porcellana_bianca_e_blu
[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Ma_Mingyu
[3] http://www.scattidigusto.it/2013/11/25/la-cucina-cinese-in-10-piatti-a-shanghai/

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istock_000058983098_small_1739825Pareva che Teresa, quelli giusti, li avesse trovati tutti lei. Certo che Teresa era una che si dava da fare e ci sapeva fare. Almeno da come la raccontava lei. Era piena di consigli e li elargiva a piene mani. Solo che di quei consigli non sapeva che farsene. Inutile dire dopo cosa si sarebbe potuto fare prima. E poi nemmeno a lei mancava la fantasia. Forse era la pratica a farle difetto. Le sue domande poi erano le banalità più scontate che le avessero potuto propinare. A volte anche imbarazzanti, altre solo banali. Eppure era la stessa Teresa a confermarle che a lei non mancava proprio niente. Se non ti amano vuol dire che non ti meritano.
Certo che gli aveva fatto notare come avesse le gambe lunghe, e le cosce sode. Certo che conosceva il linguaggio di un sorriso ammiccante. Certo… anche del sedere. Certo che sapeva essere provocante. E impaziente. O, se serviva, paziente. E farsi riservata. E farsi spudorata, cioè un po’ arrogante e un po’ impertinente. Ma anche, se era il caso, un po’ santa e un po’ quasi quasi non te la do. Poteva essere qualsiasi donna e tutte le donne Per me… fa lo stesso. Come vuoi. Visto che siamo qui. Non lo avrei mai immaginato. Certo che tu… Non ti credevo così… Non guardarmi con quegli occhi. Come ti sembro? Scusa, puoi abbassare la luce. Ma mi hai vista. Abbi pazienza. Per chi mi hai presa? Datti da fare. E quelle cose lì. Tutte le donne lo sanno. E’ solo che poi vai a pescare gli uomini che le capiscono. E trovare quelli giusti. E il momento giusto.
Forse era solo una questione di tempo e di tempi. Se uno non lo conosci proprio a fondo puoi fraintendere quello che si aspetta. Che tipo è. Mica poteva chiederglielo Che tipo sei? Come ti piace farlo? Non sarai mica uno di quelli? Non è che poi mi deludi? Sei un toro o un agnello? O un capone? E la prima volta è sempre fondamentale. Lui ti guarda e ti sembra impaziente. Tu lo guardi e ti pare che la pazienza non saprebbe bastarti mai. L’amore ha sempre mille sfumature. E lei non parlava di amore, si accontentava di una semplice e sana avventura. Non cercava niente di più.
Al dire di Teresa Spresiano era un vero gigante, un bronzo. Doveva essere particolarmente fortunata. Lei aveva incontrato solo normo-dotati, quando non mini-dotati. Certo che il ricordo storpia, ma quando aveva, come dire? incontrato Spresiano non le era parso nulla di che. Per dirla tutta più pelle che carne. Per Teresa le poppe erano tutto, erano il suo segreto. Ma lei, Teresa, le aveva abbondanti. E anche un po’ cadenti. E se tra loro si doveva posare uno sguardo era prima su di lei che si soffermava e si soffermava un attimo di più, con maggiore interesse. Solo che spesso si soffermava solo quello sguardo. Il proprietario non riusciva a trovare le parole, il coraggio. Si allontanava con la sua voglia silenziosa. E la coda tra le gambe.
A sentire Teresa bastava essere disinibite. Cosa vuol dire? Si ha un bel dire disinibita quando nessuno cerca nemmeno di attentare alla tua virtù. Quando uno sguardo da pesce lesso resta solo lo sguardo di un pesce lesso. E te ne stai lì ad aspettare l’occasione e mastichi aria e l’occasione continua a farsi aspettare. Non ci sono più gli uomini di una volta. Dov’è finito il maschio cacciatore? A raccontare fantasiose rodomontate. A berselo corretto. A parlare di sport e di quella che lui chiama politica. A farsi lo spritz. A distogliere lo sguardo se lo guardi. Se incrocia i tuoi occhi. Se ti si scopre un po’ di gamba. Se si accorge che te ne sei accorta. Se ha ammirato troppo a lungo, secondo il fesso, la tua maglietta. Come se potesse darti fastidio. Come se un complimento potesse essere non apprezzato.
E’ stato allora che ho detto a Teresa vai a fartelo fare da un bassotto e pelo corto. Che mi sono alzata e l’ho raggiunto al suo tavolo Posso dirti due parole trascinandolo via dagli amici. Scusa, come ti chiami? Veramente… io mi chiamo veramente… Salvatore; perché? Salvatore, ho visto come mi guardavi. Credo si stia sbagliando; io mica la guardavo. Certo che lo facevi. Mi deve credere. Ti è piaciuto quello che hai... Non vorrei essereInsomma, se ne hai voglia allora abbiamo voglia in due. Non credo di capire. Certo che capisci, intendo… sì, insomma… scopare? Dice sul serio. Certo, solo una scopata. E’ che ioFacciamo in fretta. Una sveltina. Una botta e via. E’ solo che devo prendere il pullman. E si è alzato. Soddisfatto. Soddisfatto di che?
Non era male Salvatore. Non sarebbe stato male. Ero certa che ci stesse ripensando. Spettinandosi i capelli. Ma appena si era allontanato era giù una storia chiusa. Se si può definite una storia. E sono tornata da Teresa Sei ancora qua? Dove volevi che andassi? Non dire che non te l’avevo detto. E allora? Hai visto anche tu. Cosa? Allora nisba. Perché? Che ne so? Mica potevo dirle che aveva appuntamento con un pullman. Lei aveva riso. Gli uomini restano un mistero. Se anche trovano il coraggio solitamente non hanno neanche niente da nascondere. Puoi aspettarti che ti riempiano di parole. Sei un’illusa ad attenderti anche dei fatti. E’ una storia già scritta: gli uomini che incontri sono sempre gli uomini delle altre.

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istock_000058983098_small_1739825Ogni uomo è diverso ma alla fine sono tutti uguali. Anche se ogni uomo ama le cose che ama. Forse non la donna. Forse quello che la donna gli può dare. Forse quel momento che in quel momento sembra speciale. Unico. Forse quel finto rischio. Forse un po’ di apprensione. Ma se pensava agli uomini della sua vita, anche a quelli che l’avevano attraversata per quel breve istante, soprattutto a quelli, le prendeva una sorta di malinconia. Anche un po’ di malumore. Continuava a non capirli.
Claudio era la certezza, il porto in cui si poteva rifugiare. Non aveva certo molta fantasia e gli anni avevano cancellato anche quel briciolo di mistero. Però non dovevano chiedersi nulla. Anche se era come mangiare dalla vaschetta uscita dal microonde. A lui diceva tutto, o quasi. Ma lui era suo marito. Forse era stata solo una sua illusione pensare che per qualche motivo o con qualcuno la cosa sarebbe cambiata.
Il divano di Samuele non era stato la cosa più comoda in cui si fosse… dimenata. Avrebbe potuto enumerare le molle che l’avevano distratta. E non aveva mai capito se c’era stato quel briciolo di passione o se era solo erba buona. Ma lui era un ragazzo e nemmeno lei poteva dire di essere molto esperta in cose di… cuore; allora.
Giuseppe tutto casa e chiesa aveva creduto di incontrare una santa. Non era stato sfiorato dal dubbio che il piacere non avesse bisogno di una morale. Non ci si può lasciare andare completamente con uno che ti mostra le foto della famiglia. In silenzio gli aveva detto quello che si meritava.
No! di Matteo avrebbe potuto serbare un buon ricordo, anzi almeno un paio, se ricordava bene. Assolutamente niente di cui lagnarsi, tutt’altro. Non che lei fosse una che dava i voti, ma se lo fosse stata avrebbe meritato un ottimo. Si era veramente impegnato. Nemmeno con le parole si era limitato. Pareva veramente preso. Ed era uno da rendere orgogliosa una donna fin dal primo sguardo. Non fosse stata sposata avrebbe pensato che si potevano rivedere.
Con Corrado non era stato nemmeno sesso. Se n’era andata insoddisfatta. Lo aveva preso in mano mentre recitavano le formazioni, e le aveva sporcato il vestito prima ancora che l’arbitro fischiasse l’inizio della partita. Non le era mai capitato di destare così poco interesse. Di farlo guardando il quadro appeso al muro e pensando che il giorno seguente doveva andare dalla parrucchiera. Una cosa che nemmeno alle superiori.
Per Filippo non ci sarebbe stato niente da fare probabilmente nemmeno se ce l’avesse avuta d’oro. Per provare lei ci aveva provato, testardamente, e messo energia. Aveva messo tutta se stessa e la sua stessa dignità. Non era nemmeno un uomo. Se l’era quasi slogato il polso. Era morto che più morto non si può nemmeno dopo gli olii santi. Avrebbe voluto anticipare il ritorno a casa, ma ormai avevano affittato per tre giorni e due notti. E cosa avrebbe detto Claudio vedendola rientrare in anticipo da quel… convegno.
A Lucio concedeva l’alibi del momento e del posto, e di tutta quell’etichetta. Se non fosse stato per quello si era dimostrato uno zero assoluto. La cintura che non si slacciava. La lampo che non scendeva. La cravatta che lo soffocava. Tutte scuse. In qualsiasi altro momento ne avrebbe riso, come aveva fatto quando aveva raccontato l’accaduto ad Annalisa, ma solo a lei. Sul momento era riuscita solo che a sentirsi offesa e infuriata. Umiliata. I suoi complimenti alla sposa erano stati uno sputo di commiserazione, per quella poveretta.
Con Francesco, scossa dal treno, aveva dovuto chinarsi, davanti a lui, come fosse un dio, e fargli un lavoretto di fino di labbra. Diversamente avrebbe potuto annusare quel tanfo per tutta la tratta dalle Alpi alla Sicilia. Forse aveva bisogno del suo tempo, ma non c’era donna al mondo a poter avere tutto quel tempo. E nemmeno era questo granché. Era più chiacchere che sostanza. Non si poteva certo dire che era stata fortunata.
Con Gianluca niente di che ma nemmeno niente di cui lamentarsi. La sua parte l’aveva fatta, ma era come se lei non ci fosse. Si era sentita un oggetto. Una vera noia. Si dava da fare, con ritmo ed energia, come se fosse un obbligo, se dovesse dimostrare. Sotto c’era lei ma poteva esserci qualsiasi altra donna, uomo o anche solo il materasso. Alla fine era rimasta sorpresa che non le avesse messo in mano anche il suo biglietto da visita.
Già di Stefano nemmeno varrebbe la pena parlarne. La cosa più emozionante e eccitante che aveva fatto era stato dirle vengo subito. Come una minaccia lasciata al vento. Forse non avrebbe nemmeno dovuto citarlo in quei suoi pochi e sparsi ricordi di quello strano giorno in cui aveva voluto ricordare; per noia e per pigrizia, di quelli che chiamava i suoi amori. Al diavolo lui e tutti quelli come lui. Per fortuna che con il postino, per finire, si era stancata prima lei. Non sembrava mai soddisfatto, dio sia ringraziato. Da non crederci. E gli aveva pure dovuto dirgli di no perché lei così non lo voleva fare. Aveva insistito. Lei non avrebbe mai ceduto. Però per un attimo aveva tentennato.
Messe cosi, in fila, come i grani del rosario, potevano sembrare tante. In realtà quelle esperienze sparse nel tempo erano quasi tutto il suo vissuto, la sua povera pratica. Forse non avrebbe incontrato mai il vero uomo. Quello che l’avrebbe fatta vibrare veramente. Forse avrebbe smesso di cercarlo. Gli uomini erano degli eterni bambini, guardavano golosi la parata dei dolcetti da dietro alla vetrina. Non sapevano più desiderare veramente. Si sentivano sicuri solo dietro quel vetro. E alla fine, per lo più, amavano solo se stessi e spesso anche male.
Non si dovrebbe mai dare ascolto alle chiacchiere. Soprattutto a quelle da bar. Dovrebbero aggiungere una santa al calendario, se già non l’hanno fatto: Santa Pazienza.

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istock_000058983098_small_1739825Non riusciva più a comprendere gli uomini. Cosa aveva che non andava?
Forse quella sensazione l’aveva provata per la prima volta con Samuele. Forse il sospetto le era nato fin da prima. Erano in salotto. In salotto da lui. Nella sua casa da studente. Gli altri erano fuori. Lui stava preparando una canna. Era bravo con le canne. Forse ne aveva bisogno. Forse solo con quelle. Lei intanto, nell’attesa, aveva cominciato a spogliarsi. Cosa stai facendo? Cosa ti sembra che sto facendo? Non me l’aspettavo. Era stata sincera Ora lo sai, e aspettare non è una delle mie maggiori virtù. Ma non vorraiCerto che vorrei. Voglio dire… fare… hai capito. Hai del vino rosso? Io sono astemio. Possiamo fare senza. E’ che non miNon sarai anche… spirituale? Credo nel karma. Io nella carne. Sarei vegetariano. Puoi fare una piccola eccezione, per me; se ti sfili i pantaloni. Poi veramente e finalmente non se lo era fatto ripetere due volte. Non troppo presto ma aveva capito.
Con Giuseppe stava filando tutto bene. Solo che a parlare gradevolmente da amici sembrava non stancarsi mai. Aveva guardato l’orologio e quello le aveva detto che era ora di smetterla, che anche la pazienza ha un limite. Così aveva dovuto farlo lei. Gli aveva detto andiamo da me? Avevano a loro disposizione un letto bello comodo. Non avrebbe avuto di che lagnarsi, per quello nemmeno lui, ma alla fine, con sua grande sorpresa, era scoppiato in lacrime. Io non volevo. Io amo Mirella. Io non sono Mirella, forse te ne sei accorto. Anche le bambine. Quasi lo avesse forzato. Guarda che è stata una cosa così, non è nemmeno una storia. Mi sembrava lo volessi anche tu. Solo che… non so che dire. Non serve dire. Non credi che dovremmo…? Basta che ti dai una mossa. Ti giuro… non l’avevo mai fatto. Tranquillo, finisce qui. Però è stato bello. Anzi è già finito. Ti posso chiamare? Rivederlo al lavoro non le aveva creato nessun imbarazzo.
Con Matteo avevano preso una stanza. Un posto un poco squallido e nemmeno molto pulito, ma tranquillo. E poi era vicino. Proprio quella sera non potevano andare da lei. Da lui era impossibile. La scusa era stata una pizza. Non aveva nemmeno troppa fantasia. Ancora una volta aveva dovuto prendere aspettare, temendo di mostrarsi troppo impaziente, scoprendo che non aveva nessuna fantasia. Se era per quello avrebbe continuato a guardarla, a parte qualche piccolo sfioramento che aveva cercato di far sembrare casuale. Era certa di interessargli. Poi aveva cominciato a fare lo sdolcinato. Le aveva preso la mano Quando ci possiamo rivedere? Non riusciva a crederci. Non avrebbe voluto mortificarlo. Avrebbe preferito evitare, ma era stata costretta e aveva dovuto deluderlo Guarda che… è solo una botta e via. Ma io credevoHai creduto male. Per te sono solo questo? Non ti sembra abbastanza? Forse era uno di quelli che se comincia un libro lo deve finire per forza, anche se non gli piace. Ma lei credeva di essergli piaciuta. Ne era certa.
Corrado aveva fatto tutto in fretta perché doveva vedere la partita. Con il telecomando già in mano. Poi avrebbe preteso che si fermasse a guardarla anche lei Ma è l’Italia! Chi se ne frega –avrebbe voluto rispondergli. Che la nazionale vincesse o perdesse non avrebbe cambiato la vita né a lui né a lei. Si limitò a raccontargli che doveva rientrare presto. Comunque non sarebbe potuta rimanere ancora per molto. Pazienza. Lo stronzo l’aveva lasciata andare da sola. Nemmeno aveva fatto cenno di riaccompagnarla. A quell’ora di notte. E dalla periferia. Si era vista costretta a farsi dare il costo del taxi, indispettita. Se l’avesse saputo… La sua macchina era rimasta in garage. Fortuna che con suo marito andava alla grande, anche perché lui non era tifoso di calcio. Sicuramente lo avrebbe trovato ancora sveglio. Si era già preparata la scusa pronta.
Filippo era sempre stato un signore, ma doveva essere un weekend, non un per sempre. Si era informata: il campionato era sospeso. Aveva preso due cose, lo stretto necessario. Le sembrava di essere stata chiara Ostia e poi chi s’è visto s’è visto. Dici sul serio? Ti va? Certo che mi va. Gli andava troppo o troppo poco. Così aveva fatto più volte cilecca Scusami, è la prima volta. Non mi è mai successo. Magari penseraiForse è quello che abbiamo mangiato. Bevuto. Forse non so e quelle cose lì. Non è mica la prima volta. Litanie simili ne aveva sentite molte. Faceva poca differenza. Sapeva solo che avevano sprecato due splendidi giorni di sole. Aveva alzato le spalle Fa niente; non ti preoccupare. Anche se non era del tutto vero. Forse l’impazienzaNon ci pensare. Magari la prossima voltaQuale prossima volta? Aveva chiuso anche con lui. Lo avrebbe fatto comunque.
Con Lucio non era andata meglio. Certo che al suo matrimonio non era il massimo. Né lo era così fra i cappotti degli invitati. Ma la sua novella mogliettina era tutta presa a farsi baciare e farsi dare gli auguri dagli ospiti. A ridere stridula e sguaiata dei loro complimenti, anche pesanti. Che poi nemmeno lei era una santarellina. La sentiva persino dove avevano trovato riparo Qui ci sono io; non pesare a lei. Non è semplice. Cerca di renderlo semplice. E se ci cercano? Hanno altro da fare, e qui non ci trova nessuno. Che dici, devo esserci per il brindisi? Nemmeno per lei era facile, si sentiva gonfia, forse aveva mangiato troppo, come in ogni matrimonio Allora sbrigati. Mi si è incastrata la lampo. Fanculo anche la lampo. Non so seHai deciso di fare il marito o la moglie? A volte la pazienza è un bene troppo prezioso per essere sprecato con troppa facilità. Aveva le tette fuori e a lui veniva da vomitare. Era rientrata furiosa senza aspettarlo, sistemandosi il vestito che le era costato un occhio.
Francesco l’aveva fatta sentire sporca. Non perché l’avevano fatto contro la parete nel bagno del treno che li portava a Latina. In un odore fetido e penetrante. Con la colonna sonora di uno sferragliare pigro e monotono. E la vista delle campagne che scivolavano tutte uguali. Da ragazza lo aveva fatto anche in una cinquecento. Glielo aveva detto. Cosa si credeva? Ne avevano avuto fretta, entrambi. Avevano rinunciato ad aspettare. Ma proprio in quel momento lui aveva rovinato tutto Credo di amarti. Non essere cretino. Sei bella. Nemmeno tu sei male. Dove siamo? Non fermarti. Ma io credevo. Non so tu ma io scendo una stazione prima. Tu vuoi dire…? Tesoro, prendo la pillola. Allora non provi proprio niente? No! Cioè sì! è semplice, mi piace solo farlo. Così semplice da sembrare persino banale. Aveva due occhi come se non gli riuscisse di capire. Eppure era stato lui ad invitarla.
Gianluca era fin troppo gentile e rispettoso. Aveva sistemato i pantaloni facendo attenzione alla piega. Parlava un italiano perfetto. Lui era davvero un professore che insegnava. Aveva cominciato con Posso permettermi una domanda? Poi con Ti spiace se prima avverto casa che ritardo? Poi ancora Solitamente preferisci a destra o a sinistra. Stava per continuare con Solitamente preferisci sopra o sotto. Non lo avrebbe sopportato. Non l’aveva lasciato finire. Vorrei solo fare una semplice e soddisfacente scopata. L’aveva guardata allibito. E per un secondo si era intimidito. Poi l’aveva lasciata fare. Lei aveva finto passione, ma la magia era già svanita. Il piacere le si era soffocato in gola. Sembrava uscito da un dizionario di bon ton. Attento persino a non sudare. E odorava di dopobarba come una di quelle. Per un attimo aveva temuto che fosse uno di quelli. Pensò che forse sarebbe stato più emozionante farlo con Claudio, suo marito.
Se era per Stefano lo avrebbero fatto solo al telefono. La tratteneva per ore. Forse era quello ad eccitarlo. Solo la sua voce. La distanza. Quel mezzo tra loro. Non aveva mai amato stare per ore ed ore a parlare con uno stupido apparecchio. Che dici: da me o da te? Vogliamo concludere? Vorrei ma c’è lei. Lei cosa? Lei! Voglio dire Lei. Ma siamo tra adulti. Ma gli adultiMa gli adulti lo fanno. Non vorreiNon può che farti bene. Allora come restiamo d’accordo? Ti aspetto. D’accordo. Bel tipo quel tipo. Era rimasta ad aspettare e nemmeno si era fatto vedere. E pensare che si era preparata già pronta. Che pensava che sarebbe stata una cosa speciale. Ma forse era lui che aveva suonato. Aveva aspettato fin troppo, per i suoi gusti. E aveva suonato prima il postino. Quello delle raccomandate. Lui non si era fatto tanto pregare. Il fatto era stato che, come detto, lei era già pronta. E stuzzicata.
Era probabile che il postino lo sapesse. Non si dovrebbe mai fare aspettare una donna. Proprio per dispetto lo aveva fatto richiamandolo e parlando con lui al cellulare ti ho aspettato. Ma io sonoOra è tardi, scusami. Possiamo vederci un’altra volta? Ora non ho tempo. Lasciami almeno spiegare. Non è il momento. Ma io credevo che tra noiTra noi un corno. Cosa vuoi dire? Lui ha suonato e quando ho aperto credevo fossi tu. E allora? Mi hai fatto fare una figura di merda. Cos’ho fatto? Sono venuta ad aprirti ed ero già tutta nuda, per te; riesci a capire? Non ne sono sicuro. Scusami, io sto venendo, tu vai pure dove vuoi. Restiamo amici? Gli amici non si fanno aspettare. Aveva finito, lui, quello stronzo, per darle della zoccola. Gli uomini sono tutti così, tutti uguali. Ma come si permetteva?
Proprio gli uomini non li capiva più. Non avrebbe saputo decidersi se era la decadenza del maschio o una crisi di civiltà.

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