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Posts Tagged ‘lettera’

tazzina di caffèL’avevano seppellito nella sua bandiera. Lo sapeva che non avrebbe avuto modo di esserne orgoglioso (avrebbe avuto di che esserlo) ma si dovrebbe rispettare sempre la volontà dei morti. Invece spesso non si fa e lui l’aveva detto “Non me ne frega un cazzo della fine delle ideologie. Che anche lui è un uomo. I miei polmoni sono quelli di uno che ha fumato da quando è nato. E povera Matilde…” –e non aveva voluto sentire ragione– “La ragione è per chi ha ancora tempo”. La sorella aveva sperato e cercato di dissuaderli fino all’ultimo ed oltre “Chissà dove finirà adesso? A tribolare come quando era qui.” –e si era segnata per sé e per lui una dozzina di volte; lei che non cedeva mai e finiva sempre quello che cominciava, ma lui il nero non lo voleva nemmeno da morto (nessun colore di nero). Dopo una vita di lavoro a suo figlio non aveva lasciato molto: i suoi libri, i suoi dischi e quelle parole “L’uomo non è nato servo.” –e a Oreste, quel figlio, ogni santo mese scadeva la rata del mutuo. Oreste ora era veramente solo e stanco come mai prima. Annamaria non poteva capire perché Annamaria era, come quasi tutte, una donna pratica. Lei non se ne faceva nulla delle parole quando si trattava di contare gli spiccioli. Non se ne voleva dar pace che lui non volesse liberarsi di tutte quelle vecchie carabattole per di più polverose.

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tazzina di caffèDelle città che non esistono alcune sono più che reali. Alcune sono speciali perché sono i posti dove ci si incontra più spesso e quelli in cui si vorrebbe sempre essere. E c’è sempre una lettera per farsi ricordare. E un calendario per contare i giorni. Ma tra un posto e l’altro ci sono le strade per raggiungerli. E alcuni posti sono destinati a non essere. Nemmeno a respirare. Così riprese il viaggio senza andare in nessun luogo. Dentro e fuori solo rumore lo sferragliare. Ma forse nemmeno quello. Un brontolio basso, continuo e sordo. Il vento spingeva le cose o erano solo gettate via dalla foga rapace di una velocità d’acciaio; testarda. Quando spuntava dal ventre della terra la luce improvvisa accecava. Intorno misere case e casamenti popolari. Di quell’abbandono sono fatte tutte le periferie. Uguali in ogni angolo di mondo. Un olmo potato con poca perizia e troppa avidità. Una camicia crocefissa ad un filo di nailon che si rassegna e nemmeno ormai si lamenta. L’oblò di una lavatrice che guarda curioso e poi si distrae. Una donna che sbatte alla finestra un tappeto liso di un colore stanco. Fili della luce che tagliano gli occhi. Mille cose uguali ovunque. Voci negate. Luce. Luce. Luce. Sbattuta come lampi. Mai immobile. Opaca. Abbagliante. Sul vetro lagrime secche. Ci si potrebbe immaginare un fochista che getta con foga il carbone. Era invece solo un meccano elettrico. Non gli sembrava esserci nulla di realmente umano. E lui aveva la consapevolezza d’essere fermo. Immobile in un attimo senza tempo. Il mondo correva alle sue spalle. Il controllore gli chiese il biglietto e lui frugò in tutte le tasche prima di trovarlo, stropicciato.

N. B. questo Blog era nato per contenere solo piccoli racconti, frammenti, prove di scrittura e di comunicazione. Col tempo s’è perso non solo il rispetto di un calendario ma s’è trovato ad ospitare altro. Non era nel progetto iniziale ma non si può sempre rispettare un’idea quando la realtà batte alle porte. Mi capita ultimamente di tanto in tanto di tornare al racconto puro. La cronaca mi incalza fin troppo spesso. E ce ne sarebbero da dire.

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tazzina di caffèEgregio signor autore. Con questa mia la prego umilmente di limitarsi e tenere a freno le sue fantasie stilistiche attenendosi il più scrupolosamente possibile ad una costruzione corretta delle frasi (soggetto, predicato verbale, complemento oggetto, eventuali altri complementi), il che renderebbe di più semplice lettura i periodi e l’intero testo, ma soprattutto di essere più aderente ai fatti. Io non so se spedirò mai questa mia. Fatti, appunto: quel mattino era un freddo particolare e stava finendo la legna. Io me ne stavo sotto le coperte impigrita in quel tepore e con nessuna voglia di alzarmi per accendere la stufa. Anche, perché no, salvaguardando la sua semplice banalità. La giornata fuori metteva malinconia. Sono andata al bagno perché non ne potevo fare a meno e il freddo mi era entrato dentro. Così, tornando, sono scivolata sotto le coperte semplicemente alla ricerca di quel calore. (Le cose vanno perché debbono andare). Era come uno scherzo anche nei reciproci sorrisi. Erano solo coccole, innocenti coccole, ma si fa presto a scaldarsi in due e anche il pigiama faceva caldo. Il mio pigiama di pile con gli orsetti. Senza pensarci l’ho tolto e sono tornata a rifugiarmi in quel tenero abbraccio. Il pudore mi vieta di andare oltre come farebbe certamente il suo amore per il pettegolezzo ma non c’era nessuna malizia; almeno nelle mie intenzioni. Il male, semmai, viene dopo. Forse fu il suo troppo entusiasmo a svegliare Gianferdinando. Ora come ora non saprei proprio cosa dire. Se non si fosse destato non sarebbe successo niente e invece, ormai, è successo. Ora che hanno portato la legna mi sento più sicura e non succede tutti i giorni di svegliarsi in un mattino in cui fa un freddo così particolare. Dico solo che non è una buona ragione per andarsene e che non è nemmeno una scusa sufficiente per portarmi il caffè a letto.

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Fu solo a seguito di quel profondo e sordo rancore, per altro non completamente giustificato, che imparò ad amarla di quella sorta d’amore che é profonda conoscenza. Come lo si é per i luoghi consueti era stato poco più che gentile nei suoi confronti; ma certo estraneo.
A volte si divide tutto, o quasi, tranne che il pasto, senza scambiarsi niente, senza tradirsi né concedere niente di sé. Siamo viaggiatori distratti di noi come del mondo e cerchiamo comunque, mantenendo l’ossessione della perdita. E distratto era stato. Di lei ormai cosa restava?
Così pensava Dario e la sera era prossima. Non gli era rimasto che un alone d’inchiostro attorno alle unghie.¹


1] scritto il 21 aprile 1991

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Si sentiva strana, una sorta di disagio. Una cosa che non conosceva. Non era certa di sapere. E in fondo non era nulla. Come un piccolo malumore; un’insoddisfazione. Forse stava diventando metereopatica. Appunto, qualcosa dovuta al tempo. Niente di cui preoccuparsi. Ma forse non al tempo meteorologico. Al tempo che passava. A quel tempo che non aveva delicatezze. Ne ebbe sospetto guardandosi allo specchio. Eppure lei era sempre stata pratica. A quello non poteva farci niente.
Lo vedeva da sé. Lo specchio glielo gridava senza riguardi. Stava invecchiando. Non ci poteva fare niente. A quello non c’è soluzione. Non c’è ribellione. Certo non era mai stata brava ad accettare. Ma a quello si era rassegnata da subito. Non aveva nemmeno provato ad opporvisi. Tutt’altro.
La verità era che era stata bella. Molto bella. Corteggiata. Molto corteggiata. A volte aveva pensato che fosse non solo per quello. A volte s’era illusa. Non s’era mai illusa. E si era accorta che gli uomini non si giravano più. Che la guardavano in modo diverso. Anzi che non la vedevano. E anche lui non la guardava più come allora. Ma da allora era passato un’infinità di tempo. Tutto quel tempo. Si era accettata senza nessuna fatica.
La verità era che se n’era accorta immediatamente. Non aveva nemmeno tentato di fingere. Le prime rughe non avevano potuto farle del male. Era tutto naturale; anzi. Aveva cominciato a ingrassare. Ne era quasi stata contenta. Lui era geloso. Molto geloso. Lei pensava che la vita le sarebbe stata meno difficile. Che si sarebbe potuta nascondere dietro quella maturità. Che gli occhi che non la guardavano avrebbe reso più semplice il loro amore. Avrebbero attenuato la gelosia di lui. Se ci pensava non era cambiato nulla. Tutto era rimasto uguale, solo che lei non era più quella. Ora era una donna invecchiata. Di qualcosa si pentiva. E per la prima volta s’era accorta che non erano invecchiati allo stesso modo.
Forse la causa era stata che aveva amato. Molto amato. Ma in fondo non si era mai abbastanza amata. Non aveva fatto nulla per essere bella. Non aveva tentato nulla per non sfiorire. Per limitare i danni degli anni. Per rimandare. Almeno per attenuare quell’incuria. Era sempre vissuta con la certezza del suo amore. Lui l’avrebbe amata per sempre. In fondo la amava da sempre. Eppure quelle piccole parole erano le stesse. Eppure avevano un altro suono. Doveva ammetterlo che avevano cominciato a farle male. Niente di grave, di irreparabile. Anche in quel caso non ci aveva prestato attenzione. Non aveva voluto farlo. Si era data della stupida. Lui aveva accettato quella donna invecchiata. L’amava anche così. L’aveva accettata anche ingrassata. Ne parlava. Le sue erano solo fisime. Era solo una impressione che avesse meno attenzioni, meno tenerezze. L’amore non è solo un atto fisico. Non guarda solo alle apparenze; all’involucro. Lei lo avrebbe amato comunque.
Sarebbe stato bello poter pensare che era lui, lo specchio, quello che mentiva. Provò a lasciarsi sognare. Certo vanitosa lo era stata, ma solo un po’. In fondo chi non lo è? A volte quelle attenzioni la infastidivano. A volte spesso. Ma ora si rendeva conto che era normale. Che una ragazza, una donna giovane non può farne a meno. Improvvisamente avrebbe voluto che tornassero a guardarla. Che tutto il mondo la guardasse. Con occhi interessati. Le sembrò tanto tempo che lui non le diceva che era bella. Troppo tempo dall’ultima volta. Era certa di sbagliarsi. Andò con la memoria. Si accorse di non ricordarlo. Si rispose che non sono cose importanti. Che è per quello che non si memorizzano. Troppe volte glielo aveva detto. Troppe volte le aveva ripetuto il suo amore. La verità era che lui aveva sempre preso ma dato poco. Ci pensava per la prima volta.
Probabilmente era solo colpa di una giornata nuvolosa. Di quel giorno a casa. Non era mai stata brava ad aspettare. Avrebbe voluto fare qualcosa. Era troppo tardi. I chili messi in più, i tanti chili non se ne volevano più andare. Quella ragazza, quella donna non esisteva più. La sua figura era decisamente imponente, appesantita. L’avrebbe rotto quello specchio. Gli girò le spalle per non farlo. La giornata era cominciata male e così era proseguita. Avrebbe voluto gridare. Lui stava per arrivare. Era inutile parlarne. Non l’avrebbe capita. Avrebbe detto ancora una volta che era solo una sciocca. Che rincorreva fantasmi. Le sue cose. L’avrebbe ricordata questa giornata. Le emozioni, le paure, i sentimenti, gli stati d’animo. Se la stava ripetendo per l’ennesima volta. E più ci pensava e più diventava una ossessione. Quante erano le volte in cui l’aveva rivisitata? Aveva solo voglia di piangere. E poi aveva trovato quella lettera.

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E intorno solo mare. Annegarsi di birra e di rum al primo porto. A scaricare la rabbia sulla prima parola. Aspettare una lettera che non arriva né può arrivare. Non scendi mai in quel porto. E allora tanto vale, cercare due braccia per nascondersi, lasciarsi consolare a poco prezzo cercando di illudersi. Gridano tutte le sirene. E poi cercare un nuovo imbarco, perché se lo hai fatto vuole dire che non puoi farne a meno, che non hai altra scelta, che è una condanna e un destino. Il mare.
La pelle seccata dal sale e incisa dal sole. Gli occhi arrossati a guardare sempre oltre e, per molti come me, a cercare di scordare. A cosa serve, qui, una storia? Mesi e anni di sole onde e schiume. Non una donna. Pioggia e notte. Vento e freddo che taglia in gola le parole. E solo mare intorno. Ma come fanno i marinai? Ed è di tutto questo vuoto che i ricordi si fanno enormi e indelebili.
Non è questa la fuga. Non è la vita più facile la vita del mare. E alla fine puoi contare solo sulle tue forze e sulle tue mani. Ti toglie tutto e quello che ti da ti sfugge tra le dita. Non rincorri le leggende, le senti solo raccontare; aspettando la notte. O mentre stavi aspettando un nuovo imbarco. E poi tutto intorno così immenso che lascia a volte senza fiato e altre senza speranze. Immenso persino il silenzio. Lì, a giocare con una voce più grande di te. Ed è allora che ti rifugi cantandoti una canzone. Perché per me c’era il fascino ma soprattutto non c’è nessuno che mi aspetta.
Siamo tutti una sola cosa. Tutti imprigionati in una stanza vuota, senza mura. Con la notte ch’è solo buio; quasi nero completo. Non fosse per le stelle, quando ci sono le stelle. E allora ti fermi a fissarle. E allora mi fermo a fissarle. E loro tacciono o si raccontano le poche cose che sanno dire. E se cerchi il sonno lo cerchi con fatica. E la fatica te lo toglie, il sonno. Sei troppo stanco per pensare, per sognare, per solamente dormire. E’ in quelle ore che prendo la penna. Che cerco di scrivere la lettera che non finirò mai. Una lettera che nessuno leggerà. E’ solo la stanchezza a guarirmi. Poi è solo perché i giorni sono sempre diversi e tutti uguali.
Di cosa è fatto il mare? Il mare è fatto di onde adulte, e delle sue infine storie. Chi si ricorda quella più alta? Ogni uomo sa dar spazio alla propria immaginazione e bara un po’ per essere ammirato. Come se fosse stata solo sua quell’onda. Se solo lui l’avesse cavalcata. Con la nave a vibrare come pronta a squassarsi sotto il peso e la furia degli elementi. E infine le tempeste. Quelle che ti spaccato il respiro nel petto e ti strappano le pupille. A cui resisti con solo la voglia di lasciarti andare. E ancora una volta ti senti solo davanti a quell’immane universo. Ad un vento senza rispetto che ti schiaffeggia e ti vuole trascinare con se. E lo vorresti. Vorresti lasciarti andare. E allo stesso tempo ne hai paura. Quella paura che non puoi e non vuoi ascoltare. Eppure ti parla; nitidamente. Ti reggi al cordame che ti strappa dalle mani la pelle. E tutta la pelle la raffica sembra volerti strappare.
E’ l’oceano Pacifico questo. Lo guardavo e mi faceva paura. Il comandante è un santo o un pazzo, non fa differenza. E’ semplicemente il messia; mentre rimpiangiamo già anche solo i fari di Cape Cod. Tutti noi siamo nelle sue mani. E’ allora che mi sono distratto per tornare a guardare il mio compagno. Lui scuote forte il bicchiere di cuoio; piccoli rumori secchi sbatacchiati. Poi lascia ruzzolare le ossa sul tavolato. Velocemente allora le ho sistemate come le avevo viste cadere quella sera. Non abbastanza velocemente perché non se ne accorga. Perché io ho una enorme memoria fotografica. Potrei tracciare una mappa precisa dopo aver solo scorto una costa per un attimo.
In quella sua maschera appare una sorta di sorriso. E in quel sorriso ne corregge una: “Dove hai imparato questo gioco”?
Provo una sorta di vergogna, come se potessi pretendere di ignorare il mio tentativo smascherato di barare: “Ti ho osservato mentre in taverna. Un uomo se la destina la propria fortuna”.
Improvvisamente c’è un grande tramestio intorno perché in quel momento un grido da prora avverte che è stato avvistato il mostro.

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Cara mamma e caro papà
So che qui mi leggerete. Ognuno per conto proprio. Ognuno a modo proprio. Per ritrovarmi in questo spazio incerto e ignoto che è la rete. Spero solo che non lo farete con occhi che sono solo occhi. E’ allora non posso che tranquillizzarvi. Certo qui è Africa. Qui è l’altro mondo.
Come saprete vi scrivo da questo “slum” della periferia di Nairobi, nella zona di Kasarani, a pochi chilometri a est di Kariobangi. Una città di 180.000 abitanti che non è nemmeno una città. Solo una banlieue; poco più. Il nome kikuyu “Korogocho” significa “confusione”. E quella “confusione” regna sovrana. Nemmeno qui, tra le baracche e la miseria, si è tutti uguali. Farete fatica a capire ma qui è ricco chi ha le scarpe; chi riesce a rubare un boccone di pane.
Vi scrivo affacciato ad una finestra con vista sulla vita e sulla sofferenza; sul volto più duro e avaro del dolore. Una finestra che non ha vetri che trattengano e così entrano tutti i rumori della strada e della disperazione. Non da una finestra normale. Da questa miseria inaudita che non lascia respiro. Per questi uomini che vivono ogni attimo della morte; nati solo per morire, come se fosse un semplice appuntamento. Padre Antonio è vicino a me. Niente mi ha mai insegnato altrettanto. E non ci sono parole bastanti.
Niente è come sembra e nulla pare vero. Di sangue e rabbia mi sento pervaso, ma non di sconfitta. Tra le tante lingue che si affollano i giovani bantu mi narrano lo swahili con le mani e gli occhi. E noi, per alcuni di loro, siamo l’unica speranza. Occhi immensi che hanno il pudore di dire grazie, occhi ancora orgogliosi, occhi che sanno inventarsi sorrisi meravigliosi. Siamo tutto e la loro patria e la loro casa e il loro riscatto. Non ho mai avuto tanto in cambio di così niente perché tutto non mi sembra abbastanza. E mi sento vigliacco e colpevole delle mie fortune. E mi sento immensamente grato del loro più piccolo gesto, anche del solo allungarmi una mano. Amo infinitamente questi piccoli guerrieri tristi. La collana di conchiglie che uno di loro mi ha regalato come fosse la cosa più preziosa. Il morso di pane che un altro ha spezzato; con le mani sporche.
Questo popolo non popolo che vive rifiutato nei rifiuti e tra i rifiuti. Se questa pare letteratura mi scuso; è solo vita. Vita che scorre e che noi non crediamo più. Il volto più duro della vita, dove persino la pietà è un bene troppo di lusso. Bisogna venire qui per conoscere la miseria. Dire non hanno niente qui vuol dire che non hanno proprio niente. Come faccio a spiegarvi? Non mi avete mai fatto mancare nulla. Io posso tornare; ho già in tasca il biglietto. Loro invece non possono che aspettare. Eppure qualcosa mi mancava. Forse proprio questi esseri umani d’ebano che sono stati guerrieri e sono solo ombre. Cercavo di capire. Cercavo non un uomo ma cosa, e quell’uomo l’ho cercato; in questi luoghi.
Cara mamma, non essere in apprensione per me. La notte ha i rumori della notte. Ti viene da stare sveglio ad ascoltarli. E’ come se tutto il mondo parlasse qui. E tutto ha un suo fascino, anche se lancinante. Sono loro stessi a proteggermi, da loro; da tutto. E’ qui che, davanti a tanto strazio, solo e nudo, mi sono sentito vivo come non sono mai stato tanto vivo, né altrettanto in compagnia. Io, così protetto, non sono mai stato abbastanza io. Spero riuscirete a capire.
Vostro figlio

Lettera più o meno immaginaria scritta per il blog Lettere al futuro, su incitazione di Ross, postata il 27 c.m.

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Caro Michele
bustaViaggio arduo il nostro; aspro. Nessuna distanza è più distante. E a ritrovarti, qui, così, non è certo facile. Ma non mi ero dimenticato. E’ solo che testardamente ho avuto da fare. Il tempo è quello che è. E poi rincorrere le persone distanti non è sempre un compito agevole. Ché poi è anche parlare tra due generazioni. Una che ha sognato. Una che ha smesso quel sogno e forse lo rimpiange; te ne chiedo scusa. Ma allora era tutto diverso, lo sai. Era come se la corsa non dovesse finire. C’era quella fretta. Nemmeno il tempo di pensare. E più niente è uguale. Nulla è come prima. Perché allora tornare? Forse perché non si può altro. Così sei rimasto lì, immobile, interdetto, ad aspettarmi. Ragazzo per sempre. Il giaccone lasciato a casa di un amico. La voglia di avventura a spingerti ancora avanti. Per illuderti che tutto sarebbe continuato. Per illuderti che ne saresti guarito. Di quei vent’anni non si guarisce più.
E io, oggi, ti parlo da padre a figlio. Mi sento strano nel ruolo. Tutto mi sembra strano. Io con quella finta saggezza che non si acquista, fatta di dimenticanza. Ho sempre avuto ritegno della confessione. Una sorta di timore per te. Per quello che ero stato. Per tutto quello che poteva giustificare. E l’ho confessato ad una figlia. Mai a me stesso. Oggi sono qui per farlo. Per parlare a quel figlio che non ho mai avuto e non sono mai stato. Io e te da soli, guardandoci, in un certo senso, in faccia. Per tracciare un bilancio inutile. Anche se tra le tante lettere non scritte anche questa poteva restare solo intenzione. Ma come è potuto succedere? Succede perché esistono le celebrazioni. Così il 9 ottobre di quarantadue anni fa veniva assassinato il Che. Proprio quell’ottobre; ricordi. Non puoi farlo. Allora eri un altro. Oggi lo so. Ma allora credevi che era successo qualcosa di importante, che avrebbe cambiato la tua vita. La rabbia si era fatta una compagna reale e scomoda. E la tua compagna sarebbe stata per tutta la vita. Nemmeno questo potevi saperlo. Almeno da questo credevi di poterti liberare. E’ singolare come invece sia stata compagna della tua vita, lei, veramente. Anche nella sua assenza. Anche nel suo addio e nonostante quello. E compagna nel senso più pieno del termine. Anche questo ora lo sai: quanto è arduo crescere e diventare uomo. Quanto si perde di sé. La differenza tra le parole e il fare. No! non c’era nessuna rivoluzione fuori dalla porta. Era solo rivolta. Per molto legata ad una età. Così hai cercato di mostrare che non eri più tu. Come io ho cercato di fingermi non più tuo padre.
Cerca di continuare a restare fuori dai pasticci, come hai sempre fatto, ma non mandare gli altri. Di troppi maestri è pieno il mondo. Io e te lo sappiamo che non ti sei nascosto. Ti ha nascosto lo scoprirti fragile e vulnerabile; forse. A vent’anni tutto sembra per sempre, l’ho sempre ricordato. E noi ad essere solo passanti distratti. O come davanti a quello specchio, e lo specchio deforma. Ti faceva padre. Mi fa figlio. Oggi amo l’amore che mai ho amato. Ma allora … A tratti le parole scappavano fin troppo leggere. E ci si sente eroi della propria vita. Perché a vent’anni tutto sembra facile. E a vent’anni non si pensa di poter invecchiare. Né di poter perdere. Basta un panino e via. Hai perso, ragazzo mio. Del cosa e quanto ho avuto tempo di riflettere per tutti questi anni. E poi ti ritrovo qui, tra i piedi. Come se nulla fosse passato. Come per uno slogan rimasto in gola. Allo stesso modo arrabbiato. Con te (oggi) e contro tutto. Ma più nulla è semplice come allora. E tutti siamo colpevoli. Anche colpevoli di averci mentito. Per difetto. Per troppa fiducia. Per arroganza. Nell’illusione. Riempiendoci gli occhi di speranze. Con lei hai guardato il mare; lei che oggi è con me. Non c’è più un libro. Per un viaggio mai intrapreso. Avevi una confusione che chiamavi ideali. E non conoscevi ancora il dolore. Il tuo. Quello a venire. Né l’amore. Non ti invidio i tuoi vent’anni. Forse tu puoi invidiare i miei sessanta e più.
Michele

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Cara Rossana
bustaOra come allora. Lettere che si inseguono. Che ci cercano. Questo siamo stati. Questo siamo ora. Ah! Le nostre canzoni. E anche quelle che non lo sono mai stateInutile spiegare a noi. Proprio a noiInutili le domande che chiedono e non vogliono risposte. E quelle che nemmeno chiedono. Inutili i giochi col tempo. Quelle carte della cabala. Il tempo non parla. Il tempo non insegna. Il tempo. E le sue cose. C’era un tempo. C’è sempre un tempo. E ti dici che non può essere più. E sai già che sarà ancora lo stesso. Perché non c’è un tempo che insegni. Né un tempo che ci difenda da noi. Il tempo è immobile mentre trascorre. Allora. Perché parlare ancora di allora? Perché noi siamo di quella materia e di quel passato. Perché pensiamo di venire da una qualche parte. Di avere un destino. Di andare in qualche luogo. Non accettiamo. Non ci rendiamo conto di essere immobili. Forse siamo solo delle pagine di un libro già scritto. Com’eravamo? Forse siamo solo noi capaci e incapaci di tradire noi stessi. E non ho bisogno di altri dubbi. So solo quello che sono. Che credo. Ora. Adesso. E più spesso siamo noi a non poter decidere. Così io non potevo non partire. Allora. «Non andare via». E la canzone, quella canzone, lo gridava con noi. Per noi. Dentro di noi. Ed era troppo presto. Doloroso e troppo presto. Doloroso di quel dolore che non si cancella. Doloroso in un abbraccio. Che ancora soffoca. Doloroso che nemmeno quell’abbraccio lo poteva lenire. Doloroso senza un vero addio. E tutto stava finendo. Si stava lentamente consumando. Ammalando. Un mondo intero. Si stava corrompendo. Lacrime le lacrime che annegavano i sogni. Che toglievano la luce. Che ci raccontavano oltre a quello che il pudore permetteva. Nel dolore. Nel pianto. Oltre ogni barriera. Più di quanto noi avremmo voluto. E testardi non volevamo mostrarle, quelle lacrime. Le abbiamo pagate. E abbiamo pagato la nostra ignoranza. E la nostra arroganza. Dove tutto si paga. Nel silenzio. Nel vuoto. Ancora. E ancora.
E poi una vita si può raccontare in una infinità di modi. Dire “non sapevo”. Fingere di non aver saputo. O semplicemente di non voler capire. Leggere i minuti da soli. Dialogare di niente. Cercare un alibi. Perché siamo solo distratti viandanti. E non abbiamo mai smesso di parlarci. Nemmeno quando lo facevamo nel silenzio. Non certo quando il dolore si cangiava di rabbia. Non quando ancora potevamo guardarci negli occhi. Non quando il suono di ogni parola si tingeva in una offesa. Suonava di rancore. Ci strappava la pelle a brandelli. La mia rabbia. Il tuo torto. Il torto di aver creduto. Creduto troppo. Di esserti lasciata ingannare. E non volerlo ammettere. Tradire lentamente. Di piccoli frammenti quasi insignificanti. Di sillabe. Di ammiccamenti. Di false promesse. Di promesse nemmeno promesse. Non dette. Di dubbio. Di dubbi insinuati. Mal riposti. Riscritti. Riportati. Semplici dubbi che si fanno corrosivi. Che non ti aspetti. Non in quelle labbra. Che diventano architettura. Timore. Poi paura. Bisogno. Gran brutto male la solitudine. Gran brutta compagna. E i bisogni. Il bisogno di esser giovani. Sentimenti contrastanti. Il bisogno di crescere. Di sentirsi grandi. Accettati. Voluti. Amati. Desiderati. Semplicemente accarezzati. Di andare. Nulla può garantire per la novità. No! non eri noia. Non hai fatto a tempo ad essere abitudine. Sapere è ricordare. Sapere e ricordare. Se è questo è anche quello. Se tu sapevi lo sapevi. E sbagliavi decisa a sbagliare. Se la memoria ricorda lo sapevamo; entrambi. L’abbiamo tradita entrambi. Allo stesso modo. Nello stesso momento. Colpevoli di colpe che non avevamo. Colpevoli solo di non conoscere colpa. Colpevoli in quanto nudi. Colpevoli eppure. E la tenerezza si era ormai stemperata nella disperazione. Il piacere nel bisogno. E anche il bisogno s’era fatto timore. Timore del futuro. Timore di ciò che non si conosce. Di quello conosciuto come ignoto. L’ignoto dentro di noi. Del chi siamo? A guardare chi eravamo, cosa, viene tenerezza.
Persino una canzone. Persino una stupida canzone. Anche una canzone sapeva quello che non volevamo sapere. Ora che lo sappiamo tutto sembra stupido. Puerile. Ora. E non è ancora tardi. Non voglio più essere Michele. Nemmeno non essere.
Michele

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Rossana cara
bustaNonostante le tue preghiere queste parole non mi hanno mai trovato. Forse non sarebbe cambiato molto, forse nulla. C’erano state altre parole. Parole che non dicevano. E parole che non sapevano. E parole non parole mai arrivate. Una sorta di rifiuto del silenzio. Poi a poco a poco nulla o troppo poco per essere qualcosa. Poi queste non del tutto comprensibili. Ma forse semplicemente era il tempo dell’odio, non dell’amore. Cosa potrei mai dire oggi?
In piazza c’era una lepre. O forse mi confondo. E forse era solo un sogno suicida.
Non c’è un posto da cui non si può tornare tranne che per i viaggi nel tempo, quelli non consentono mai ritorno. Così avevo scordato la valigia a Civitavecchia. Avevo cercato di scordare quelle lettere. Le risposte che non ebbi mai. Quel qualcosa che non mi apparteneva più ed era la tua vita. Perdere è parte di essa, anche se poi manca la voglia di sorridere. Ma i miei auguri erano sinceri, e il ricordo era tenerezza. Ma credo che conti poco. Cosa importa sapere oggi ciò che ignorammo allora? A cosa può servire?
Mi preme dirti che ho avuto sempre in animo di tornare, per tornare da te. Se poi non lo feci fu per quello. Fu perché per tornare ci vuole un posto dove tornare. Fu perché non lo chiedesti.
E non è tanto la data a spaventare. Solo la domanda: a che serve? In quei giorni forse ero al mare di Costanza, forse a Râmnicu Vâlcea (Rîmnicu Vîlcea) a fare il contrabbandiere di icone o forse a Istanbul ad acquistare montoni e tappeti; troppo tempo è passato. Poco importa. Persino dirti che mi piangeva il cuore ormai non ha più alcun senso, e lo sai. Persino ammettere che eri parte della mia incoscienza.
Il tuo nome era rimasto sempre un dolce ricordo
Michele

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