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Posts Tagged ‘lui’

tazzina di caffèAlbeggiava. Il giorno chiaramente non nasceva ma cresceva da dietro quel bosco. Di là arrivavano rumori di un mattino che ancora non c’era. Un ululato fradicio e alcuni colpi secchi distanti che poi sparpagliavano pigramente i loro echi. La porta era aperta e tutto era stato fin troppo semplice. Sembrava assorta e assente quando la raggiunse. Lei guardava tutto con occhi spalancati colmi di meraviglia e di sorpresa. Era sempre come se vedesse ogni cosa per la prima volta. Lo sapeva anche se gli dava le spalle. Mise un ceppo a crepitare sulla fiamma. Fino ad allora era parso che lei non avesse minimamente sentito la sua presenza. Rimase dov’era ignorandolo. Forse nemmeno la interessava la curiosità di controllare chi fosse. Aveva una maglia bianca molto morbida col collo alto. Sapeva solo che il freddo dell’inverno si era insinuato sotto la lana. Lui sapeva che non doveva chiedersi troppo e non voleva interrompere quel silenzio. L’odore del caffè era ancora nella stanza. Le cinse le spalle e la sua mano scivolò sotto la maglia a cercarle il cuore. Non lo sentì, era probabile che Emilia non avesse un cuore, ma ne aveva due deliziose; non troppo esuberanti (come tutto di lei) ma di buona fattura. Si sfilò la maglia da sola e sospirò cercandolo. Erano quegli occhi, tondi e sgranati a mettere un po’ in soggezione: Aristide si chiese se erano di compiacimento o di delusione. Smise di porsi domande e di seguire il percorso dei propri pensieri. Ci sono di quei giorni in cui la cautela sarebbe un ottima compagna.

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tazzina di caffèIo lo conoscevo bene. Era un uomo intelligente e molto riflessivo e aperto e tollerante ma come molti, anche tra le persone indubbiamente pensanti, si credeva portatore di principi; nel suo caso si trattava della controversa teoria della logica. Quando incontrò Annelise cercò di nasconderlo anche a se stesso, fin dal primo istante, che in quel rapporto, che lui inseguiva, non c’era un briciolo di posto per il buonsenso. In realtà la giovane donna, straniera per madre, non era che lo specchio di quella contraddizione, oltre a restare un amore impossibile. Erano piccole incrostazioni ideologiche sedimentatesi col tempo, quelle che vengono definite verità. Poteva lui amare senza essere riamato? Amare la donna di un altro? Non si pose il problema di che cos’è una verità nella sua lotta col dubbio. Il dubbio uccide quella che viene comunemente definita verità. Senza il dubbio quella verità era troppo simile ad un atto di fede e lui era un non credente. Si immaginò alcune lettere indirizzate a lei e cercò di non porsi angustie anche se lei era evidentemente più colta e intelligente di lui, tanto da dargli soggezione. Chiese il suo parere su dove fosse meglio far passare quella dannata strada ovvero se tagliando una parte di bosco secolare o confiscando quel vecchio mulino in rovina. Superò qualsiasi dubbio consapevole che in qualunque luogo avessero posto il tracciato di quella strada avrebbero scontentato gli uni e lasciato indifferenti gli altri, ma si doveva fare e poi ne aveva parlato tanto per parlare. Decise che quella strada avrebbe rappresentato progresso per la sua cittadina e che avrebbe potuto amarla se lei si fosse lasciata amare.

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tazzina di caffèEgregio signor autore. Con questa mia la prego umilmente di limitarsi e tenere a freno le sue fantasie stilistiche attenendosi il più scrupolosamente possibile ad una costruzione corretta delle frasi (soggetto, predicato verbale, complemento oggetto, eventuali altri complementi), il che renderebbe di più semplice lettura i periodi e l’intero testo, ma soprattutto di essere più aderente ai fatti. Io non so se spedirò mai questa mia. Fatti, appunto: quel mattino era un freddo particolare e stava finendo la legna. Io me ne stavo sotto le coperte impigrita in quel tepore e con nessuna voglia di alzarmi per accendere la stufa. Anche, perché no, salvaguardando la sua semplice banalità. La giornata fuori metteva malinconia. Sono andata al bagno perché non ne potevo fare a meno e il freddo mi era entrato dentro. Così, tornando, sono scivolata sotto le coperte semplicemente alla ricerca di quel calore. (Le cose vanno perché debbono andare). Era come uno scherzo anche nei reciproci sorrisi. Erano solo coccole, innocenti coccole, ma si fa presto a scaldarsi in due e anche il pigiama faceva caldo. Il mio pigiama di pile con gli orsetti. Senza pensarci l’ho tolto e sono tornata a rifugiarmi in quel tenero abbraccio. Il pudore mi vieta di andare oltre come farebbe certamente il suo amore per il pettegolezzo ma non c’era nessuna malizia; almeno nelle mie intenzioni. Il male, semmai, viene dopo. Forse fu il suo troppo entusiasmo a svegliare Gianferdinando. Ora come ora non saprei proprio cosa dire. Se non si fosse destato non sarebbe successo niente e invece, ormai, è successo. Ora che hanno portato la legna mi sento più sicura e non succede tutti i giorni di svegliarsi in un mattino in cui fa un freddo così particolare. Dico solo che non è una buona ragione per andarsene e che non è nemmeno una scusa sufficiente per portarmi il caffè a letto.

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pittura con tecnica mista su cartone telatoLei, lui e l’altro. Ogni nero inizia così. Lei un po’ svampita. Battiti ravvicinati e impazziti gli occhi in eterna fuga. Niente di nuovo in quella mattina. Il sogno di una donna senza fantasia. Tacchi a spillo per sospendersi nelle smanie frugando il vuoto con attenta competenza: non aveva nulla da aggiungere. Lui, il vero lui, era caduto giù spinto già morto. Il treno delle diciassette era arrivato in ritardo ma lui, cioè l’altro, era arrivato puntuale. Era stata una piccola stazione persa di nebbia e pioggia polverosa. Un grigio che comprendeva cielo, case e tutto; pioggia compresa. Ciò che doveva essere fatto era stato fatto. Lui le aveva assicurato un futuro anche dopo ma il loro amore eterno si era infranto in un attimo. Cristallo in un gioco troppo ambizioso: il tempo. Giusto il tempo di uno sguardo azzurro. Gli sembrava di non averla mai vista. Non l’aveva mai conosciuta. Ed era pure tutto bagnato. La vita della donna era diventata appesa a quel filo, parole su carta. Lei, piena di profumo, nella sua nudità indossava un’aria ostentatamente fatale. In quella piccola stanza a tempo era andata incurante alla finestra e dalla finestra aveva guardato fuori: la giornata era rimasta la medesima ma s’era fatta sera. Nessuno la poteva vedere. I giornali l’avrebbero saputo il giorno dopo. Un’altra macchina stava parcheggiando. Un brivido la percorse. Tutto come in un vecchio film. Persino quella voce che sembrava provenire da fuori campo. L’altro, l’assicuratore, si appoggiò sul gomito: “Torna qui sotto, vicino a me, perché da viva sei un gran bel donnino, ma da morta costeresti alla compagnia una fortuna”. La fortuna aveva smesso di mettere naso a questa storia.

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Cazzo cioè cavolo, arrivo per accorgermi che si son persi le valigie. Non ho con me nemmeno lo spazzolino ne un paio di mutande di ricambio. Scendo all’albergo e mi dicono che non hanno nessuna prenotazione. Provo a telefonare senza beccare la linea. Aspetto al bar mentre prendo un caffè e butto un occhio alle ultime sul giornale. Quando comincia non smette mai e le strade sono il primo posto da evitare. Mi dicono con rincrescimento che hanno solo una singola, spetterebbe a me ma, da cavaliere, la cedo alla mia compagna di viaggio. Mi dice di chiamarsi Nadia e insiste perché per una notte possiamo anche accomodarci se io le prometto… La lascio insistere, sempre per quel fattore della cortesia, ma alla fine accetto. Le cedo il passo e ho un’ulteriore conferma che non aveva nessun bisogno di insistere e mi risparmia delle promesse. Lei preferisce la destra e io gliela cedo volentieri. Siamo entrambi stanchi per il lungo viaggio. Si mette un pigiama a fiori e se lo fa togliere davanti al frigo bar. Se ne resta lì vestita solo di un velo invisibile di pudicizia. Nel periodo dei monsoni è facile scambiare il giorno per la notte, la pioggia sembra non smettere mai e il giorno avere fin troppe ore. Cerco di dimenticare e di far trascorrere ad entrambi la maggior parte di questa maledetta stagione. Quando spengo la luce fuori è sempre quello stesso grigio, il colore non si da pena di spiegare se è alba o pomeriggio. Mi sveglio come avessi dormito cent’anni e fuori piove ancora. La cerco vicino e non la trovo. Nel portafoglio c’è solo il mio bigliettino da visita. Sopra ci ha stampato le sue labbra con il rossetto.

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L’immagine

Lui aveva bisogno di amicizia per tornare a sentirsi vivo. Lei aveva bisogno di nemici senza parsimonia per continuare a vivere. La rabbia, dentro di lei, diventava furore e, come lo è sempre la rabbia, scomposta.
Per lui capire diventava un esercizio complesso e privo di intrighi; si era solo affacciato alla soglia. L’ascoltava in silenzio, dopo l’allenamento di una vita, consapevole che qualsiasi cosa avesse detto tutto sarebbe stato incapace di mutare: ci sono uomini e donne che si guardano allo specchio credendo di ammirare una fede.

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L’altro che viveva nel suo corpo si era guardato allo specchio senza notare alcuna differenza. Ancora non lo sapeva, oppure non si era reso completamente conto. Non voleva. Sarebbero bastati pochi attimi. Quando lo aveva messo alla porta si era sentito morire. Così aveva creduto. Proprio di morire. Aveva provato persino una specie di dolore fisico. Di mancanza di respiro. Prima di asfissia. Poi una pressione sul petto. E aveva ricordato. A pensarci tutto appariva così strano.
Si era svegliato il mattino seguente guardandosi intorno. Lo ricordava nitidamente. Ai muri erano appese brutte stampe, probabilmente ricavate da qualche rivista; sbiadite. Non c’erano i suoi quadri. Non c’erano nemmeno i suoi libri. A guardare meglio non c’era nemmeno la libreria. Al loro posto un intonaco screpolato e muffito, scandalosamente nudo. Assurdamente bianco, come un bagliore iridescente ed irriverente; che accecava. E c’era invece la televisione. Quel televisore piccolo senza telecomando che era rimasto acceso. Non avevano mai voluto il televisore in camera. Già! non era casa sua. Non ci voleva molto a capirlo. Solo che si era appena svegliato. Era ancora in precario equilibrio con la notte, anche se fuori il mattino di giugno era fin troppo chiaro. Ma lui era ancora in precario equilibrio con quell’onirico e con l’illusione. Non aveva fatto caso, quello no! che accanto al lui, nel letto, non c’era la sua presenza. Ma era da tempo, da molto tempo, da quando ancora c’era che non c’era. Non c’era veramente. Si rintanò comunque nel suo angolo. La cosa non funzionava più.
Si era acceso una sigaretta. Nessuno avrebbe avuto da ridire. Niente gli impediva di fumare in quella stanza. Addirittura a letto. Stanza? Casa? Non lo era. Non la sentiva come una casa. Non certo sua. Era solo un buco. Un buco destinato inevitabilmente a stargli sulle palle, anche se provvisorio, perché gli avrebbe ricordato. E lui non voleva; non voleva ricordare. E cercava di mettere ordine nella sua mente. Aveva l’impressione di non riuscirci. Di non fare troppi progressi. Ma il peggio era stata la prima notte. Aveva rimandato il possibile prima di rientrare. Strano verbo per descrive il gesto di chiudersi dietro la porta di un appartamento nel quale era entrato per la prima volta solo quel pomeriggio di disperazione. Aveva preferito cenare fuori che mettersi ad improvvisare una cena senza voglia. Magari mettere due wurstel sul fuoco. Impanare un petto di pollo. Era rientrato e si era messo a letto credendo di dormire. Il buio gli aveva messo paura. Quel silenzio. Una strana paura. Continuava a dirsi che non aveva più l’età per temere il buio. Si ripeteva che lui non era mai stato il tipo da aver paura. O almeno non ricordava l’ultima volta. Era passato troppo tempo che rammentarsene. Si era alzato a farsi il tè ormai consapevole che sarebbe stata una notte lunga e senza riposo. Girando su e giù per quei pochi metri quadrati. Andando alla finestra. Eppure era stata una fortuna trovare almeno quello. Almeno aveva un letto; per quando duro ma un letto. Poi, dopo innumerevoli tentativi, s’era assopito che già faceva chiaro.
Da quei ricordi non erano passati che pochi giorni, ma sembravano una vita intera. Si era abituato presto a tutto. Fin troppo in fretta. Non gli sembrava vero. Era stato fin troppo occupato da tutte le cose che doveva fare. Tutto era un’emergenza. Aveva dovuto fissare le maniglie dell’armadio perché non gli rimanessero in mano. Quel mini arredato era privo di tutto. Persino dello scovolino da bagno. Persino dello stretto necessario. C’era una pentola invalida d’un manico, ma nemmeno un tegame. Due bicchieri due. La tazza per il caffelatte del mattino se l’era fatta prestare. Il calendario appeso risaliva a due anni prima. La luce del frigo era spenta, e quel frigo versava acqua su quel linoleum e c’era finito dentro. E poi, dal primo momento libero, si era tuffato negli acquisti. Metodicamente. E quello gli aveva impegnato la mente. Era per quello che non ci aveva pensato prima. Doveva ordinare i mobili per quell’altro mini; quello che sarebbe stato suo dopo il rogito. Certo non aveva capito quella fretta. Tanti anni assieme e poi anche un giorno in più era stato troppo. No! non la riusciva proprio a capire. Aveva dovuto ricomprare quasi tutto. Stoviglie, bicchieri, tovaglie, lenzuola; gli sembrava di non aver scordato nulla. Eppure, a pensarci, doveva ammettere che era stata anche generosa. A volte va anche peggio. Solitamente va anche molto peggio. Lei invece gli aveva dato la sua parte del loro vecchio appartamento. La sua parte di una stima fatta da lei. Gli era bastata assieme al mutuo. Cosa contava il resto. Era finalmente fuori. Fuori da quell’incubo. Eccola la verità. Davanti ai suoi occhi. All’improvviso. Un attimo prima si sentiva perso. Un attimo dopo, passata quella porta, aveva provato uno strano senso di liberazione. Come quello di un passato che si lasciava definitivamente alle spalle. Di cui si liberava. Che restava dietro quell’uscio che si chiudeva. Anche se ne restavano imprigionati tutti i suoi ricordi. Ma quelli, i ricordi, avevano smesso di fargli del male. E in quei giorni, in cui non aveva avuto il tempo di riflettere, si era occupato solo di sè. Aveva dovuto fare tutto da solo, come non faceva da quando era ragazzo, cioè da prima, forse da quando s’erano sposati. E aveva dovuto farlo facendo attenzione anche alla più piccola spesa.
Ora non aveva più nemmeno una foto, era come non fosse mai esistito prima di quel giorno. Come non fosse mai esistito nulla. Eppure si sentiva inaspettatamente bene. Assopito in un senso di leggerezza, di soffusa soddisfazione. Persino di appagamento. Le cose che aveva acquistato erano ancora imballate. Era vissuto tutti quegli anni sotto l’ala di lei. Protetto. Lasciandole le scelte, almeno quelle vere. Quello che era successo l’aveva costretto a riprendersi la sua vita. A fare. A decidere; da solo. Non era certo quello che lei forse aveva pensato, e nemmeno lui l’avrebbe creduto, ma quella donna, con quel gesto, gli aveva restituito la vita. Era rinato. Si affacciò alla finestra per ringraziare lei e il mattino. Poi si accese una sigaretta e si affrettò per tornare la lavoro.

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Rossana Passo Rolle

«E magari vivere la stessa gioia e lo stesso smarrimento. Se ci penso mi fa un po’ di paura».
Ragazzi per sempre. Così lontani che sembravano formiche nell’infinito. Quel giorno c’era troppa neve intorno, dove nessuno sembrava esser passato, e vi affondavano i piedi, e il cielo era fin troppo azzurro di un azzurro imbarazzante, intenso. L’aria era naturalmente frizzante (gli sembrava banale). Così leggera da poterla bere. E tutto era così immenso tanto da togliere il fiato. A cercarlo, un silenzio senza confini, non era difficile trovarlo. Tanto che ogni parola sembrava inutile. Anche le loro parole. Con tutto quello che avevano sperato di quel giorno. Di quel diario anche minimo in cui ogni piccolo istante pareva vita. Perché ad essere ragazzi è sempre così: ogni gesto sembra importante e irripetibile. Nessuno poteva immaginare che sarebbe stato per sempre. Nemmeno Rossana. Ma chi può immaginare e leggere già domani? A pensarci quello spazio faceva veramente anche un po’ paura. E tutto quello che non aveva mai provato. E le mani intirizzite da non sentire.
Aveva occhi di velluto facili a perdersi. Eppure occhi senza timore. Occhi che non sapevano nascondere. Glielo aveva detto Michele ma non era certa di sapere; non voleva farlo. Glielo aveva detto nel mentre aveva imparato a proprie spese cosa voleva dire perdersi dentro a due occhi così; così tersi come quel cielo. Nel mentre, senza farsi scorgere, le aveva rubato un sorriso per tenerlo per sempre tra le sue pagine. O solo il canto di un sorriso come in una illusione di prestigiatore. Perché quello accendeva, in quegl’occhi, una luce che non avrebbe potuto scordare. Una sconosciuta sicurezza; dei suoi avrebbe sfidato il mondo. Di questo gli amici che li amavano si amavano, ovvero imparavano a farlo. Lo avrebbero fatto per sempre, loro. Perché il tempo ha l’arroganza di poter rendere amari certi ricordi? Oppure di regalare dei rimpianti? Non di quei dubbi lei si riempiva alla vista ma solo di quell’azzurro. E i suoi pensieri correvano veloci e leggeri. Correvano come il vento e parevano quasi nemmeno esserci. E’ strano come quell’estraniarsi di se può dare un senso trasparente di libertà. Eppure trovarsi smarrita. Come si può, per un attimo, illudersi che la sera non verrà mai? Se poi ogni storia ha un inizio ed una fine. Ma quella non era nemmeno una storia. Troppo fragile, ancora: è già domani. «Come sarà? Non sarà». Eppure era vero: da quel paradiso non sarebbe mai più tornata. Non lei. Non la ragazza. Sperava solo che non potesse finire. Come era possibile non sentirsi confusa?
Lui si accese una sigaretta. Anche in quel gesto si sentì grande e padrone del mondo. Ma grande non era ancora mai stato. E appoggiò la testa sulla sua spalla. Niente di tutto quello che gli sta intorno aveva altro nome. Quei nomi non li sapeva e ripeteva nel silenzio solo quello di lei. E con gli occhi tornava a vagare impaziente senza trovare modo di fermarsi. Lì dove si può sentire anche il respiro perché non si sente altro rumore. Loro, per quel momento, hanno paura di interromperlo. Hanno paura persino della più piccola parola. Anche di un sì. Persino di un forse. E’ perciò che lei scrive quasi distante i loro nomi sulla neve, quasi a non volersene fare scorgere, con la punta di un dito; pudica. L’unghia graffia la pelle bianca stesa con cura sulla terra. Tutto il suo coraggio le si precipita dentro, ma lui lo sa. In quell’attimo è sicura che quella neve non si scioglierà. E’ solo quello che vuole. E’ solo il tempo che le duole. Non è il momento di pensarci. Di pensare ad altro. Non accetta nulla che possa essere, seppur vagamente, triste. Che non possa essere tutto. Vuole solo vivere. Ha paura di tradire la sua fiducia. E quel suo stesso sogno da ragazzina. O che lui glielo legga e se ne accorga. Di quella promessa che sente confondergli la testa. Come se non avesse passato e in realtà non lo ha, e non ha altri ricordi che quelle ore.
Quale leggerezza? Si ricorda che una promessa non c’è ancora mai stata. Eppure, nel silenzio anche quella, se la sono scambiata. Cuore di ragazza, ma era partita ragazza e ora che tornava si vedeva tornare donna. Lui aveva distratto dentro una canzone. La strada sarebbe certo scivolata nella noncuranza. Erano fatte d’altro le loro riflessioni. Quei piccoli timori. In realtà non stavano tornando. Era ancora una partenza. Le bastava di essere completamente padrona di tutto quel giorno per potersi credere padrona di tutta la sua vita. Perché allora tutta quella paura? Gridò con tutta la sua forza, ma in silenzio per non farsi sentire; e dalla volta si stacco un frammento di universo che si sarebbe portata per sempre nel cuore. E gridò senza pudore. E Michele capì che il nome di lei voleva dire tutte quelle cose. Ma il loro viaggio era appena cominciato. E il loro viaggiare era già finito. La prese tra le braccia non più come un uomo ma come un cucciolo. Com’è facile sognare. Non era più lei. I suoi occhi non erano più due occhi, erano cielo, erano laghi profondi, erano occhi che sapevano. Niente era come prima. Da allora sarebbero vissuti dentro la foto scattata di nascosto da un amico che sapeva. Lui si sentì svuotare e perdersi, ma era bello perdersi tra le braccia di lei. Sognare assieme; da costa a costa per una libertà che non può essere. Il mago del tempo stipulò un patto con uno strano calendario dove tutto era ordinato secondo un ordine conosciuto solo a lui. Gli anni erano semplici tessere di un domino. Scese dal pullman e nemmeno allora si accorse che lei era rimasta lì; del paesaggio. Tutto sarebbe rimasto per sempre prigioniero di quell’assoluto silenzio. I giovani non hanno le parole e quando le hanno sono le parole a fuggire da loro. E poi dicono che è facile. Ringraziò l’autista ma quello non capì perché. Si sarebbe ricordato solo molto più tardi: «e magari vivere la stessa gioia e lo stesso smarrimento. Se ci penso mi fa un po’ di paura».

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