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Posts Tagged ‘vita’

poesiaDa mesi      ormai da anni
mite            con gesti uguali
nell’incavo del ventre i suoi capelli
fatti si sono marmo     o pietra
eppure ancora declama     con tutta la sua foga
senza darsi tregua né respiro
i suoi versi di niente;
senza darsi tregua     né trarre un sospiro.
Ma     ecco il segretario nero
entrargli nel padiglione destro,
spolverare con cura
e     sui lobi s’alzano
le grigie nubi degli anni
(tacere non possono i suoi affanni)
così, quando esce, fra il pubblico
qualcuno sussurra     – solo qualcuno tace –
poi scuotono dai foulards le ombre
per asciugarsi gl’occhi.
Tutto ciò che li bagnava passa,
delicatamente, sul gesto incauto
che si fonde nella sera;
…col gesto antico delle voci
per farsi solo parsimonia.

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Un fremito percorse la platea.

poesiaE per ultimo si presentò Lui
l’artista che fa e disfà le tele
tendendole al sole d’ocra
e spargendo le tibie
impolverate     (di terra di siena
bruciata     dal torrido errore del viandante).
E per la terza volta inventò un verso il gallo
e bussò al pianto della madre secca
con cimbali di cristallo
poi lasciò trapassare
l’operosità della notte riscritta
sul prolungamento dell’universo noto.
i trenta denari erano sparsi al suolo
e lo spazio in quel mentre diventò tempo
nel marsupio del flanellato in terza fila
così che il profumo si sparse intorno
irritando i gioielli delle signore
e la gola della galleria: odor di naftalina.
La paura si vestì di nero
soffocò le prime guance distratte
e con scientifico cinismo sbatté
per terra un colpo
e lo fece seguire dalla pioggia.
Trascinava con sé tutti i suoi oggetti
e il suo stesso carro colmo
e fra le rughe un pettine di tartaruga,
tessuto dagli insetti del vento acido
sulle spalle un mantello buio
dove celava il pallottoliere pazzo
che colorato la materia (poi) additava
con generosità d’esteta.

Il vecchio quaderno con i fogli sgualciti,
quella lametta non ancora rugginita,
la sua prima rima
le parole gridate e sussurrate – a sé stesso –
la lampada opaca della notte
(infinita stanza d’universo)
sbadigli confusi a sospiri
pentole, padelle, mestoli e pendolini
nulla mancava né aveva dimenticato
il crocefisso di madreperla dell’abate bianco.
Vestì la nudità di parole
parole,     parole,     parole,
ma per quanto si coprisse     altro non seppe
che restare nudo lì, come ubriaco chino
e trarre di tasca     – dalla pietra –
due occhi:     li indossò lentamente,
con la stessa lentezza aprì la bocca
ne apparve un solco bruno     poi
restò ad ascoltare     ed in quella bocca,
fra i denti gialli,
risuonò un colpo di tosse     poi
il fragore immenso d’un sorriso.

Avanzò
si chinò per ringraziare
ma non riapparve più.

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poesiaEcco
sono arrivati i postini
bardati di nero e di rosso
con gran clamore – sono arrivati –
a vomitare il loro scatolame,
     frugando con le loro dita aguzze
     là     nella penombra;
ecco.     Fra rena e sterpi
     (cavalcando delfini d’argento
     e spaccando di spuma il mare imbronciato)
sono arrivati.
Scuotono nubi brontolanti
e hanno sorrisi di corallo e d’ossi di seppia
e      quando i cani gridano il mattino,
         e l’ombra s’allunga,
tastano      le ossa di cartapesta
                      fino alla cera dei bulbi
                      più affondo
                     con sete di tragico pathos;
hanno      curiosità di fanciulli
e                 occhi magnetici di vecchi
                    ma gelide mani di cristallo:
“e cosa c’è ora nella bisaccia
                    – cos’è restato –
                     se non il pallore del suo ventre”?

E’ vero
qualcosa t’han taciuto,
qualcosa che sembrava inopportuna,
un frammento,      una scoria;
la pergamena hanno arrotolato,
si son serviti di pieghe ed ombre,
hanno nascosto i libri e
scritto nell’aria muta.
Un vento,      forse solo una brezza
ha sperso intorno i pezzi,
con pinze le mani t’hanno sostituito
come rostri impacciati, per niente,
ed hanno stancato anche le tue ore quiete
battendo i loro scudi e armature,
di mura ti hanno circondato
e le mura più alte hai gravemente sofferto.
…e ancora gridano alibi possenti
come contro le onde scosse di eterne rabbie.

Gli anelli incantati
che tintinnavano con la rugiada
ora tacciono
(poveri amori):
la stagione ne mitiga gli umori;…
speranza permane di messaggeri bianchi
pallidi come la luna d’aprile
con i rostri al vento
     e le labbra rosse      colme,
che scuotono le bianche ali sotto il petto
che di grida riempiano il cortile
     spezzino d’angoscia i muri e
     cancellino il sospetto
per poi      riprendere a volare.

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melaPerché? Ci sono persone che hanno sempre bisogno di sapere. Perché chiedersi troppi perché? Quella sera in via Mihail Bravu. Lungo quelle scale. Blocco… non ricordava il blocco. Era solo una ragazzina. Non era certo di capire. Quando era stato portato alla polizia non sapeva se sarebbe tornato. Aveva cercato di scherzare. Non aveva calze di seta con sé. Avevano frugato nella tasca sbagliata. Quante altre volte si era perso? Come su quel letto: “ferita da coltello”. Non serviva dottore. Lo sapeva da sé. E forse su quel letto d’ospedale era veramente morto. A Frederikshavn sotto un cielo senza nemmeno una stella. Possibile che nessuno, nemmeno lui, se ne fosse accorto? Era possibile? Allora chi era l’uomo che camminava nelle sue scarpe? E anche l’ultima volta che il cuore era impazzito. E quella volta non era stato per una donna. E su quel letto non aveva avuto più la forza di pensare ad una donna. Ma non aveva smesso di sfidare la sorte. Non aveva nulla da perdere. Camminando nel mondo si vive e si muore. Si gioca e si perde. E’ vero che se si muore da giovani non si invecchia mai? Strani pensieri può portare la sera. E ti portano via. Non aveva mai imparato ad amare. Non aveva più voluto amare. Come si chiamava? Aveva occhi enormi e un seno generoso. L’aveva spinta contro quel portone. Non si ricordava più il nome. Era ancora quel ragazzino. Ancora più ragazzino. Le luci alle finestre sembravano bugiarde e spiarli, curiose. Vorrei un letto che profumi di lillà – le diceva. E già pensava a tradirla. Eppure a tradire non aveva imparato mai. Era sempre stato l’unico interprete della sua vita. Ora era tornato. A che serviva un perché. Ma lei gli chiedeva un perché. Non capiva. Se erano ancora là. Lei non poteva capire quel suo bisogno di ricordare. Eppure era tornato. Lei lo aveva aspettato. Era tornato per lei. Sapeva che non lo aveva aspettato. Anche lui aveva vissuto. Sussurrato al buio e ferito. Avevano vissuto perché la vita aveva preteso il suo prezzo. Non si può aspettare sempre l’ombra di un rimorso. Di un ricordo. Semplicemente non si può aspettare. Ma nemmeno si può vivere senza passato. Era questo a condannarlo. Era quel vuoto che gli rodeva dentro. Non aveva mai trovato il coraggio di separarsi da quella lettera. Maledetti ragazzi che non vogliono diventare grandi mai.

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poesiaSenza accenno s’inizio
allora chiesero partecipazione
e scricchiola il legno (pigola)     sotto
e sopra     le mani     (scricchiolano)
mentre le unghie si son fatte stoffa
i capelli stoppa
e la stoffa     colori
e gli occhi buchi     – neri umori –
dove i ragni tessono la loro fantasia:
“Perché passero non l’hai voluta leggere
questa mia fantasia
dietro i vetri delle porte socchiuse
e le tende delle mie tempie”?

Chi l’ha messo in gabbia (?)
ora lo toglie     e lo ingoia in un sol atto;
“Passatemi il bicchiere degli anni”! ¹


1] Si continuano a pubblicare le poesie di una vecchia raccolta di poesie di all’ora.

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poesiaVedere
ma non aver nulla da poter     dire,
la pioggia aveva tintinnato
e nell’erba giocato la gente.
Dov’è una taverna dove fermarsi
per poter annegare il proprio umore?
C’è una casa     alla fine del viottolo,
qualcuno che potrebbe starmi a sentire
forse addirittura un angolo vivo
come fra le mimose ero bimbo
un bimbo,     un’altalena;
forse tutta una città     già desta.
Io stesso     se voglio
posso rendermi conto     che
non è ancora sera.
Ma chino, scendo     coi miei panni,     vado
dove l’ombra soccorre il silenzio.

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Tempo fa, molto tempo fa, prima di me, prima che esistessi, e non ero invitato, un post in un blog: Gli uomini che cambiano. Già! i post stanno nei blog. Nemmeno sapevo che era, e se era ancora, e dov’era. Frutto dell’ignoranza, ma perché a mia insaputa se l’arte di non sapere era stata così ben coltivata. E cambiare perché e come. Impegnarsi in una domanda impegnativa; una sfida. Mi piacciono le sfide soprattutto quando sono inutili e mostrano la loro inutilità. Io ero bambino e già avevo paura di essere uomo. Ora vorrei che Lei, lei che ha tre nomi ma ne conosco uno solo, Sì! Lei che ha tre nomi: uno per essere, uno per raccontarsi e uno per essere con gli altri, proprio Lei, raccontasse ancora la stessa storia. Le storie non sono mai uguali. Basta distrarsi un attimo e qualcuno o qualcosa te le riscrive. Il fatto è che quando ami sei solo.

Le donne non cambiano:
Per le strade della vita
ho camminato ragazzino
e mi sarei accontentato
di un amore piccolino
e lei donna era un mistero
che alla mia curiosità
rinfacciava in ogni istante
la mia gran stupidità
l’impazienza delle cose mi legava ad un sospiro
e davanti ad un saluto già sentivo che morivo
E ti mancano le parole
quando hai quell’età
quando vivi, corri e sogni
ma vorresti restar là
E’ l’amore che ti grida
dentro il petto la sua sfida, ancora
continuando a camminare
sotto a quel balcone
aspettando che si spenga
anche l’ultimo lampione
E avrei anche cambiato
il ragazzo ch’era in me
ma ero stato incatenato
dai miei stupidi perché
E non era ancora donna
e già sognava di andar via
senza nemmeno una parola
né almeno una bugia
Esser donna è esser sola
con quel grido che ti sale
prepotente dentro in gola
ancora, esser donna è una bugia
mentre vai per una strada non più mia
Perché le donne sono così
Come un sogno o un’illusione
in cui speri che uno sguardo
frughi per ritrovarti ancora lì…

Sono quasi un ideale che non c’è
Sono quelle innamorate come te

 

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poesiaStrano mondo quello della poesia. O ti affascina, o ti inganna, o non prova nemmeno a parlarti. Qualcuno ancora si sorprende che ci siano stati uomini che con una mano hanno scritto versi e con l’altra hanno dato la morte. La gente continua a farsi sorprendere perché continua ad immaginare che l’uomo sia semplicemente quello che dice.
Non ci sarebbe bisogno di tante parole. Più che una poesia è un manifesto. Forse la poesia più conosciuta. Almeno per quel primo verso. Magari senza che se ne conoscesse l’autore. Un turco; sì! anche un turco può scrivere
poesia. Un comunista; sì! anche i comunisti possono scrivere poesie d’amore. Un uomo che ha pagato, per le sue idee, con ventotto anni di carcere e torture. Un uomo che nonostante tutto questo è tutt’ora tra noi per un libro che si intitola: Poesie d’amore.

Il più bello dei mari

di Nazim Hikmet

Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.

Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.

I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.

E quello
che vorrei dirti di più bello
non te l’ho ancora detto.

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poesiaEra un pessimo attore
anche come giullare
sbagliava le battute
mancava le entrate
ed era quasi sempre ubriaco
e ogni volta d’un vino diverso.
La voce era impastata.
Era un istrione
ma anche nella vita
restava un pessimo attore.

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varie2Sbattuto fuori dal sogno; all’improvviso. Già di suo il mattino è un avvento spesso difficile da affrontare. Quello del rientro al lavoro, poi, sfiora l’impresa. Non ti aspetti più il suono della sveglia. Te ne stai troppo bene sotto il tepore delle coperte. Lì, buono. Insomma. Spesso è proprio lei, la sveglia, a subirne le aggressive conseguenze. Anche solo perché abbranchi a vuoto l’aria per farla smettere. La palpi e non è lei. Le persiane degli occhi si rifiutano di alzarsi. Non ti aspetti nulla di buono. Offri il petto alla vita, ed è qui che inizia veramente il nuovo anno, come una coraggiosa impresa. Qualcuno ha qualche chilo da smaltire. Per qualcuno da smaltire è il giramento di palle delle feste; e non ha ancora riposto quelle appese. Per tutti è il risveglio.
Ti vesti frettolosamente perché fa ancora veramente freddo. Dormito male perché avevi un po’ d’ansia e un leggero senso di presagio. Se almeno la televisione ti liberasse dell’angoscia di sapere già cosa accadrà. Io, il futuro, vorrei vederlo con un minimo di sorpresa. Non amo sentirmelo spiattellare come quando ti leggono il palmo della mano. Mi sono sempre rifiutato. Guardi il cielo e lui ti guarda. Gli sguardi sono torvi, e diffidenti. Se almeno piovesse potresti consolarti denunciando i ladri, bestemmiando i soliti loro; invece nevica. Cade nevischio freddo e sottile. Nemmeno neve vera e propria, solo una sorta di farina sottile e ghiacciata. E scende sopra a quella che, causa il freddo polare, dalla notte in cui tirava le cuoia il vecchio anno, giace ancora lì, pericolosa, sulle strade; non ancora smaltita. Strato su strano, la patina sottile, aumenta in modo esponenziale il pericolo di rompersi le ossa.
Pare, dicono, i soliti informati, i mezzi di comunicazione, che in questa quindicina abbiamo recuperato trent’anni di disgelo. Vedi mai che a qualcuno viene in mente di ritirare su il muro. E quello non sarebbe nemmeno il peggio. Meglio non pensarci. Coi tempi che corrono (beh! insomma, arrancano). A tornare troppo indietro meglio non pensarci, che a qualche psiconano non monti ancor più la testa; la mania, e smania, di protagonismo. Ti ci piazzino sulla piazza qualche mausoleo. Che a piazza Venezia c’è ancora il balcone. Limitiamoci almeno a fare santo il Bettino; lui che nemmeno aveva un nome serio. Certo che noi, nel senso di italiani, non ci siamo mai voluti risparmiare nulla. E ad accendere la tele abbiamo proprio una bella orchestra. Sembra la pista di un circo surrealista, forse anche un po’ dada.
Esci con cautela. Sai già che ogni passo sarà goffo di un equilibrio precario, incerto, pericoloso. Incontro Violetta. Immobile. Intirizzita, nell’attesa di una corriera. Un sorriso impetuoso sotto il cappello floscio. Scappo in un ciao. Nemmeno ci provo. Nemmeno il tempo di abbracciarla per il cosiddetto anno nuovo. Peccato! Lei abbraccia bene. Ed è una cara ragazza. Cercare di fermarmi sarebbe stato troppo. Su questo nevischio i freni non frenano a dovere. Rischierei di essere l’oggetto delle risate. E poi l’ho riconosciuta all’ultimo. E’ buffa la vita: hanno aperto una pista di pattinaggio e subito ogni strada è divenuta, a sua volta, una pista di ghiaccio.
Infondo la vita è spesso un po’ come questa strada di questo inverno: sdrucciolosa. Meglio andarci cauti, non come sono solito. Ricordandosi di portarsi dietro l’ombrello. Nel mio caso quello che continuo a brandire, ad aprire e chiudere, è nuovo. Non è un regalo, me lo son preso da me. Il precedente è stato vittima di una delle bufere. E’ rimasto sul campo come un artiglio disperato. E’ diventato subito un bianco tragico volo interrotto. Come un grande gabbiano precipitato al suolo. Non ricordo più dov’ero rimasto. Meglio buttarla a ridere. Mi racconto una barzelletta, l’effetto è pessimo, la so già. E, nel frattempo, non c’è niente da fare perché i piedi si scongelino.
Bentornati nel presente.

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